Castel Gavone: Storia del secolo XV - 13

Süzlärneñ gomumi sanı 4551
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1661
38.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
51.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
57.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Per quella volta Antonello da Montefalco trovò il nemico, non pur
preparato a riceverlo, ma così forte da ributtarlo al primo scontro. E
peggio fu, quando dal colle dell'Argentara messer Pietro Fregoso mandò
una grossa mano di fanti, che pigliassero in mezzo la cavalcata
nemica. Rotte le ordinanze, gli uomini del Montefalco non pensarono
più ad altro che a mettersi in salvo; e tale era la confusione, che
finarini e genovesi per lungo tratto mescolati si spingevano sotto le
mura, mettendo i custodi della porta nel bivio più doloroso a cui si
trovassero mai soldati dabbene, o di alzare il ponte e chiuder fuori
gli amici, o di tenerlo calato e per salvar cinquecento perdere i
quattromila, e con essi dar la città in balìa dei nemici.
Fortunatamente sopraggiunse il marchese Galeotto, che, vista la mala
prova del Montefalco, fu pronto ad uscire, con quanta gente potè avere
alle mani, in sostegno del suo capitano. Per tal modo, rattenuta la
furia del nemico, i cavalieri ebbero agio a raccapezzarsi nel
parapiglia, a riunirsi e mettersi in salvo. Non così i fanti che
andavano con esso loro, i quali nella improvvisa ritirata erano
rimasti più indietro, facilmente avviluppati e travolti nella mischia.
Il Maso, tra gli altri, perduto di vista il capitano, era stato
pigliato in mezzo da un manipolo di nemici. Ben s'era adoperato colle
mani e co' piedi; uno avea morto e un altro ferito; ma sopraffatto dal
numero, non aveva potuto far altro. E si divincolava in quelle
strette, si scontorceva e smaniava, ma invano; due maledetti diavoli
lo avevano abbrancato, e non c'era verso, bisognava andare con essi.

--Che! non si scappa!--gli gridava un di costoro, che lo aveva
agguantato pel collo e gli faceva sentire il ginocchio nelle reni.--Tu
se' capitato nelle granfie del Tanaglino e puoi metter l'animo in
pace. A te, Vernazza; due giri di corda e legami questo ribaldo.--
Il soldato, che rispondeva al nome di Vernazza, si cavò di sotto il
farsetto la corda di ricambio della balestra e l'avvolse prontamente,
senza tanti riguardi, intorno ai polsi del Maso, che si trovò per tal
guisa ammanettato come un ladro in mezzo ai sergenti della giustizia.
--E adesso, vira di bordo!--gli gridò il Tanaglino, accompagnando
l'ordine con un colpo d'aiuto, che al Maso fece tornare in memoria le
carezze di mastro Bernardo.
Obbedì, e, come volle il Tanaglino, prese la strada dell'Argentara, a
passo giusto da prima, indi man mano più frettoloso, perchè i
balestrieri lo spingeano da tergo, incalzati com'erano d'improvviso
dalle schiere di riscossa condotte innanzi dal marchese Galeotto.
Ad una svolta del sentiero e già in vista dello steccato di Pertica
(che colaggiù erano calati i genovesi a piantar battifolle) comparve
messer Pietro Fregoso a cavallo, e comandò ai capitani delle compagnie
di far ritirare in fretta la gente, lasciando libera e sgombra la via
al nemico.
Obbedirono tutti, e, menando seco i prigioni che avevano fatti, si
gittarono pe' campi.
Il Maso colse il destro di quella conversione, per dare una sbirciata
dietro di sè. Il cuore gli fece un sobbalzo di contentezza, poichè non
molto lunge ondeggiava l'insegna del marchese Galeotto, e al grido di
«San Giorgio e Carretto» i suoi compagni d'arme muovevano spediti
all'assalto.
