Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 10

Süzlärneñ gomumi sanı 4736
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1452
38.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
53.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
62.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
di dare loro aiuto della gente dell’arme loro; la qual cosa sagacemente
feciono poi, come leggendo nostra opera al suo tempo si potrà trovare.

CAP. XXI.
_D’una folgore che cadde in sulla chiesa maggiore di Siena._
Tutto che i miracoli che noi veggiamo di poco ci muovano a lasciare i
peccati e tornare a penitenza, pure li dovemo scrivere a terrore de’
mortali. In questi dì della Pasqua della resurrezione di Cristo, a dì
21 d’aprile in sull’ora della terza, essendo il tempo turbato e largo
della piova, una folgore percosse l’agnolo ch’era nel colmo della
chiesa del vescovado di Siena, e portollo via, e non lo fracassò, e
scese nella cappella, e arse i paramenti e il tavolato dell’altare
maggiore; e avendo il prete consegrato il corpo di Cristo, non essendo
ancora comunicato, cadde in terra tramortito, e cinque preti ch’erano
d’intorno al servigio dell’altare percosse e ricise, e l’ostia e la
croce dell’altare non si potè mai ritrovare.

CAP. XXII.
_Di una battaglia tra due baroni del re di Rascia._
Il re di Rascia il quale era sotto il tributo del re d’Ungheria
cessava di fare l’omaggio, e ribellavasi al re; il perchè venuto
in indegnazione della corona, e avendo il re d’Ungheria contro a
lui conceputo e proposto nell’animo suo di farlo conoscente, duro
e malagevole li parea di passare la Danoia, per mantenere la gente
nel reame di Rascia, non avendo nel paese terra alcuna che li desse
ricetto. E stando in questi pensieri, come suole apparecchiare la
fortuna talora i non pensati acconci e’ rimedi, due baroni del reame di
Rascia per loro gare e male venture riottavano insieme; il re s’era più
volte travagliato di recarli a concordia, e nella fine in questi giorni
avuto l’uno e l’altro, e cercando di porli in pace, e non li potendo
recare, crucciato, come poco discreto, disse: Andate nella mal’ora, e
l’uno faccia all’altro il peggio che può; la parola detta sopr’ira fu
ricevuta per espressa licenza; onde partendosi amendue pieni d’odio e
di mal volere infiammati, quello di loro con alquanto meno podere avea
le sue terre in sulla riviera della Danoia, l’altro ch’era di maggiore
possanza accolta gente d’arme lo cavalcò, ardendo e guastando il suo
paese, e infine al suo abboccamento lo sconfisse; nè a ciò contento,
cercava sollicitamente di distruggerlo e trarlo a fine, e per ciò
fare lo cavalcava spesso, facendo ogni male. Vedendo il detto barone
ch’e’ non potea resistere, e nel suo re non avea speranza che levasse
dall’impresa l’avversario suo, lasciò il meglio che potè le sue terre
fornite a difesa, e segretamente valicò la Danoia, e ridussesi a uno
de’ baroni d’Ungheria che l’aiutasse, promettendoli di farsi cristiano;
il barone del re d’Ungheria li diè quella quantità d’Ungheri che li
chiese, e ’l barone a parte a parte occultamente li mise nelle sue
terre, e fece mettere la fama di volere fare di sua gente tutto suo
sforzo per vendicare sua onta e dannaggio. Il suo nemico che poco il
pregiava, per la vittoria avuta di lui era molto montato in baldanza,
venne da capo con tutto suo sforzo in sulle terre del detto barone,
e non avendo l’avviso degli Ungheri ch’erano venuti in aiuto de’ suoi
nemici, e mescolato tra loro, con animosa battaglia durissima, per la
virtù degli Ungheri fu sconfitto, e rimase morto in sul campo. E bene
cadde nella sentenza dell’antico proverbio che dice, chi è povero di
spie è ricco di vituperio, e fece fede che non si vuole avere tanto a
vile il nemico che non creda che offendere lo possa. Di questa tenzone
non curata ne’ principii, come si dovea, e lasciata passare in malattia
da non rimediare, nacque, che avuto il passo da questo barone il re
d’Ungheria con grande esercito passò la Danoia, come a suo luogo e
tempo diviseremo.

CAP. XXIII.
