Il Libro Nero - 09

Süzlärneñ gomumi sanı 4478
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1765
35.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
49.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
57.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
— Sì, orbene.... Lasciatemi, _pater reverendissime_, non mi state
dinanzi; sono tranquillo, non ho più nulla.... Ah, così va bene. Diteci
dunque, messer cavaliero, chi siete voi?...
— Ah! — rispose quegli, sorridendo. — Di qui avevate a cominciare, e non
vi sareste guastato il sangue.... prima del tempo. Io sono il conte di
Roccamàla. —
Come si rimanesse il conte posticcio a quella improvvisa dichiarazione,
argomenti il lettore. Io dirò solamente che egli sentì traballarsi sotto
le membra la sua scranna feudale, e s’aggrappò forte ai bracciuoli, come
per sostenerla. Passato quel lampo di stupore e di paura, si provò a
ridere; ma le labbra sole si mossero e fecero una brutta smorfia; il
riso non venne dal cuore.
— Ah, ah! il conte di Roccamàla! Questa è nuova di zecca.... E per ciò
appunto vi siete partito da casa vostra?
— Messere, — disse l’altro senza scomporsi, — questa pergamena vi farà
fede dell’esser mio. Mi chiamo Ulrico di Roccamàla, e son figlio ad
Ottone, il fratello minore di Ruberto il taciturno. Questa è la
genealogia de’ miei maggiori, che potrete raffrontare a quella del
castello, la quale il mio cugino Ugo non avrà certamente portata seco
sotterra. Che ne pensate voi?
— Penso.... penso.... che tutto ciò è mirabilmente trovato, ma che non
m’importa un frullo. Le pergamene si possono scrivere....
— _Sane!_ — interruppe fra Gualdo, in quella che prendeva a sua volta
dalle mani del suo vecchio sozio la pergamena di Ulrico. — Le pergamene
hanno questo pregio singolare, che esse non si richiamano mai delle
bugie che il tornaconto umano ci scrive. Ma, se questo è per avventura
un pregio per chi le ha da metter fuori, e non lo è di certo per coloro
che le hanno da leggere. —
Quell’altro non badò alle considerazioni del frate, e, volgendosi a
Benedicite, gli disse:
— Questa pergamena porta il nome di un insigne araldo, e voi, dubitando
della sua autenticità, vi chiarireste, per ciò solo, indegno di cingere
spada. Ma, mettiamola pure in disparte; il mio volto non dice nulla a
voi, vecchio abitante di questo maniero, e testimone di tre generazioni?
Non vedete voi qui la fronte spaziosa, gli occhi fosforescenti e
l’aspetto leonino dei Roccamàla? Non vedete qui derivata la sporgenza
del loro labbro inferiore, il quale dimostra da due secoli che siamo
nati per comandare?
— Non qui, mio bel sere, non qui! — gridò Benedicite, stretto, incalzato
nelle sue ultime ridotte. — Conte Ugo mi lasciò sue erede universale, e
ci ho un buon testamento che lo prova.
Il forastiero sorrise mestamente, in quella che volgeva una rapida
occhiata al monaco, e proseguì, in atto di chi, accostate le labbra ad
un’amara bevanda, vuol pure trangugiarla fino all’ultima stilla.
— Io non dirò del vostro testamento quello che voi pur mo’ della mia
pergamena. Vi dirò in quella vece che il vostro testamento non approda,
se vi manca il diploma di Cesare, che voi vassallo innalzi a condizione
di cavaliere e v’investa del dominio di così forte e ricco arnese. Ora,
siccome vi ho detto, questo diploma non avrete mai fino a tanto che io
viva, io conte Ulrico, io unico superstite del sangue dei Roccamàla.
Qui il conte Anacleto, che già stava assai male in arcioni, perdette a
dirittura le staffe.
— Ah! — gridò egli di rimando. — E credete non ci sia più qui, non
rimanga nessuno di così nobile schiatta? Andate, tornate in Lamagna, _ad
bibendam cerevisiam vestram_; qui comanda il vecchio Anacleto, erede di
conte Ugo per forza di testamento e zio tutore del giovine conte
Anselmo, un vero e pretto Roccamàla, e, quel che più monta, di casa.
