Agide - 3

Süzlärneñ gomumi sanı 3724
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1298
32.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
45.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
52.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Agide a noi ben custodito traggi.

SCENA SECONDA
LEONIDA, POPOLO, EFORI, SENATORI,
_ciascuno collocato ordinatamente_.

LEON. --Lode agli Dei! quí radunarsi veggio
i cittadini veri; e non frammisti
con la torbida, audace, e sozza plebe,
che col numero suo voi ne strascina
negli error suoi, mal grado vostro.--A Sparta
inaudito spettacolo si appresta;
il maggior, che ad uom libero mai possa
appresentarsi: un vostro re, dai vostri
efori tratto, ed accusato, innanzi
a voi. Gli error ne udrete, e le discolpe,
e il giudizio, di cui voi stessi parte
sarete, spero. Io, benché re, con gioja
pur ve l'annunzio. Ah! non ebb'io tal sorte
in quel funesto a me, non fausto a Sparta,
orribil giorno, in cui dal trono in bando
cacciato, in forse della vita io stetti.
Non accusato, e non udito, a ria
forza soggiacqui allora; eppur, piú doglia
che l'ingiusto mio esiglio, erami al core
il sovvertito ordin di leggi, e il fero
periglio in cui lasciava io Sparta. Instrutti
voi stessi al fin dai vostri danni appieno,
me richiamaste, e in un le leggi, in trono:
Agesiláo, Cleómbroto, e i lor fidi
efori, a Sparta traditori, in bando
cacciaste. Agide resta: havvi chi reo
nol vuole; e forse, ei reo non è. Ma intanto,
io preso il volli, e ad altro fin nol tengo,
che per chiarirlo in faccia a voi. S'ei fosse
reo convinto pur mai, primier mi udreste
implorar pel mio genero perdono:
che agli occhi vostri, e ai miei, sua giovinezza
nol rende affatto or di pietade indegno.--
Efori, senatori, cittadini,
la vera vostra maestá non sorse
a dritto mai piú nobile di questo:
conoscer oggi, e perdonare i falli
dei vostri re: che sottopongo io pure
oggi a voi l'opre mie. Prova non lieve
del cor mio puro, e del regnar mio giusto,
parmi, fia questa; ed io di darla anelo.
A tremar delle leggi Agide insegni
a Leonida re.--Ma, giá si appressa
Agide al vostro tribunale: ed ecco
ch'io taccio, e seggo; io, cittadino, attendo
dai cittadin dell'alta lite il fine.
Ben sostener d'ogni mia forza io giuro,
qual ch'esser possa, la immutabil santa
libera vostra unanime sentenza.

SCENA TERZA
ANFARE, AGIDE fra guardie, LEONIDA,
POPOLO, EFORI, SENATORI.