_Come sotto nome di falsa pace il re di Navarra tribolò Francia._
In questo medesimo tempo il sollecito re di Navarra, avendo in
apparenza ridotti gl’Inghilesi in forma di compagnia, per non mostrare
di volere fare contro alla volontà del re d’Inghilterra, e contro alla
falsa pace che per lui era bandita, cominciò a cavalcare in Berrì, e
tribolare quel paese con aspra e mortale guerra, stendendosi infino
in Campagna, rubando le ville e’ cammini, e ardendo chi non si voleva
rimedire. I legati del papa, ch’aveano preso cura della concordia
tra’ due re, vedendo quello che il re di Navarra aveva fatto col
braccio degl’Inghilesi, ne scrissono al re d’Inghilterra, pregandolo
che per bene della pace senza più aizzare i Franceschi li piacesse
porvi rimedio; e massimamente perchè il fatto pareva contro al suo
comandamento, e non atto di pace com’era ita la grida. Il re rispose,
che di ciò li pesava, e che non vedea come a quella mala gente, e del
tutto disposta a mal fare, potesse rimediare nè mettervi riparo, che
volentieri per suo onore il farebbe. Stando le cose di Francia mal
disposte in questi baratti, nel mese d’aprile 1359, nella città di
Digiono in Borgogna, una parte del popolo minuto vago di preda si levò
a romore, e corsono a furore alle case de’ maggiori e de’ più ricchi
cittadini della terra, e rubaronli, e chi non fuggì loro dinanzi in
quella tempesta fu morto. Il duca di Borgogna sentendo questa novità, e
temendo di ribellione, mandò là di sua gente d’arme, e de’ malfattori
ne fece assai bandeggiare, e presine nel numero di centoventi, per
vendetta del misfatto gli fece appendere per la gola.

CAP. XXIV.
_Novità state a Montepulciano._
Tornando alle italiane tempeste, messer Niccolò della casa di quelli
del Pecora di Montepulciano, il quale era stato egli e’ suoi altra
volta signori di quella terra, essendo stato lungo tempo di fuori, e
assai onorato dal comune di Perugia, il quale avendolo fatto cavaliere
gli aveano donato una tenuta del comune, la quale era in sulle
Chiane presso assai a Montepulciano, la quale si chiamava Valliano,
luogo forte, e ubertuoso d’ogni cosa, e traevanne loro vita assai
onorevolmente. Sentendo il cavaliere l’animo de’ suoi terrazzani mal
contenti, e atti a fare novità per sdegno di male reggimento, e che
mala volontà era in tra ’l comune di Siena e quello di Perugia, il
perchè lo stato de’ Montepulcianesi vagillava, ed era senza riposo, si
mise segretamente a cercare per mezzo degli amici co’ suoi terrazzani
di volere tornare in Montepulciano. E trovando la materia disposta
all’intendimento suo, accolse segretamente brigata, e di maggio 1359,
senza fare novità alcuna, s’entrò nella terra, e da’ terrazzani fu
ricevuto lietamente, dicendo esso, che non temesse nessuno, perocchè
liberamente e di buon cuore aveano perdonato a qualunque offeso gli
avesse, e ch’elli intendeano tutti tenere e trattare per fratelli.
E avendo ricordo che la riotta ch’era stata tra lui e messer Iacopo
suo consorto era stata la cagione principale perchè avea perduta
la signoria della terra, avendo provato che è il perdere lo stato
con andare all’altrui mercede, mandò prestamente per lui, e feglisi
incontro assai di spazio fuori della terra, e lo domandò, s’egli
intendea a perdonare liberamente a qualunque offeso l’avesse, e con lui
essere unito al beneficio e stato comune della terra loro, che quando
l’animo suo intendesse al contrario, che amendue prendessono altro
viaggio, e lasciassono in pace la terra al governo de’ suoi terrazzani;
e avendo detto, messer Iacopo disse, che ’l suo animo era buono, e che
liberamente a tutti avea perdonato, e promesso che mai non ne farebbe
vendetta, si presono per mano, e con festa grande e buona volontà di
quelli della terra entrarono nel castello, e furono fatti signori, e
con molta concordia si dirizzarono a ben fare, e a mantenere amistà co’
Perugini, e a onorare i Sanesi.

CAP. XXV.
