Il Libro Nero - 11

Süzlärneñ gomumi sanı 3256
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Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Quella povera tonaca era proprio inzuppata degli umori di Bacco, e tra
pel vino e pel grasso delle vivande che ogni giorno le sgocciolava su,
s’era coperta di frittelle. A cagione delle quali, e degli occhi sempre
luccicanti come carbonchi, e del naso bitorzoluto che appariva sempre
rosso come un peperone maturo, i famigli, già rotti allo spropositare
latino, solevano chiamarlo col nome di _Pater Vinosus_; nè egli mostrava
adirarsene.
D’altra parte, il corruccio non gli sarebbe tornato a vantaggio; che
anzi!... Avete a sapere che frate Gualdo, di giorno, alla luce del sole,
ci aveva un cuor di leone, ma alla sera, e segnatamente a notte
inoltrata, diventava un coniglio. Però suonata l’avemmaria, incominciava
a bere per quattro; chiamava al simposio i famigli; li teneva a bada con
cento chiacchere e con versate continue; poi, quando fosse ben cotto,
era portato di peso nella sua stanza e issato a gran forza di braccia
nel letto. Nè permetteva che lo lasciassero subito; voleva che stessero
un tratto in preghiera con lui, alternando le sorsate co’ paternostri, e
finalmente si addormentava, dicendo loro:
— _Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem!_
Cotesto farà intendere ai lettori che paura s’avesse in corpo fra Gualdo
la sera del 29 novembre. La tempesta s’era proprio tutta addensata su
Roccamàla. Per le ampie finestre era un lampeggiare continuo; il tuono
assordava; e’ pareva l’inferno scatenato, alla distruzione del castello.
Il pazzo stava immobile accanto ad una finestra e sembrava non addarsi
di nulla, nè della tempesta che incalzava di fuori, nè del tramestìo di
allegrezza e di spavento che regnava dentro la sala.
Lo spavento era del monaco, che biascicava testi latini ad ogni guizzo
di lampo; l’allegrezza era dei famigli, che cioncavano alla sua salute e
gli davano la baia.
— Reverendissimo _pater Vinosus_, o perchè non bevete? — gridava il capo
degli arcieri, che i nostri lettori rammenteranno ancora, per un certo
suo dialogo con mastro Benedicite sul principio di questa storia. —
_Vinum bonum laetificat cor hominis_.
— Ah sì! egli c’è altro da pensare in questi momenti — rispondeva il
monaco. — Pregare bisogna, pregare che Domineddio ci abbia in custodia.
Siete eretici, voi altri?
— Che dimanda, _pater Vinosus_! — entrò a dire un altro della brigata.
Noi siamo tutti credenti; non è egli vero, Guercio?
— Sicuro! — rispose quegli ch’era stato chiamato in causa con quel nome
e che ben lo meritava, a cagione di un occhio assente. — Io sono
credente come il patriarca Noè, buon’anima sua. Nel buon vino ho fede, e
credo che sia salvo chi ci crede.
— _Optime! optime!_ come dice il nostro fra Gualdo, quando è di buon
umore.
— A proposito! — soggiunse un altro. — Fra Gualdo, quando è di buon
umore, ci canta un certo salmo....
— Ah sì, un inno della Chiesa! Io lo so per filo e per segno, e se vi
garba....
— Figliuoli! figliuoli! — interruppe fra Gualdo, che stava come
rannicchiato nel mezzo. — Non mettete in tavola le marachelle di un
povero peccatore, il quale ora ne domanda perdonanza a Dio. Pregate,
pregate per voi e per lui! Ah! _Domine salvum fac servum tuum!_ —
Le interiezioni e il testo latino del monaco erano cagionati da uno
scroscio di folgore, che, a giudicarne dalla simultaneità del lampo e
del tuono, doveva aver dato lì presso, sull’erta della rocca. Il pauroso
s’era fatto bianco nel volto come un cencio lavato; le sue mani avevano
esclusivamente afferrato uno dei famigli che gli stava vicino.