ANFAR. Spartani, efori, re, costui ch'io traggo
davanti al vero tribunal di Sparta,
Agide egli è d'Eudámida. Giá il regno
con Leonida ei tenne; il cacciò poscia
dal trono, a cui nuovo collega assunse
Cleómbroto. A voi piacque, indi a non molto,
ridomandar Leonida, che il seggio
ritoglieva a Cleómbroto. Nel sacro
asilo allor quest'Agide fuggiva:
perché fuggisse, ei vel dirá. Fin ch'egli
lá ricovrava, ei re non era; il trono
abbandonato avea: ma non privato
era ei perciò; che non avea deposta
sua dignitá, né stata eragli tolta:
non innocente, poiché asil sceglieva;
non reo, poiché niun l'accusava. In vostra
possanza il diero oggi di Sparta i Numi,
senza che víolato il santo asilo
fosse da alcun di noi. Lo accuso io quindi
ora, a voi tutti, di mutate, infrante,
tradite leggi; di tiranniche armi
in Leonida e gli efori adoprate;
di tiranniche mire, a cui fea base
la ribellante compra infima plebe:
e, per stringere in fin tutti i suoi tanti
delitti in un, di aver tradita e lesa
la maestá di Sparta, a voi lo accuso.
AGIDE --Solenne in vero, e dignitosa pompa
questa fia: ma, perché di affar tant'alto
Sparta non è quí testimonio intera?
Perché, qual suolsi ogni accusato, al foro
non son io tratto?--È ver, gli efori veggio,
e un re quí stassi, e del senato un'ombra:
ma pur per quanto l'occhio intorno io giri,
non vegg'io cittadini, altri che pochi,
potenti, e misti infra gli armati sgherri.
La maestá del popolo di Sparta
fia questa or forse? Io, non che Sparta tutta,
Grecia vorrei quí tutta a udire intenta
e le tue accuse, e le discolpe mie.
Or, poiché tanta è in voi de' miei delitti
l'ampia certezza, or dite: a che pur tormi,
con sí gran parte d'ascoltanti, a un tempo
della vergogna mia cosí gran parte?
LEON. Per quanto il soffra il loco, assai gran folla
di cittadini or vedi, Agide, accolta.
Trarti dal limitar del carcer tuo,
tu il sai, che fora un cimentar pur troppo
la dignitá degli efori, e la stessa
tua innocenza, ove l'abbi. Udiati Sparta,
del tuo asilo in discolpa, addur finora,
che tor cosí tu stesso alla tua plebe
de' tumulti volevi ogni pretesto,
e ogni mezzo di sangue: infra sue grida,
come or vorresti al suo cospetto andarne,
e un giudicio ottener libero e queto?
AGIDE Questo giudicio, e il men dannoso a voi,
stato sarebbe il percussor mandarmi
tosto al carcer: ma questo, assai men queto
fia di quel che sperate. In me non parla
il timor, no; del mio destin giá certo,
securo quí, del par che al foro, io vengo.
Giá la sentenza mia so senza udirla:
ma, non ne avrò pur danno altro giammai,
che quel ch'io da gran tempo ho fermo in core
di aver da voi.--Giudici; e, quai che siate,
voi spettatori; io vi prevengo or tutti,
ch'io, condannato in queste mura e ucciso,
non perciò pace col morir vi rendo,
com'io il vorrei: né voi, col trarmi a morte,
in sicurtá vi rimanete.--Or sia
ciò ch'esser vuole. Udiam le accuse.
ANFAR. In nome
io ti parlo degli efori; me ascolta.--
Agide, hai tu, senza né udirlo, astretto
all'esiglio Leonida?
AGIDE Chiamato
ei fu in giudicio; e sen fuggia.
LEON. Chiamato
io fui, nol niego, ma davanti a fera
tumultuante plebe. Esser potea
giudicio, quello?...
AGIDE Al par di questo, almeno.
Ma, il fuggir ti fu dato: in carcer dunque
non eri tu. Mezzi a me pur di fuga
non mancavan finora; e al carcer venni,
ed in giudicio stommi: e, qual ch'ei fia,
no, nol pavento. Io 'l desiava, e godo
di udire al fin; di farmi udire io godo.
ANFAR. Infrante hai tu le patrie leggi?
AGIDE Intere
restituir le sacre leggi io volli
del gran Licurgo: elle non fur mai tolte,
ma inosservate, or da gran tempo. Opporsi
volle a sí giusta e generosa impresa
Leonida: pria l'arte, indi la forza
oprava in ciò; ma entrambe invano: allora
vinto ei piú dalla propria sua vergogna,
che dalla forza altrui, per minor pena
ei s'imponea l'esiglio. Ei stesso il dica,
se danno io poscia, o securtade e vita
a lui recassi. Al suo fuggir, sol uno,
di Sparta un grido, ogni oprar suo biasmava,
ogni mio benediva. Allora spenti
eran gl'iniqui crediti; comuni
feansi allor le ricchezze; allora in bando
uscian di Sparta il lusso, e i vizj insieme,
e il torpid'ozio: e risorgeano, in somma,
virtude allora, e libertade. Avreste
voi di negarlo ardire?--Ecco i delitti
del mio breve regnar, dopo la fuga
di Leonida vostro.
ANFAR. Osi tu forse
negare ancor, che di tai beni all'esca
colti e delusi i cittadini, in breve
non fosser tratti a fero strazio? I campi
