Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 01

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DIANA DEGLI EMBRIACI

STORIA DEL XII SECOLO
DI
ANTON GIULIO BARRILI

_Seconda edizione_

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1882.


Proprietà letteraria.
Tip. Fratelli Treves.


DIANA DEGLI EMBRIACI


CAPITOLO PRIMO.
Ero aspetta Leandro.

Era il 20 di ottobre dell'anno 1101 dopo il parto della Vergine, giusta
la frase notarile dei tempi, ed era una giornata bellissima, rallegrata
da un cielo senza nuvole e dai tiepidi raggi di un sole che pareva di
primavera. Miracolo, questo, che accade di sovente in Liguria, ove la
limpidezza del firmamento e la mitezza del clima fanno credere talvolta
che il vecchio Saturno, o chi per lui, volti a rovescio, non una, ma
cinque o sei pagine del calendario.
Le case di Genova, biancastre nello intonaco delle mura e nelle lavagne
distese sui tetti, splendevano a quel saluto amoroso del sole; ma più
di tutte splendeva la torre degli Embriaci, la regina delle torri
genovesi, superba de' suoi cento e ventisei piedi d'altezza, delle
sue pietre riquadrate alla foggia romana e del triplice giro delle sue
caditoie sporgenti.
Ora, se i lettori benevoli si degnano di seguirmi su quella torre,
che offre certamente la più bella tra le vedute della città, io farò
loro assai volentieri da cicerone, e mostrerò che cosa fosse Genova,
nell'anno di grazia 1101, cioè a dire centosettantasei anni dopo
l'edificazione della seconda cinta di mura.
La prima cinta, siccome è noto, si ristringeva al colle di Sarzano
(_fundus Sergianus_) e suoi dintorni, formando un quadrato irregolare,
due lati del quale si bagnavano in mare, e gli altri due si
prolungavano dentro terra, andando a chiudersi, verso tramontana, in
cuspide di freccia, alla porta di Sant'Andrea, una delle cinque per cui
si entrava in città. Senonchè, nell'anno 925, si conobbe che la vecchia
cinta era strettina parecchio, di guisa che i cittadini già avevano
incominciato a rizzar le case di fuori. E allora i consoli fecero una
giunta alla derrata, prolungando le mura verso ponente, in modo da
poter chiudere nel nuovo giro la chiesa cattedrale di San Lorenzo, le
case su cui fu murato più tardi il palazzo del Comune, e tutte le altre
verso il mare, dove, tra una chiesa ed una porta (il luogo dicevasi
appunto San Pietro della Porta), aveva a costituirsi il centro del
traffico genovese, sotto il nome famoso di piazza de' Bianchi.
Come vedete, la città non era spaziosa. Per contro, le case salivano
in su, come altrettante torri di Babele, per dare la scalata al
firmamento; e le strade non vedevano, la più parte, che una breve lista
di cielo, mentre tante altre non ne vedevano affatto.
Fortunati erano gli abitanti del colle di Sarzano, e più fortunati
ancora gli Embriaci, la cui torre, sebbene eretta a mezzo il pendìo,
si alzava smisuratamente, signoreggiando la sommità delle colline
circostanti e del mare vicino. La torre minacciosa presentava i suoi
quattro spigoli ai quattro punti cardinali, quasi volesse sfidarli
a battaglia. A levante vedeva Carignano (_fundus Carinianus_) su
cui erano ancora da nascere le case dei Fieschi e de' Sauli; più
presso, ma sempre dallo stesso lato, il vasto colmo di Sarzano, che le
schierava dinanzi le torri del vecchio Castello, insieme colle case
dell'arcivescovato. Da settentrione le si affrontavano i monti e le
colline digradanti ad anfiteatro fino alla chiesa di Santo Stefano e
a quella di Sant'Ambrogio, ove la lunga ospitalità del V secolo al
clero ambrosiano avea ristretti gli antichi vincoli di fratellanza
tra genovesi e milanesi. Da ponente andavano man mano allungandosi le
coste dei monti, lasciando tra le loro falde e il mare un largo campo
alle sparse ville, donde torreggiavano i campanili di San Giovanni di
Piè, di San Siro e di Nostra Signora delle Vigne, coi loro cappelli
di pietra. Lascio pensare ai lettori come avesse a destare l'invidia
universale messer Guglielmo Embriaco, padrone di quella torre e delle
case sottoposte.
