Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 14

Süzlärneñ gomumi sanı 4512
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1672
38.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
55.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
63.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
redini; uno stuolo di cavalieri, cacciatosi improvvisamente tra lui e i
pochi che lo avevano seguito, gli si addensava minaccioso dintorno.
L'assalto era stato così repentino, che i compagni di Abu Wefa rimasero
come storditi, e non ardirono muoversi in sua difesa. In meno che non
si dice, il Gran Priore fu strascinato a terra e saldamente legato.
Fremeva di rabbia, il malvagio, e aveva la schiuma alla bocca.
— Tu mi dirai, o _Sciarif_, — gridò egli, spirando dal labbro tutto il
furore che non poteva manifestarsi col braccio, — la ragione di questa
ingiuria ad un amico, ad un ospite. Nel mio accampamento di Tell el
Kanat, io ti ho accolto come si accoglie un fratello.
— Sì, — rispose Bahr Ibn, con accento sarcastico, — per farmi poi
comparire un traditore, un ribaldo, agli occhi degli amici ed ospiti
miei.
— Io non t'intendo; — disse Abu Wefa.
— Non m'importa; m'intenderai tra breve. —
E fattosi verso i compagni di Abu Wefa, lo _Sciarif_ comandò loro
che scendessero tutti da cavallo, salvo uno che aveva a portare un
messaggio.
— Non sarà fatto alcun male al vostro signore, se voi non vi muovete; —
diceva Bahr Ibn. — Uno di voi se ne torni a quella gente laggiù, e dica
loro che vuol essere una guerra a morte, se non stanno tutti immobili
al comando. —
Il messaggiero andò, sbalordito dalla fulminea rapidità di quel colpo
di mano.
Come egli fu partito, Bahr Ibn si volse al suo prigioniero.
— Dimmi, Dai al Kebir, ov'è la donna che hai rapita, alle strette di
Cades?
— Io non ho rapito donne; — rispose Abu Wefa, dissimulando a stento la
commozione destata in lui da quella domanda.
— Bada a te! — rispose lo Sciarif, corrugando le ciglia. — Sono del
sangue di Maometto, e ti giuro pel sangue suo, che se tra un'ora non è
qui la donna rubata, io ti ucciderò come un cane. —
Il Gran Priore vide che non c'era nulla a sperare dal tenersi sul
niego, e che colui avrebbe operato in tutto come diceva.
— Essa è tra le mie donne; — diss'egli, abbassando la voce e col volto
acceso di vergogna. — Ma tu, seguace del profeta, non oserai scoprir
loro il viso....
— L'oserò; — interruppe Bahr Ibn; — per gli occhi di Fatima, la gran
genitrice della mia stirpe, l'oserò, se pure tu non mi consegnerai il
tuo sigillo, per farlo riconoscere dal capo dei tuoi eunuchi, che dovrà
restituire la preda. —
Non c'era modo di resistere. I minuti scorrevano veloci e la scimitarra
di Bahr Ibn era già fuori della guaina. Abu Wefa mise un sospiro, che
meglio si sarebbe potuto dire un mugghio di toro, e toltosi dal dito
un anello, sulla cui pietra era inciso il suo nome, lo consegnò allo
_Sciarif_.
— Prendi, e corri! — disse Bahr Ibn al suo fedele Zeid.
Il vecchio prese l'anello, e seguito da cento cavalieri galoppò alla
volta della schiera di Abu Wefa.
Quegli uomini, informati di tutto dal messaggiero, stavano immobili e
taciturni, in attesa.
— Credenti in Dio, — disse Zeid, alzando la voce, — ascoltatemi. Ecco
l'anello di Abu Wefa, vostro glorioso signore. Egli vi comanda di
consegnarmi la donna; dopo di che egli stesso potrà tornar libero a
voi. —
Uno degli ufficiali del Gran Priore si avanzò, e, riconosciuto il
sigillo del suo signore, chinò la fronte senza far motto. Dopo di lui
s'inoltrò il capo degli eunuchi, e, compiuta la medesima cerimonia,
che doveva dissimulare la vergogna comune di una disfatta senza
combattimento, andò, taciturno del pari, verso le lettighe.