— Tristo ed abbietto! — tuonò il forastiero. — Voi calunniate vostra
sorella!
— Alla croce di Dio! — gridò Benedicite, in atto di scagliarsi su lui.
Ma innanzi ch’egli avesse potuto colpire il suo avversario, fu colto da
un manrovescio così forte nel petto, che lo sbalestrò come un batuffolo
di cenci sulla sua scranna feudale.
Gli occhi, che aveva dovuti chiudere, videro nel buio delle palpebre un
subisso di fiamme; gli zufolarono le orecchie, e rimase un tratto come
tramortito. Quando finalmente potè trarre il respiro e riaprir gli
occhi, si trovò nelle braccia del monaco. Il forastiero era scomparso.
— Frate Gualdo! — diss’egli, con un fil di voce. — A che tempi siamo!
— _O tempora! o mores!_ — rispose il monaco, alzando gli occhi alle
travi del soffitto. — Pazienza, amico mio, pazienza ci vuole!
— E in casa mia! e dentro una rôcca munita! — proseguì Benedicite, a cui
tornava coi sensi la parlantina. — E nessuno che si trovasse qui a darmi
man forte! E neppur voi vi siete mosso, fra Gualdo!...
— O che potevo io, _fili mi dilettissime_? Come avrei potuto parare un
colpo così improvviso? E poi, a dirla schietta tra noi, non aveva egli
un pochettino di ragione?
— Come? — esclamò Benedicite, guardando in viso il compagno.
— Sì certo, quella genealogia ei non l’aveva inventata; c’era il nome di
Guarnerio, uno dei più riputati araldi del tempo nostro....
— E sia pure; — rispose il castellano; — ma il mio testamento val tutte
le pergamene araldiche del mondo.
— Se fosse autentico! — soggiunse con piglio sarcastico il cisterciense.
— Frate Gualdo!
— Mastro Benedicite! —
A queste due esclamazioni tenne dietro una breve pausa, durante la quale
mastro Benedicite stette guardando attentamente fra Gualdo e fra Gualdo
rimase imperterrito a guardar Benedicite; questi, reggendo la muta
tranquillità del suo interlocutore, fu primo a rompere il silenzio.
— Egli mi sembra, _pater reverendissime_, che voi dimentichiate un
tratto chi io mi sia,...
— No, siete voi che lo dimenticate; — ripigliò con un insolito accento
il cisterciense; — ed io vo’ rinfrescarvi la memoria. Voi siete il
fratello di latte di Ruberto il taciturno; avete veduto bambino e
cullato sulle vostre ginocchia Ugo il felice. Tutto ciò v’ha fatto dar
di volta il cervello. Il conte Ugo vi amava, il poverino, e lasciava a
voi molta più autorità che non si addicesse ad uno strozziere. Che dico
strozziere? Voi non lo eravate già più che per vostro diletto, per amore
ai falconi, non più per debito d’ufficio. In quella vece eravate voi il
visconte, il capitano degli arcieri, il gran siniscalco, il ser faccenda
della rôcca, nè si moveva qui foglia che voi non voleste. Quando messer
lo conte d’improvviso morì, voi giuraste di tenere in custodia il
castello e i dominii di Roccamàla, fino a tanto non giungesse il nuovo
signore, che si diceva esser vivo ancora, là dalle parti di Lamagna. Ma,
cresciuto di autorità, cresceste eziandio di superbia; e la superbia,
_fili mi dilectissime_, ha perduto animi più forti del vostro. _Experto
crede!_ Allora, solo ed ozioso, incominciaste ad amare un tantino di più
le anfore e le botti e ad ubbriacarvi sette giorni per settimana....
— Con voi, fra Gualdo, con voi! — interruppe mastro Benedicite, che fino
a quel punto non aveva potuto frenare quella ràffica d’eloquenza.
— Sì, con frate Gualdo, non lo nego; ma nel vostro vino avete affogato
la voce della coscienza, e i fumi di quel vino si sono tramutati in un
sogno che piaceva al vostro orgoglio, in quella che recava offesa al
buon nome di vostra sorella....