Per molte altre ragioni egli era del resto invidiato, quel degno
capitano ed ottimate di Genova. E i lettori sullodati le sapranno tutte
per filo e per segno, se non darà loro fastidio lo attendere.
Nella mattina del 20 ottobre dell'anno 1101 (ripeto la data per non
avere a tornarci più su) una bella fanciulla, dalle forme elette e
dal leggiadro portamento, stava ritta sull'alto della torre che ho
detto, facendosi solecchio con una mano, tesa in arco sulle ciglia,
mentre coll'altra si appoggiava lievemente alla merlata, ond'era cinto
tutto intorno il terrazzo. E il sole, mentre spaziava a sua posta in
capricciosi riflessi tra le bionde chiome della fanciulla, rammorbidiva
la sua luce sul volto roseo, segnandone senza rigidezza i graziosi
contorni, e lasciando la sua giusta parte di efficacia al profondo
bagliore di due occhi pericolosamente turchini.
Ho detto pericolosamente turchini, e non mi disdico. Se forse
l'ardimento della frase non trova grazia presso i castigati scrittori,
io so, per contro, di aver dalla mia le ombre di tutti i genovesi
che vissero nei primi trent'anni del dodicesimo secolo e si sentirono
feriti dagli occhi inconsapevoli della bella Diana degli Embriaci.
Tornando alla mia descrizione (brevissima, non dubitate, e appena quel
tanto che può parer necessario ai più frettolosi) vi dirò che una veste
di lana bianca le si stringeva alla vita, scendendo in larghe pieghe
dal fianco, senz'altro ornamento che una molle cintura di cuoio. I
capegli, non rattenuti da reticella, o trecciera, apparivano poco meno
che sciolti, e in dorate anella le ricadevano sul collo. Così semplice
nella sua foggia di vestire, ma ricca di grazie naturali, ella era
la più leggiadra figura di donna che si potesse immaginare sognando.
Laonde, non ho mestieri di dirvi se facesse dar volta al cervello dei
giovani cavalieri, quando essi la vedevano scendere, accompagnata dalle
sue donne, per recarsi a pregare nella chiesuola vicina di San Cosmo, o
nell'altra, poco più lunge, di San Pietro alla Porta.
Diana, dal canto suo, non badava ad alcuno; e non già per infinta
verecondia, chè ai tempi suoi le istitutrici forastiere e i monasteri
del Sacro Cuore erano ancora di là da venire, sibbene perchè il cuore
della bella Diana era in Terra Santa, dove stava suo padre, dove
stavano i fratelli. E siccome il cuore delle fanciulle (così dispose
provvidamente la divina bontà) non può contentarsi ai soli affetti di
casa, è ragionevole il credere che in Terra Santa ci fosse qualchedun
altro, il quale tenesse la miglior parte di quel cuoricino in amorosa
custodia.
Una supposizione di questa fatta servirebbe anco a chiarirvi perchè la
fanciulla, che da parecchi mesi soleva passare ogni giorno lunghe ore
sull'alto di quella torre, guardando con mesta assiduità sul mare, là
dalle parti di levante, da alcuni giorni usasse guardarvi con ansia
irrequieta, e stancasse i suoi begli occhi azzurri su quelle liste
luminose segnate dal sole là dove il mare sembra confondersi col cielo,
e dove sogliono apparir le navi a guisa di punti neri.
E di punti neri ella ne aveva scorto quella mattina più d'uno; i quali
erano venuti a mano a mano ingrossando e già davano sembianza d'una
armata in viaggio. Al momento in cui la mia storia incomincia, quei
legni erano già a due tratti di balestra dalla punta del Faro, e un
occhio esercitato nelle cose marinaresche ne poteva distinguere le
insegne.
