Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 09

Süzlärneñ gomumi sanı 4732
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1342
40.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
54.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
61.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
trovando al porto le galee e i legni apparecchiati, vi montò suso; e
avendo il tempo buono, valicò in Puglia a salvamento, assai più tosto
che per i paesani non si stimava. E sentita la partita sua in Ungheria,
grande moltitudine d’Ungheri il seguitarono, valicando di Schiavonia
in Puglia in barche e in piccoli legni armati sì disordinatamente, che
se il re Luigi avesse avute due galee armate senza fallo gli avrebbono
rotti e impediti per modo, che non sarebbono potuti passare: ma come
furono passati, il re Luigi vi mandò tre galee armate che vi giunsono
invano. Ed essendo il re d’Ungheria in Puglia, ragunò la sua gente
insieme, e trovossi con diecimila cavalieri. In que’ dì il conte di
Minerbino, il quale s’era ribellato dal detto re, si racchiuse nella
città di Trani, alla quale il re andò ad assedio. E vedendosi il conte
senza speranza di soccorso e disperato di salute, col capestro in
collo e in camicia uscì della città, e gittossi ginocchione in terra
a piè del re domandandoli misericordia. Il re d’Ungheria dimenticati
i baratti e’ falli del conte benignamente gli perdonò, e rimiselo
nel suo stato: e lasciato nelle città e castella di Puglia quella
gente che volle, venne in Principato. La città di Salerno essendo
in cittadinesche discordie gli apersono le porte, e ricevettonlo a
onore: e ivi si riposò alquanti dì; e messo suo vicario nella città
e castellano nel castello, se ne venne a Nocera de’ cristiani; e in
quella se n’entrò senza contasto. Il castello era forte e bene fornito
alla difesa, ma invilito il castellano, per codardia l’abbandonò. Il
re il fece prendere e guardare alla sua gente. E partito di là venne a
Matalona, nella quale entrò senza contasto. E tutte le città e castella
di Terra di Lavoro feciono il suo comandamento, salvo la città di
Napoli ed Aversa. E poi il detto re con tutto suo sforzo se ne venne
ad Aversa, del mese di maggio nel detto anno, e credettelasi avere alla
prima giunta, ma trovossi ingannato, perocchè era città di mura cinta,
e bene che fossero basse, era imbertescata e fornita di legname alla
difesa; e dentro v’erano i cavalieri e i masnadieri che la difendevano
virtuosamente; e assaggiata per più volte dall’assalto degli Ungheri,
con loro dannaggio, il re conobbe che non la potea vincere per forza, e
però vi mise assedio, e strinsela con più campi per modo, che da niuna
parte vi si poteva entrare.

CAP. LXXXIX.
_Come i Genovesi ebbono Ventimiglia._
In questo tempo dell’assedio d’Aversa, il doge di Genova e il suo
consiglio, conosciuto loro tempo, armarono dodici galee e mandaronle
nel porto di Napoli, e diedono il partito a prendere al re e a alla
reina, dicendo in questo modo: il doge di Genova e il suo consiglio
ci hanno mandati qui a essere in vostro aiuto, in quanto voi rendiate
liberamente al nostro comune la città di Ventimiglia, la quale è di
nostra riviera, avvegnachè di ragione fosse della contea di Provenza.
E se questo non fate, di presente abbiamo comandamento d’essere contro
a voi, e di servire il re d’Ungheria. Il re e la reina vedendosi
assediati per terra dalla grande cavalleria del re d’Ungheria, a cui
ubbidia tutta la Terra di Lavoro, e di mare convenia che venisse tutta
loro vittuaglia, e da loro non aveano solo una galea: pensarono che
se i Genovesi gli nimicassono in mare erano perduti, e però stretti
dalla necessità deliberarono di fare la volontà del doge e del comune
di Genova, avendo speranza dell’aiuto di quelle galee molto migliorasse
la loro condizione. E incontanente mandarono a far dare la tenuta
della città di Ventimiglia al comune di Genova. E le dodici galee non
si vollono muovere del porto di Napoli, nè fare alcuna novità infino a
tanto che la risposta non venne dal loro doge, come avessono la tenuta
della detta città. Avuta la novella, non tennono fede al re Luigi nè
alla reina di volere nimicare le terre che ubbidivano al re d’Ungheria,
nè essere contro a lui; anzi si partirono da Napoli, e presono altro
loro viaggio.