Ma ohimè, la gioia del Maso non durò che un istante. Dalla parte dello
steccato si vide un lampo, anzi una corona di lampi; si udì un rombo,
un tuono, uno schianto, che a lui smemorato fece traballare la terra
sotto i piedi; e in meno che non si dice fischiò nell'aria una rovina
di sassi, battè, saltellò, ruzzolò per la strada, mettendo lo
scompiglio nelle prime schiere che si facevano innanzi.
Quasi sarebbe inutile il dire che questo fuoco d'inferno arrestò il
corso dei nemici. Molti caddero, l'uno sull'altro, a rinfusa, urlando
o gemendo, bestemmiando o pregando, conforme portavano gli umori;
altri non ebbero il tempo di raccomandar l'anima a Dio che quella
grandine li colse e li sfracellò senza misericordia. Tosto, dai due
lati della strada, i balestrieri genovesi a spianar gli archi e
scoccar frecce in quella calca disordinata; nè mancarono i balestroni
e le briccole, per lanciare dallo steccato sugli assalitori una
minutaglia di pietre e verrettoni, così riempiendo gl'intervalli un
po' lunghi, che allora portava la difficoltà della carica, nel tiro
delle armi da fuoco.
Poco stante, il Maso, che oramai disperava di tornar salvo tra' suoi,
entrava, col Tanaglino ai fianchi, nello steccato nemico. Colà gli fu
dato veder da vicino que' brutti ordigni, donde tanta maledizione era
uscita pur dianzi. Un uomo era là, dietro i pezzi, che agli atti e al
contegno pareva il capo di quei ministri del fuoco. Alto di statura,
di membra poderose, nero in volto per lo imbratto del sudore e della
polvere, parea Satanasso in persona; e per tale lo avrebbe pigliato il
Maso, a ciò aiutando il mal animo con cui si sogliono guardare i
nemici, se in lui non avesse ravvisato un vecchio conoscente, e
proprio uno di que' due forastieri, che egli aveva serviti tredici
mesi addietro all'osteria di mastro Bernardo.
Si fermò allora, pensando tra sè come avrebbe potuto fare per dar
negli occhi a quell'uomo. Intanto il Tanaglino, che non aveva le
stesse ragioni per trattenersi, gli diede una spinta nelle reni.
Il Maso fu pronto a cogliere quella dolorosa occasione. Tanto è vero
che tutto il male non vien per nuocere.
--Oh insomma!--gridò egli, voltandosi, tra piagnoloso e stizzito.--Che
è ciò? Son forse un cane, da pigliarmi a pedate? Non voglio andare più
oltre; voglio parlare a quell'uomo delle bombarde.
--Quell'uomo!--sclamò il Tanaglino, mentre raddoppiava la
dose,--Messer Anselmo Campora, il capo dei bombardieri della
repubblica, tu lo chiami quell'uomo?
--Sicuro!--rispose il prigioniero, cansandosi.--Lo chiamavo
quell'uomo; ma ora che tu m'hai detto il suo nome, lo chiamerò come
va.--
E alzata la voce, mentre, inseguito dal Tanaglino, correva alla volta
delle artiglierie, si messe a gridare con quanto fiato ci aveva in
corpo:
--Messere Anselmo! ohè; messere Anselmo, di grazia!--
Il Picchiasodo volse la faccia da quel lato, non senza un tal po' di
malumore, perchè appunto allora stava mettendo una zeppa di legno
sotto la tromba della signora Ninetta, per alzarne un tratto la mira.

--Che c'è? chi mi chiama?--gridò egli con piglio impaziente.
--Son io, messere Anselmo; non mi conoscete?
--Io! persona, prima;--borbottò il Picchiasodo;--e che altro sei tu?
--Il Maso, messere; non mi abbandonate. Sono il ragazzo dell'Altino.