La pratica navale stava per l'appunto a fianco di Diana, ad una
rispettosa distanza, sotto la forma di un uomo a cui le molte rughe
segnate sul viso davano un'età fra i cinquanta e i sessanta, sebbene
i capelli neri e lucenti mostrassero la loro ostinatezza nel volerne
confessare una quarantina soltanto. Il vecchio teneva la sua berretta
in mano; era vestito d'un saio, stretto ai fianchi da una larga cintura
di cuoio, donde pendeva una rispettabile daga. A compiere il ritratto,
dirò che portava raso il mento e le guancie, come un vecchio nostromo
delle Riviere ligustiche; la qual cosa faceva spiccar meglio uno
sfregio che dal fronte gli scendeva giù lungo la guancia, e colla sua
tinta di rosso acceso mostrava di non essere antico.
— Ecco, — diceva egli, proseguendo un discorso che già durava da un
pezzo tra lui e la giovine signora, — si ravvisano già tutte. Le son
proprio ventisette, con sei navi per giunta, nè più, nè meno, di quante
ne partirono un anno fa, il primo giorno d'agosto. Ecco la _Embriaca_,
madonna; vedete come è superba di portare il vostro gran genitore, il
valoroso messer Guglielmo, Testa di maglio! —
Testa di maglio, era il soprannome dato dai genovesi a messer Guglielmo
Embriaco, per la sua forza erculea e per l'uso che ne aveva fatto in
certo frangente. Si raccontava che nella presa di Gerusalemme, rottasi
a lui la spada fra le mani, il forte uomo si gettasse col capo innanzi
dove più grande era la ressa dei Saraceni, e colla cervice, rivestita
com'era dall'elmo di ferro, rompesse bravamente l'ostacolo.
— Maledetta ferita! — proseguiva il vecchio. — Se ella non mi avesse
inchiodato sul letto quando i nostri partivano per la seconda giostra,
io ora potrei esser là, di ritorno, con messer Guglielmo, a far la
mia buona figura a capo dei balestrieri. I miei compagni tornano da
accoccarle a quei cani d'infedeli; io, invece, sono stato qui a mondar
nespole.
— Mio povero Anselmo, e non potresti anco avervi lasciato la vita? E
che sarebbe allora di tua moglie?
— Mia moglie! — borbottò il vecchio balestriere. — Non è ella al vostro
servizio, madonna? D'altra parte non son morto in Antiochia e non
c'era pericolo che io morissi poi. Vi so dir io che il colpo era bene
assestato. Cane d'un Saracino! Fortuna che ho avuto ancora il tempo a
rendergli tre pani per coppia.
— Anselmo, — interruppe Diana, — tu devi conoscere tutte le galere che
entrano. Potresti dirmene i nomi?
— Oh perdonate, madonna! Raccontavo le mie prodezze per la millesima
volta. Ecco, quella che viene prima delle altre è l'_Embriaca_. Dietro
a lei c'è la _Raschiera_ e la _Mallona_. Quell'altre due più lontane,
verso mezzogiorno, sono la _Marina_ e la _Caffara_. Quella laggiù,
che pare non voglia spiccarsi ancora dal promontorio di Carignano,
dev'essere la _Pomella_. Poverina, è carica d'anni e di gloria! Essa
è quella che sette anni addietro ha portato in Terra Santa il conte
Goffredo di Buglione, quando il degno uomo è andato a buscarsi quella
brutta ceffata dal custode del Santo Sepolcro. Questa poi, a poggia
della _Mallona_, è la _Spinola_, comandata da vostro cugino, il buon
messer Lamberto.
— E non vedi tu.... poichè siamo tra cugini.... non vedi tu la
_Carmandina_?
— Aspettate, ci guardo. Dovrebb'essere quell'altra là.
— Dove?
— La penultima, che vien di conserva con quella di vostro zio, il
console Amico Brusco. La riconosco al suo castello di poppa, più
rilevato degli altri.
— È una ventura, — soggiunse Diana, quasi parlando a sè stessa, — è una
ventura che tutti tornino a casa. Beate le famiglie che vedranno i lor
cari!