CAP. XC.
_Come fu data l’ultima battaglia ad Aversa dal re d’Ungheria._
Stando l’assedio ad Aversa, il re d’Ungheria facea scorrere continovo
la sua gente fino a Napoli e per lo paese d’intorno d’ogni parte, e
tutti i casali e le vicinanze l’ubbidivano, e mandavano il mercato
all’oste. A Napoli per terra non entrava alcuna cosa da vivere, e però
avea soffratta d’ogni bene, salvo che di grechi e di vini latini. E
se il re d’Ungheria avesse avute galee in mare, avrebbe vinta la città
di Napoli per assedio più tosto che Aversa: perocchè non aveano d’onde
vivere, se per mare non veniva da Gaeta e di Roma con grande costo. Nel
cominciamento, l’oste del re d’Ungheria fu abbondevole d’ogni grascia,
per l’ubbidienza de’ paesani: ma soprastando l’assedio, il servigio
cominciò a rincrescere, e l’oste ad avere mancamento di molte cose,
e spezialmente di ferri di cavalli e di chiovi. E i nobili regnicoli
vedendo che il re in persona con diecimila cavalieri non poteva
prendere Aversa, debole di mura e di fortezza e con poca gente alla
difesa, cominciarono ad avere a vile gli Ungheri, e trarre le cose loro
de’ casali, e la vittuaglia non portavano al campo come erano usati. E
per questo le masnade degli Ungheri andavano a rubare oggi l’uno casale
e domane l’altro, e spaventati i paesani, la carestia e il disagio
montava nell’oste. Il re temendo che la vittuaglia non fallasse nel
soggiorno, deliberò di combattere la città con più ordine e con più
forza ch’altra volta non avea fatto, come appresso diviseremo.

CAP. XCI.
_Della materia medesima._
Vedendo il re d’Ungheria mancare la vittuaglia all’oste, ebbe i
capitani e’ conestabili de’ suoi Ungheri e Tedeschi che v’erano a
parlamento: e disse come grande vergogna era a lui e a loro essere
stati tanto tempo intorno a quella terra, abbandonata di soccorso e
imperfetta di mura, e non averla potuta prendere; e ora conoscea che
per lo mancamento della vittuaglia il soggiorno non gli tornasse a
vergogna; e però gli richiedeva e pregava ch’elli confortassono loro e
i loro cavalieri, ch’elli adoperassono per loro virtù, che combattendo
la terra si vincesse: ch’egli intendea di volere che la battaglia
da ogni parte vi si desse aspra e forte, sicch’ella si vincesse. I
capitani e’ conestabili di grande animo e di buono volere s’offersono
al re, e il re in persona disse loro d’essere alla detta battaglia.
Quelli d’entro che sentirono come doveano essere combattuti con tutta
la forza di quella gente barbara, non si sbigottirono, anzi presono
cuore e ardire e argomento alla loro difesa. Gli Ungheri e i Tedeschi
sprovveduti d’ingegni da coprirsi e da prendere aiuto all’assalto delle
mura, fidandosi negli archi e nelle saette, da ogni parte a uno segno
fatto assalirono le mura. E il re in persona fu all’assalto, per fare
da se, e per dare vigore agli altri. E data la battaglia, e rinfrescata
spesso, per stancare i difenditori, e fatto di loro saettamento ogni
prova, ed essendo da quelli della terra in ogni parte ribattuti,
coll’aiuto de’ balestrieri e delle pietre e della calcina gittata sopra
loro, e delle lanci e pali e d’altri argomenti, non ebbono podere di
prendere alcuna parte delle mura, ma molti di loro morti e più fediti,
e infino fedito il re, con acquisto d’onta e di vergogna si ritrassono
dalla battaglia. Que’ d’entro avendo combattuto francamente, confortati
e medicati di loro fedite, presono delle fatiche riposo.