Poco stante, il biondo scudiero balzava dal carro coperto, d'ov'era
rinchiuso insieme colla bruna favorita.
Kadigìa non aveva un concetto ben chiaro di ciò che era avvenuto, e
temeva forte per la vita del suo signore ed amante.
— Nessuno ti ha fatto male; — diss'ella, con accento carezzevole. — Sii
misericordiosa con lui!
— Non temere; io non mi vendico; — rispose Diana.
Anch'ella ignorava l'accaduto, ma pensava che Arrigo da Carmandino e
l'amico di lui avessero avuto mano nella sua liberazione. Essi, per
conseguenza, dovevano esser là, arbitri della vita di Abu Wefa.
— Grazie! — esclamò Kadigìa.
E presa la mano del biondo scudiero, v'impresse il bacio della
gratitudine.
— Ecco il tuo pugnaletto; — disse Diana. — Anch'io debbo ringraziarti,
perchè in questo ferro ho veduto un soccorso del cielo.
— Vuoi tenerlo per amor mio? — rispose la schiava. — Esso ti ricorderà
Kadigìa. —
Diana accettò il dono e lo ripose nella cintura. Ella pensava di non
separarsi più da quello strumento di morte, che era stato per tanti
giorni la sua unica salvaguardia in mezzo al pericolo.
Zeid Ebn Assan, che era rimasto lunge dal carro in attesa del prezioso
acquisto, si avanzò allora per riceverlo in consegna dal capo degli
eunuchi. Si aspettava una donna, e la sua meraviglia fu grande al
vedere un giovine scudiero, ma ben presto si riebbe, o, per dire più
veramente, passò dalla meraviglia allo stupore, vedendo quel miracolo
di bellezza, che accoglieva in sè tutte le grazie, tutte le lusinghe,
date da Dio all'ultima e alla più leggiadra delle opere sue.
L'aureola dei santi, come l'hanno immaginata i pittori cristiani,
non era nulla al paragone di quella luce spirituale che circondava la
bellissima testa. Sarebbe stato mestieri di correre colla fantasia a
quell'incognito indistinto di etere e d'ambrosia che involgeva le dee
del paganesimo, quando si degnavano di apparire ai mortali. Essenza
di bellezza, soavità di profumo, aura di pudore, eravate voi che
componevate una corona intorno ai biondi capegli di quella divina, che,
passando in mezzo a tutti quegli uomini, a tutte quelle ammirazioni, a
tutte quelle cupidigie, si faceva in volto color della fiamma.
La più parte dei Fedàvi non avevano mai visto la prigioniera; quei
pochi che l'avevano rapita, mentre la notte ne celava i lineamenti e
il terrore l'avea come contraffatta, credettero anch'essi di vederla
per la prima volta. E gli uni e gli altri sentivano tutta l'amarezza di
quella improvvisa partenza.
— Non ha il paradiso una Urì più leggiadra di questa.
— Essere amati da lei e rinunziare ad ogni gioia promessa nei
cieli! —
Erano questi i discorsi dei Fedàvi, mentre la fanciulla degli Embriaci
si allontanava dal carro.
E uno di costoro osò dire, accanto a Zeid Ebn Assan:
— Siete a un di presso di un numero eguale al nostro. Se noi non
volessimo lasciarla partire!...
— Provate! — rispose fieramente Zeid. — Al menomo cenno di rivolta da
parte vostra, il Gran Priore ci lascia la testa. —
Il Fedàvo non aggiunse parola.
Diana intanto era balzata sul cavallo di Zeid, che aveva voluto
scendere ad ogni costo, per essere il suo palafreniere. E andava
gloriosa come una regina, verso le schiere dello _Sciarif_ che la
salutavano con grida di gioia, mentre quelle di Abu Wefa stavano
mute, in preda alla costernazione. E non era forse naturale, al vedere
quell'astro meraviglioso che si allontanava per sempre? Aldebaran, la
stella prediletta degli Arabi, sparendo improvvisamente dal cielo, non
avrebbe lasciato maggior desiderio di sè.