promessi ognora, e non divisi mai;
fatti i ricchi, mendici; entrambi oppressi;
negherai tu, che a trasgredite leggi,
quai tu nomi le nostre, allor la cruda
tirannia di te sol non sottentrasse?
E tirannide, in ciò piú ria di tanto,
che a se di leggi fea mendace velo.
AGIDE Mentr'io per voi di Sparta in campo usciva,
mentre agli Etoli in armi io pur mostrava,
con danno lor, nuovi Spartani in armi;
d'eforo fatto Agesiláo tiranno,
ei commettea molt'opre in Sparta inique.
Volete voi del suo fallir me reo?
Io la pena ne accetto; ove pur colga
d'alcune mie virtudi il frutto Sparta:
virtú, che voi, di mal talento pieni,
pur negar non mi ardite.--Offeso v'hanno,
non di Licurgo le tornate leggi,
(tant'io feci, e non piú) ma i crudi modi
d'Agesiláo? che fare altro vi resta,
che me svenare, e proseguir mie imprese?
ANFAR. E a disfar Sparta Agesiláo ti mosse?
AGIDE A rifar Sparta, io da me sol mi mossi,
perché Spartan son io.
ANFAR. Di'; riconosci
per vero re Leonida?
AGIDE Conosco
un spartano Leonida, che cadde
in Termopile morto, con trecento
Spartani, a pro di Sparta.
ANFAR. In cotal guisa
rispondi tu? La maestá sí poco
del senato e degli efori rispetti?
AGIDE La maestá di Sparta osservo, e adoro,
nel risponder cosí.
ANFAR. Colpevol dunque
tu ti confessi?
AGIDE E me colpevol tieni
tu, che mi accusi?--Omai si ponga, omai
fine si ponga al simulato gioco.
Discolpe io do pari all'accuse. Io venni
quí, per mostrare anco ai nemici miei,
ch'io cittadino re, per quanto il possa
soffrir l'altezza d'animo innocente,
spontaneo me sottomettea pur anco
delle leggi all'abuso.--Or, quai che siate,
udite, o voi, le mie parole estreme.
ANFAR. A udir, che resta?
AGIDE Assai, ma in brevi detti.
ANFAR. Nulla dei dire...
AGIDE Eforo tu, le leggi
non rimembri, o non sai? Parlano a Sparta
gli accusati, se il vonno. Odimi dunque
tu stesso, e taci.--E voi, Spartani, udite.--
In errar sete or da piú cose indotti:
d'Agesiláo l'oprar, d'Anfare i gridi,
di Leonida l'arte, il tacer mio,
tutto a gara ingannovvi. A tal siam giunti
noi tutti omai, che a trar d'errar ciascuno,
egli è mestier ch'Agide pera. Io stesso
giá potea di mia mano a me dar morte
libera e degna; ma, il fuggir di vita,
reo presso voi fatto mi avria. Ben certo
era, e sono, in mio cor, che infamia nulla,
bench'io soggiaccia a giudici qualunque,
mai non fia per tornarmene. Lasciarmi
trar vivo io quindi a' miei nemici innanzi
sceglieva, e stovvi. Che il morir non temo,
vedretel voi: ch'io vendervi ancor cara
potrei mia vita ove il volessi, noto
faravvel tosto di adirata plebe
il terribile grido: in fin, ch'io tengo
piú in pregio assai, che non me stesso, Sparta,
ven fará certi il morir mio.--Vi esorto,
e vi scongiuro, a trarre dal mio sangue
l'util di Sparta, e il vostro. I campi, e l'oro,
che la mente or vi acciecano, e di pochi
in man ridotti, ai possessori al pari
fan danno, e a chi n'è privo; i campi, e l'oro,
per non voler dividerli coi vostri
concittadini, a voi fian tolti, e in breve,
dai nemici. La plebe, a voi sí vile
perché mendica; la spartana plebe,
che abborre voi ricchi possenti e forti
piú delle leggi, è molta; aspra la stringe
necessitá feroce. Ove a voi giovi
rimembrar, che di Sparta e di Licurgo
figli son essi al par di voi, ben ponno
splendor di Sparta esser costoro ancora,
e in un, di voi salvezza. In altra guisa,
Sparta e se stessi annulleranno, e voi.
Maturo è omai, credete a me, maturo
è il cangiamento: il ciel non vuol ch'io 'l vegga;
ma vuol ch'ei segua: ad affrettarlo è d'uopo
d'Agide il sangue, e il sangue Agide dona.
Di voi pietá, non di me, sento: e queste,
parole son d'uom che morir sol brama,
e che non reca altro desire in tomba,
che di salvar la patria sua. Giá posto
d'Agide in salvo il nome: a far me grande,
ch'altri ad effetto i miei disegni adduca
non fia mestier; anzi, gran parte invola
a me di gloria il riuscir d'altrui,
dopo il tentar mio vano. Ultimo sfogo
di vostra rabbia, il mio morir sia dunque;
di vostra invidia spenta il frutto primo
sia la virtú ripatríata, e l'alte
divine leggi di Licurgo in forza
tornate, e la spartana eccelsa gara
di patrio amor, di libertade, e d'armi.
POPOLO Grande è l'animo d'Agide: ingannati
forse noi fummo...
ANFAR. Il sete, ora, da questi
sediziosi detti...
AGIDE Efori, or quanto
vi avanza a dir, m'è noto.--Appien compito
ho di un re cittadin l'ufficio estremo.
Io riedo al carcer mio, dalle cui mura
nulla uscirá d'Agide omai, che il nome.