_Di fanciulli mostruosi che nacquero in Firenze e nel contado._
Del mese d’aprile in questo anno, in Firenze e nel contado nacquero
parecchi fanciulli contraffatti, mostruosi, e spaventevoli in vista,
alcuno in figura di becco, e le braccia e il petto come membra
femminili, e libere, e compiute; altri nacquero in altre forme
mirabili, e assai differenti dall’umana natura. E appresso nell’autunno
seguente seguì, che molte donne libere del partorire dopo più giorni
morirono. E questo accidente si pensò per li savi che procedesse dal
cielo, in breve tempo non avesse fornito suo grande sfogamento: e
prendevano le donne tanta gran paura venendo all’atto del parto, che
molte se ne morivano; e se ’l cielo di questo e de’ parti strani fè
segno, ristorò ne’ leoni, che tre maschi ne nascerono la vigilia di
santo Zanobi.

CAP. XXVI.
_Come la compagnia passò in Toscana, e cercò concordia con i
Fiorentini._
Poichè la gran compagnia del conte di Lando, afflitta e consumata la
Romagna e la Marca, aveano dal legato ricevuta la paga e la promessa
che detta avemo da’ comuni di Toscana, superba e baldanzosa si mosse, e
sotto la guida de’ cittadini che dati l’erano a condotta dal comune di
Perugia passò per lo distretto di Perugia, cioè per quello della Città
di Castello e del Borgo a Sansepolcro, che allora erano a’ comandamenti
e al seguo del comune di Perugia, e tutto che ne’ patti avessono
promesso non fare danno, le rapaci mani non si poteano contenere che
non predassono, e offendessono chi le facesse contesa; e ciò non passò
senza querele de’ paesani, poco intese da’ loro signori Perugini.
Loro passata ne’ detti luoghi fu nel detto anno 1359 entrando il mese
di maggio; e nel detto stallo e trapasso, credendo ogni gente d’arme
arricchire in sul nostro contado della preda e ricetto, e di quello
che insieme pensavano fare rimedire il comune di Firenze, abbandonato
nell’impresa, come detto avemo, dal legato e da’ comuni di Toscana,
che per invidia e mal talento prendevano speranza che molto abbassasse
nostro comune, tanto crebbe e multiplicò la detta compagnia sì di gente
cassa dal legato, e da’ Perugini, e da’ Sanesi, e da altri comuni, che
passava il numero di cinquemila cavalieri, e di mille Ungheri, e di
più di duemila masnadieri di gente senza arme fornite, ch’erano assai
più di dodicimila bocche senza le bestie. Il perchè avveniva, che
dovunque s’alloggiavano, eziandio per pochi dì, secondo i loro patti
e convegne tutto consumavano e guastavano in forma, che a’ paesani
toglieano la fatica di fare la ricolta. Quando i conducitori della
compagnia e i loro capitani si vidono in luogo che poteano per aperto
cammino, venire in sul contado di Firenze, con sottile modo e con molta
sagacità e astuzia feciono da molte parti muovere amici del comune
di Firenze, e alcuno scrivere, e alcuni venire infino a Firenze a
cercare convegna, offerendo ogni concordia, lega e patto che sapessono
o volessono domandare il comune. Stando in queste mene, e di continovo
fortificandosi il comune, in processo di tempo arrivarono a Firenze
ambasciadori del marchese di Monferrato, i quali erano stati nella
compagnia per conducerla al soldo suo e de’ suoi collegati, i quali
domandavano cortesemente al nostro comune per parte di loro signore
solo il titolo della concordia senza pagare danari, e il passo sicuro
per lo distretto del comune di Firenze, più offerendo per ammenda
dare al comune nostro fiorini dodicimila d’oro: e oltre a costoro per
simigliante cagione vennono segretamente certi cittadini di Perugia.
Il comune che per suo onore avea presa la tira, nel proposito suo
stette fermo e costante, e non intralasciava per ragionamenti che non
intendesse continovamente alla difesa, cercando di mettersi a prova
di spegnere la compagnia in Italia. E certo fu mirabile cosa, che
’l nostro comune si volesse mettere a partito e a fortuna con gente
con cui non potea guadagnare altro che fama e onore; ma così era per
quella volta disposto, e tanto pertinace al servigio, che minacce, nè
offerta di larga e onorata concordia, nè altro qual’altro vantaggio
lo potè ritrarre della pertinacia del suo proponimento; essendo tutto
di combattuto da molti grandi e potenti suoi cittadini, i quali o che
conoscessono il pericolo, o che temessono di loro possessioni, o perchè
fossono d’animo vile, apertamente ne’ pubblichi e aperti consigli
aoperavano e consigliavano che si prendesse l’accordo; ma il desiderio
di vivere in libertà vinse l’appetito de’ cittadini, che consigliavano
e voleano per maggioranza che ’l comune facesse a loro modo, e la paura
della compagnia, e ogni stimolo degli amici che si provarono di ciò.
