Castel Gavone: Storia del secolo XV - 03

Süzlärneñ gomumi sanı 4626
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1756
39.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
54.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
61.6 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
uno sposo temuto, quegli che minacciava la guerra.
E l'aveva di grand'animo accettata il marchese.
--«Io ben so che me la farete,--aveva egli risposto,--se ciò che dite
pensate, e se più oltre su voi comanderanno i Fregosi. Così fosse la
puntaglia soltanto tra essi e me, che agevolmente la condurrei a buon
termine! Invero, aver guerra co' Genovesi mi duole; ma sappiatelo,
messeri; avrei caro il morire, anzichè far cosa veruna contro la
dignità del mio nome, e l'onore di buon cavaliere. Signore di Genova
era Filippo Maria Visconti, per propria dedizione dei cittadini; a lui
lecito di disporre a sua posta d'ogni possedimento di Genova. Egli mi
donò Castelfranco e Giustenice; nè di ciò, e molto meno della terza
parte del Finaro, mi tengo io debitore ai Genovesi. Credete il
contrario? Orbene, facciamo giudice del piato l'imperator de' Romani,
o il re di Francia, o l'Università degli studi di Bologna, o quella di
Pavia; venga da principe, o da collegio di giureconsulti, il giudizio
sarà legge per me. Niente farò io di Barnaba Adorno; intorno a ciò,
arrossisco di avervi a rispondere, più che voi di avermene a chiedere.
Ch'io manchi alla mia fede! Ch'io tradisca un prestantissimo uomo, qua
venuto a rifugio come in terra neutrale, e lo dia in mano a' suoi
nemici! Non lo sperate da me. Guerra minacciate; e sia; il cielo
provvederà. Voi questo rispondete al Consiglio: prima verrà meno a
Galeotto ogni altra cosa che l'animo.»--
Nobili parole, sebbene un genovese d'allora avrebbe potuto trovarci
alcuna cosa a ridire. Ben s'era commessa la Repubblica alla signorìa
del Visconti, ma per essere tutelata dalle intestine discordie, non
tradita a' suoi nemici; infine, scosso da dodici anni il giogo di lui,
doveva ripetere tutti i suoi diritti sugli altri, nè riconoscere
donazioni e larghezze del suo a coloro che, come appunto il marchese
del Finaro, si adoperavano sempre a' suoi danni. Ma di ciò non occorre
dir altro; che ad entrare nel pro e nel contro della ragion di stato
d'allora, si dovrebbe dare ad ognuno la sua parte di torto. Va in
quella voce notato che alla corte del marchese Galeotto piacque la
fiera risposta, e più assai che ad ogni altro, a Giacomo Pico, il
quale intravvedeva nella prossima lotta occasione di gloria.
Eppure, come già conosce il lettore, non la era anche finita colle
ambasciate. Dopo i due oratori della Repubblica, erano venuti Ladislao
Guinizzo e Francesco Caito, inviati di Giano, a chieder da capo
Nicolosina in moglie. Della dote mettevano questo patto: mandasse a
Genova messer Barnaba Adorno; da lui i Fregosi, come da nimico
prigione, avrebbero pigliato il riscatto di diecimila genovini d'oro,
che sarebbero andati in dote alla sposa.
A cosiffatta proposta, più che alla ostinatezza di Giano, si sdegnò
grandemente il marchese.
--Mi turba la dimanda,--rispose,--e peggio ancora, mi muove lo
stomaco. Tristo è Giano e tristo mi crede. A tal uomo, e di tali
nefandezze capace, io non sarei per concedere mai la figliuola mia,
anco se molto maggior dote le costituisse del suo.--
Così avevano avuto fine le pratiche celate presso il marchese. Ma ben
altro tentavano ancora i Fregosi presso il parentado di lui, per
rimuovere i Carretti delle Langhe dal proposito di aiutare il loro
consanguineo. Il quale, di certo, per assegnamento fatto su questi,
più che per fidanza vera nelle sue forze, mostrava animo tanto
deliberato a resistere.