— Coraggio, _pater Vinosus_, coraggio! Gli è nulla.... un tuono più
asciutto degli altri.... Suvvia, bevete questo cordiale, che vi
rimetterà un po’ di sangue nelle vene.
— Sì, figli miei, forse avete ragione; date qua!
— Oh! così va bene. E adesso mandate giù quest’altro; _repetita....
repetita...._ O come dite voi che non me ne ricordo più?
— _Repetita juvant_, — soggiunse il monaco. — Sì, veramente, io penso
che mi faccia bene.
— Bevete dunque, e state di buon animo!
Rinfrancato da quelle chiacchiere e dal vin di Cipro, fra Gualdo
incominciava a respirare. La tempesta di fuori pareva anche rimettere un
tratto della sua furia. L’allegrezza della brigata cresceva, e il nostro
pauroso frate non si scandolezzò punto, quando il capo degli arcieri
intuonò l’inno che egli aveva insegnato.
— _Ave color vini clari!_
_Ave sapor sine pari!_
_Tua nos inebriari_
_Digneris potentia._ —
E tutti in coro, seguendo il ritmo e imitando la voce nasale del sacro
cantore, ripeterono il ritornello:
_Tua nos inebriari_
_Digneris potentia._
— La seconda strofa! la seconda strofa, Tebaldo!
— Riempite le ciòtole e ci vengo:
_Primum gotum bibe totum!_
_Ad secundum vide fundum!_
_Tertium erit sicut primum;_
_Et sic semper bibe vinum._
— E adesso, figliuoli, tutti in coro, da bravi!
_Bibitores exultemus_
_Vinum bonum quod habemus;_
_Adaquantes condemnemus_
_In æternam tristitiam._
— _Amen!_ — cantò istintivamente fra Gualdo.
E tutti a ridere sgangheratamente, in quella che il loro Sileno vuotava
d’un fiato la ciòtola.
— Sì, figli miei, state allegri; lo raccomanda anche il Salmista:
_servite Domino in lætitia_. In fondo in fondo, che cos’è il vino? Una
orrevol bevanda, che al figlio di Dio, sceso in terra per le nostre
peccata, non dispiacque di assumere a simbolo del suo santissimo sangue.
Beviamo dunque, e adoriamo i decreti della divina provvidenza. Tebaldo,
riempitemi la tazza! —
Il capo degli arcieri fu sollecito ad obbedirlo. Ma in quella che fra
Gualdo stava per accostar la ciòtola alle labbra, il pazzo mise un grido
acuto, che gliela fece rovesciar sulla tonaca.
— Che è stato? — diss’egli, alzandosi a stento per andare verso la
finestra. — Messere Anacleto, che avete voi ora?
— Ah! — gridò il pazzo, con le braccia tese e gli occhi sbarrati. — Non
vedete voi? —
E accennava fuori della finestra.
— Ma che? ma dove? — dimandò il monaco. — Io vedo i lampi che solcano
l’aria e abbarbagliano la vista. Non temete, messere Anacleto, io
reciterò la preghiera contro la tempesta. _Domine Jesu qui imperasti
ventis et mari, et facta fuit tranquillitas magna, exaudi preces familiæ
tuæ, et præsta ut, hoc signo sanctæ crucis, omnis discedat sævitia
tempestatum_.
— No la tempesta! no la tempesta! — gridava il pazzo. — Vedete, vedete,
là nella torre! Ah, egli è là dentro, lo spirito punitore!... —
Guidato dalle parole di Benedicite, fra Gualdo aguzzò gli occhi verso la
torre, e nell’intervallo di due lampi, vide la finestra del Negromante
illuminata d’una luce rossastra.
Anche i famigli erano corsi ai veroni, per vedere che fosse che metteva
tanto spavento al castellano.