Questo addivenne per l’unità de’ cittadini mercatanti, e artefici, e di
mezzano stato, che tutti concorsono in uno volere all’onore e bene del
comune.

CAP. XXVII.
_Come la compagnia s’appressò a Firenze._
Mentre che questi ragionamenti si bargagnavano e menavano per lunga, la
forza del comune di Firenze continovo cresceva sì per gente di soldo
e sì per amistà, perocchè in questo venne del Regno mandato dal re
Luigi il conte di Nola della casa degli Orsini con trecento cavalieri;
e sentendo il conte di Lando sua venuta essendo a Bettona, con mille
barbute a loro cavalcò incontro, credendolisi avere a man salva; ma
ciò sentendo per sue spie il conte di Nola, il quale era molto loro
presso, come gente del re per lo capitano furono ricevuti in Spoleto:
la qual cosa a’ Perugini fu tanto grave, che al capitano predetto di
Spoleto, che era loro cittadino, cercarono di fargli tagliare la testa;
e per mandare ciò ad esecuzione, mandarono il loro conservadore che
cercasse di farlo; ma li Spoletani, che si contentavano d’avere fatto
servigio al re nella persona della gente sua, nol vollono patire, e
non lasciarono entrare il conservadore in Spoleto; per questa cagione
furono vicini a ribellarsi al comune di Perugia. Il conte di Lando
stando alla bada più dì di prendere questa gente, vedendo tornare in
fummo il suo proponimento, per non perdere più tempo si ritornò alla
sua compagnia, e il conte di Nola preso il suo tempo a salvamento se ne
venne a Firenze. Anche avvenne, che fu bella cosa, che dodici cavalieri
napoletani tra di Capovana e di Nido, facendo loro caporale un messer
Francesco Galeotto, sì per servire nostro comune, e sì per fare prova
di loro persone sentendo che con la compagnia si deliberava di prendere
battaglia, con altrettanti scudieri a loro compagnia in numero in
tutto di cinquanta barbute, nobilmente montati, e con ricche e reali
transegne e armadure, alle loro spese vennono a Firenze, e tornarono
in casa de’ cittadini, veduti lietamente e onorati da tutti, standosi
dimesticamente co’ cittadini per la terra in pace e in sollazzo,
aspettando che si facesse battaglia, e stettono tanto che si partì la
compagnia: il comune veggendo la cortesia e l’amore ch’aveano mostrato,
gli onorò di doni cavallereschi, cera e confetti. La compagnia essendo
stata oltre al tempo promesso in sul contado di Perugia, e loro fatto
gran danno e disagio, si dirizzarono a Todi, dove stettono sei dì,
danneggiando e vivendo di preda, e’ Todini ricomperarono il guasto
quelli danari che poterono fare; onde per patto di loro terreno si
partì la compagnia, e a dì 25 di giugno fu a Bonconvento e al Bagno a
Vignoni, ricevuta con apparecchio di vittuaglia da’ Sanesi, e a guida
di loro cittadini.

CAP. XXVIII.