— Fra Gualdo! fra Gualdo! Io perdo la pazienza....
— Gittatela a vostra posta; io tiro di lungo. Come se ciò non bastasse,
avete anco inventato un testamento....
— Fatto da voi, frate Gualdo!... fatto da voi!
— Sì anche stavolta, sì; io ci ho posto l’ingegno dell’amanuense. Ahimè
frate tapino! Amavo il vin di Cipro, io, l’ippocrasto, e sedere in
panciolle.... Giù al convento si mena una trista vita, si mangia scarse
pietanze in salsa di paternostri; e mi pigli il canchero, il vermocane,
se ogni altro soldato della milizia di San Bernardo, messo al mio posto;
non si sarebbe lasciato cogliere all’esca. Fra Gualdo ha peccato per la
gola, e ne avrà da far penitenza; ma il primo, il vero colpevole siete
voi, perchè a voi profittava il negozio. _Cui prodest? Nonne tibi?_
— Frate! — gridò Benedicite, provandosi a star su. — Io ti farò chiudere
in tal chiostro che ti serva di cantina e di sepoltura!...
— _Bene! optime!_ Ingrato.... calunniatore.... falsario.... fàtti anche
omicida! —
E così dicendo, il frate, di breve e corpacciuto ch’egli era, s’andava
allungando e curvando sempre più sulla persona di Benedicite, facendolo
rannicchiare da capo sulla scranna.
— Gualdo, amico mio! — mormorò egli, spaurito. — Voi non mi avete mai
parlato in tal guisa....
— Perchè aspettavo il mio giorno; perchè vo’ lasciarti ora, innanzi di
partire, un ferro rovente nel cuore! —
Il tapinello chiuse gli occhi per non vedere quella sinistra figura, che
era ancora fra Gualdo e già incominciava a non esserlo. In quel mezzo,
una voce nasale si fe’ udire sull’uscio.
— _Pax Domini sit semper vobiscum!_
L’interlocutore di Benedicite volse lo sguardo, e vide quel che
aspettava. Ma il nuovo venuto non s’aspettava per fermo a quello che
vide, cioè alla sua immagine, al suo ventre, alla sua tonaca, a tutto sè
stesso insomma, raffigurato in un’altra persona, presso la sedia del
castellano.
Frate Gualdo, l’autentico frate Gualdo, fece per moto naturale il segno
della croce. Il suo Sosia si mise a ridere sgangheratamente. Benedicite,
che al suono dell’amica voce aveva riaperto gli occhi, guardava l’uno e
l’altro esterrefatto. E guardando più attentamente quello dei due che
gli era stato tutta la mattina da fianco, lo vide farsi lungo, lungo,
sottile, diafano, e finalmente sparire in uno scroscio di risa.
Per quel dì non fu bevuto nè Cipro, nè ippocasto, con sommo dolore del
vero fra Gualdo. Mastro Benedicite, preso dal farnetico, fu posto dai
suoi famigli a letto. Colà, egli vedeva fiamme e diavoli da ogni parte,
e perfino nella faccia rubizza e contenta del suo collega e complice,
che non ne capiva una iota.


CAPITOLO XV.

De’ progressi che avea fatto il biondo Fiordaliso nell’arte di poetare.
Era una notte sullo scorcio di novembre, una notte stupendamente serena,
e rallegrata dal mite chiarore della luna crescente. L’amica dei
notturni viandanti, spuntando dietro al castello di Torrespina, facea
risaltare nel limpido cielo le opache sue cime, a guisa d’un nero
merletto su d’una veste bianca, e mandava uno sprazzo di luce sul
sentieruolo, che, costeggiando il fosso, saliva fino in capo all’erta
dov’era l’antico mastio della rocca.
Per quel sentieruolo andavano di buon passo salendo due uomini, chiusi
nelle loro cappe di pannolano, imperocchè l’aria notturna incominciava a
pungere, sugli Appennini.