CAP. XCII.
_Come il conte d’Avellino con dieci galee stette a Napoli, e Aversa
s’arrendè al re._
Stando l’assedio ad Aversa, la reina Giovanna non essendo bene del
re Luigi, perchè volea essere da lui più riverita che non le parea,
perocchè era donna e reina del reame, e il marito non era ancora re,
a sua ’stanza fece in Proenza al conte d’Avellino, capo e maggiore
della casa del Balzo, armare dieci galee, e all’uscita di giugno nel
detto anno giunse nel porto di Napoli colla detta armata, atteso
per soccorso, del quale aveano gran bisogno. Ma il conte pieno di
malizia, conoscendo il bisogno del re Luigi, e poco curandosi della
reina, mostrandosi di volere trattare suo vantaggio, colle sue galee
si teneva in alto sopra il porto di Napoli. E per trarre vantaggio e
mantenere l’armata, ordinò che ogni legno o barca che nel porto volesse
entrare o uscire pagasse certa quantità di danari, e per questo modo
aggravava i Napoletani, e faceva loro più grande la carestia della
vittuaglia. E stando in questo modo, trattava domandando vantaggio
al re Luigi, e il re gliel’otriava quanto sapea domandare, per avere
l’aiuto di quelle galee, aggiugnendo i prieghi della reina, mostrando
come con quelle galee poteano racquistare le terre di quella marina,
onde seguirebbe loro grande soccorso. Ma per cosa che fare sapesse
non potè smuovere il conte a dargli l’aiuto di quell’armata, anzi
si partì di là, e per potere agiare la ciurma in terra s’apportò
al castello dell’Uovo: e cominciò a trattare col re d’Ungheria di
volergli dare per moglie la sirocchia della reina, che fu moglie del
duca di Durazzo, e il re avvisato gli dava intendimento, per volere
quelle galee tenere in contumace de’ suoi avversari. E stando il conte
in trattati e di là e di qua, non si potea conoscere che facesse la
volontà della reina, nè che fosse ribello al re Luigi, o in che modo si
potesse giudicare essere col re d’Ungheria, tenendo colla sua malizia
ogni parte sospesa. Al re Luigi e ai Napoletani fece danno, alla reina
non accrebbe baldanza: ma al re d’Ungheria, per lo suo trattare, fece
piuttosto avere Aversa: che sentendo gli assediati i trattati del
conte, affaticati lungamente alla difesa d’Aversa, pensando che il re
d’Ungheria rimanesse nel Regno, benchè ancora si potessono difendere
alcun tempo, presono partito di trattare per loro. E messer Iacopo
Pignattaro loro capitano, essendo regnicolo, e di natura mobile alla
nuova signoria, tosto s’accordò col re, ed ebbe sotto titolo di loro
soldi moneta dal re d’Ungheria, e rendégli la città d’Aversa: il quale
incontanente v’entrò dentro con tutta sua cavalleria, e non lasciò
fare a’ cittadini alcuna violenza o ruberia. E questo fu del mese di
settembre del detto anno. Manifesto fu che questa vittoria venne agli
Ungheri a gran bisogno, perocchè già era sì stracca la gente, per lungo
disagio e per la carestia, che poco più vi poteano stare, e il partire
senza averla vinta tornava al re e alla sua grande cavalleria ontosa
vergogna.

CAP. XCIII.