_Come il comune di Firenze diè l’insegne, e mandò a campo la sua gente._
I Fiorentini essendo pieni di buona speranza sì per lo loro capitano,
che a que’ tempi era riputato grande maestro di guerra e uomo di grande
cuore, e sì per li molti gentili uomini pratichi in arme ch’erano
mandati per capitani della gente ch’era venuta nell’aiuto del comune,
e sì per gli altri paesani e forestieri ch’erano sentiti, e atti non
che a seguitare ma a conducere e a governare ogni grand’oste, i quali
erano tutti di buono volere, e desiderosi di prendere battaglia e per
loro fama e onore, e per servire e accattare la grazia del comune di
Firenze, e per spegnere quella mala brigata, e l’usanza del criare
spesso compagnia per ingordigia di fare ricomperare signori e comuni;
appresso si vedea il comune fornito di bella gente e bene armata
e non di ribaldaglia; il perchè sabato a dì 29 di giugno, il dì di
san Piero, coll’usato modo e stile di nostro comune, con allegrezza
e festa si dierono l’insegne, e ’l capitano ricevuta la reale di
mano del gonfaloniere di giustizia, l’accomandò a messer Niccolò de’
Tolomei da Siena, il quale era allora al soldo del comune di Firenze,
uomo fedele e di grande animo; e ciò fu fatto cautamente, prima per
levare invidia tra’ cittadini, appresso perchè fu pensato che tale
uomo dovesse essere più ubbidiente e riverente al capitano che se
fosse stato cittadino, ancora per onorare la casa de’ Tolomei, che
sempre era stata in fede e in divozione del comune di Firenze più
ch’altra casa di città di Toscana; la qual cosa per quella volta fu
poco a grado a’ Sanesi. L’insegna de’ feditori fu data a messer Orlando
Tedesco antico soldato del nostro comune, fedele e provato in tutte
maniere; e così si fè, per mostrare la fede che’ l nostro comune avea
ne’ Tedeschi, e animarli a ben fare, che non ostante che la zuffa
si dovesse principalmente pigliare co’ Tedeschi, volle fare palese
il comune, che quelli di quella lingua erano leali, e che ciascuno
di loro si dovea e potea fidare. Data l’insegna e piena libertà al
capitano di combattere e di non combattere per l’esaltazione e onore
del comune di Firenze, senza darli consiglieri o tutori cittadini che
’l potessono variare o impedire, cosa rade volte usata per lo comune,
ma utilmente fatta, e nella detta impresa lodata, si partì di Firenze
con l’esercito che allora avea apparecchiato nostro comune, che fu in
questo numero: duemila barbute eletti e duemila masnadieri contadini
di bello apparecchio, cinquecento Ungheri di soldo, milledugento
barbute eletti e quattrocento cavalieri già venuti di quelli di messer
Bernabò, dugento di quelli del Marchese di Ferrara, dugento di quelli
del signore di Padova, trecento di quelli del re Luigi, trecento
che n’avea mandati il legato non volontariamente, ma per virtù de’
patti della pace, i quali era tenuto a osservare al nostro comune,
cinquanta barbute di cavalieri napoletani, messer Lupo da Parma con
trenta barbute, ottanta barbute degli Aretini e con fanti da piè
gente eletta e pulita, dugento fanti del conte Ruberto, e da Pistoia
messer Ricciardo Cancellieri con dodici a cavallo per sè proprio e
trecento fanti del suo comune, d’altra amistà e vicinanza oltre a
fanti trecento, sicchè questa prima mossa furono circa a quattromila
cavalieri e altrettanti pedoni, e il dì se n’andarono e posonsi a campo
in sulla Pesa e nelle contrade d’intorno, per ordinarsi e accogliere
l’altra gente che si attendea de’ soldati di messer Bernabò.

CAP. XXIX.
_Come la compagnia girò il nostro contado, e la nostra a petto._
Essendo la compagnia stata più giorni al Bagno e a Bonconvento andonne
a Isola, e avuto quivi da’ Sanesi la vittuaglia in abbondanza per
portarne con seco, a dì 20 di giugno mossono campo a piccoli passi
girando per non venire su quello di Firenze, e lasciandosi Siena
alle reni feciono la via da Pratolino, e ivi dimorarono due dì di
luglio, avendo la condotta e la panatica da’ Pisani sì se n’andarono
a Ripamaraccia, e l’oste de’ Fiorentini si levò di Pesa e valicò
Castelfiorentino, e a dì 5 di luglio mutò campo, e fermossi alla
torre a Sanromano, comprendendo infino alle Celle sotto Montetopoli,
per attendere quivi la compagnia sotto verace e bello ordine e buona
guardia, stando sempre avvisati; la compagnia da Rimamortoia se
ne venne a Ponte di Sacco; e’ Pisani popolo e cavalieri con numero
d’ottocento barbute o in quel torno, sotto colore di guardia, ma nel
vero per dare alla compagnia caldo e favore, e in caso di zuffa aiuto
e soccorso, si misono al Fosso arnonico, e venuta che fu la compagnia,
la condussono al Pontadera, e come la vidono accampata, si ritornarono
ad altre frontiere vicine a quel luogo; e se ’l fatto fosse seguito
alle minacce della compagnia si trovò vicina all’oste de’ Fiorentini
a due miglia, sicchè se voluto avessono fare d’arme l’aveano in balía;
ma veggendo il conte di Lando e gli altri caporali ch’erano con lui che
l’oste de’ Fiorentini si conduceva saviamente, e con ordine e maestria
d’arme, e che di buona voglia arditamente contro a loro si metteano,
non conoscendo nel luogo vantaggio, ma piuttosto il contrario, per
migliore consiglio dopo a cinque dì che a fronte a fronte erano stati
co’ nostri senza fare niuna mostra o atto di guerra, a dì 10 di luglio
si partì bene la metà la mattina per tempo, e in sul mezzogiorno giunse
a Sanpiero in Campo nel Lucchese, e accampossi quivi; il capitano
de’ Fiorentini loro mandò alle coste messer Ricciardo Cancellieri con
cinquecento uomini da cavallo per tenerli corti e stretti in cammino,
e lasciato al passo di Sanromano bastevole guardia, a dì 21 di luglio
mosse l’oste, e s’accampò alla Pieve a Nievole molto presso a’ nemici,
in luogo, che tra l’uno oste e l’altro era il campo piano e aperto per
fare d’arme chi avesse voluto.