Era in quel tempo tra tutti i signori Del Carretto come un patto
d'alleanza, per cui, se ad uno di loro si recasse alcun danno, a tutti
si reputasse ugualmente recato, e tutti avessero a mettersi in armi
per vendicare i torti di un solo. L'antica divisione dell'eredità di
Enrico Guercio in tre parti e le altre divisioni avvenute in processo
di tempo, che avevano di soverchio sminuzzate le forze di que'
discendenti d'Aleramo, chiarivano di per sè necessario quel patto di
famiglia. Dicevasi la lega dei Carretti; e invero, se fosse stata così
salda nel fatto come nella mente de' suoi fondatori, grandezza d'animo
dei collegati, fede provata dei popoli loro, copia di attinenze e
asprezza di luoghi, avrebbero potuto renderla formidabile alle difese.
Congregavasi la lega nella torre detta di Oddonino, presso la corte di
Millesimo. Capitano della lega era in quel mezzo il magnifico messere
Francesco, signor di Novelli, tra i Carretti d'allora il più innanzi
nella prudenza e negli anni. A lui n'andò Veneroso Doria, amico e
fautore dei Fregosi, come tutti gli altri del suo casato, e ottenuta
la presenza dei collegati, espose, in nome di tutti i Doria, la sua
ambasciata. Rammemorata l'antica amicizia delle due genti e i
maritaggi che tratto tratto erano sopraggiunti ad unirle in parentado,
non dubitò di noverare alcune recenti e vicendevoli offese. Colpevoli
i Doria di essere stati primi a molestare i Carretti; colpevoli
questi, nelle persone di due dei loro, Galeotto del Finaro e Giorgio
di Zuccarello, di aver mosso guerra e fatto devastazioni gravissime
nella valle di Oneglia, dominio amplissimo e rispettato dei Doria.
Questi, per altro, memori dei profferti appigli, aver comportato con
animo grande l'offesa; non così poter sofferire che Giorgio e Galeotto
s'ostinassero a tener come proprie le castella occupate. La Lega, se
aveva in alcun pregio l'amicizia dei Doria, comandasse la restituzione
del maltolto; se no, sarebbero stati costretti i Doria a procacciar
l'utile proprio e dare orecchio a' nemici dei Carretti, che fino a
quel punto non aveano voluto ascoltare.
Ponderavano i Carretti, siccome era naturale che facessero, le gravi
ragioni esposte da messer Veneroso. E Francesco, il vecchio capitano
della lega, avea già proposto di rispondere: niente amar meglio i
Carretti che vivere in pace coi Doria; non doversi ascrivere
l'invasione di quel d'Oneglia, nè a Galeotto del Finaro, nè a Giorgio
di Zuccarello, bensì ad espresso comando del signor di Milano, che a
tutti soprastava. Per altro, a dimostrar meglio l'animo loro alieno da
ogni litigio, come da ogni offesa ad amici e vicini, avrebbero
esplorata la mente del Visconti e fatto il poter loro perchè le
castella occupate nella valle d'Oneglia fossero restituite ai loro
signori.
Senonchè Galeotto, il quale scorgeva nella intromissione dei Doria un
artifizio del suo nemico inteso a sbigottirlo, volle si rispondesse in
altra maniera. Ricordino i Doria, disse egli, ricordino quanto abbiano
sovvenuto di consiglio e d'armi i Fregosi, allorquando Battista e
Spinetta, di questa gente, vennero sulla Pietra, per assediarmi e
impadronirsi di me. E il loro intento avrebbero essi raggiunto, se
l'invincibile Filippo Maria Visconti non avesse mandato in mio
soccorso messer Guido Torello, con grossa mano di cavalli e di fanti.
Ricordino i Doria come abbiano essi favoreggiato i Fregosi, nella
condotta di quel Baldazzo che lungamente guerreggiò il Finaro, e mancò
poco non mi desse in balìa de' miei giurati nemici. Mai furono rette
le intenzioni, mai schietti i diportamenti dei Doria verso di noi;
smettano dunque di ricordare l'antica benevolenza; ricordino piuttosto
l'antichissimo odio e il mal talento loro contro la nostra casata.
Nulla sperate da noi; date pure liberamente ascolto ai nemici; cotesto
vi tornerà per fermo più agevole e caro. Che cosa si stia macchinando
tra voi, ci è noto, o messeri. Ma tutto non v'andrà, come pensate, a
seconda; me prima torrete di vita che di animo.
In quella guisa fu risposto ai Genovesi. Ma eglino, o fosse per
guadagnar tempo, o perchè sperassero di smuovere dalla lega alcuno nei
Carretti, o finalmente perchè in tutto quel viavai d'ambasciatori
mirassero a pigliar cognizione dei luoghi e dello stato degli animi,
non si tennero paghi di quella risposta dettata dal marchese Galeotto,
e vollero averne l'intiero.