— To’! — disse Tebaldo, — C’è lume nella torre.
— Gli è un brutto segno! — sclamò un altro.
— Baie, di tanto in tanto lo si vede, e il mondo non si muta per ciò.
— No, ti dico; sono anni ed anni che il prodigio non si è più ripetuto.
È l’anima del vecchio conte che viene a visitar casa sua, e ogni qual
volta ci viene, una disgrazia accade in Roccamàla.
— Raccontale a’ tuoi bambini.... quando ne avrai!
— Ma vedi, vedi quella ombra nera che passa in mezzo alla luce!
— Sì, e che perciò? Adesso andremo a vedere che diavol c’è. Il
bernardone sa a menadito tutte le formole per cacciare i demonii, e la
faremo finita con questo. Ohè, _pater Vinosus_!
— Che dite, voi, Tebaldo?
— Che noi si va alla torre, e che voi ci avete a venire in compagnia,
per dire una parolina a questo spirito, il quale si piglia spasso de’
fatti nostri.
— Che vi salta in mente, figliuol mio? Andare alla torre....
— O che volete che faccia a voi il demonio, se pure gli è un demonio e
non un capo scarico che ha voglia di ridere? Voi portate la tonaca del
glorioso san Bernardo, e i diavoli hanno paura di essa come dell’acqua
santa.
— Non dico di no.... Ma adesso, in verità....
— Suvvia! suvvia! Che peccati vi pesano sull’anima, che avete più paura
di noi? —
Con queste e con altre simiglianti esortazioni, e meglio ancora,
mandandolo innanzi a furia di spintoni, gli avvinazzati arcieri
condussero il frate nel corridoio che metteva alla torre. Il povero
Sileno tremava a verghe; un sudor freddo gli sgocciolava dalla fronte
giù per le gote paffute; e tra spinte e sponte andava pure innanzi,
facendo crocioni in aria, l’un dopo l’altro, e borbottando parole
latine.
Giunto a poca distanza dalla porta temuta, si fermò, e tirandosi a
fianco qualchedun altro, disse alla brigata:
— O non vedete, figli miei? L’uscio è aperto.
— Tanto meglio! — rispose Tebaldo. — Segno che qualcuno c’è entrato, od
è uscito.
— Ma vedete! c’è lume!
— Che novità! Una lucerna accesa; ecco il grande prodigio che vi fa
tremare così. Io metto pegno che sarà qualche sguattero, il quale avrà
portato quassù i suoi amori di cucina, e adesso, udito il nostro
avvicinarsi, avrà scantonato. Ma noi gli metteremo le mani addosso, e
voi, _Pater Vinosus_, li congiungerete debitamente _in facie Ecclesiæ_,
perchè non si dia scandalo alla comunità. —
Una risata universale accolse l’arguzia dell’arciero.
— Avanti, fra Gualdo, avanti, e benedite gli sposi!
— _Adjuro te, Satana...._ — borbottava intanto il povero monaco, già più
morto che vivo.
— Suvvia, l’uscio è questo, e non dalla parete... —
Fra Gualdo, come il lettore avrà indovinato, voleva entrare in compagnia
di qualchedun altro; però rallentava il passo e si tirava da un lato. Ma
un ultimo spintone di que’ capi scarichi gli fece, a suo malgrado,
varcare la soglia.
— Ah! — gridò egli; e fu l’ultimo grido.
Ma la gaia brigata non lo intese; esso andò perduto in un lampo, in un
rombo, in un frastuono, in un polverio, che fecero balzare indietro e
cader tramortiti gli arcieri.
Quando si riebbero, un gran vuoto era dinanzi a loro; i lampi,
rischiarando l’aria, mostrarono il vasto cielo nuvoloso. La torre del
Negromante s’era inabissata, e fra Gualdo, il malo consigliero di mastro
Benedicite, si era sprofondato con essa.


CAPITOLO XX.

Come espiasse il suo fallo la dama di Torrespina.