Lo _Sciarif_, ritto in arcioni davanti al suo prigioniero, contemplava
da lungi la scena e si rallegrava dell'opera sua. Non pensava più
alla fallita impresa d'Egitto; pensava alla gioia dei suoi nemici
quando egli avesse potuto mandar fuori dalle mura di Tortosa un araldo
che dicesse agli assedianti: — Cristiani, Bahr Ibn, mio signore, ha
liberata dalle mani del capo degli Assassini una figlia di Genova,
e la manda, senza chieder riscatto, al suo amico ed ospite Arrigo da
Carmandino, il più prode tra tutti i cavalieri d'Occidente. —
La cavalcata giungeva frattanto al cospetto di Bahr Ibn. Il biondo
scudiero cercava indarno cogli occhi Arrigo da Carmandino.
— Bella figliuola di Genova, — disse allora lo _Sciarif_ in quella
lingua mezzo araba e mezzo italiana, che era il primo frutto delle
Crociate, — tu cerchi i tuoi concittadini; ma non è qui che un amico
loro, il protettore e il fratello d'Arrigo. —
Spiacque a Diana l'assenza di coloro che sperava trovare laggiù. Ma
come seppe l'accaduto, e più particolarmente il modo in cui Bahr Ibn
avea trapelato il rapimento di lei e provveduto alla sua liberazione,
lo ringraziò con tutta l'effusione di un animo riconoscente. Bahr Ibn
l'udiva, la guardava in viso, e s'inebriava di quella voce melodiosa,
di quella bellezza sovrumana.
Passarono davanti ad Abu Wefa, che stava ancora prigioniero, ai piedi
d'un sicomòro. Diana lo intravvide, ma torse gli occhi da lui, che la
saettava d'uno sguardo feroce, sospirando profondamente.
— Che hai? — gli chiese Bahr Ibn, muovendo verso di lui, per sciogliere
la fune che lo teneva legato.
— Sospiro la perla d'Occidente; — mormorò il Gran Priore. — Tu sei
fortunato, o _Sciarif_!
— Fortunato, certamente, perchè potrò restituirla a chi l'hai tolta.
— Ne sei ben certo? Bada, o _Sciarif_; io posso predirti fin d'ora....
— Che cosa?
— Che tu l'amerai e non vorrai più restituirla.
— Sia maledetta la tua lingua! — gridò Bahr Ibn, profondamente turbato.


CAPITOLO XVII.
Nel quale si vedono operare i sortilegi di Abu Wefa.

Siamo a mezzo l'autunno. La _Caffara_, salpata dalla Maiuma di Gaza,
è andata a golfo lanciato verso settentrione, per raggiungere le sue
trentanove compagne all'assedio di Tortosa.
Quando i nostri amici arrivarono in quei paraggi metà dell'impresa era
già fornita da Ugo Embriaco e dal fratello Nicolao, perchè il naviglio
genovese si era in quel frattempo impadronito dell'isola e della
fortezza di Arado.
Era quell'isola distante forse due miglia dalla costa. I Fenicii
l'avevano chiamata Arvad, i Greci Aradio, e al tempo di cui narro
dicevasi Arado. Anzi che un'isola, poteva dirsi uno scoglio, emergente
dai flutti, che girava forse un miglio, di forma allungata, con una
lieve salita verso il centro, e ripido da tutti i lati. Gli esuli
di Sidone avevano fondata su quello scoglio una città marinara, ed
è facile immaginare che, mancando lo spazio, gli abitanti Arvad se
ne ricattassero nell'altezza a cui facevano ascendere le loro case,
altezza sterminata, come era sterminata la profondità delle cisterne
scavate nel masso, per raccogliervi l'acqua piovana o andare a cercare
una sorgente d'acqua dolce nelle viscere della terra.
Una doppia cinta di mura, avanzo dell'arte fenicia, custodiva la città
di Arado. Ma non gli valse perchè i Genovesi, impedite le comunicazioni
colla costa, l'ebbero per fame in loro balìa; non rimanendo ad essi più
altro che espugnare la città sorella, Tortosa, che sorgeva sulla costa.