Però mandarono in volta a tutte le famiglie dei Carretti un altro
oratore, accortissimo uomo, che fu messere Ambrogio Senarega. Doveva
egli apertamente ricordare i vecchi diritti di Genova sulla terza
parte del Finaro, su Castelfranco e sulla terra di Giustenice, posta
ai confini occidentali del marchesato; chiedere che Giustenice e
Castelfranco fossero restituiti, e per la terza parte del Finaro si
riconoscesse Galeotto feudatario della repubblica; a ciò volesse la
lega persuaderlo, o, dove questi si ostinasse nel niego, abbandonar le
sue parti. Certamente, poi, doveva in privati colloqui scandagliare i
propositi e tentar la fede di tutti; che certo, e per antiche ruggini
e per essere eglino in troppi, non dovevano vivere in così calda
amicizia e comunanza d'interessi, come il fatto della lega mostrava.
Del resto, provvedessero, come stimavano meglio, all'utile loro; ma
ricordassero che Filippo Maria Visconti, protettore e amico a Galeotto
era morto, e Milano rivendicata in libertà non avrebbe spalleggiato i
nemici della repubblica genovese.
Anche in quella occasione la risposta della lega fu data da messer
Francesco di Novelli. A difesa di Galeotto si ricordava la donazione
di Filippo Maria; a discolpa di tutti i signori della lega si ripeteva
non aver essi altro desiderio che di vivere in pace e in amicizia con
Genova; del resto, avrebbero combattuto, se ella a ciò li astringeva,
e resistito con ogni lor possa; che bene dovevano essi andare in
soccorso di Galeotto, a cui erano stretti da vincoli d'alleanza e di
sangue.
Queste le parole; ma i fatti voleano esser diversi. La morte di
Filippo Maria Visconti improvvisamente avvenuta nell'agosto, e i
torbidi che n'eran seguiti in Lombardia, d'onde più speravano aiuto in
quel loro bisogno, avevano scosso la baldanza dei collegati marchesi.
Bene avevano mandato lettere e messaggi a tutti i signori circonvicini
per chieder consiglio e procacciarsi amicizie; ma in pari tempo (e qui
era da vedersi il frutto delle pratiche di Ambrogio Senarega)
disegnavano di mandare un oratore a Genova, per rabbonire i Fregosi.
Ora, vedete bel caso, quest'oratore fu bensì uno di loro, ma figliuolo
a Marco, signore di Osiglia, che tra tutti i collegati era il meno
amico a Galeotto e il più tiepido nei consigli di guerra.
Questi, che avea nome Abate, recatosi a Genova, mentre il Senarega
scendeva da Osiglia al Finaro per abboccarsi con Galeotto e far le
viste di raccomandargli la pace, mostrò ai Genovesi esser tra loro
discordi i signori della lega. Rammentò come suo padre Marco e un suo
cugino Gherardo di Santo Stefano, discendessero da quei due, Emanuele
ed Aleramo, che avevano venduto la loro terza parte del Finaro, e
come, nell'atto di volerla ricuperare, molti anni addietro, fossero
stati presi ed imprigionati dalla madre di Galeotto, ed avessero
perduto per giunta Calizzano; riandò tutte le vecchie ragioni
d'inimicizia che covavano in seno a quel parentado; lasciò intendere
come i Carretti avrebbero potuto, parte voltarsi contro, parte non
dare al congiunto quel valido aiuto che egli si prometteva da essi;
una sola cosa dimandò: che, frutto dei mutati consigli fosse a Marco
suo padre la ricuperazione del dominio perduto.
Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di
Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse.
L'orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne
senza tanti riguardi la pelle.
Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E
frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue
difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari
tempo di saper l'esito dell'ambasceria del figliuolo di Marco ai
Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di
Oddonino e alle altre castella de' principali tra' suoi consanguinei.
Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle
pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della
lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva
altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e
indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per
recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.
Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei
marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano
ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane
erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali
vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di
Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e
s'era in parecchie occasioni profferto all'amico, per servirlo, come
dicevasi allora, di coppa e di coltello.
E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore.