_Come il re d’Ungheria e il re Luigi vennono a certa tregua._
Avendo non ispedite guerre, ma piuttosto avviluppamenti di quelle
narrate de’ fatti del regno di Cicilia, seguita non meno incognito
e avviluppato processo nelle seguenti successioni di que’ fatti; ma
cotali chenti alla nostra materia s’offeriranno, con nostra scusa gli
racconteremo. Avuta il re d’Ungheria la città d’Aversa, alla quale
lungo tempo s’era dibattuto con tutta la sua grande oste, e non l’avea
potuta nè per forza nè per assedio acquistare, essendo debole città
di mura e da poca gente difesa, si pensò che l’altre maggiori e più
forti città che si teneano contro a lui sarebbono più malagevoli a
conquistare, e per esempio d’Aversa troverebbe maggiore resistenza; e i
suoi baroni aveano già compiuto con lui il termine del debito servigio,
e a volerli ritenere al conquisto del Regno bisognava che desse loro
danaro, che n’avea pochi, e del Regno non ne potea trarre, essendo in
guerra: vide che il re Luigi, i baroni, e quelli che si teneano dal
suo lato erano disposti di stare alla difesa delle mura: e però mutò
l’animo agevolmente disposto a trovare accordo, col quale con meno sua
vergogna si potesse partire del Regno. E dall’altra parte il re Luigi
era a tanto condotto, che non che potesse con arme resistere al nimico,
ma di mantenere bisognose e necessarie spese di sua vita era impotente;
e se non fosse che l’animo de’ Napoletani concorrea a lui e alla reina
alla loro difesa, non arebbono potuto sostenere. E per questa cagione
era atta la materia da catuna parte a venire alla concordia con piccolo
aiuto d’alcuni mezzani. Onde alcuno prelato di santa Chiesa, il quale
era dal papa mandato nel Regno, e il conte d’Avellino, che avea da
ogni parte puttaneggiato, coll’aiuto d’alcuno altro barone, movendosi
a cercare se potessono trovare via d’accordo, con piccola fatica vi
pervennono alla cavalleresca, in questo modo. Che triegue fossono
fatte infino a calen di aprile, gli anni _Domini_ 1351, con patto, che
chi avesse nel Regno dovesse sicuramente tenere sue città, castella
e ville in pace tutto il tempo detto. Che la questione che si faceva
contro alla reina Giovanna della morte del re Andreasso, si dovesse
commettere nel papa e ne’ cardinali: e dove fosse trovata colpevole,
dovesse perdere il reame, e tornasse libero al re d’Ungheria: e
dove ella non fosse giudicata colpevole della morte del marito, ma
liberatane per sentenza del papa e del collegio de’ cardinali dovesse
rimanere reina del detto regno. E il re d’Ungheria le dovea rendere
tutte le città, castella e baronaggi che vi tenea, riavendo da lei per
le spese fatte per lui fiorini trecentomila d’oro, per quello modo e
termine competente che ordinato fosse per la santa Chiesa; e per patto
catuno re si dovea partire personalmente, e la reina del reame. Per
la fermezza d’attenere l’uno all’altro questi patti non ebbe altro
legame, che la fe e la scrittura e la testimonianza de’ mezzani. Il re
d’Ungheria che avea d’uscire del reame maggior voglia, prese l’onesta
cagione d’andare in romeaggio a Roma al santo perdono; e in Puglia
alle terre della marina lasciò de’ suoi Ungheri alla guardia con loro
capitani, e fornì di buona guardia tutte le sue tenute in Terra di
Lavoro; e a Capova e Aversa, e per l’altre terre e castella circustanti
lasciò suo vicario messer fra Moriale cavaliere friere di san Giovanni
di Provenza, valente e ridottato cavaliere, con buone masnade di
Provenzali, di cui il detto re molto si confidava; e a Viglionese
e a Lanciano e nell’altre terre che tenea in Abruzzi lasciò vicario
messer Currado Lupo, franco cavaliere, con sue masnade di Tedeschi
a quella guardia. E ordinato ch’ebbe la guardia delle sue terre nel
Regno si mise a cammino per andare a Roma: e incontanente il re Luigi
per mostrare di volere uscire del Regno, e tenere i patti, si partì
da Napoli colla reina, e venne alla città di Gaeta in su’ confini del