--Ah!--disse il vecchio soldato, inarcando le ciglia.--Diffatti, la
riconosco, quella tua faccia di capocchio. Vien qua, buona lana, e non
avertelo a male. Finisco di dire una parolina a' tuoi concittadini e
sono da te.--
Così dicendo, il buon Picchiasodo curvò amorosamente la testa
sull'òmero della sua dama, fece l'occhiolino nei due traguardi che le
ornavano il capo, e parve contento del fatto suo. Quindi, pigliato
dalle mani d'un servente l'uncino, ne accostò la punta arroventata al
focone. Un lampo incoronò la bocca della signora Ninetta in mezzo ad
una nuvola di fumo, e con fragore di tuono, partì fischiando una
bigoncia di sassi.
A mala pena ebbe dato fuoco alla bombarda, il Picchiasodo levò la
fronte e tese l'occhio verso la strada.
--Di punto in bianco!--gridarono poco stante i serventi, che stavano
alle vedette, quali inerpicati sulle traverse della stecconata, quali
in bilico sui carretti delle artiglierie.--Vedi che squarcio! E come
son ruzzolati! Ne hanno abbastanza, di treggèa; scantonano alla lesta,
come gatti scottati dall'acqua calda.
--Lo credo, io; s'è fatto miracoli;--disse il Picchiasodo ridendo.--La
signora Ninetta è una donnina di garbo, e adesso bisognerà darle una
secchiata d'acqua, per la sete. A proposito d'acqua, chi diavolo mi
parlava dell'Altino?
--Son io, messere Anselmo;--si affrettò a rispondere il Maso;--sono
io, il ragazzo dell'osteria.
--Ah sì, ora mi ricordo;--ripigliò il Campora;--«fermatevi all'Altino,
c'è buona l'accoglienza e meglio il vino». E dimmi, per caso, non ne
avresti portato un fiasco di quel buono? E' sarebbe proprio la man di
Dio.
--Gli è tutto andato, messere;--disse il Maso con aria contrita.--Ci
avete conciati davvero per le feste.
--Necessità di guerra; che farci, ragazzo mio? Non dovevate pigliarla
a dire con noi;--sentenziò il Picchiasodo, stringendo le spalle.--Ma
via, questi non sono discorsi da fare con te. Come sei qua? Ah,
perdinci, non ci avevo badato prima; tu se' legato come un cane.
--Necessità di guerra;--disse di rimando il Maso;--e in verità, son
capitato in certe mani....
--Capisco;--interruppe il buon capo dei bombardieri;--e tu ameresti
ora cambiar di padrone. Andate, voi altri;--soggiunse poscia,
voltandosi ai due balestrieri che accompagnavano il Maso;--questo
prigioniero rimane con me.--
Il Maso diede una rifiatata di contentezza. Ma quei due non si
muovevano ancora.
--Messere,--entrò a dire il Tanaglino,--la corda di balestra con cui è
legato, mi appartiene.
--E tu levala!
--Levala!--ripetè il Maso, mettendo i polsi sotto il naso del suo
aguzzino.
Indi, mentre il Tanaglino, tutto raumiliato, lavorava a slegarlo,
soggiunse:
--Che te ne pare? Son io ancora quel villano ribaldo di poco fa?
--Sarete un pezzo grosso,--borbottò il balestriere stizzito,--e a noi
due spetterebbe la taglia.
--Eccoti la taglia, furfante!--esclamò il Picchiasodo, appoggiandogli
una pedata.
--Ne valgo cento, di queste;--aggiunse il Maso, gongolando dalla
gioia;--fàtti dare il tuo giusto.--
Il Tanaglino, come i lettori avranno di leggieri argomentato, n'ebbe
abbastanza di una e non aspettò le novantanove che il Maso gli
consigliava di prendere.
--E così, ragazzo mio,--disse il Campora, come furono soli,--eccoti
fuori dal servizio di mastro Bernardo....
--E di messere Antonello da Montefalco, ai servigi del quale sono
accomodato come paggio.
--Di quel traditore, che in principio della guerra era con noi? Grama
casacca, quella che dentro l'anno si volta! Buon per te che non lo
servirai più. Vuoi restare con me?