I fratelli Embriaci e Ansaldo Corso, loro compagno nell'impresa,
diedero opera gagliarda all'espugnazione della terra. Come ho
già detto, avevano spedito in tutta fretta a Genova una galèa per
annunziare ai consoli la presa di Arado, e ad uno di essi, a Guglielmo
Embriaco, il triste esito della spedizione di Gaza.
Da venti giorni durava l'assedio, senza che la città, forte per la
sua postura e validamente difesa, accennasse ancora ad arrendersi.
Non potuta circondare dalla parte dei monti, Tortosa avea sempre
vettovaglie e soccorsi d'armati. Ma San Lorenzo (che era in quei tempi
ii santo prediletto dei Genovesi), san Lorenzo proteggeva i suoi divoti
cittadini, e faceva capitare nelle acque di Tortosa altre otto galere,
comandate da Mauro di Piazza Lunga e da Pagano della Volta, che erano
stati consoli nella antecedente compagna. A proposito, ho promesso, non
so più dove, di chiarire ai lettori questo negozio della compagna. E
poichè il nome mi è caduto dalla penna, manterrò la promessa.
Noto anzi tutto che _compagna_ e _compagnia_ gli è come dir zuppa e
pan molle. Per altro, i Genovesi antichi dicevano sempre compagna,
intendendo forse da principio una società pattuita fra mercatanti,
per due, o tre anni, nell'intento di far fruttare l'opera loro, e il
danaro posto in comune. Dalla pluralità il concetto si allargò alla
totalità, e l'associazione di tutti i cittadini si disse, nel latino
dei pubblici, atti, _Communis compagna_, e più chiaramente _compagna de
comuni Janue_. Se eravate fuor d'essa, potevate considerarvi fuor della
legge; non avevate diritto a cittadinanza, a giustizia, a pubblici
uffizi.
Vi ascrivevate alla compagnia giurandone i patti _in osculo pacis_,
nel bacio della pace, vincolo e pegno tanto necessario in quei tempi
di continue discordie. Questo dicevasi «giurar la compagna;» e coloro
che giuravano erano i cittadini _utili_, i cittadini _idonei_, che
contribuivano alla cosa pubblica con danaro, o servigi, sotto il
reggimento dei consoli, i quali si eleggevano ad ogni nuovo giuramento
di compagna.
Questa adunque era la grande, la prima de _communibus rebus_. C'erano
poi le urbane, o minori, in numero di otto, che rispondevano agli otto
rioni della città. Tra queste compagne urbane si dividevano le imposte,
le spese di guerra, gli apprestamenti delle galere. Donde avveniva
che pel numero delle compagne si dividessero altresì le schiere
dell'esercito e le galere dell'armata, dando ciascheduna compagna il
suo rettore alla nave, o alla compagna di soldati, sotto il comando
di un console, o di altro capitano, scelto dal popolo tra gli uomini
consolari.
E questo, che ho detto così di passata, vi chiarirà, lettori
umanissimi, quell'altra faccenda del numero di otto galere che
giungevano di rinforzo nelle acque di Sorìa, sotto il comando di Pagano
della Volta, uno dei nobili genovesi, e di Mauro di Piazza Lunga, uno
dei popolari, ambedue scaduti in quell'anno dalla prima magistratura
cittadina.
Caffaro di Caschifellone si confortò un tratto nelle braccia dello
zio Pagano. E dell'arrivo di quelle otto galere si confortarono tutti,
sperando di poter condurre più facilmente a buon fine l'impresa.
Infatti, c'era mestieri di rinforzo. Mai, dopo la espugnazione di
Cesarea, i Crociati avevano tanto sudato attorno ad una cerchia di
mura. Ben presto ne seppero la ragione. L'Emiro di Tortosa non era
solo a difendere la città. Fin dai primi giorni dell'assedio, aveva
compagno uno dei più valorosi campioni dell'Islam. Il lettore lo ha già
indovinato; era Bahr Ibn, che noi avevamo lasciato presso Teli Asterè,
a quattro giornate di marcia dalla terra assediata.