Andavano, ho detto, di buon passo, ma non di buona voglia ambedue; chè
l’uno pareva trascinar l’altro quasi riluttante, o almeno infastidito di
quella briga ch’ei si era tolto di seguire il compagno. Come furono
giunti a mezza l’erta, il primo si fermò, e additando il muro del
castello dov’era aperto un verone illuminato, disse al vicino:
— È là! Madonna s’è ridotta nelle sue stanze. Qui possiamo saltare nel
fosso, che andando più oltre potremmo essere scorti da qualcheduno. —
L’altro, come non avesse inteso lo invito, stava fermo a guardare il
verone.
— Coraggio, figliuol mio! qui si parrà la tua fortezza d’animo. Molto io
t’ho detto, e più ancora ti resta a vedere.
— Ma come? — disse l’altro, senza muoversi tuttavia. — Egli
ardirebbe?....
— Oh bella, e perchè non vuoi tu che egli ardisca, se madonna
acconsente? Messer Corrado è da sei giorni alla corte d’Ivrea; ella è
rimasta a Torrespina, a cagione di una infermità che non saprei dirti.
Nel viluppo delle malattie femminili non ci trova il bandolo nemmanco il
demonio. Basta, eccola laggiù, l’inferma! La sua ombra si fa scorgere
nel vano della finestra. —
Infatti, era lei; Giovanna si avanzava sul verone, a respirare la fresca
aria della notte. Avvicinatasi alla balaustrata, si assise, appoggiò il
mento nella palma della mano, e rimase atteggiata per modo che il suo
bel volto apparve intieramente rischiarato da un raggio di luna. Su quel
raggio per fermo venìa difilato un genio notturno, a baciare quel viso
divino, e forse era lo stesso Oberone, che per lei dimenticava Titania e
le caste gioie del talamo.
— Come è bella! come è bella! — esclamò uno dei due, tendendo a quella
volta le palme.
— Zitto! ecco l’altro che viene. Suvvia! non ti lasciar stregare, e
scendiamo nel fosso. —
Così dicendo, il Mèntore, pigliato per un braccio l’amico, lo trasse con
sè fino all’orlo del fosso, ove calarono prestamente ambidue, andando a
nascondersi dietro uno svolto di muro. Gli era tempo, imperocchè un
cavaliere, dalla persona snella e dal pronto passo, giungeva sul ciglio,
appunto in quella che i due si appiattavano, e, dopo aver agitata una
sciarpa di zendado, spiccava un salto al basso, e correva sotto ii
verone.
Uscito appena dalla penombra in cui era nascosta una parte del fosso, i
contorni del suo volto apparvero distinti allo sguardo scrutatore de’
due primi venuti. La luna rischiarava i biondi capelli inanellati, sui
quali posava una picciola berretta piumata, le apollinee forme del
petto, piuttosto messo in mostra che coverto da una leggiera saracina,
la spigliata e graziosa andatura delle gambe, chiuse in molli calze
divisate di seta, e le mani impedite dalla spada e da un liuto, arnesi
che aveva dovuto sollevare dal fianco, innanzi di spiccare il suo volo.
— Ve’ come si è fatto aitante della persona e di bella guisa! — susurrò
il Mèntore nell’orecchio all’amico. — Cinque anni son presto passati, e
il fanciullo è diventato uomo, proprio come quell’Anselmuccio, che oggi,
la tua mercè, si godrà in pace il retaggio di Roccamàla. Un bel
cavaliero, in fede mia, e non mi fa stupore che madonna se ne sia
avveduta. L’uomo è fatto per la donna e tuttedue per mettere il diavolo
alla prova. Ma ecco, egli dà di piglio all’istrumento; or vediamo s’egli
abbia progredito nell’arte di poetare; chè invero quella sua ballata di
cinque anni or sono, la non valeva un frullo, ed io gliel’ho lodata da
fratello in Apolline, vo’ dire per misericordia. —
La voce di Fiordaliso, chè era egli infatti, interruppe le chiacchiere
con cui Aporèma andava trafiggendo lo spirito d’Ugo, di quel conte Ugo
che dovea passare alla posterità con l’appellativo di felice. Ed ecco
che cosa cantò, salendo soave al verone dove era assisa Giovanna, la
voce del biondo Fiordaliso:
— Un giorno mi piacque
Di gaie canzoni
Il folle concerto
Tra’ colmi bicchier;
O, lente le redini,
E fermo in arcioni,
Spronare all’aperto
L’ardente corsier.