--Messere,--rispose maliziosamente il Maso,--questo sarebbe un voltar
casacca ancor io.
--Oh, non dico già come paggio; sei prigioniero, e resti al mio
servizio fino al compimento di questa impresa maledetta. È il meno
ch'io possa fare per te. Avevo fame e tu m'hai portato un pollo; avevo
sete e non m'hai fatto aspettare un fiasco di vino. Ora dimmi, hai
fame tu? hai sete?
--Eh, non fo per dire.... Stamane siam venuti ad assalirvi prima di
far colazione.
--È una pittima cordiale, il vostro marchese! Far combattere i suoi
soldati a ventre digiuno!
--Gli è un buon massaio e tira allo sparagno;--rispose il Maso, che
volea dire e non dire.--Sapete, messere Anselmo? Lo sparagno è il
primo guadagno.
--Capisco, sì, capisco che siete agli sgoccioli.
--Oh questo poi! Messere Antonello, mio padrone, dice che il Borgo,
senz'altri aiuti di vettovaglie, può tener fermo ancora sei mesi.
--Sì, sì, dagli retta! Noi ci abbiamo intorno a ciò ben altri
ragguagli. Ma basti; tu hai fame e sete, tu; ed io, vedi, quantunque
da noi si abbia avuto cura di asciolvere, la fame l'ho ancora sui
denti e la sete l'ho sempre. Gli è un vizio che m'hanno lasciato i
vaiuoli.--
Con queste celie amichevoli, Anselmo Campora si era mosso di là, per
andare verso l'alloggiamento. Quella mattina la sua orchestra aveva
fatto buona prova e messer Pietro Fregoso doveva esser contento di
lui; frattanto il buon Picchiasodo se ne rallegrava da sè. La qual
cosa era naturalissima, ed io la raccomando, sull'esempio di lui, a
tutti i lettori; imperocchè l'esser contenti di noi medesimi è già un
buon punto per aspettare che gli altri lo siano del pari, o per
passarcene bravamente, se gli altri ci stanno sul tirato, come il più
delle volte interviene.
Aggiungete che l'allegria fa buon sangue e ci aiuta a veder tutto
bene, quello che è stato fatto dalla provvidenza, o dal caso. Però
argomentate come al Picchiasodo godesse l'animo di aver tra' piedi il
Maso e di fargli servizio. La vista di quel poveraccio gli ricordava
l'Altino, il teatro di una tra le sue più allegre bevute. Se gli fosse
capitato anche mastro Bernardo, che festa! di certo lo avrebbe
abbracciato.
L'alloggiamento del Picchiasodo, distante una balestrata dal fosso,
era, come si può argomentar di leggieri, una baracca e niente di più,
cioè a dire una capanna fatta con assi e coperta di frasche, breve
fatica de' suoi bombardieri, a mala pena erano calati a piantare le
artiglierie nella bastita di Pertica.
Non c'era che una camera, ma questa abbastanza capace. Il letto (se
letto può dirsi una cuccia di strame con suvvi una coperta di lana) si
vedeva in un angolo, e un lungo spadone appiccato alla parete vi
raffigurava indegnamente l'olivo pasquale. Tutto intorno fiaschi e
stoviglie, una rozza panca ed una rozza tavola, dinotavano che Anselmo
Campora non si raccoglieva in quel suo romitaggio per recitar
paternostri.
Giunti appena colà, il Maso ebbe le nari soavemente vellicate da un
odor di stufato, che dovea rosolarsi a lento fuoco in una cucina
posticcia, dietro la baracca del suo ospite. Nè meno grato gli giunse
un altro odore di basilico, aglio, maggiorana e cacio pestati insieme;
stillato, elettuario, nettare, ambrosia e tutto quel meglio che
vorrete, donde ogni naso ligustico fiuta le dolci impromesse di una
minestra maritata. E non mi faccian niffolo le signore lettrici, se
per avventura questo racconto ne ha; imperocchè tutto è buono, anche
una minestra maritata, e sto per dire anche per la bocca più
leggiadra, purchè capiti a tempo.