Si allontanava un tratto da madonna Nicolosina, ma, a ben guardare la
sostanza delle cose, per avvicinarsi di più alla meta de' suoi
desiderii. Diffatti, se la guerra inevitabile coi Genovesi mandava già
a monte un temuto matrimonio, quella importantissima ambasceria
commessa a lui dal marchese, ristringeva i vincoli dell'antica
dimestichezza, aggiungeva servizio a servizio, gratitudine a
gratitudine, dava esca e fondamento a più salde speranze. Al suo
ritorno, poi, utile al suo signore per delicatissimi negoziati, come
gli era stato caro per consuetudine antica e per aiuti personali, il
Bardineto avrebbe operato tali miracoli di valore da farsi armar
cavaliere sul campo e da meritare tal grazia appo i signori del
Finaro, che a lui si sarebbe conceduta Nicolosina, o a nessuno, fosse
pure conte, marchese, duca, o figlio di re.
Galeotto era ben lungi dal sospettare che nuova specie di fantasie
girasse per lo capo al suo antico donzello. Ad altro aveva egli la
mente: ai vassalli chiamati in armi da tutte le borgate; a due
compagnie di balestieri che avea tolte in condotta; alle lancie che
gli mancavano ancora; al suo tesoro, che di molto si sarebbe scemato,
e senza speranza di ricattarsene, anco vincendo la prova. Imperocchè,
quella era una guerra di difesa contro un potente nimico lontano, e,
per arricchire delle sue spoglie, sarebbe bisognato stravincere. Ora,
di stravincere, il marchese Galeotto non nutriva speranza per fermo.
Bene lo assicurava Barnaba Adorno, con gli altri fuorusciti di Genova,
ospiti suoi, che, tornata la fazione loro alla somma delle cose,
largamente sarebbe stato compensato di ogni suo danno; ma quella
fortuna era di là da venire e poteva anche restarsi per via; laddove
la guerra soprastava al Finaro, e quella lì non c'era speranza pur
troppo di allontanarla, nè sarebbe tornato a guadagno il tenerla in
sospeso.
Ma, per tornare a Giacomo Pico, che le centomila necessità del
racconto mi fanno ogni tanto lasciare in disparte, è da stringere in
poche parole che egli aveva sollecitamente adempiute, in quel modo che
poi si dirà, le incombenze a lui date, ed era di ritorno al Finaro due
settimane dopo la sua partenza, e proprio in quel giorno 26 novembre
dell'anno 1447. Il cuore gli battea forte nello avvicinarsi al
castello. Aveva veduto per pochi istanti Nicolosina, e gli era parsa
un'altra donna. Effetto naturale delle lontananze, anche brevi, da chi
siamo usi vedere ogni giorno, che ci si sente subito come stranieri
alla casa. E perchè poi? Perchè eravamo avvezzi a sapere ogni più
lieve atto, ogni più riposto pensamento dei nostri famigliari, e la
fragil catena di tutti quei preziosi nonnulla si è malamente spezzata.
Per altro, egli non era il momento di trattenersi su quelle frasche.
Mandò giù la ingrata sensazione di quel primo incontro con lei; la
ebbe anzi per una fisima del suo cervello ammalato, e si presentò al
marchese, per dargli ragguaglio della sua legazione. Tra le altre
cose, narrò come il figlio di Marco niente avesse ottenuto dai
Fregosi, e nemmanco fosse tornato da Genova; donde per avventura, si
poteva conchiudere che le speranze d'un accordo non fossero tuttavia
dileguate.
Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben
sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di
tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza
ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si
fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per
aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato,
tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed
alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da
credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor
conti. Questo era l'essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco,
così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva
Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o
per l'altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo
consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al
lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.
E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto,
sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano
gente. Da un momento all'altro, chi sa, potevano anche apparire i
primi scorridori dell'esercito nemico sulle alture della Briga, e
scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer
Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte
del suo messaggiero.
Il quale, d'ambasciatore rifattosi uomo d'armi in un subito, uscì dal
borgo, varcò il torrente dell'Aquila, e, per la via più spedita, che
s'inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene
asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio. E di là, attraversata
la valle di Pia, già era sulle mosse per risalire fino a Verzi, dove
stavano le prime vedette del Finaro, allorquando gli venne udito di
que' due cavalieri, che, provenienti dalla parte d'Isasco e delle
Magne (per dove correva la via maestra da Noli al marchesato) erano
discesi al guado della fiumana di Pia.
Argomentando che fossero avviati al Finaro, era corso dietro a loro.