Or vinta dal tedio
È l’anima mia;
Di strano languore
Morendo sen va.
Ah, contro l’effluvio
D’arcana malía,
Il povero core
Difesa non ha! —
— Povero cuoricino! e’ mi strappa le lagrime! — borbottò fra i denti
Aporèma.
Ugo non disse verbo; ma ciò che dentro sentisse chiarì ad Aporèma la sua
mano, che convulsivamente gli strinse il braccio, accennandogli di non
interrompere il canto.
Fiordaliso, che non sapeva di avere così numeroso ed attento uditorio,
ma che non pensava a rallegrare altri orecchi fuor quelli dalla divina
Giovanna, così proseguì la ballata:
— Smeraldo vivissimo
D’angelici lumi
Io vedo tra i cento
Doppieri brillar;
Galoppo e nell’aria
I noti profumi
D’un crine mi sento
Sul viso spirar.
Gioite, è vostr’opera,
Gentile mia fata;
Ma sensi più umani
Vi parlino al cor!
Vi prega d’un farmaco
La mente turbata....
Amore risani
Il male d’amor. —
— Ah! ah! — soggiunse ghignando Aporèma. — Un’inferma lassù e un infermo
quaggiù. Togli lo spazio che li divide e saranno due sani. Madonna, se
Iddio vi aiuti, usategli misericordia e mandategli il dittamo per le sue
piaghe. Bene, del resto, bene! ei mi s’è fatto poeta daddovero e voglio
congratularmene seco lui.... Ah, eccolo finalmente, il farmaco
aspettato! E’ scende pietoso, con la velocità d’una carta legata ad un
sassolino. —
Così dicendo, Aporèma uscì carponi dal suo nascondiglio.
Frattanto un involto di piccola mole era caduto dall’alto del verone a’
piedi di Fiordaliso, e cinque dita raccolte alle labbra della divina
ascoltatrice dei suoi versi gli mandavano un bacio. Il cantore era
rimasto estatico a raccogliere il bacio; donde avvenne che non si
chinasse subito a raccogliere il messaggio, e quando, sparita la dama
dal verone, si volse per farlo, una mano traditora già l’avesse
ghermito.
Come si rimanesse Fiordaliso al non trovar più l’involto, che pure avea
veduto cadersi a’ piedi, lascio che vel pensiate voi, o lettori. La luna
s’era poco dianzi nascosta dietro un querceto, e l’oscurità non gli dava
modo di veder molto lunge; tuttavia, guardando istintivamente dintorno a
sè, gli parve di scorgere un’ombra che sgattaiolasse verso lo svolto del
muro.
Animoso qual era, trasse incontanente il pugnale e si avventò da quella
banda. L’ombra nera gli si fece ritta dinanzi; ei s’avvinghiò
rabbiosamente a quel corpo, e giù colpi alla disperata. Ma nulla! la
punta del suo pugnale si rintuzzava su quel petto, e migliaia di
scintille sprizzavano dagli inutili colpi.
— Chi sei tu? — gridò egli allora, balzando indietro esterrefatto.
— Sempre poeta! — rispose l’altro, ridendo. — Voi già vedete una
stregoneria dove non c’è che un giaco di assai buona tempera. Io porto
sempre quest’arnese sotto il farsetto, per custodirmi dalle furie dei
poeti come voi. La è questa una consuetudine che io vi consiglio del
pari, imperocchè adesso potrei rendervi pan per focaccia, e voi lasciar
qui la vita come un cane, dopo aver cantata come un cigno la vostra
ultima canzone. Una leggiadra ballata, in verità, e se voi mi
uccidevate, non avrei potuto darvene quella lode che vi si addice. Bene,
per Dio, giovinotto; _se tu segui la tua stella_ (ve lo dirò con un
poeta che non l’ha scritto ancora) _non puoi fallire a glorïoso
porto_. —
Fiordaliso tremava a verghe; quella voce stridula e quel piglio beffardo
non gli erano ignoti. Ancora non sapeva raccapezzarsi, ma un arcano
terrore gli serpeggiava per tutte le vene.