Povera donna! Bene avea detto Ugo, la notte che fu di sua morte,
pensando ai dolori che le erano serbati.
Povera donna! Tutto ciò che Helel avea presagito di lei, era pure
avvenuto. Il morir subito, dopo ciò che ella seppe, le sarebbe stato
ventura.
Che cuore fu il suo, come rimase di sasso, allorquando Fiordaliso si
scusò a lei del non essere salito al ritrovo, il lettore potrà
indovinare, non io per fermo descrivere. E colui che aveva scalato il
verone? Non aveva egli il volto, la persona, i modi tutti del giovine
trovatore? Poteva ella forse ingannarsi?
Ma il suo stupore divenne terrore, allorquando Fiordaliso, stretto dalle
sue dimande, soggiogato dalla sua ansietà, ebbe a narrarle dell’incontro
notturno, dello spirito malvagio e del cavaliero sconosciuto che gli
stava daccanto. Chi era costui? Se lo infausto pellegrino di Roccamàla
era tornato, il cavaliero sconosciuto non poteva esser altri che Ugo,
venuto ai suoi danni, orrenda visione, dal regno della morte.
A mutare il dubbio in certezza, giunse due giorni di poi una paurosa
novella. Il fulmine aveva distrutto la torre del Negromante in
Roccamàla, facendola precipitar nel torrente. I messaggieri
raccontavano, coi capegli ritti sul fronte e colla voce tremante, i
particolari della luce rossastra che i famigli del castello avevano
veduta apparire dal luogo maledetto, e come fosse fatto uno scongiuro, e
come nella rovina della torre fosse perito fra Gualdo. I monaci del
vicino convento erano andati il giorno appresso a rovistar le macerie
per disseppellire il compagno. E l’avevano rinvenuto, orrendamente
sfracellato, per modo che soltanto dai brandelli della tonaca s’era
potuto chiarire chi egli fosse. Ma in quel mezzo (cosa da far
raccapriccio!) i pietosi cisterciensi avevano trovato altresì il corpo
d’un giovine cavaliero, che fu da tutti agevolmente riconosciuto per
Ugo, conte di Roccamàla, morto e sepolto sei anni innanzi, da un altro
lato del castello. Quel cadavere era fresco ed intatto; soltanto
mostrava una cicatrice, quasi un marchio rosso, nel mezzo della fronte.
Cotesto aveva grandemente turbati gli animi dei vassalli della rocca. A
tutti allora era sovvenuto della notte del 29 novembre, di sei anni
innanzi, e della ospitalità concessa al maledetto romèo. Andati
incontanente alla tomba di Ugo, l’avevano scoperchiata: era vuota!
Impossibile il dubitare più oltre; quel cadavere fresco ed intatto era
del conte Ugo. Un nuovo arcano recava la spiegazione del primo.
Ma dov’era stato per sei anni, e che cosa avea fatto il conte redivivo?
Questa era la dimanda che tutti facevano. Fu allora che Enrico
Corradengo venne fuori con una storia che mai fino a quel giorno aveva
ardito narrare. Ansaldo di Leuca era vissuto pochi istanti ancora, dopo
la partenza dei due vincitori dalla quercia di Marenda, ed egli aveva
raccolto le sue ultime parole, nelle quali il nome di Morello era
alternato col nome di Ugo di Roccamàla, come se il morente volesse dire
di aver ravvisato l’estinto Ugo nel volto del vincitore, quando s’era
inginocchiato su lui, per dargli il colpo della misericordia. Egli,
Corradengo, l’aveva creduta sempre una ubbìa di Ansaldo, l’effetto di
una allucinazione dell’agonìa, epperò non ne aveva mai fatto parola ad
alcuno. Ora intendeva ogni cosa; e come fosse stato ucciso Ansaldo, e
come egli, Corradengo, il forte Corradengo, avesse potuto esser vinto e
beffato da un Rambaldo di Verrùa. Quello era un giuoco infernale, la
vendetta di uno spirito.