— Sicuro! — ripigliò il balestriere, sorridendo, — e tra essi il
leggiadro Arrigo di Carmandino.
— Anselmo!
— Scusate, madonna, la mia rozza sincerità. Qualche volta mi vien
voglia di mordermi la lingua.... e forse sarebbe meglio. Ma che volete?
Bisogna che dica pane al pane, io! E non vi ho forse veduta alta tanto
e palleggiata sulle mie braccia?
— Sì, mio povero Anselmo, gli è vero, e so che tu ci ami tutti, quanti
siamo della nostra casa.
— Tutti, davvero. E come non si avrebbe da voler bene a voi, a messere
Guglielmo, vostro padre, a messer Ugo, vostro fratello, e da baciare
dove passate?
— Tu dimentichi qualcheduno! — esclamò la fanciulla, con accento di
rimprovero, temperato dall'atto amorevole con cui posò la sua bella
mano sulla spalla del balestriere.
— Ah sì; messere Nicolao. Che farci, madonna? Gli è un prode cavaliere,
non lo nego, ma io non posso mandar giù quel Gandolfo del Moro, che lo
ha stregato, coi suoi occhi torvi e i suoi capegli arruffati. —
A quel nome, profferito dal suo fedel servitore, la fanciulla degli
Embriaci si era fatta pallida in viso, e Anselmo sentì la sua mano
delicata tremargli sull'òmero.
— Vedete se non ho ragione! — continuò egli. — Anche a voi, solo quel
nome ha fatto sgomento. —
Mentre la sua giovine signora cercava le parole per rispondergli, un
lungo grido si levò per l'aria. Le prime galere entravano nel piccolo
porto di Genova, e il popolo, che si era accalcato alla riva e lungo
le mura alle Grazie, faceva le prime accoglienze festose ai reduci di
Palestina.
— Scendiamo, Anselmo; — disse la fanciulla. — Corri tu primo, e fa
schierare nel portico tutta la famiglia, perchè sia degnamente onorato
il mio gran padre e signore. —
Il balestriero fu sollecito ad obbedire, e disparve tosto per
l'abbaino. La bella Diana gli tenne dietro, dopo aver dato un ultimo
sguardo alla Carmandina, che si era avvicinata anch'essa alla punta del
Faro.


CAPITOLO II.
Qui si narra di Arrigo da Carmandino, come pigliasse la croce per gli
occhi d'una donna.

Prima di andar oltre nel racconto, e mentre Genova, affollata sul molo,
festeggia l'arrivo dei suoi crociati da Cesarea, vi dirò qualche cosa
di Arrigo da Carmandino, e dei suoi primi amori colla bella Diana.
Arrigo da Carmandino era il più giovine di tre fratelli, chiarissimi
per nobiltà di sangue e per amore della loro terra. Prendevano essi
il nome dal borgo di Carmandino, in Polcevera, e i loro antenati
erano d'una medesima stirpe coi signori delle Isole e con quelli di
Manesseno, più noti pel soprannome di Spinola, donde si spiccavano
appunto allora i rami gloriosi degli Embriaci, dei Castello e dei
Brusco, mentre da essi, i Carmandino, si spiccavano gli Avvocati, i
Lusii, i Pevere, i Mari, i Serra e gli Usodimare.
Rammentate, lettori umanissimi, che siamo all'alba dei Comuni e delle
spartizioni un po' chiare, quando i nomi proprii, le professioni, gli
stessi nomignoli dati dal volgo, incominciano a distinguere i varii
rami, e questi a lor volta fan ceppo.
Tutta quella nobiltà consolare era derivata dalla feudale, che, non
avendo più Franchi, nè Longobardi, a cui chiedere l'investitura,
ripeteva, poco prima del Mille, i suoi diritti dal Vescovo, ultima
autorità rimasta in piedi per mezzo a quella gran confusione.