— Messere, — si provò egli a dire finalmente, — voi avete posto mano su
d’un involto che non era per voi.
— Nè per voi, messer Fiordaliso, e certo sta meglio nelle mie mani che
nelle vostre. Sareste voi per avventura uno di que’ giullari da dozzina,
i quali vanno attorno, di corte in corte, di monte in piano, a rallegrar
le brigate con le loro coble e sirventesi, per farsi pagare di poi?
— Che volete voi dire?
— Che quella borsa, gittatavi da Madonna Giovanna di Torrespina, non è
fatta per voi, trovatore di alto grido, vincitore di giostre alla corte
di Napoli e armato cavaliero da Ataulfo imperator di Lamagna. Madonna ha
fatto gramo giudizio di voi, pagandovi per tal modo un’ora di sollazzo.
Voi, nobil cantore, spregiate l’oro e lasciate che ne goda un povero
menestrello. Non lo credete? Sono anch’io, ve lo giuro pel re David,
nostro santo patrono, un cultore della gaia scienza.... Non del vostro
valore, s’intende, non del vostro valore.... Io, a dir vero, non ho
ricevuto mai in premio una collana d’oro, come voi, cinque anni or sono,
dal vostro signore, dall’amante di quella gentil dama, a cui testè
chiedevate un farmaco per il male d’amore.
— Ah! — sclamò Fiordaliso, che avea finalmente riconosciuto Aporèma. —
Il pellegrino di Roccamàla! —
E cadde al suolo, tramortito dallo spavento.
— Il bighellone! Mi ha riconosciuto alla perfine; gli era tempo! Ugo,
figliuol mio, che fai tu ora? Animo, animo! Non vedi lassù.... da quel
verone?....
— Io non vedo nulla. La luna è nascosta....
— Guarda più attentamente; c’è lassù un’ombra bianca. La vedi tu ora?
Sta bene; e sai tu che faccia?
— Or via, dillo, che fa?
— Rafferma alla balaustrata una.... Mi duole in verità di avertelo a
dire; ma, tanto e tanto, l’avevi a sapere.... Anche questo messaggio può
fartene testimonianza....
— Ma dimmi, alla croce di Dio, che fa ella ora?
— Oh, una cosa da nulla! Le sue mani delicate raffermano il capo di una
scala di seta, che spenzola nel fosso.
— Ah! per costui? — urlò conte Ugo, mordendosi le mani.
— Per costui! chi lo dice? — soggiunse Aporèma. — Se ti dà l’animo,
potrà essere per te.
— Per me? in qual modo! — chiese il giovane trasognato.
— Sì certamente, per te! Suvvia, avventurato Fiordaliso! — disse
Aporèma, percuotendolo con dolce dimestichezza sull’omero. — Voi siete
nato vestito, e ancora non ve ne siete avveduto!
— Fiordaliso!... che dici tu mai?
— Dico, e puoi sincerartene dal capo alle piante, che tu se’ biondo, che
porti sulla zàzzera una berretta piumata, che indossi una saracina e le
calze divisate di seta, che sei cresciuto di tre pollici, e che hai tra
mani un liuto.... ma questo puoi lasciarlo in basso, che oramai non ti
sarebbe d’alcun giovamento lassù, e potrebbe anco tornarti d’impaccio
nella tua corsa da scoiattolo.
— Ah! — gridò conte Ugo, a cui balenò negli occhi un lampo di gioia
sinistra.
E piantato Aporèma accanto al corpo dello svenuto, s’inoltrò verso il
verone, donde infatti spenzolava una tenue scala di seta.


CAPITOLO XVI.

Qui si conta di un angelo, il quale aveva perdute le ali.
La bella castellana era seduta nella penombra della sua camera, di
ricontro al verone, in atto di donna che pensi.