Dopo queste novelle, era venuta in campo la pazzia del vecchio
strozziere; la storia del cavaliero di Lamagna, che, comparso una volta,
non era più tornato a ripetere il suo; il falso frate che, dopo avere
straziato co’ rimorsi il cuore di Benedicite, si era dileguato
ghignando, e simili altre novità che poco lume avrebbero potuto recare
da sole, ma che unite, disposte intorno ad un fatto, lo rischiaravano in
ogni sua parte e ne faceano balzar fuori il concetto recondito.
Dolorosa, senza fine dolorosa, fu nella mente di quella povera donna la
ricostruzione del passato, operata a stento con tutti que’ particolari
che giungeva tratto tratto a risapere. Che significavano tutte quelle
vendette? Perchè Ugo il felice aveva eletto di finire a quel modo? La
leggenda di Roccamàla, da lui reputata uno spauracchio d’anime volgari,
era dunque vera? Lo spirito familiare del Negromante era venuto, e gli
aveva fatto scorgere la vanità d’ogni cosa? Tutti coloro che la sua
collera avea colpiti, tutti avevano obliato l’estinto. Ella stessa!...
Il falso Morello.... Il falso Fiordaliso.... Già col primo infedele,
sebbene nel pensiero, alla memoria dell’estinto, ella aveva ceduto al
secondo!... Lo spirito esacerbato era stato mai sempre daccanto a lei;
aveva vuotata a lenti sorsi la coppa del suo disinganno.
Così guidata da un tenue filo, ella avea indovinato, quantunque
imperfettamente, ogni cosa. E ricordava allora le amare voluttà di una
notte d’amore, certi sospiri, certe occhiate malinconiche
dell’innamorato, che parea sopraffatto dalla sua medesima felicità;
com’egli la stringesse forte nelle sue braccia, quasi volesse
soffocarla, come si dimostrasse tenero, come tremasse all’avvicinarsi
dell’alba. Ah, ma se ad Ansaldo di Leuca, all’amico traditore, egli si
era fatto scorgere nell’ultima stretta, perchè a lei pure non s’era
mostrato? Perchè non l’aveva uccisa allora, nel suo ultimo amplesso?
Qual pietà era mai quella, che la condannava a struggersi lentamente di
terrore, di rimorso e di vergogna?
Povera donna! povera donna! Sentirsi morire, e dover dissimulare la sua
agonia al cospetto della sua gente, del marito e degli ospiti! Sapersi
colpevole verso due, scorgersi involta in una trama mezzo umana e mezzo
infernale, era un supplizio orribile ch’ella non potea a lungo durare.
Versò la piena delle sue angoscie a’ piedi d’un santo monaco. Frate
Alberto era santo perchè umile; la sua mente non era ricca d’ingegno, ma
il suo cuore aveva tesori di pietà, e le sue labbra spandevano sulle
ferite i balsami del perdono. Il povero vecchio udì quel lungo e
doloroso racconto, tremò tutto e vide a quante orribili prove fosse
dannata la creatura; levò gli occhi al cielo, adorò l’ignoto,
l’incomprensibile, e assolse quella donna, a gran pezza più infelice che
rea.
Quasi sarebbe inutile il dire che il biondo Fiordaliso, fallita la prima
occasione, non ottenne più il farmaco invocato al suo male d’amore. E’
lo portò altrove, farfalla vagabonda, il suo male, e parve aver trovato
un farmaco in Provenza, alla corte del Poggio. Ma il suo risanamento non
piacque al marito della gentil medichessa; il volto del biondo trovatore
fu orridamente sfregiato, e insieme con la bellezza andò la fortuna. Il
paggio infedele di Ugo, diventato un vile borsiere, morì di mala morte,
dopo aver trascinata una lunga ed ignominiosa vita, non di castello in
castello, ma di tugurio in tugurio.