--Che te ne pare, eh?--dimandò il Picchiasodo, notando l'aria di
beatitudine che si diffondeva sulla faccia del Maso.--Non ti poteva
per avventura andar peggio?
--Ah, non me ne fate ricordare!--esclamò il Maso, pensando al
Tanaglino.--Questa è grazia di Dio, cucinata dal generalissimo dei
cuochi.
--La nostra gloriosa repubblica ha di cotali valentuomini al suo
servizio,--soggiunse gravemente Anselmo Campora, mettendosi a
tavola.--Siedi, amicone. Domani sarai l'aiutante del mio cuoco; oggi
sei il mio commensale. Lo hai meritato. Chi fa bene, abbia bene in
questa vita e nell'altra. Tu m'hai portato il migliore della tua
osteria, e Anselmo Campora non lo ha dimenticato. Bada a me, ragazzo;
porta sempre del vino buono al nemico; verrà giorno che egli potrà
ricambiartene. Assaggiami questo; è di Calice. Quest'anno lo abbiamo
svinato noi altri.
--Pur troppo!--disse il Maso tra sè.
E mandò dalla tavola del nemico un pensiero alla patria.


CAPITOLO XII.
Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre satollo.

Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due
palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa
facendo la sua meriggiata all'aperto, al riparo del sole, colla
schiena contro l'assito della baracca, mentre il paggio del suo
anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate.
Anch'egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno
vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un
sonnellino, in onore dell'ospitalità ricevuta.
Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di
strame, e già aveva legato l'asino a buona caviglia, allorquando
vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli
a quattr'occhi.
Il Maso, senza volerlo, aveva l'orecchio di contro al sottile
tramezzo. «Un prigioniero! a quattr'occhi!» Ragione per lui di aprirne
due; e magari ci avesse avuto i cento del mitologico guardiano di
Danae, che tanto li avrebbe messi tutti in opera, anco senza sapere il
cattivo servizio che rese ad Argo il non averne adoperati che
cinquanta nella sua famosa nottata.
Poco stante, il prigioniero entrò nella baracca di Anselmo Campora e i
due balestrieri che lo avevano scortato si ritrassero fuori. Il
paggio, intento a strofinare le sue stoviglie, dava le spalle al Maso;
e il nostro curioso ne profittò per dare una sbirciata tra le
commessure delle assi. Indi ripigliò la sua prima postura, ricacciando
in corpo un grido di meraviglia, che era ad un pelo di uscirgli. Aveva
in quell'attimo riconosciuto il Sangonetto; Maso avea visto Tommaso.
Non meno meravigliato di lui, il Picchiasodo inarcò le ciglia alla
vista del prigioniero che gli domandava un colloquio.
--Ah, ah!--diss'egli, facendo bocca da ridere.--Il messere
dell'archibugio?
--Ma sì, ma sì!--balbettò il Sangonetto, arrossendo.--Ve ne ricordate
ancora? Ho piacere che sia così, per pigliar animo a dirvi un mondo di
cose. Del resto,--soggiunse con un certo sussiego,--la mia presenza
qui vi dirà che non ero soltanto un cacciatore da passeri.
--Eh via!--sbuffò il Picchiasodo, rincalzando la frase con una alzata
di spalle.--Sareste per caso venuto a chiedere che io mi ripigli ciò
che vi ho detto? Amerei meglio farvi dire dell'altro da quella bella
milanese, che non avete voluto saggiare, nè dalla punta nè dal manico,
all'osteria dell'Altino.--
Così dicendo, Anselmo Campora accennava il suo spadone, che pendeva
dalla parete al posto della libbia pasquale. Ma il Sangonetto fece un
gesto contrito, come per dirgli che non aveva bisogno di tanto; la
qual cosa fece spianar le ciglia al suo ospite iracondo.