SCENA QUARTA
LEONIDA, ANFARE, POPOLO, EFORI, SENATORI.

POPOLO Ei qual reo non favella: è forza averne
maraviglia, e pietade.
LEON. È ver, Spartani:
sedotto ei fu da Agesiláo; par degno
di perdono il suo errore. Il chieggo io stesso
da voi, per lo mio genero; per quello,
che la vita salvommi...
ANFAR. Or stai davanti
al senato ed agli efori: con essi
parlar tu dei, Leonida. Le tue
ragion private ai pubblici delitti
non tolgon pena; né il perdon precede
mai la condanna.
LEON. Io, non che darla, udirla
né pur vo' dunque. Agide a morte porre
non volli io, no, benché morire ei merti.
Trarlo fuor dell'asilo, udirlo, e innanzi
ai giudici convincerlo; ciò solo
importava, ed io 'l feci: altro non resta
a far contr'esso.--Ah! se del popol voce,
se del re preghi vagliono al cospetto
del senato e degli efori, da loro
vedrassi (io spero) di clemenza, in breve,
nobile al par che memorando esemplo.

SCENA QUINTA
ANFARE, POPOLO, EFORI, SENATORI.

ANFAR. Generoso nemico, ottimo padre,
buon cittadin, Leonida; compiute
egli ha sue parti tutte: a noi le nostre
di compier resta.--Agide è reo convinto
di maestade lesa: a lui, qual pena
giusta si aspetti, efori, il dite.
EFORI Morte.
POPOLO Efori, ah! grazia or vi chieggiam noi tutti,
purch'ei lo stato omai non turbi...
ANFAR. Udite?...
Lo udite voi, questo fragor tremendo,
che a noi si appressa? In suo favor di nuovo
giá tumultua la plebe. Agide vivo,
e queta Sparta? ella è lusinga stolta.
EFORI A morte, a morte il traditor ribelle;
Agide muoja...
ANFAR. Ei morto fia, vel giuro.--
Con la rea sozza plebe ogni aspro incontro
sfuggite intanto, o cittadini. E noi,
efori, noi la maestá di Sparta
con giusto ardir mostriamo.--Olá, schiudete,
soldati, il passo. Andiam; né vil, né altero
sia il nostro aspetto. Il non temer la plebe,
tosto in se stessa a rientrar la sforza.


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA
Interno del carcere di Sparta.

AGIDE.
Fere urla io sento, e un immenso frastuono
intorno al carcer mio.--Numi di Sparta,
deh! salvatela voi.--Duolmi, che un ferro
io non serbava, onde troncare a un tempo
con la mia vita ogni tumulto. A lungo
pur tardar non dovrian quei che a svenarmi
mandati avrá Leonida.--Consorte,...
diletti figli,... amata madre,... addio.
Piú non vedrovvi!... A voi, memoria cara
lascio di me... Ma, per la madre io tremo:
sta in poter di Leonida... Che ascolto?
Chi vien? Si schiude il carcere!... Che miro?...
O mia sposa...

SCENA SECONDA
AGIDE, AGIZIADE.