Vedete, infatti; Ido, il capostipite di tante famiglie, era visconte
nel 952, con larga signoria nei pressi di Genova, segnatamente
nella valle di Polcevera. Ebbe tre figli, un Oberto Visconte, un
Migesio, donde venne il casato delle Isole, e un altro Oberto, detto
di Manesseno. Dal primo dei tre, per una genealogia di Ido, Ingo,
Rainfredo, e Ingo da capo, scendiamo ai tre fratelli, Gandolfo, Ido
ed Arrigo, avvocato il primo del monastero di Santo Stefano, futuro
console il secondo, crociato il terzo e uno dei principali personaggi
della mia storia.
Torniamo indietro fino al capostipite; lasciamo da banda il suo
secondogenito Migesio, e andando a cercare il terzogenito, Oberto
di Manesseno, lo vediamo padre a Belo Visconte, da cui nacque un
Guido, che fu il primo ad assumere il nome di Spinola, uomo la cui
liberalità e la magnificenza andavano famose per tutta Liguria. Narra
il Giustiniani (e gli s'ha a credere, in mancanza d'altre autorità) che
questo messer Guido usasse onorare gli ospiti suoi facendo spillare
da più botti parecchie sorte di vino. Ora, in vernacolo genovese,
_spinolare_ è lo stesso che l'italiano _spillare_, e dicesi spinola
lo zipolo con cui si chiude la cannella delle botti. Per tal modo
il visconte Guido fu chiamato lo Spinola, e uno zipolo diventò nome
ed anche insegna di casato, perchè da quel tempo in poi la famiglia
la portò _d'oro, con una fascia scaccata di rosso e d'argento di tre
file, sormontata da una spina di botte, di rosso, in palo_. Notate la
mia sbardellata scienza araldica, mentre io proseguo la genealogia,
raccontandovi che questo messer Guido ebbe sette figliuoli, un Oberto,
un Guido ed un Ansaldo, che si adoprarono a perpetuare il nome degli
Spinola; un Primo, che tolse il nome di Castello e fu davvero il primo
di tal casato; un Guglielmo, che fu capostipite ai Medici ed agli
Alineri; un Amico, che assunse il soprannome di Brusco e fece anch'egli
la sua brava razza a parte; finalmente un nuovo Guglielmo, il più
glorioso di tutti, distinto col nome di Embriaco e salutato dai suoi
soldati col nomignolo, che già conoscete, di Testa di maglio.
E adesso che vi ho dato un cenno bastevole di tutte queste parentele,
torno ad Arrigo. Egli era per fermo uno dei più leggiadri cavalieri
di Genova, e non avreste trovato chi lo agguagliasse in trattar lancia
e spada, o cavalcare in giostra e gualdana. Neanco poteva dirsi fosse
digiuno di studi; chè anzi in cotesto egli era andato più oltre che non
comportassero le costumanze d'allora. Mite era dell'animo, ma pronto a
metter fuori la spada contro ogni atto che gli paresse iniquo, laonde
non è a dire come egli avesse il cuore aperto ad ogni affetto generoso.
A ventidue anni, Arrigo non aveva ancora amato. A chi gli toccava di
ciò, egli solea dire che il suo cuore avrebbe dato ad una donna, ma per
sempre, e che però non si sarebbe innamorato al primo uscio. Arrigo
aveva ragione, sebbene molte vaghe gentildonne tenessero contraria
sentenza; e lo aspettare fu bene, imperocchè diede agio al caso di
condurlo una certa mattina alla chiesa di San Pietro alla Porta, ove
per la prima volta s'avvenne in quella rara bellezza della fanciulla
degli Embriaci.
Quel giorno, le sue preghiere non andarono tutte all'altare, ed egli
adorò il creatore nella sua creatura. Quegli occhi azzurri non si erano
pure fissati su lui, quantunque egli si mettesse a bello studio accanto
alla pila dell'acquasanta, quando Diana fu per uscire di chiesa;
ma Arrigo non si diede per vinto, e da quel giorno gli fu caro aver
perduto la pace dell'anima. Dovunque la donna andasse, Arrigo era;
dovunque fosse, non indugiava ad apparire; di guisa che, finalmente,
ella ebbe ad avvedersi di quel costante amatore, e il suo cuoricino
incominciò ad accogliere una immagine d'uomo, il suo labbro a mormorare
un nome, allorquando ella udiva, di nottetempo, sotto i veroni della
sua casa, certe ballate in provenzale, che era la lingua amorosa di
tutti, e parte principale della educazione dei giovani.