A che pensate, madonna? A nulla, per fermo. Quel momento che precede
l’arrivo e il primo bacio dell’uomo amato, non è invero da lunghi
pensieri, nè da soliloquii di coscienza, e gran mercè se il passato può
scorrere, immagine fuggitiva e sbiadita, dinanzi agli occhi dell’anima.
Il pensiero è geloso come un sultano; vuol esser solo a regnare.
Ma pensate voi mai? Vi giova egli alcuna volta raccogliervi da sola a
sola con questo interno signore che non patisce rivali, con questo
giudice che fa salire alle guance le vampe del rossore non visto, con
questo accusatore che parla le tristi e le dure verità, con questo
tormentatore che fa dar volta dolorosamente sul più molle de’ guanciali,
che ronza e morde, molesto, ostinato, come la zanzara, nelle lunghe,
interminabili ore di una notte d’estate?
E a cui non avviene di pensare in tal modo, di soggiacere a questo
incubo? È la legge comune dei nati dalla creta; e voi pure siete di
creta, o angelo di bellezza: voi pure sentite i mali dell’umanità, e i
rimorsi del cuore.
Orbene, in quelle ore solitarie, non pensaste voi mai ad Ugo di
Roccamàla? La sua pallida figura non vi si offerse mai alla mente,
spiccata come un’immagine del sogno, gli occhi atteggiati ad un muto
rimprovero?
Ahimè, madonna! Dove n’andò quella virtù severa, virtù più bastionata
ancora del vostro castello, virtù che si lasciava ammirare, adorare
eziandio, ma sempre fuori del tratto della balestra? Come lungi da quel
tempo! E per che, poi, e per chi? Per qual filiera di ravvedimenti, la
dea, crudele co’ buoni, è giunta a farsi pietosa co’ tristi?
Ahi, cuore umano! ahi, cuore della migliore tra le donne!
A lui, schietto e gentile amatore, nulla! Lo amavate, diceva ognuno, e a
voi pure pareva. Era bello, possente, dalle donne desiderato, dagli
uomini temuto, e vi piacque lasciarvi amare da lui. Certo, se altri
avesse chiesto in mercè di poter baciare più oltre della vostra mano
regale, i vostri occhi avrebbero mandato lampi di sdegno; laddove a lui,
a’ suoi preghi, a’ suoi confessati dolori, soleva rispondere un angelico
riso, il quale non dava e nemmanco toglieva la speranza. Questa era la
gran differenza tra lui e il volgo de’ vostri corteggiatori; le
conseguenze, pari. E lo amavate!
Più assai dell’estinto s’ebbe Morello di Monferrato, falcon pellegrino
che vi trascorse un giorno da lato, e strappò, passando, uno spicchio
dal vostro cuore.
Più assai d’ambedue dovrà oggi ottenere un nuovo venuto, un traditor
dell’antico, quegli che al pari d’Ansaldo di Leuca dovrebbe farvi
risovvenire di Ugo?
Ma, ohimè! Noi si dimentica. La nostra fibra non regge alla tensione
degli affetti. Soventi volte dissimuliamo sotto il nome di amore una
ebbrezza del senso, e quando l’ebbrezza è svaporata, diamo cagione al
tempo della morte d’amore. Il tempo! povero tempo! Gli antichi lo
accusarono di mangiare i suoi figli; ora i suoi figli lo addentano con
ogni maniera di calunnie. Oh almanco la creta vile non cercasse scuse
all’oblio! Ma no; ella che ha mestieri di credersi alito di Dio
immortale, ella che dimanda superbamente l’eternità dopo la morte, e non
sa concederla poi nella vita agli affetti, ella ha scoperta
l’assoluzione del più grave tra tutti i peccati, l’oblio, non nella sua
propria fragilità, ma nella forza delle cose. Non vedete come tutti
fanno? Se dimentica Fiordaliso, perchè non dimenticherebbe Giovanna?
Così, reputandoci angioli, e superiori ad ogni altra creatura nel volo,
amiamo, quando ci torni, reputarci tutti di una forza e d’una misura
nella caduta; così la colpa nostra chiede la scusa ed accetta l’esempio
nella colpa d’un altro.