AGIZ. Son teco, Agide amato...
Dalla reggia del padre or mi sottraggo,
ove a custodia ei mi tenea. La plebe,
del tuo carcer la strada hammi disgombra;
e di vietarmen l'adito i soldati
non ebber core.--Al fin son teco.--Io vengo,
sposo, a salvarti, ove salvarti io possa;
o a morir teco io vengo.
AGIDE Oh dolce sposa!...
Il cor mi squarci... Oh quanto il rivederti
mi è gioja,... e pena!... A conservar mia vita,
(ch'io 'l potrei, se il volessi, con la morte
di cittadini assai) l'amor tuo vero
trarmi or solo potria. Ma, il sai, che amarti
piú che la patria mia, donna, nol deggio,
e tu stessa nol vuoi. Me dunque lascia
morire; e tu, serbati in vita; i cari
pegni tu salva, i figli nostri...
AGIZ. Invano
di Leonida al fero odio sottrargli
io tenterei: barbaro padre; appieno
nella prospera sorte ora il conosco;
nell'avversa ingannommi. A me null'arme
riman, che il pianto; egli nol cura: i nostri
figli salvar dalla sua rabbia, o il puote
Sparta con l'armi, o nulla il può.--Ma padre
dovresti almen mostrarti; e, pe' tuoi figli,
serbar tua vita...
AGIDE Oh ciel! qual mai mi porti
terribil guerra in questo punto estremo?
Amo i figli, e tu il sai: ma, non ben certo
è il morir loro; e certo fia, che a rivi
dei cittadini scorrerebbe il sangue,
s'io di forza mi armassi. E questi, e quelli,
son figli miei; ma i cittadini sono
di un giusto re figli primieri.--O donna,
meglio di me, se sopravviver m'osi,
tu puoi salvarli. Quel sublime, a un tempo
tenero ardir, con cui seguivi il padre;
quello, con cui del mio destin ti eleggi
farti or compagna; quell'ardir sia scorta
a te, per porre i figli nostri in salvo.
Per quanto reo Leonida e crudele
esser possa, ei t'è padre: ove i tuoi figli
fra tue braccia tu stringa; ove il tuo petto
agli innocenti miseri sia scudo;
cuor non avrá di trucidarli. Ah! corri,
vola al lor fianco, in lor difesa veglia;
per essi vivi, o sol con essi muori;
che al viver piú, nulla ti sforza allora.
AGIZ. Lassa me!... che farò?... S'io te lasciassi,...
serbarmi a forza il duro padre in vita
vorria;... qual vita! orba di te... Ma, s'anco
vivi ei pur lascia i figli nostri, il trono
a lor fia tolto... Ah! morir teco io voglio...
AGIDE Donna, deh! m'odi, e acquetati... Saresti
madre or men forte, che giá figlia t'eri?
L'ira mia non temevi, il dí che il padre
seguivi; e i figli, e il tuo consorte amato
per lui lasciavi; or, di quel padre istesso
tremerai tu, quando pe' figli il lasci?
Fuggir tu puoi con essi: assai grand'arme
hai contra lui; la tua virtude: hai mille
mezzi a tentar, pria di morire. Ah sposa!
te ne scongiuro, tentali; ripiglia
l'alto tuo core, e non mi torre il mio,
coi non maschi lamenti. Or, deh! vorresti
ch'io morissi piangendo? ah! no.--Se degna
d'Agide sei, non mi sforzare a cosa
che sia d'Agide indegna.
AGIZ. E di qual padre
fu indegno mai l'amar suoi figli, il porgli
a se medesmo innanzi?
AGIDE Ai figli innanzi
la patria va. Sacro il mio sangue ad essa
ho da gran tempo; ai nostri figli amati
tu dei, s'è d'uopo, il tuo donar: ma prova
d'amor ben altro ad essi e a me tu dai,
se a lor ti serbi in vita. Ancor può molto,
piú che nol pensi, il pianger tuo: la plebe,
se Leonida no, pietade avranne;
e senza spander sangue, a lei fia lieve
porre in salvo i miei figli. In somma, pensa,
che, te viva, non muore Agide intero.
In volgar donna ammirerei, qual prova
d'amore immenso e di valor sublime,
il non voler sorvivere al consorte;
ma da te spero, e da te chieggio, e il dei
d'Agide moglie, ad infelice vita
tu dei serbarti, intrepida, pe' figli...
Piangendo io 'l chieggo; e ti rimanga in core
questo mio pianto... Ah! per te sola al fine,
e pe' fanciulli nostri, Agide hai visto
lagrimar oggi.
AGIZ. Irrevocabil dunque
fia il tuo morir?...
AGIDE La mia innocenza è certa.--
Prendi l'ultimo amplesso; e ai cari pegni
recalo, in nome mio. Di' lor, ch'io moro
per la patria; di' lor, ch'ove al mio seggio
pervenissero adulti, altra vendetta
non faccian mai della morte del padre,
che rinnovar su l'orme sue le leggi
del gran Licurgo: e se in ciò pur, com'io,
hanno avverso il destin, com'io da forti,
nell'alta impresa perdano la vita.
AGIZ. Parlar non posso... Io... di lasciarti...
AGIDE Un fido
consiglio avrai, nella mia degna madre;...
s'ella pur resta!--Or via; lasciami; vanne.
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei; tuoi dover tutti adempi.
AGIZ. Per sempre?... oh ciel!...
AGIDE Deh! cessa.
AGIZ. Il piè tremante
mal mi regge...
AGIDE Deh! vieni: uscita appena,
troverai scorta, e appoggio.
AGIZ. Oimè!... Si schiude
la ferrea porta...
AGIDE Guardie, a voi la figlia
del vostro re consegno.
AGIZ. Agide... Ah crudi!...
Lasciar nol voglio... Agide!... addio...