Ma egli a piedi, e quei due a cavallo; nè aveva potuto raggiungerli.
Giunto a Castelfranco, li seppe andati oltre alla Marina; giunto alla
Marina, udì che aveano proseguito alla volta del Borgo. Andò al Borgo;
nessuna novella di loro. Erano dunque rimasti a mezza strada.
Così, pigliando lingua da ogni banda, aveva trovati i due forestieri
all'Altino e gli era occorso con mastro Bernardo quel dialogo
maledetto, che gli aveva a dar fumo di tante novità dolorose. In due
settimane di lontananza, madonna Nicolosina promessa ad un altro e
quest'altro già arrivato per farla sua! Ma, già; hanno il torto gli
assenti!


CAPITOLO III.
Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni, Tommaso
Sangonetto avrebbe potuto dar de' punti a Boezio.

Che torbidi pensieri menassero la ridda nel cervello di Giacomo Pico,
è più facile argomentare che dire. Chiunque ha fieramente patito per
amore, e per amore dispregiato o negletto, ci metta qualcosa dei suoi
ricordi particolari e di ciò che ha veduto, udito, o letto degli
altri; mescoli, aggiunga un pizzico d'acerbo, come l'hanno in gioventù
i caratteri chiusi, e dopo i trent'anni ogni nato di donna, e s'avrà
formato un concetto di quella stizza profonda in cui si crogiuolava lo
spirito del nostro innamorato.
Sconvolto, rabbioso, tormentato da cento pazzi disegni, aveva preso a
furia la strada del borgo ed era entrato per la porta di san Biagio.
La meta della sua corsa doveva essere a tramontana, verso l'erta su
cui torreggiava il castello; senonchè, giunto ad un crocicchio in
mezzo all'abitato, parve essersi pentito; poichè, fatto un gesto di
sdegno, svoltò rapidamente a sinistra e andò ad uscire da un'altra
porta, che metteva sulla strada di Calice.
Pervenuto colà e data una torva occhiata su in alto, dove non gli era
parso dicevole andare, varcò il ponte antichissimo che cavalcava il
torrente. Quel ponte era di costruzione romana, e in ogni altro caso
Giacomo Pico si sarebbe fermato, come spesso soleva, a contemplarne i
poderosi piloni, che da forse millequattrocent'anni sfidavano l'ira
del tempo e doveano sfidarla altri quattrocento di poi, per essere
divelti in quella vece da un capriccio degli uomini. Ma allora, e' non
li degnò neppur d'uno sguardo, e passato sull'altra sponda del Calice,
si avviò verso la ripida costa della montagna, con passo concitato e
gagliardo, come se volesse pigliare d'assalto la roccia dell'Aurera,
che ne incoronava la cima.
Salire al castello non aveva voluto; dal mezzo del ponte, lo aveva
anzi guardato a squarciasacco; tuttavia, non sapeva allontanarsene
troppo, e, risalendo la costiera di rincontro, non rifiniva di guatare
lassù, verso quel nido d'avvoltoi; che tale gli pareva in quel punto
il castello de' suoi signori. E dire che quelle mura gli pareano pur
dianzi un nido di colombe, e che egli, per tanti giorni lontano, tra
le feste, le oneste accoglienze e gli svaghi naturali del viaggio,
altro non aveva in mente, altro non desiderava che di tornare a quel
nido! Così facilmente mutano aspetto le cose ai nostri occhi, secondo
che porta l'amore o l'odio, la benevolenza o lo sdegno!
Il Bardineto si era fermato a metà dell'erta, colle braccia incrociate
sul petto e lo sguardo teso verso il castello, probabilmente divisando
nell'animo tutti i particolari dell'arrivo del Cascherano, le cortesie
del suocero, gli amabili rossori della sposa e i lieti conversari
della nobile brigata, allorquando gli venne udito poco lunge uno
stormire di frasche, come per guizzar di ramarro attraverso i
cespugli.
Si volse in soprassalto, confuso e scontento, a guisa di chi si trovi
colto in mal punto. Diffatti, egli non era un ramarro, nè altro
animale che striscia per terra, il turbatore della sua pensosa
solitudine; e bene glielo avevano indicato per un suo simile certe
risa sguaiate che accompagnavano il repentino fruscìo.