Arrigo da Carmandino era lungi dal sospettare che tesoro fosse caduto
in mano al nuovo difensore di Tortosa. Per lui, come per Caffaro, la
povera Diana era sempre in balìa di Abu Wefa, il terribile capo degli
Assassini, del quale s'incominciava appena allora ad avere nel campo
dei Crociati qualche più certa notizia, ma senza sapere il vero luogo
in cui fosse andato a piantare le sue tende.
Non c'era dunque da far nulla, nè da tentare, per la salvezza della
infelice Diana. Questo era il pensiero di Caffaro, il solo dei due
amici, che avesse ancora la mente così sana per accogliere un concetto
e meditarlo. Quanto ad Arrigo, non c'era affè da sperarne un consiglio.
Il poveretto avea quasi perduto il senno; il suo spirito annebbiato non
vedeva più che una cosa, la possibilità di un miracolo. Ma certamente
non lo sperava neanche, poichè l'uso ch'egli faceva della vita,
indicando il disprezzo in cui l'aveva ogni giorno di più, mostrava
apertamente com'egli cercasse la morte, quasi per trovarci un termine
alle sue cure affannose.
Combatteva da disperato, guidava tutte le fazioni più arrisicate. Non
c'era sortita di assediati, che non s'incontrasse, per sua disgrazia,
in quell'audace guerriero, davanti al quale indietreggiava la morte.
La fama del suo voto si era sparsa nel campo, e di là era corsa fino
a Gerusalemme, dove spesso andavano messaggieri dell'esercito. E già
parecchi degli Ospitalieri di San Giovanni erano partiti dalla città
santa, per andare a vedere le prodezze di lui e a salutare quella
futura gloria dell'Ordine.
Continuatori dell'opera pietosa degli ospizii ai pellegrini (ospizii
che avevano fondato in Gerusalemme i mercatanti d'Amalfi), gli
Ospitalieri di San Giovanni erano allora una congregazione tra
monastica e militare, che da Goffredo Buglione aveva avuto lode e
privilegi, e da Baldovino ogni maniera di favori, come quella che
prometteva di riuscire un valido aiuto al regno crocesegnato. Il loro
istitutore, Gerardo di Tonco, era un gentiluomo piemontese, andato in
Terrasanta fin dal 1074. La fondazione degli Amalfitani aveva trovato
in lui il più zelante e il più divoto dei suoi cultori. Durante
l'assedio di Gerusalemme, il buon Gerardo era stato chiuso in prigione
dai Saracini, e l'entrata dei Cristiani lo avea liberato. I suoi
Giovanniti erano monaci, infermieri e soldati, e dal loro ordine, che
fu il primo di tal sorte, doveva staccarsi pochi anni di poi un altro
italiano, Ugo de' Pagani, per fondar l'Ordine dei cavalieri del Tempio.
Nei campo cristiano, Arrigo era già chiamato il Giovannita. Egli
stesso, in un impeto di quella disperazione terrena che fa cercar
rifugio nel pensiero della divinità, comunque la s'intenda, e
quantunque troppo spesso ci apparisca non curante di noi, aveva già
cinte sull'armatura le insegne dell'Ordine, che consistevano in un
mantello di lana bigia, e in una croce biforcata d'argento.
In Tortosa il nuovo Giovannita era temuto per quel suo meraviglioso
ardimento, che, facendogli disprezzare il pericolo, rendeva gli assalti
suoi così dannosi agli assediati. Si diceva da tutti i Saraceni che
se nell'esercito cristiano si fossero trovati cento altri come lui,
Tortosa non avrebbe potuto resistere un giorno, con tutto il valore e
la rara prudenza di cui faceva prova Bahr Ibn.
Ben presto anche tra i Saracini fu risaputo il nome di quel fiero
Crociato. Chi li aveva ragguagliati in tal guisa?