Se Arrigo avesse continuato di quella forma nei suoi lai di troviere,
forse i posteri avrebbero parlato meno di Folchetto, suo concittadino,
che doveva salire più tardi in tanta rinomanza nell'arte. Ma i canti
di Arrigo ebbero fine ben presto. La voce improvvisa di Pietro Eremita
aveva scosso l'Europa. Quel pazzo sublime, che, senza pure saperlo,
dovea col suo grido dare indirizzo nuovo alla storia, era venuto in
Occidente a raccontare la caduta di Gerusalemme in balìa dei Saraceni
feroci e le crudeltà patite dai pellegrini, che andavano a pregare
sulla tomba del Cristo.
La cosa era grave, più grave che non si argomenti ai dì nostri. Al
sepolcro del Nazareno andavano i peccatori di tutta Europa a purgarsi
dei loro misfatti, e in quei tempi non ancora usciti dalla barbarie,
una simile derrata abbondava anzi che no. Premeva alla chiesa, premeva
alla Cristianità tutta quanta, che la via di Gerusalemme non fosse
impedita. Le città marinare avevano inoltre bisogno di allargare i loro
traffichi, e l'Oriente era l'_Aurea Chersonesus_ per essi. Vi erano
poi gli uomini di lancia e spada, vaghi di nuove imprese, infastiditi
delle guerricciuole di casa, signori di poca terra, o di nessuna, tutti
travagliati da una gran sete di possanza e di gloria.
Cotesto vi chiarirà come la voce del monaco dovesse essere udita
da un capo all'altro d'Europa, e come scaldar l'animo di chierici e
laici, d'uomini di cappa e uomini di spada. A cavallo su d'una mula,
che meriterebbe di essere glorificata dalla storia, non foss'altro,
per le sue lunghe e faticose trottate, Pietro ne andava di città
in città, di terra in terra, col crocifissso in pugno, predicando,
piangendo, ed incitando i Cristiani a liberare il Santo Sepolcro. Un
pietoso entusiasmo, che andava spesso oltre i confini della pazzia,
rispose alle concitate orazioni del monaco; le popolazioni intiere si
schieravano sulle sue orme, chiedendo la guerra santa ai loro signori;
ed a questi si destavano arcani desiderii, ribollivano alte ambizioni
nel petto.
Il concilio di Chiaramonte, radunato nel 1095 sotto la presidenza di
Urbano II, deliberò che la guerra santa si facesse. La piccola città
di Chiaramonte non bastava a capire tutta quella pioggia di principi e
di vescovi, di ambasciatori, di baroni e di frati, che erano accorsi
al concilio. Una cronaca di quel tempo narra che, a mezzo novembre,
le città e borgate dei dintorni erano così piene di popolo, che fu
mestieri di rizzar tende pei campi e recarsi in santa pace un freddo,
che non usava misericordia ai cristiani.
A quel concilio si presentò anche Goffredo, duca di Bouillon, che
doveva capitanare più tardi i crociati. Il prode soldato, pochi mesi
addietro, era andato in Terra Santa col conte di Fiandra ed altri
pellegrini della sua levatura. Passati in Genova, si erano imbarcati
sopra una nave chiamata _Pomella_, e approdati al porto di Joppe
avevano proseguito il viaggio per alla volta di Gerusalemme. Si erano
presentati alla porta del Sepolcro; ma i Saraceni che vi stavano
a custodia ne avevano negato loro l'accesso, volendo che pagassero
prima un bisanto per ciascheduno. I nostri gran signori non avevano
quattrini; il tesoriere della comitiva era rimasto indietro un buon
tratto di strada. Si venne a parole, e il pio Goffredo vi buscò
una fiera ceffata, di cui si sarebbe fatta subitanea vendetta, se i
cristiani non fossero stati così pochi e così numerosi i Saraceni.