--Ah, meglio così!--soggiunse questi rabbonito,--Dicevamo dunque...
cioè, no, ero per dirvi che sono molto contento di vedervi in buona
salute. Me lo dice il vostro naso, che è sempre di un amabil colore. A
voi certo piace il vin buono. Ma sedete, perdinci; quella è la panca;
e adesso si metterà il becco in molle, perchè un mondo di cose, come
ci avete da dirmene, si sa, non lo si snocciola così su due piedi e a
labbro asciutto, come una mezza serqua di paternostri.--
E intanto che andava alla parete per un fiasco, Anselmo Campora
borbottava tra sè:
--To', to'! Quest'oggi mi capita qua mezza osteria dell'Altino. Che
vuol dir ciò?--
Il Sangonetto accettò il bicchiere che gli veniva profferto, e dopo
averne bevuto un sorso per cortesia, due altri per farsi coraggio,
così prese a incignare l'argomento:
--Giorni or sono avete ricevuto una lettera?...--
Il Picchiasodo, che stava allora per bere a sua volta, si trattenne,
col bicchiere a mezza strada, e guardò il suo ospite con aria che
voleva dirgli: tirate innanzi, risponderò poi.
--E nell'estate scorsa--proseguì il Sangonetto,--il vostro capitano
generale non ne ha ricavato un'altra, con utili notizie e consigli,
che ha incontanente seguiti?
--Ah, ah!--sclamò il Picchiasodo.--Eravate voi? Già, ci si vedeva la
mano di un chierico!--
Chierico dicevasi anticamente per uomo dotto, come laico per uomo
ignorante. E i lettori rammentano di certo che all'osteria dell'Altino
il Picchiasodo avea dato del chierico a Tommaso Sangonetto,
aggiungendo ch'egli doveva averci nelle vene inchiostro per sangue.
--Ero io quella volta e quest'altra;--rispose il Sangonetto:--e come
allora parve buono il consiglio, così ora... mi sembra...
--Eh, non dico di no. Sarebbe un bel colpo e il tentarlo piacerebbe a
più d'uno. Ma chi mi assicura che non fosse un tranello?
--Ma... la parola di Santino da Riva, vostro capitano e prigioniero
dei nostri...
--La parola, avete detto bene. Infatti, Santino da Riva è un buon
laico e lascia scriver chi sa. Capisco quello che mi potreste
rispondere. Se la prima lettera diede un buon consiglio...
--Ecco!--interruppe il Sangonetto, con aria di trionfo.
--Essa,--prosegui inflessibile il Picchiasodo,--non ci persuadeva già
un colpo temerario, ma un atto di accorgimento sopraffino, che a
messer Pietro Fregoso era venuto in testa più volte. Qui invece si
trattava di una mezza pazzia... che è poi quasi inutile, al punto in
cui sono le cose. Santino da Riva è un buon soldato, ma non ha il
diavolo in testa e nemmanco nell'ampolla; poteva dunque aver dato
nella pania.
--Ma adesso...--entrò a dire il Sangonetto.
--Sì, adesso lo so, che il consiglio viene da voi. Ma voi, chi siete?
che malleveria mi date? E prima di tutto, qual fine è il vostro? che
tornaconto ci avete a farci servizio?
--Grandissimo;--rispose il Sangonetto, con aria
maestosa.--Congiuriamo, al Finaro; Genova è republica; vogliamo
appartenere a Genova, perchè vogliamo la libertà.
--Bravi! mi piacete;--replicò il Picchiasodo.--La libertà è un'ottima
cosa, e Genova ve la darà; Ne ha da vendere; figuratevi, l'ha messa
per insegna fin sulle porte delle prigioni, con due grifoni per
custodirla. Ma bevete, compar Sangonetto; buon vino, favola lunga,
dice il proverbio. Voi dunque, congiurate; e in quanti?
--Oh, in parecchi; e il popolo, stanco di questa guerra che non lo
risguarda, di queste privazioni e di questi pericoli che non
serviranno ad altro fuorchè a ribadirgli le catene ai polsi, è quasi
tutto dalla nostra.