Ricordate che non lunge di là, vigile scolta contro Mussulmani e
Cristiani, aveva piantato il suo vessillo un altr'Ordine, assai meno
religioso, ma fortemente disciplinato, quello degli Assassini. Tripoli,
ancora in potestà dei Mussulmani, distava appena quaranta miglia da
Tortosa, e alle spalle di Tripoli, nel castello di Massiad, vigilava
Abu Wefa, come un avoltoio sul ciglione della rupe.
Insieme col Gran Priore stava un altro personaggio di nostra
conoscenza, giunto a lui per una di quelle malaugurate fortune, che
arridono spesso ai malvagi e li attraggono l'uno all'altro per mezzo a
difficoltà e pericoli tali, che condurrebbero a mal punto una schiera
di onest'uomini. Il Gran Priore si era affrettato ad accoglierlo tra'
suoi _dais_, o maestri iniziati, facendogli saltare d'un tratto il
grado inferiore dei _rèfilis_, o compagni, ai quali non era svelato
tutto l'arcano della sètta. Che bisogno c'era egli di aspettare altre
prove da Gandolfo del Moro, che aveva mostrato di lancio come fosse
sottile l'ingegno e sicura la sua fede nel male?
Gli emissarii di costoro correvano assiduamente per ogni lato. Si
fingevano Ebrei, Cristiani, e ogni altra cosa che loro mettesse
conto di parere. Arditi e destri, si ficcavano qua e là, curiosando,
ascoltando e tremando, giusta i fini reconditi della sètta, e non era
città del regno crocesegnato, o terra di Saracini, dove Abu Wefa non
avesse mandato suoi esploratori.
Un giorno nella tenda di Arrigo si trovò una pergamena accartocciata.
In essa erano scritte queste parole:
«Che il tuo amico Bahr Ibn sia in Tortosa, lo saprai. Ma una cosa non
sai: che egli ha rapito la tua fidanzata e la tiene. Egli sa che tu
sei votato ali' Ordine di San Giovanni e pensa che un gentil cavaliere
come tu sei, terrà fede al suo voto. Diana sarà sua, o per amore, o per
forza.»
A quella lettura Arrigo diede in un grido di stupore, che si mutò ben
presto in urlo di rabbia. Triste combinazione di eventi! Egli sapeva
che la sua povera Diana non era in balìa di Abu Wefa, e in pari tempo
che Bahr Ibn lo aveva tradito.
Tradito! Ma come? Il pensiero di Arrigo corse anche una volta a
Gandolfo, a cui troppo generosamente Caffaro aveva perdonato la vita.
Ma chi dava l'annunzio del tradimento di Bahr Ibn? Ed anche qui
il pensiero correva a Gandolfo, sebbene quel fatto paresse in
contraddizione coll'altro. Como mai Gandolfo del Moro potea dare avviso
al suo rivale della sorte toccata a Diana, se era egli stesso che aveva
ordito la trama per togliere quella donna a lui?
Caffaro, che era il più calmo dei due, si provò a conciliare le due
cose, e pensò che quel tristo di messer Gandolfo, dopo averla fatta ad
Arrigo, si fosse pentito, e non volesse lasciarne godere il frutto al
Saracino.
Il signore di Caschifellone non si apponeva che a mezzo. E difatti, il
nostro amico non poteva argomentare da sè, come Bahr Ibn, seguendo una
buona ispirazione, fosse andato sollecito sull'orma di Abu Wefa. Se
questo avesse saputo, il resto gli sarebbe apparso chiaro come la luce
del giorno. Perchè, quanto a indovinare le conseguenze di un incontro
di Bahr Ibn colla bella figliuola di Guglielmo Embriaco, nessuno lo
avrebbe fatto più agevolmente di Caffaro. Egli stesso, così leale amico
ed onesto cavaliere, aveva forse potuto custodire il suo cuore contro
le grazie innocenti, eppure tanto pericolose, di madonna Diana?
Arrigo, intanto, che non vedeva più lume, avrebbe senz'altro ordinato
di dar la scalata alle mura, e insegnata la via coll'esempio. Ma poichè
non tutti gli assedianti partecipavano al suo furore, e l'ardimento più
efficace è quello che non si scompagna dalla prudenza, vinse il parere
degli altri capitani, i quali fecero intendere al nostro innamorato non
essere ancora il tempo di dare l'assalto, tanto più che le torri e le
altre macchine di guerra, in cui erano così valenti i figli di Genova,
non erano ancora condotte a termine, e le frequenti sortite degli
assediati facevano andar lenti i lavori dei maestri d'operare.