Questo narrava Goffredo; e gli animi sempre più s'infiammarono. Urbano
impartiva l'indulgenza plenaria a chiunque, pentito e confessato, si
votasse all'impresa. «Dio lo vuole! Dio lo vuole!» Fu questo il grido
dei baroni, quando Urbano ebbe finito di parlare; e tutti si gettarono
ai piedi dei padri del Concilio, per ricevere i due scampoli di lana
vermiglia, assestati in forma di croce e cuciti sull'òmero. Di quelle
croci ne furono distribuite oltre un milione. Ventura pei lanaiuoli,
e non per la nobile impresa, che fu ben lungi dal raccogliere un così
gran numero di combattenti.
A Genova, il popolo si commosse a sua volta per l'arrivo di Ugo,
vescovo di Grenoble, e di Guglielmo, vescovo di Orange, i quali,
caldi ancora degli entusiasmi di Chiaramonte, venivano ai genovesi per
invitarli alla crociata, e parlavano alla gente dalle gradinate delle
chiese, distribuendo le insegne vermiglie a quanti le chiedevano, che
molti furono e dei più riputati cavalieri di Liguria. Fra i primi che
pigliarono la croce furono Anselmo Rascherio, Dodone degli Avvocati,
Lanfranco Rosa, Opizzone Musso, Oberto de Marini, Ingo Flaòno,
Nascenzio Astore, Guglielmo di Buonsignore e Oberto Basso delle Isole.
Tornando colla mente a que' giorni di altissima concitazione di
spiriti, è agevole immaginare quale onda di popolo traesse a San Siro
e a Santo Stefano, intorno a quelle gradinate donde i due vescovi
arringavano la moltitudine. Nobili e popolani, uomini e donne, vecchi e
fanciulli, tutti si accalcavano a quei sacri spettacoli, tutti volevano
la guerra santa, tutti avrebbero voluto la croce.
Ma il Papa non chiedeva a Genova guerrieri soltanto. Genova, già
potente sul mare, doveva fornire navi e marinai per condurre un grosso
di crociati d'Occidente in Soria; e mentre i cavalieri e il popolo
minuto s'infiammavano per la guerra santa, non sognando che botte da
orbi ai Saracini, i Consoli vedevano in quella spedizione lontana e
gloriosa, la sorgente delle nuove fortune di Genova.
Anche Guglielmo Embriaco, il nobile figlio di Guido Spinola, il
consanguineo degli Avvocati, dei Marini e degli Isola che ho nominati
poc'anzi, aveva posta la croce vermiglia sulla cappa bianca, e il suo
fratel maggiore, Primo di Castello, aveva imitato l'esempio. Ora egli
avvenne che un di quei giorni, Diana pregasse il padre di condurla a
vedere il vescovo di Grenoble, che dalla gradinata di Santo Stefano
teneva discorso ai fedeli. E messere Guglielmo, da quel padre amoroso
che egli era, condusse la figliuola, con gran corteggio dei suoi
famigliari, fuor della porta di Sant'Andrea, fino ai piedi dell'erta su
cui sorgeva la chiesa del protomartire, tutta listata di marmo bianco e
pietra nera di Promontorio, giusta il costume d'allora.
Il popolo accolse con liete grida il nuovo crociato, e Arrigo da
Carmandino (vedete se la fortuna non aiuta gl'innamorati) ebbe in
sorte di far luogo presso di sè a messer Guglielmo e alla sua bella
figliuola.
L'Embriaco salutò cortesemente il Carmandino, e questi si fece tutto
rosso, nel ricambiarlo della sua cortesia. Gli occhi di Diana si erano
incontrati nei suoi; Diana lo aveva salutato per la prima volta, e
Arrigo aveva sentito il sangue rifluirgli al cuore, chè mai gli era
parso di aver provato altrettanta allegrezza.
Il tacere più oltre sarebbe stato disdicevole. Guglielmo conosceva
Arrigo per un gentil cavaliere, del sangue di Ido Visconte, da cui,
come ho detto più sopra, scendevano anche i signori di Manesseno.