--Dalla vostra! di chi?
--Di me, vi ho detto; di Antonio Sturlino, vi posso aggiungere, che ha
molta autorità in paese e che l'altro giorno dopo aver preso a dirla
col marchese, è stato, per ira di popolo, liberato dalle mani dei
birri che lo menavano in carcere; di Bernardo Marchelli e di Giorgio
Battaglia, caporali di schiera; di Antonio Giudice e di Nicolò Valle,
uomini di legge; di Vincenzo Campi e di Nicolò Cavazzola, cittadini
che sono tra i più ricchi e i più ragguardevoli della terra; di
Giacomo Pico finalmente....
--Ah, ah! Pico, l'avversario di messer Pietro Fregoso all'osteria
dell'Altino?
--Lui, sicuro. Se ci son io mi pare....
--Ah, voi, si capisce; voi siete un personaggio delle storie antiche e
congiurate per la libertà. Ma lui, il braccio destro del marchese, a
quanto dicono, lui, che in queste fazioni ha sempre combattuto come un
eroe....
--Sì, questo è nell'indole sua, ma Giacomo Pico non fa oramai maggior
conto dei Carretti, pigliati a mazzo, con tutta la loro protezione, di
quello che voi ne facciate, sia detto con vostra licenza, messere
Anselmo riverito, d'un fondigliuolo di fiasco.
--Eh via, che ne sapete voi?--disse il Picchiasodo, ridendo del
paragone.--Se il vino non fa posatura, anche la fondata è buona da
bere. Vedete questo vino di Calice, come è chiaro e sfavillante,
sebbene già il piede vi faccia imbuto per entro.
--Sicuro,--replicò il Sangonetto,--ma supponete che nel calice dei
marchesi, nostri padroni, ci sia della feccia, e che Giacomo Pico sia
giunto a questo bivio, di gittare, o di bere.
--Spiegatevi meglio; ci vedo buio pesto, finora.
--Ecco! Rammenterete, io non dubito, la cagione dell'alterco di
Giacomo col vostro magnifico messer Pietro Fregoso.
--Sì; cioè, ricordo che non ce n'era, e che il vostro amico lo aveva
tolto in iscambio.
--Rivalità d'amore;--soggiunse Tommaso.--Il mio povero amico avea
perso la tramontana per madonna Nicolosina del Carretto.
--Sta bene; questo è il gran punto. Tirate innanzi.
--Madonna Nicolosina non voleva saperne di Giacomo Pico.
--Davvero? Eh, infatti,--soggiunse Anselmo Campora,--sappiamo che la
ci ha poi sposato il suo conte di Cascherano, Ma ciò non toglie....
che anzi!
--Eh, l'ho detto ancor io, da principio, quando non sapevo niente dei
loro segreti e pensavo che le malinconie di Giacomo gli venissero
tutte dal padre. Ma egli sembra che non fosse proprio così. Madonna
Nicolosina amava il Cascherano, o, per dire più veramente, non amava
il Bardineto, ed egli era disperato per due versi; pel padre, che non
gli avrebbe dato la figliuola; per la figliuola, che ci aveva in testa
più superbia del padre. Ora, voi m'intendete, messere Anselmo; un
grande amore può cangiarsi spesso nell'odio più acerbo.
--Capisco;--disse il Picchiasodo con gravità.--Del vino dolce si fa
l'aceto forte.
--Ci siete,--incalzò il Sangonetto,--ed ora capirete eziandio che sa
Giacomo Pico ricusa di bere la feccia del calice, ci ha le sue grandi
ragioni.
--Questo Pico,--notò il capo dei bombardieri col piglio di chi vede
molto lontano,--è un acquisto prezioso, per gli amici della libertà.
Ma che diavol c'è egli? soggiunse, con accento mutato e balzando dalla
panca.--Qualche topo mi rosica la parete; forse per giungere al cacio.