Quegli che rideva in tal guisa era un uomo di fresca età, sebbene il
volto avvizzito e di fattezze non belle, nè brutte, ma semplicemente
volgari, potesse farlo apparire più presso ai confini della maturità
che non a quelli della beata giovinezza. Indossava un farsetto di
ruvido cuoio; portava la berretta alla scapestrata, come a dire sulle
ventitrè ore e tre quarti, un coltellaccio a fianco, e sulle spalle un
archibugio, specie di balestro da caccia, per la cui canna si faceva
scattare, a forza d'arco, una pallottola, od un sassolino.
Il Bardineto, che a prima giunta avea fatto quella faccia scontenta,
si rabbonì, com'ebbe raffigurato quell'altro.
--Tommaso!--esclamò egli.--Sei tu?
--Io, non altri, perdiana! E tu probabilmente sei Giacomo Pico,
marchese di Bardineto, e d'altre castella nel paese dei sogni?
--Sì, canzonami, lingua tabana! Così foss'io marchese, o conte, da
senno:
--Eh, eh!--soggiunse l'altro ridendo.--Sulla strada ci sei. Co'
marchesi e coi conti ci bazzichi la tua parte, e saprai che chi va col
lupo.... A proposito di lupi, io ti facevo ancora di là dai monti.

--Son tornato stamane.
--Con che aria lo dici! e con che sospirone di rincalzo!--esclamò
Tommaso, tirandosi indietro in atto di meraviglia.
Il Bardineto, che già s'era padroneggiato oltre le forze, si lasciò
cadere sulla sporgenza d'un masso che ingombrava mezza la strada, e si
nascose il volto tra le palme, tentando di soffocare un singhiozzo.
--Tommaso mio,--gridò egli,--così non fossi tornato!--
L'amico stette immobile un tratto a guardarlo; quindi posò
l'archibugio e andò a sederglisi gravemente da lato.
--Ah, ah! c'è del grosso in aria!....--diss'egli.--Giacomo, vuoi tu
dirmi che hai? ma chetati, perdiana! Non sei più un bambino da latte.
Lascia pianger le donne, che piangono spesso, perchè piangono bene.
--Tu ridi!--notò amaramente il Bardineto crollando il capo e traendo
un altro sospiro dal profondo del petto.
--Ma sì, rido;--rispose quell'altro, scaldandosi;--rido, come ha
sempre riso Tommaso Sangonetto, e come riderà fino all'ultimo, perchè
niente c'è al mondo che meriti d'esser pigliato sul sodo. E riderò di
te, fino a tanto non m'avrai dimostrato.... Ma già, che potresti tu
dirmi di nuovo! Io t'ho capito e da un pezzo; ella non t'ama.--
Il Bardineto trasaltò.
--Chi, ella? E come sai tu?
--Sicuro, non ho da saper nulla, io, quando tutti ne sanno e ne
parlano! O dimmi, per chi ci hai pigliati? che un marito, od un padre,
sia l'ultimo ad avvedersi, ed anco non si avveda mai più, concedo; ma
gli altri... eh, via! dovrebbero esser ciechi dalla nascita. Come se,
alla tua età, il non cercar donna alcuna tra le tue pari, il fuggire
ogni occasione di sollazzo, lo starti poi sempre ristretto ai fianchi
di quella gente lassù (c'intendiamo!), non fossero già segni bastanti!
Ah, vedi? chini la fronte; capisci anche tu che tutto il paese ha fumo
delle tue ambizioni?
--Tutto il paese!--ripetè Giacomo Pico sgomentito.--E adesso....
--E adesso... lo so anch'io; siamo in un ronco, e la è dura di dover
dare indietro, al cospetto di tutti. Ma infine, non sarai tu il primo
a cui è capitato il somigliante. Papi e imperatori, principi e
capitani ti offre la storia in buon dato, che hanno dovuto, un giorno
della lor vita, appender la voglia all'arpione. E non si son mica
guastati il sangue per così poco; hanno aspettato la volta loro, ed
hanno messa a più certo segno la mira. Impara anche tu; lascia di
trarre in arcata e lontano; mira da vicino e traggi di punto in
bianco; è buon colpo. Fa a modo mio, Giacomo, e non avrai sopraccapi.