SCENA TERZA
AGIDE.

--Me lasso!...
Misero me!... quante mai morti in una
aver degg'io?... Dolor qual mai si agguaglia
al duol di padre, e di marito?--O Sparta,
quanto mi costi!... Eppur, Leonid'anco
è padre: in cor grato un presagio accolgo,
che alla sua figlia ei donerá i miei figli.--
Or basta il pianto.--Al mio morir mi appresso:
da re innocente, e da Spartano, io deggio
morire... Oh come vien lenta la morte!--
Ma un'altra volta, ecco, ch'io strider sento
del mio carcer la porta?... e raddoppiarsi
odo anca gli urli a queste mura intorno?...
Che mai sará?... Chi veggio?

SCENA QUARTA
AGESISTRATA, AGIDE.

AGIDE O madre... Oh cielo!...
AGESIS. Figlio, mancarti all'ultim'uopo mai
non ti potea la madre. Io quí ti arreco
libertá, di noi degna.--In altra guisa
dartela volli; ma quand'era il tempo,
ogni mezzo tu stesso a me n'hai tolto.
AGIDE E che? vuoi tu con le spartane grida?...
AGESIS. Sparta invan grida. Il traditor tiranno
sí ben munito ha di soldati il loco,
che nulla or ponno i fidi nostri: indarno
tentan sforzarli; perditor respinti
sono, ed inerti, ed avviliti. Innanzi
io mi spingeva a' rei soldati in mezzo;
fere voci suonavanmi da tergo,
per me gridando: «Empj, alla madre ardite
tor l'accesso?». Mi vide Anfare allora;
loco fe darmi, e quí son tratta.
AGIDE Iniquo!
Te pur fra lacci ei volle. Ahi madre! a quale
rischio inutil per me?...
AGESIS. Rischio? che parli?
Appo il mio figlio, a certa morte io vengo.
Vedine, in prova, il don ch'io reco.
AGIDE Un ferro?--
Oh madre vera!--Altro desio, che un ferro,
per salvar Sparta, e me sottrarre al colpo
d'infame man, non accogliea nel petto:
e tu mel rechi? oh gioja!--Or dammi...
AGESIS. Scegli:
due ferri son; quel che tu lasci, è il mio.
AGIDE Oh cielo!... E vuoi?...
AGESIS. Donna mi estimi, o madre
d'Agide, tu? Pochi mi avanzan gli anni
di vita: Sparta, che invan salva speri,
serva è giá: la tua madre, ov'ella resti,
di Leonida è serva. Or parla; io t'odo:
osi tu dirmi, che a tai patti io viva?
AGIDE Che posso io dir? son figlio.--O madre, almeno
soffri che primo io pera: ancor che serva,
Sparta estinta non è; quindi ancor salva,
altri può farla. In libertá il mio sangue
potrá ridurla forse: ma s'io, vile,
per non versare il mio, lasciato avessi
sparger per me dei cittadini il sangue,
giá piú Sparta or non fora.
AGESIS. In te (pur troppo!)
Sparta or si estingue.--Ed alla patria, al figlio
sopravviver vorrá spartana madre?--
Figlio, abbracciami.
AGIDE Oh madre!... Anco m'avanzi
nell'altezza dei sensi.--Or dammi, e prendi
l'ultimo amplesso. Io lagrimar non oso
nell'abbracciarti; che il tuo pianto io veggo
da viril forza raffrenato starsi
sopra il tuo ciglio.
AGESIS. Agide mio,... sei degno
di Sparta in vero;... ed io di te son degna.--
Ch'io ancor ti abbracci... Oh! qual fragore?...

SCENA QUINTA
LEONIDA, ANFARE, SOLDATI _col brando ignudo_,
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    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
  • Agide - 4
    Süzlärneñ gomumi sanı 228
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 156
    56.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    63.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    65.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.