Ma gliene caverò io il ruzzo, perdinci!--
Non c'erano topi, il lettore lo ha già indovinato; e il Picchiasodo,
dal canto suo, parlava in metafora.
Il Maso, tutto orecchi da un'ora ad ascoltare quell'importantissimo
dialogo, nello stupore onde lo avevano compreso certe inaspettate
rivelazioni, non era stato saldo abbastanza. Si aggiunga che il paggio
di Anselmo Campora non era più là, testimone del suo sonno simulato,
avendo dovuto allontanarsi un tratto per certe faccende del suo
ministero. Così, pensando di esser più libero e non ricordando che la
parete era un semplice tramezzo di assi, il Maso aveva provato a
rivoltarsi sulle reni, per accostar meglio l'orecchio; e il rumore lo
aveva tradito.
Si pentì dell'atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de'
suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè
Anselmo Campora s'era alzato da sedere ed accennava di voler uscire
dalla baracca. Ora il Maso fu pronto ad intendere che se il
Picchiasodo lo coglieva là dietro, anche in atteggiamento di chi
dorme, egli era un uomo spacciato. E intender ciò e pensare al
rimedio, fu un punto solo. Di colta fu in piedi, come se dentro ci
avesse avuto una molla; spiccò un salto da banda, indi un altro, a
guisa di scoiattolo, e trovato per sua ventura un carro di bagaglie,
si accoccolò dietro a questo, prima che il Picchiasodo fosse giunto
sul luogo d'onde gli era parso di sentire lo strepito.
Così fu salvo il mariuolo. Anselmo Campora venne dietro la capanna,
con quel suo cipiglio che non prometteva niente di buono; guardò tutto
in giro e non vide nessuno; svoltò la cantonata e si ricondusse
dall'altra parte fino all'ingresso della sua modesta abitazione, senza
vedere il prigioniero, nè il paggio.
--Che dire?--borbottò, stringendosi nelle spalle.--Avrò sognato ad
occhi aperti.
E tornò al suo colloquio col Sangonetto, che gli dovea premer di
molto, come il savio lettore argomenta.
Frattanto, il Maso ci avea avuto una gran battisoffia, che
l'allontanarsi del Picchiasodo non valse a chetargli d'un tratto. Però
stette lungamente nel suo nascondiglio; ci stette per ricogliere il
fiato ed anche un pochino per richiamare i pensieri a capitolo.
Non c'era da scherzare; egli, il Maso, umilissimo soldato, pur dianzi
ragazzo d'osteria, ci aveva in corpo un segreto da cui dipendeva la
sorte della sua terra. E non importa il dire che si trattava piuttosto
del marchese del Carretto e della sua discendenza; coteste distinzioni
il Maso non la conosceva, e se le avesse conosciute, di certo le
avrebbe lasciate ai curiali dei suo tempo, e ai politiconi di là da
venire.
Ora, che doveva egli fare? Svignarsela dal campo nemico, per dar
l'avviso nel Borgo? Questo era un punto difficile; ma il nostro
giovinotto non ci vedeva niente d'impossibile. Ci avrebbe pensato, e
al postutto, avrebbe tentato. Ma egli non poteva ancora pensarci; ma
egli non sapeva ancor tutto. Aveva capito che nel Borgo c'era una
fazione avversa ai signori del luogo e al proseguimento della guerra;
aveva capito che il Sangonetto e lo Sturlino, il Marchelli e il
Battaglia, il Giudice e il Valle, il Campi, il Cavazzola e il
Bardineto, congiuravano per dare la terra ai genovesi. Ma ciò non
bastava ancora. In che modo contavano essi di darla? Questo era il
busilli; questo bisognava sapere; e per saper questo bisognava tornare
laggiù contro l'assito della capanna, ad origliare la conversazione
del Sangonetto col Campora.
Come venirne a capo? A tornar là, ci risicava la vita; e questo
sarebbe stato il meno, per un ragazzo animoso com'egli, se, risicando
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Çirattagı - Castel Gavone: Storia del secolo XV - 14
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