reame, e ivi attendeva che il re d’Ungheria si partisse d’Italia e
tornasse in suo reame, com’era in convegna; e ciò fatto, il re Luigi
e la reina Giovanna doveano fuori del reame attendere la sentenza di
santa Chiesa. I Gaetani ricevettono il re Luigi e la reina Giovanna
in Gaeta con grande onore: e provviddongli di loro danari per aiuto
alle spese, che n’aveano grande bisogno. Ed ivi si fermarono con animo
e intenzione di non uscire del Regno, bene che promesso l’avessono,
parendo loro che il dilungamento da quello, al bisognoso e lieve stato
ch’aveano, fosse pericoloso al fatto loro. Il re d’Ungheria seguì a
Roma suo viaggio, e avuto il santo perdono senza soggiorno se ne tornò
in Ungheria.

CAP. XCIV.
_Come il conte d’Avellino diè al suo figliuolo per moglie la duchessa
di Durazzo._
Il conte d’Avellino, il quale colle sue galee era rimaso sopra Napoli
al castello dell’Uovo, vedendo i fatti del Regno rimasi intrigati per
lungo tempo, essendo rimasa la duchessa di Durazzo sirocchia della
reina, vedova, nel castello dell’Uovo, chiamata Maria, non ostante
che ’l detto conte fosse suo compare, ma per quello mostrando più
familiarità, con piccola compagnia andò al castello per vicitarla,
innanzi alla sua partita; la duchessa con buona confidanza gli fece
aprire liberamente il castello, ed egli con due suoi figliuoli e colla
sua famiglia armata v’entrarono: e entrati, fece prendere la guardia
delle porti e delle fortezze d’entro. Ed essendo colla duchessa, disse
che volea ch’ella fosse moglie di Ruberto suo figliuolo, e per forza le
fece consumare il matrimonio: e di presente la trasse del castello con
tutti i suoi arnesi, e misela nella sua galea, per menarla in Proenza.
Il re Luigi ch’era in Gaeta sentì di presente questo fatto, e egli e
la reina ne furono molto turbati. E seguendo il conte suo viaggio per
tornare in Proenza con tutte le galee, quando furono sopra a Gaeta
l’otto entrarono nel porto, e i padroni e’ nocchieri e le ciurme
scesono in terra per pigliare rinfrescamento. Il conte colla duchessa
e co’ figliuoli rimasono fuori del porto in due galee, e attendevano
l’altre che prendevano rinfrescamento per seguire loro viaggio. Il re
Luigi cautamente fece venire a se i padroni e’ nocchieri dell’otto
galee, e fece segretamente armare de’ Gaetani e stare alla guardia,
che non potessono senza sua volontà tornare alle galee. E fatto questo,
disse: pensate di morire se non fate che le due galee dov’è il conte,
e i figliuoli e la duchessa, venghino dentro nel porto a terra; e alle
minacce aggiunse amore e preghiere: e ritenuti de’ caporali cui egli
volle per sicurtà del fatto, lasciò gli altri tornare alle galee: i
quali di presente s’accostarono alle due galee del conte, che di questo
fatto, come il peccato l’accecava, non s’era avveduto, e di presente
l’ebbono condotte a terra dentro al porto. Allora il re mandò a dire al
conte che venisse a lui. Il conte si scusò che non potea perocch’era
forte stretto dalle gotte. Il re acceso di furore e infiammato d’ira,
per l’ingiuria ricevuta della vergogna fatta al sangue reale, e de’
suoi gravi e pericolosi baratti, non si potè temperare nè raffrenare il
conceputo sdegno: ma prese certi compagni di sua famiglia, e armati,
in persona si mosse: e giunto al porto, montò in su la galea dov’era
il conte. Venuto a lui, in brieve sermone gli raccontò tutti i suoi
tradimenti, e la folle baldanza che lo avea condotto a vituperare il
sangue reale: e detto questo, senza attendere risposta, con uno stocco
il fedì del primo colpo; e incontanente n’ebbe tanti, che senza potere
fare parola rimase morto in su la galea. La duchessa di presente fu
tratta di galea, e collocata colla sua famiglia e co’ suoi arnesi
in uno ostieri in Gaeta, e i due figliuoli del conte furono messi in
prigione. Lasceremo ora de’ fatti del Regno, che stando le triegue non
v’ebbe cosa degna di memoria, e ritorneremo alla nostra materia degli
altri fatti d’Italia, e della nostra città di Firenze.