Per Fiordaliso adunque, per questo tornitore di versi leggiadri,
oscurato il raggio della severa virtù, la domestica quiete turbata,
accolte con grand’animo le ansie, i terrori della colpa! Qual nuovo
pregio lo facea degno di un tanto olocausto? Una simigliante voluttà di
acri profumi, che Ugo avrebbe volentieri pagata col sagrifizio della
vita presente e delle speranze future, Fiordaliso la otterrà dunque per
nulla?
O donne, a cui date troppo spesso il cuor vostro! O migliore delle
donne, come vi siete fatta pari alla moltitudine delle figlie d’Eva! O
angelo, come avete perdute le ali!
Ma infine, povera donna! E perchè Ugo non seppe aspettare? Ella era
sull’alba degli affetti; il cuor suo era tocco, ma le voci arcane che
comandano di amare non avevano ancora parlato. Perchè morì egli? perchè
non attese?
Morello venne, e turbò, non il suo cuore, l’anima sua; la turbò perchè
era un nobile garzone; la turbò dolcemente perchè aveva difeso la
memoria d’un caro estinto contro le villanie d’un uomo dappoco.
Ella per fermo non aveva mai amato Ansaldo di Leuca, nè altri, nè altri!
Che si domanda di più ad una donna? Che abbia a morire, perchè un uomo è
morto? Di simiglianti tragedie si sono già viste; ma la scienza dirà che
l’aneurisma e la tisi presuppongono il male preparatore, di guisa che
una testimonianza di più fine sensibilità non sarebbe altro che
l’effetto di un guasto dell’organismo.
Suvvia, che volete di più? Chiedete la continuazione dell’amore dopo la
morte? Vorreste venire la notte, vampiri, a riposarvi sul cuore della
superstite e suggerle il sangue? Non vi basta ch’ella si condanni alla
solitudine?
E la solitudine, vedete, è traditrice; abbiate dunque misericordia. Egli
è nella solitudine che l’anima va trascinata in balìa dei sogni fallaci.
Una donna, fatta segno all’amore di taluno, è sempre alle difese;
combatte, perchè il pericolo è presente, armato di tutte le sue
lusinghe, di tutti i suoi incantesimi. Ma lasciatela sola, lungamente
sola. Il sapere che nimici non incalzano al vallo, rallenta la vigilanza
del presidio. Si spalancano le porte, giova uscire all’aperto, vedere i
deserti accampamenti. Qui fummo stretti! qui potevamo cedere! E allora
venga pure, ci sopraggiunga il pericolo; il cavallo di legno fa quello
che non aveva fatto Achille, nato di Dea, nè il Tidide, nè il Telamonio;
l’occasione afferra e carpisce quello che un affetto ardente, verace,
profondo, non aveva potuto ottenere.
Così cade la donna; così cadeva Giovanna, la miglior delle donne.
Angioli del domestico lare, celatevi il volto! Il verone è superato;
un’ombra nera scende dalla balaustrata; l’aspettato è giunto.
Fu scritto che un gran dolore è muto; e un grande amore io credo sia
Sez İtalian ädäbiyättän 1 tekst ukıdıgız.
Çirattagı - Il Libro Nero - 10
  • Büleklär
  • Il Libro Nero - 01
    Süzlärneñ gomumi sanı 4449
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1694
    38.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    60.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4426
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1651
    38.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    58.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 03
    Süzlärneñ gomumi sanı 4610
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1651
    37.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    60.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 04
    Süzlärneñ gomumi sanı 4551
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1739
    35.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.6 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 05
    Süzlärneñ gomumi sanı 4517
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1813
    36.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    56.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 06
    Süzlärneñ gomumi sanı 4525
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1782
    36.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    59.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 07
    Süzlärneñ gomumi sanı 4478
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1643
    38.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    53.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    61.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 08
    Süzlärneñ gomumi sanı 4488
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1750
    38.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    58.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 09
    Süzlärneñ gomumi sanı 4478
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1765
    35.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    49.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    57.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4593
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1823
    33.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    47.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    54.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Il Libro Nero - 11
    Süzlärneñ gomumi sanı 3256
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1399
    37.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    52.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    59.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.