Madonna Giovanna rimase in vita, ma peggio che morta. Ella aveva
apparenza di spettro, anziché di creatura vivente. La morte di messer
Corrado, avvenuta qualche anno di poi, la sollevò del peso di mentire e
le diede agio a struggersi in pace. Era tempo!
Ella comperò da Anselmo, rimasto erede di Benedicite che s’era spento in
silenzio, la signoria di Roccamàla, e colà si ridusse a vivere, dopo
aver ceduto il manièro e le ville di Torrespina ad un congiunto del
marito. Aveva i capegli bianchi come neve; la persona pareva una statua
di cera, che si muovesse per sottile artifizio d’ordigni nascosti. Per
tutti i paesi circonvicini, nei quali ella spendeva ogni suo avere in
limosine ai poverelli ed alle più bisognose famiglie, era chiamata la
Santa di Roccamàla.
La sera del 29 novembre dell’anno 1295 aveva termine il suo martirio
sulla terra. La notte innanzi ella aveva avuto una visione, la prima
dopo cinque anni che recasse qualche sollievo alla sua anima
travagliata. Ugo, il diletto Ugo, le era apparso, le avea perdonato, e
la chiamava con sè. Svegliatasi, le parve di sentirsi meglio; passeggiò
a lungo per la collina; sorrise e diè la mano da baciare a tutti i
vassalli che s’abbattevano in lei e si ponevano ginocchioni sul
passaggio della santa. La sera si recò a pregare presso la tomba di Ugo;
la mattina vegnente vi fu trovata morta, distesa supina, le mani giunte,
come esemplare all’artefice che doveva effigiarla sul sarcofago a lei
preparato sotto la medesima vôlta.
Roccamàla, per suo testamento, convertita in monastero, durò ancora tre
secoli; poi cadde, come tutto cade quaggiù, sotto i colpi del tempo e
delle umane vicende. Di presente ell’è un ammasso di rovine, neppur
visitato da’ viaggiatori eruditi, poichè non si trova sulla via consueta
di Firenze, o di Roma, e gli italiani conoscono a menadito i castelli
del Reno, sanno ogni leggenda delle montagne svizzere, ma non si danno
un pensiero al mondo delle antichità, nè delle memorie paesane.
Cotesto è forse pel loro meglio; imperocchè, fatti più dimestici con le
antiche storie e con le forti schiatte vissute prima di loro, avrebbero
troppa ragione di arrossire.
Me i casi della giovinezza, più che curiosità d’antiquario, condussero a
quelle, come a tant’altre rovine di castelli vicini. Il signore di que’
luoghi, che è il marchese di Ponzone (non si dolga l’ottimo gentiluomo
che io scriva il suo nome e paghi un tributo di lode alla sua cortesia
co’ vivi ed al suo rispetto pei trapassati), ha con imitabile esempio
fatto restaurare quanto più si poteva dell’antico manièro, dando onorato
luogo alle lapidi sparse, e facendo un ossario di tutte le umane
reliquie male sepolte qua e là sotto le macerie.
Ho letto, non tutte bene, poiché ve n’ha di assai guaste, le iscrizioni
sepolcrali di Roccamàla. Eccovi questa, che era la più grande tra tutte,
scolpita in caratteri gotici, la quale fa fede della barbara latinità
monastica del secolo XIII:
_Postquam lux abiit vigesima nona novembris,_
_Mille ducentis quinque et nonaginta peractis_
_Annis a Christo, tumulo requiescit in isto_
_Mente pia cunctis praestans comitissa Joanna_
_Quae potuit dici tamquam sine labe Susanna._
_Praeteriit sed non obiit; Deus ille deorum_
_Hanc rapuit simul et statuit super astra polorum._

FINE.
————
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    57.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4593
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1823
    33.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    47.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 11
    Süzlärneñ gomumi sanı 3256
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1399
    37.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    59.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.