CAP. XCV.
_Della grande potenza dell’arcivescovo di Milano, e come i Fiorentini
temeano di Pistoia, e quello che ne seguì._
In questo medesimo tempo, tra il fine del cinquantesimo ed il
cominciamento del milletrecentocinquantuno, i Fiorentini cominciarono
forte a temere della città di Pistoia, la quale per cittadinesche
sette era divisa e in male stato. E la casa de’ Panciatichi, che non
erano originali guelfi, in que’ dì aveano cacciato della città messer
Riccardo Cancellieri e i suoi naturali, guelfi, di quella terra, e
antichi servidori del comune di Firenze: e messer Giovanni Panciatichi
s’avea recato in mano il governamento di quella terra, e per sembianti
mostrava d’essere amico del comune di Firenze. I Fiorentini sentendo
l’arcivescovo di Milano, il quale in quel tempo avea sotto la sua
tirannia ventidue città, tra in Lombardia e in Piemonte, e di nuovo
avea contro la volontà di santa Chiesa presa la città di Bologna,
la quale confinava col loro comune, temeano forte che Pistoia per le
cittadinesche discordie non pervenisse nelle sue mani, e però voleano
la guardia di quella terra. E quanto che messer Giovanni si mostrasse
amico del comune di Firenze, con diverse e nuove cagioni tranquillava
e metteva indugio col seguito de’ cittadini della sua setta, che il
comune di Firenze non avesse la guardia, raffrenando l’appetito de’
Fiorentini, col sospetto del potente vicino. Nondimeno i Pistolesi
guelfi pur vollono che il comune di Firenze v’avesse dentro alcuna
sua sicurtà, e consentirono che i Fiorentini mettessono in Pistoia
messer Andrea Salamoncelli, uscito di Lucca loro soldato, con cento
cavalieri e con centocinquanta masnadieri alla guardia di Pistoia, alle
spese del comune di Firenze, con patto espresso, che il detto capitano
co’ suoi cavalieri e fanti giurassono di mantenere quello stato che
allora reggeva Pistoia, contro il comune di Firenze, e ogni altro che
offendere o mutare il volesse. I Fiorentini vedendo che meglio non si
poteva fare senza grave pericolo, benchè conoscessono che questa non
era la guardia che bisognava, acconsentirono, e misonvi il capitano e
la gente d’arme sotto il detto saramento: e con molte dissimulazioni
e lusinghe manteneano quella città, ritenendo i cavalieri in Firenze
senza mutazione infino al primo tempo.

CAP. XCVI.