E Carmandini ed Embriaci avrebbero potuto vantare un dugento anni
di certa genealogia, che era già molto per quei tempi, se allora,
più che da un lungo ordine di avi, non si fosse reputato più bello
derivar fama dalle opere proprie. E nemmeno allora si usavano stemmi
a contraddistinguere le casate. Ogni cavaliere inalberava l'emblema
che più gli andasse a grado, per essere riconosciuto in giostra, o in
battaglia. Soltanto dopo la prima crociata, l'emblema, illustrato sui
campi di guerra, parve degno d'essere perpetuato, ad onore di tutto
il lignaggio. Così ad esempio gli Embriaci lo portarono d'oro, con tre
leoni rampanti di nero; i Carmandini ebbero lo scudo partito di nero e
d'argento, con un leone rampante _dall'uno all'altro_.
Torniamo ad Arrigo. Il giovane, dopo una breve pausa, che gli fu
necessaria per trovar le parole, e arrossendo da capo, come potete
immaginare cercando tra le memorie della vostra giovinezza il caso
consimile, si fece animo a dir qualche cosa.
— Messer Guglielmo, — cominciò egli, — voi dunque partite, per
andarvene in Terra Santa a sostenere il buon nome dei cavalieri
genovesi?
— Come sapete; — rispose con nobile modestia l'Embriaco; — vo a fare
il debito mio e nulla più. Per quanto è di sostenere il buon nome di
Genova, voi mi fate, messer Arrigo da Carmandino, troppo gagliarde le
spalle. Sono dei primi pel buon volere, non già per l'efficacia delle
opere.
— Messer Guglielmo, consentite, che, per amore di verità, io pensi di
voi l'una cosa e l'altra. Così voi mi credeste degno di combattere al
fianco vostro, come io vi seguirei di buon grado, avendolo per somma
grazia ed augurio fortunato. —
La lode dei buoni è grato conforto agli ottimi; e questo è tanto vero,
e lo fu tanto in ogni tempo, che a Guglielmo Embriaco le parole di
Arrigo da Carmandino toccarono il cuore. Egli non rispose nulla; ma,
presa la mano del giovine, la strinse con indicibile affetto. Diana
alzò, per guardare Arrigo, i suoi begli occhi azzurri; e traluceva da
quegli occhi un sorriso di cielo.
Che cuore fu il vostro, che dolci pensieri vi passarono pel capo,
messere Arrigo da Carmandino, quando sentiste la stretta di quella mano
paterna e la virtù di quello sguardo virgineo? Per fermo i vicini,
in quel momento, videro sulla vostra fronte un'aureola, come quella
dei santi, poichè hanno goduto l'aspetto di Dio. E Diana stessa, la
leggiadra Diana, ebbe sicuramente a vedere alcunchè di simile, perchè
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Çirattagı - Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 02
  • Büleklär
  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 01
    Süzlärneñ gomumi sanı 4536
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1717
    41.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4588
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1708
    41.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    58.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    66.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 03
    Süzlärneñ gomumi sanı 4519
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1817
    34.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 04
    Süzlärneñ gomumi sanı 4498
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1824
    38.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    62.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 05
    Süzlärneñ gomumi sanı 4480
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1703
    38.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    55.8 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    64.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 06
    Süzlärneñ gomumi sanı 4492
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1628
    40.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 07
    Süzlärneñ gomumi sanı 4454
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1658
    37.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 08
    Süzlärneñ gomumi sanı 4479
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1628
    40.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    65.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 09
    Süzlärneñ gomumi sanı 4475
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1749
    38.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    61.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4550
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1774
    37.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    60.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 11
    Süzlärneñ gomumi sanı 4484
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1681
    38.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    55.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 12
    Süzlärneñ gomumi sanı 4475
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1642
    39.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    55.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 13
    Süzlärneñ gomumi sanı 4552
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1581
    41.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 14
    Süzlärneñ gomumi sanı 4512
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1672
    38.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    55.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 15
    Süzlärneñ gomumi sanı 4510
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1621
    39.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    62.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 16
    Süzlärneñ gomumi sanı 4486
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1637
    39.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    55.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Diana degli Embriaci: Storia del XII secolo - 17
    Süzlärneñ gomumi sanı 1536
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 705
    51.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    64.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    70.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.