Il povero Arrigo dovette ristarsi e divorare la sua rabbia impossente.
Ma intanto il suo amico Caffaro si preparava a servirlo in altra guisa.
Un trombettiere andò la mattina seguente fin sotto le mura di Tortosa,
diede i tre squilli, e, veduti i custodi che s'affacciavano alla
merlata, gridò:
— Il mio signore Caffaro di Caschifellone, uno dei cavalieri
dell'esercito genovese in Sorìa, chiede al vostro capitano, il nobile
_Sciarif_ Bahr Ibn, un colloquio entro le mura di Tortosa, o in altro
luogo che più gli torni gradito. —
La risposta si fece aspettare a lungo. Finalmente giunse alla merlata
un araldo, e disse:
— Ben venga il signore di Caschifellone; lo _Sciarif_ è disposto a
riceverlo. —
Caffaro salì prontamente a cavallo e andò soletto e fidente verso la
saracinesca. Colà uno dei custodi slacciò la fascia del suo turbante e
bendò con essa gli occhi dell'inviato, perchè egli non avesse modo ad
esplorare gli accessi delle mura; indi il fedele e valoroso amico di
Arrigo da Carmandino fu introdotto in città.
Lo _Sciarif_ era in una sala terrena della ròcca, che sorgeva nel mezzo
della città, e gli facevano corona parecchi dei suoi uffiziali. A mala
pena vide entrar Caffaro, li congedò d'un cenno, e pochi istanti dopo
era solo con lui.
Un'aria di cupa mestizia regnava sul volto dello _Sciarif_, indicando
l'interno struggimento d'un pensiero molesto. Gli traluceva dagli
occhi quella fiamma truce, che tradisce gl'incendii profondi del
cuore e annunzia le morti precoci. Le labbra rigide non sapevano più
atteggiarsi al sorriso. E tuttavia, Bahr Ibn salutò cortesemente il
crociato, invitandolo a sedergli daccanto.
— Sii il benvenuto; — gli disse; — che cosa posso io fare per te?
— Nulla per me; — rispose Caffaro; — tutto pel tuo amico e fratello,
per Arrigo da Carmandino. —
Il viso di Bahr Ibn si rabbruscò due cotanti di più, a quel cenno
così repentino di Caffaro; che entrava, come si vede, _ex-abrupto_
nell'argomento della sua visita.
— Non lo ami più, forse? — dimandò Caffaro, che aveva notato quell'atto
di ripugnanza. — Lo aver combattuto l'un contro l'altro da valorosi,
l'essere vissuti così lungamente insieme, tu salvatore per lui ed egli
ospite tuo, non sono dunque più nulla?
— Erano; — rispose Bahr Ibn, sospirando; — ora non più. La catena
dell'amicizia è spezzata; le tenebre regnano tra noi due. Quando la
luna passa sul disco del sole, anche la luce dell'astro maggiore si
spegne, e il freddo invade le ossa. —
Caffaro chinò la testa senza far motto.
— Diana è in tuo potere? — diss'egli, dopo un momento di pausa.
— C'è; — rispose asciuttamente Bahr Ibn.
— E non pensi di lasciarla tornar libera ai suoi?
— L'amo; — replicò lo _Sciarif_, abbassando le ciglia.
— Che essa è la fidanzata di Arrigo?
— L'amo. Non m'intendi? L'amo. Ti parrà forse strano....
— No; — rispose Caffaro. — L'ho amata anch'io, ma ho saputo comandare a
me stesso.