_Come certi rettori di Firenze vollono prendere Pistoia per inganno._
Era per successione de’ rettori di Firenze di priorato in priorato
la sollecitudine di mettere rimedio alla guardia di quella città, e
non trovandosi da potere fare altro che fatto si fosse, alcuni allora
rettori del nostro comune, con più presunzione che il loro consiglio
non permettea, provvidono di fare tra loro segretamente d’avere per
non leale ingegno la signoria di quella terra; e com’ebbono conceputo
il non debito fatto, così per non discreto nè savio modo il vollono
mettere a esecuzione, e sotto altro titolo accolsono i soldati del
comune a piedi e a cavallo, e mossonne delle leghe del contado: e
avendo a questa gente dato ordine alla notte che si doveano muovere,
vollono provvedere di mutare di Pistoia il capitano ch’avea giurato a’
Pistolesi, ch’era troppo diritto e leale cavaliere di sua promessa,
e scambiare le masnade sotto il titolo della condotta, acciocchè
potessono senza contasto dentro meglio fornire la loro intenzione: e a
ciò fare mattamente si confidarono a uno ser Piero Gucci, soprannomato
Mucini, allora notaro della condotta, il quale era paraboloso e di
grande vista, e poco veritiere ne’ fatti. Questi promise di fornire
la bisogna chiaramente, e d’avvisare del fatto alcuni conestabili
confidenti: e preso a fornire il servigio, i poco discreti rettori del
comune ebbono la promessa di colui come se la cosa fosse ferma e certa;
e per questo la notte ordinata, a dì 26 di marzo gli anni _Domini_
1351, feciono cavalcare i cavalieri e’ pedoni ch’aveano apparecchiati,
e con loro messer Ricciardo Cancellieri, colle scale provvedute alla
misura delle mura, e a Pistoia furono la mattina innanzi dì, ed ebbono
messe le scale, e montati de’ cavalieri e de’ pedoni in su le mura,
e scesine dentro una parte, avvisando d’avere l’aiuto de’ soldati del
comune di Firenze che v’erano dentro, come era loro dato a divedere,
pensavano a dare la via agli altri e farsi forti, e tutto era senza
contasto, perocchè i cittadini si dormivano senza sospetto. E i soldati
del comune che dentro v’erano non aveano sentimento nè avviso alcuno,
perocchè il notaio, a cui la bisogna fu commessa, fu trovato in Prato
nell’albergo a dormire. Messer Ricciardo essendo co’ suoi in sulle mura
si scoperse innanzi tempo, facendo gridare viva il comune di Firenze e
messer Ricciardo. I Pistolesi sentendo il rumore credettono fosse opera
di messer Ricciardo loro sbandito, il quale aveano in gran sospetto;
e però co’ soldati de’ Fiorentini insieme furono all’arme, e trassono
alle mura francamente ad assalire coloro che dentro erano scesi: e
feditine alquanti, tutti gli presono, e allora di prima seppono che
questa era fattura de’ Fiorentini; e tutti co’ soldati de’ Fiorentini
insieme intesono sollecitamente a guardare la terra il dì e la notte. E
la folle impresa, mattamente condotta per li rettori di Firenze, generò
in Pistoia grave e pericoloso sospetto, e in Firenze molta riprensione.
Il notaio, a cui i signori aveano commessa la bisogna, fu preso a
furore di popolo e menato alla podestà, e avrebbe perduta la persona,
se non che il grande fallo ch’aveano commesso i suoi comandatori,
perchè non gravasse loro difesono lui. E di questo seguì quello che
appresso diviseremo.

CAP. XCVII.
_Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonla a’ comandamenti loro._
Quando i Fiorentini s’avvidono del pericolo, ove l’indebita impresa
de’ loro rettori gli aveva messi, di recare a partito i Pistolesi,
per la nuova ingiuria ricevuta, d’aiutarsi colla forza del vicino
tiranno: temendo che questo non avvenisse, non per animo di volere di
quella città alcuna giurisdizione fuori che la guardia, per gelosia
che al tiranno non pervenisse, di presente diliberarono che la città
si strignesse per forza e per amore tanto che la guardia solo se ne
avesse, per loro sicurtà, e del nostro comune, e altro non volea; e
senza indugio alla gente che andata v’era s’aggiunse cavalieri, quanti
allora il comune ne aveva, e fanti a piè. E per decreto del comune si
diè parola agli sbanditi che catuno facesse suo sforzo, e alle sue
spese menasse gente nell’oste in aiuto al comune di Firenze secondo
suo stato, e dopo il servigio fatto sarebbe ribandito d’ogni bando. Per
la qual cosa in tre dì furono intorno a Pistoia ottocento cavalieri e
dodicimila pedoni, e ristrinsonla d’ogni parte con più campi, sicchè
di loro contado nè da altra amistà dentro non poterono avere alcuno
soccorso o aiuto. E di Firenze vi s’aggiunse sedici pennoni, uno per
gonfalone, co’ quali andarono duemila cittadini quasi tutti armati come
cavalieri, e molti ve n’andarono a cavallo; e giunti nell’oste con
loro capitani, feciono dirizzare intorno alla città otto battifolli.
In Pistoia aveva a questo tempo millecinquecento cittadini, o poco
più, da potere con arme difendere la terra, oltre alle masnade a
cavallo e a piè che dentro v’erano a soldo de’ Fiorentini, i quali
si stavano senza fare novità dentro o guerra di fuori: per la qual
cosa al gran giro della città parea che così pochi cittadini non la
dovessono potere difendere. E per questa cagione i Fiorentini aveano
speranza di vincerla per forza, quando con loro non si potesse trovare
accordo. I Pistolesi d’entro, uomini coraggiosi e altieri, con dura
faccia intendeano dì e notte alla loro difesa: e perch’erano pochi a
tanta guardia quanta il dì e la notte convenia loro fare, uscirono
delle loro case, e vennono ad abitare intorno alle mura: e le mura
armarono di bertesche e di ventiere, e dentro uno largo corridore di
legname, e fornironlo di pietre e di legname e di pali da gittare,
e di travi sopra i merli: e feciono a piè delle mura intorno intorno
molti fornelli con caldaie, per apparecchiare acqua bollita per gittare
sopra coloro che combattessono: e apparecchiarono calcina viva in
polvere per gittare, e con ferma e aspra fronte mostravano volere
difendere la loro franchigia; la qual cosa era degna di molta lode,
se per antichi e nuovi e continovi esempli, della loro cittadinesca
discordia non fosse contaminata. E addurandosi di non volere prendere
accordo col comune di Firenze, soffersono il guasto di fuori de’ loro
campi; e vedendo i Fiorentini che più s’adduravano, diliberarono che
la terra si combattesse; e per levare loro la speranza del contradio,
comandarono a messer Andrea Salamoncelli, capitano e conestabile de’
cavalieri e de’ pedoni che dentro v’erano a soldo del nostro comune,
che ne dovesse uscire, e così fu fatto; per la qual cosa la nostra
oste s’accrebbe, e a loro mancò la speranza: e ordinati di fuori ponti
e grilli, e castella di legname e altri fornimenti da combattere le
mura, acciocchè con più sicurtà si potesse intendere alla battaglia,
cinsono di buono steccato dall’uno battifolle all’altro. I Pistolesi
vedendo la disposizione de’ Fiorentini, e pensando, eziandio che si
difendessono, non poteano bene rimanere, cominciarono più a temere.
In questo mezzo ambasciadori da Siena v’entrarono, mandati dal loro
comune per trovare accordo, e come che s’aoperassono conferendo colle
parti, manifesto fu che peggiorarono la condizione, e inacerbirono
gli animi e dentro e di fuori. E dato il dì della battaglia, e da ogni
parte apparecchiata, i guelfi di Pistoia, ch’erano la maggiore forza
della città, s’accolsono insieme con pochi ghibellini, ed essendo al
consiglio, ricercarono con l’animo più riposato il pericolo a che si
conducevano, per contrastare a’ padri loro, il comune di Firenze, la
guardia loro e della città, la quale doveano con istanza domandare
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Çirattagı - Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 10
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