Sai donde vengo? Da caccia, ti dirà l'archibugio; ma, in fede mia, non
ho tirato nemmanco a uno scricciolo. Vengo dalla Nena di Verezzi. Ma
già, tu non la conosci, ed hai torto. Una forosetta, un bel tocco di
donna, che non ha la compagna in tutto il marchesato, e cui non piace
la sputi. Ruvida di modi, non nego, e manesca anzi che no; gli è il
suo diletto. Le ho fatto una carezza e m'ha reso un urtone; son caduto
ad arte, ella su me e siamo ruzzolati ambidue. Ah! ah! se per fortuna
non ci tratteneva un letto di timo, si tombolava giù giù fino alle
Arene candide.--
E fatto questo discorso, Tommaso Sangonetto si cacciò a ridere
sgangheratamente. Aveva ragione, poichè doveva ridere per due.
--Tommaso!--esclamò il Bardineto, con accento di rimprovero.--E tu
puoi mettere il capo in questi amorazzi volgari?
--Ma sì! ma sì!--rispose l'altro con impeto.--Del resto, che intendi
tu per amorazzi volgari? Volgo è quantità; e nel numero, lo capisco,
ci si trova del buono e del gramo. Ma sappi, chi la guarda in ogni
penna non farà mai nido, come chi guarda ad ogni nuvolo non farà mai
viaggio. Così dicono i vecchi. A che si tende, poi? che si vuole? Io
vado senz'altro alla meta e per la strada più corta; magàri ci fosse
un tragetto! A fartela breve, non vo' moccicose, nè superbiose, nè
schizzinose, nè altrimenti noiose, le quali mi diano pastocchie,
speranze ed erba trastulla.
--Ma quali donne son dunque le tue!
--Eh via, quali donne! Son tutte compagne. Lisciate, contigiate,
razzimate, il più delle volte t'ingannano; le hai per fior di farina,
e gran mercè se alla seconda stacciata riescono a darti cruschello.
Quali donne! dirò io delle tue. Bada a me, Giacobino; le mie non hanno
tante trappolerie; rustiche sono e male ad arnese; ma egli c'è questo
di buono, che il vino non mente all'insegna e tu non resti gabbato
nella bontà della merce.
--Sarà;--disse il Bardineto, per metter fine al discorso.
Ma il Sangonetto era in vena, e proseguiva.
--Eh, già, capisco; a te quella superba ha fatto dar volta al
cervello.--
Giacomo Pico scosse il capo in atto d'impazienza.
--E non la perdi di vista, a quel che pare!--incalzò il
Sangonetto.--Tu guardi sempre lassù.
--Tommaso!--proruppe scorrucciato quell'altro,--Per l'anima di....
--Orbene!--ripiccò Tommaso, alzando la voce a sua volta.--Chiama i
morti dallo inferno e i santi del paradiso, fin che ti piace. Io ti
amo, non so perchè; vedo che soffri; sono il tuo medico e ti curo a
modo mio. Sapevo il tuo segreto; e metti pure che io non dovessi
saperlo, nè altri; tu stesso me lo hai sciorinato poc'anzi. Ed ora, io
non ti ho domandato che cosa tu sperassi per lo addietro da lei: ti
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Çirattagı - Castel Gavone: Storia del secolo XV - 04
  • Büleklär
  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 01
    Süzlärneñ gomumi sanı 4507
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1806
    36.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.8 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4566
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1698
    38.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 03
    Süzlärneñ gomumi sanı 4626
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1756
    39.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 04
    Süzlärneñ gomumi sanı 4753
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1759
    36.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 05
    Süzlärneñ gomumi sanı 4471
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1637
    37.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 06
    Süzlärneñ gomumi sanı 4496
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1773
    36.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 07
    Süzlärneñ gomumi sanı 4480
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1781
    35.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 08
    Süzlärneñ gomumi sanı 4570
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1733
    39.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    53.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 09
    Süzlärneñ gomumi sanı 4556
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1704
    40.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    64.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4595
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1782
    39.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    62.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 11
    Süzlärneñ gomumi sanı 4596
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1851
    37.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    60.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 12
    Süzlärneñ gomumi sanı 4566
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1753
    39.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 13
    Süzlärneñ gomumi sanı 4551
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1661
    38.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 14
    Süzlärneñ gomumi sanı 4593
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1699
    38.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 15
    Süzlärneñ gomumi sanı 4506
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1698
    39.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    62.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 16
    Süzlärneñ gomumi sanı 4578
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1785
    35.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 17
    Süzlärneñ gomumi sanı 4505
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1773
    37.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Castel Gavone: Storia del secolo XV - 18
    Süzlärneñ gomumi sanı 2298
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1061
    44.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.