CAP. XXX.
_Come la compagnia mandò il guanto della battaglia al nostro capitano,
e la risposta fatta._
Currado conte di Lando capitano e guida della compagnia, con gli altri
caporali e conducitori, avendo da’ Pisani ferma promessa e dalla gente
loro, ch’erano in numero di ottocento barbute e di duemila pedoni, la
quale teneano in punto a Montechiaro sotto colore e nome di guardia,
mischiandosi continovo con quella della compagnia, della quale cosa
i Fiorentini n’erano crucciosi e male contenti, tutto che in vista
accettassono le scuse de’ Pisani, e que’ della compagnia ne prendessono
caldo e baldanza credendo spaventare col detto appoggio, a dì 12 del
mese di luglio in persona loro trombetti mandarono con grande gazzarra
trombando nel campo de’ Fiorentini con una frasca spinosa, sopra
la quale era un guanto sanguinoso e in più parti tagliato con una
lettera che chiedea battaglia, dicendo, che se accettassono l’invito
togliessono il guanto sanguinoso di su la frasca pugnente; il capitano
con molta festa e letizia di tutta l’oste prese il guanto ridendo; e
ricordandosi che in Lombardia nel luogo detto la frasca era stata a
sconfiggere il conte di Lando, con volto temperato e savio consiglio
rispose in questa forma: Il campo è piano, libero e aperto in tra loro
e noi, e pronti siamo e apparecchiati a nostro podere a difendere ed
esaltare il campo in nome e onore del comune di Firenze e la giustizia
sua, e per niuna altra cagione qui siamo venuti, se non per mostrare
con la spada in mano che i nemici del comune di Firenze hanno il torto,
e muovonsi male senza niuna cagione di giustizia o ragione di guerra;
e per tanto speriamo in Dio, e prendiamo fidanza e certezza d’avere
vittoria di loro: e a chi manda il guanto direte, che tosto vedrà
se l’intenzione sua risponderà alla fiera e aspra domanda: e fatta
questa risposta, e onorati i trombetti di bere e di doni, il capitano
fece sonare li stromenti per vedere il cambio de’ suoi; e tutto che
dubbioso sia l’avvenimento della battaglia, e che vittoria stia nelle
mani di Dio, e diela a cui e’ vuole, grande sicurtà e fidanza prendeva
nostra gente, che in que’ giorni era fortificata di trecento soldati
di cavallo nuovamente fatti per lo nostro comune, e della venuta di
messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di messer Bernabò che in que’
pochi dì venne con cinquecento cavalieri e con mille masnadieri, il
quale giunto, a grande onore ricevuto da’ Fiorentini, e donatoli uno
nobile destriere, di presente cavalcò nell’oste e con molti cittadini,
i quali stimando che si facesse battaglia si misono in arme e andarono
all’oste. E infra l’altre cose che occorsono in questa faccenda fu,
che messer Biordo e ’l Farinata della casa degli Ubertini essendo in
bando per ribelli del comune di Firenze, s’offersono in suo aiuto e
onore, ed essendo graziosamente accettati, vennono con trenta a cavallo
nobilmente montati e bene in arnese, e veduti volentieri e lodati da
tutti cavalcarono al campo, d’onde per tornare in grazia del nostro
comune tanto si faticò messer Biordo, ch’era grande maestro di guerra,
che ne prese infermità, e tornato a Firenze ne morì, e per lo nostro
comune fu di sepoltura maravigliosamente onorato come a suo tempo
diremo. E stando dopo la detta richiesta a petto l’un oste all’altro
senza fare in arme atto nessuno, una notte di furto si partirono della
compagnia trecento cavalieri con alquanti masnadieri, e cavalcarono
verso Castelfranco, e ritraendosi senza, preda, si riscontrarono con
tre cittadini di Firenze e altri Empolesi i quali alla mercatantesca
tornavano da Fisa, i quali presono, e feciono ricomperare, e da indi
innanzi più non s’attentarono di cavalcare in sul nostro contado e