— Non l'hai amata; son io che te lo dico; — gridò lo _Sciarif_ con
accento vibrato. — Se tu l'avessi amata, l'ameresti ancora, l'ameresti
fino alla morte. O mi hai mentito, — soggiunse notando l'aria abbattuta
di Caffaro, — o l'ami sempre anche tu. Vedi? L'ho indovinato. Anche su
te qualche spirito maligno ha gettato un incantesimo, come su me lo ha
gittato Abu Wefa? Triste cosa, cristiano, amar chi non t'ama, e amare
come amo io! Ma comunque sia, io non vo' separarmi da lei. La perla
d'Occidente mi sarà fatale, lo sento; e tuttavia non la darei per la
corona d'Egitto, non pel trono di Arun el Rascid, non per quello di
Suleiman, il re che comandava agli spiriti e che ebbe nel suo Arème
le più leggiadre fanciulle del mondo. Ella morrà, mi ha detto; ed io
mi ucciderò sul suo cadavere. Le ho offerto, sai, le ho offerto di
inchinarmi al Dio dei suoi padri, io, io discendente del Profeta, e
di esser dannato in eterno. Vedi tu se io l'amo, se posso ascoltare le
profferte che vieni a farmi, in nome tuo o di Arrigo, non monta.
— In nome di Arrigo, io te l'ho detto; — rispose Caffaro, vedendo
oramai che di riavere la donna per le vie dell'amicizia non rimaneva
speranza. — Se fosse in nome mio, ben altra proposta farei.
— E quale?
— Di domandarti madonna Diana in campo chiuso, con lancia e spada,
all'ultimo sangue. —
A quelle parole del crociato, lo _Sciarif_ diede un balzo e sbuffò come
il destriero generoso al primo squillo della tromba di guerra.
— Sarebbe un giuoco pericoloso; — diss'egli, con accento pieno di
minaccia. — E perchè non me l'offre Arrigo?
— Arrigo non ci ha pensato; — rispose Caffaro. — Egli non sapeva
mica, non poteva prevedere che tu avresti fatto così poca stima
della amicizia che era tra voi. Del resto, — soggiunse, col fermo
proponimento di pungerlo, — Arrigo da Carmandino ha combattuto già una
volta con te, e non è stato egli il perdente.
— La sorte è cieca; — gridò lo _Sciarif_. — Potrebbe esser vinto
quest'altra.
— In Occidente, — notò Caffaro, — una giostra cosiffatta non è
consentita dagli usi. Quando due cavalieri si sono affrontati in campo
chiuso ed è stato sparso il sangue di uno tra loro, essi diventano
fratelli, son sacri l'uno per l'altro; salvo che....
— Salvo che.... — riprese Bahr Ibn. — Prosegui!
— Salvo che uno di loro voglia portare il carico della offesa alle
consuetudini, commettendo un atto sleale. E qui forse sarebbe il
caso... almeno, davanti alle leggi dell'amicizia. Non sei tu il
rapitore della sua donna?
— Non l'ho rapita a lui; — proruppe Bahr Ibn; — nè ad altro dei suoi
che non sapesse difenderla. A un ladro l'ho tolta. Se io non fossi
stato, ella sarebbe ora in balìa di Abu Wefa, di un padrone e di un
amante assai meno riguardoso di me. —
Caffaro sapeva oramai tutto quello che gli premeva sapere.
— Dunque, — diss'egli, — se verremo a ridomandartela colle armi?...
— Il ferro della mia lancia ricaccerà la domanda in gola a chi sarà
tanto ardito da tentare la prova.
— E se soccombi? Perchè, tu l'hai detto, o _Sciarif_, la fortuna è
cieca.
— Non ho che una parola. Chi mi vince, l'avrà.
— Altri dunque, dopo Arrigo, potrà misurarsi con te e correre la sua
lancia?
— E dopo e prima di lui, non monta; — rispose Bahr Ibn, infiammandosi.
— Venga pure tutto Occidente contro di me, non lo temo.
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Çirattagı - Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 15
  • Büleklär
  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 01
    Süzlärneñ gomumi sanı 4536
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1717
    41.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4588
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1708
    41.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    58.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 03
    Süzlärneñ gomumi sanı 4519
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1817
    34.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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    Süzlärneñ gomumi sanı 4498
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    Süzlärneñ gomumi sanı 4480
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 08
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 10
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