distretto. Stando le due osti vicine, parendo al conte di Lando, e
agli altri caporali e a tutta la compagnia avere poco onore della
invitata di giostra, a dì 16 del mese di luglio con le schiere fatte
si misono innanzi verso l’oste de’ Fiorentini: il capitano saviamente
consigliato, fatto della gente del nostro comune una massa, con
maestria e bell’ordine di gente d’arme in tutte sue parti bene divisa
e capitanata com’era mestiere, si dirizzarono verso i nemici, i quali
veggendoli venire, si fermarono in un luogo che si chiama il Campo alle
Mosche, il quale era cinto di burrati e aspre ripe, dove senza grande
disavvantaggio di chi volesse offendere non poteano essere assaliti; i
nostri gli aspettarono al piano, allettandoli alla battaglia il luogo
il quale era comune; ma i grandi minacciatori, e di poco cuore, se
non contro a chi fugge, non s’attentarono di scendere al piano, e co’
palaiuoli e marraiuoli che assai n’aveano da’ Pisani non intesono a
spianare il campo, ma ad afforzarsi con barre e steccati in quel luogo,
e ivi alloggiatisi, e arso il campo ond’erano partiti, il capitano de’
Fiorentini si fermò coll’oste dov’era arso il Campo, a meno d’un miglio
di piano presso a’ nemici, e quivi afforzossi per non essere improvviso
assalito, e spesse fiate con gli Ungheri insino alle barre facea
assalire i nemici, ma nulla era, che tutti o parte di loro si volessono
mettere a zuffa; il perchè faceano pensare che ciò facessono per
maestria di guerra per cogliere i nostri a partito preso e a vantaggio
loro; ma il savio capitano col buono consiglio sempre stava a riguardo
e provveduto in forma, che con inganno non li facessono vergogna. I
Sanesi veggendo che contro la loro opinione e pensiero i Fiorentini
prosperavano, per ricoprire il fallo loro ne feciono un’altro maggiore,
perocchè per loro ambasciadori si mandarono a scusare al nostro comune,
e offerendo aiuto trecento barbute; la scusa fu benignamente ricevuta,
e accettata la promessa, la quale feciono, che si convertì in fumo,
perchè non si facea nè procedea di diritto e buon cuore.

CAP. XXXI.
_Come la compagnia vituperosamente si partì del Campo delle Mosche, e
fuggissi._
Vedendo i conducitori della compagnia che l’oste de’ Fiorentini era
loro appressata con molta allegrezza sotto il savio governo del buono
capitano, e di molti altri valenti uomini d’arme famosi, e sofficienti
ad essere ciascuno per sè capitano, e di tali v’erano ch’erano stati,
e che la gente del comune di Firenze era fresca e bene armata, e la
loro stanca, e la maggiore parte fiebole e male in arnese; e veggendo
che al continovo a’ nemici forza cresceva, e temendo di non essere
soppresi nel luogo dov’erano, e che i passi non fossono loro impediti;
e sentendo, ch’e’ Fiorentini di ciò procacciavano, e presa esecuzione
aveano mandati balestrieri e pedoni nelle montagne verso Lucca; e
conoscendo che a loro convenia vivere di ratto spargendosi, e cercando
da lunga la preda, o che essendo tenuti stretti a loro convenia o
arrendersi o morire di fame; ed essendo stati a gravare i Pisani venti
dì più che non era in patto con loro, soprastando quivi senza venire a
battaglia temeano di soffratta di vittuaglia, aspettando il soperchio
di non rincrescere ad altrui, e diffidandosi di vincere i Fiorentini
per istracca, e tutto ch’avessono domandata battaglia la schifavano, e
per tema di non esservi recati per forza s’erano afforzati con fossi
e steccati, la vilia di santo Iacopo a dì 23 di luglio, di notte,
innanzi l’apparita del giorno, misono nel loro campo fuoco, e in
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Çirattagı - Cronica di Matteo Villani, vol. 4 - 11
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