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SCRITTORI D'ITALIA

VITTORIO ALFIERI
TRAGEDIE
A CURA
DI
NICOLA BRUSCOLI
VOLUME TERZO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1947


AGIDE


ALLA MAESTÁ DI CARLO PRIMO
RE D'INGHILTERRA.

Parmi, che senza viltá né arroganza, ad un re infelice e morto
io possa dedicare il mio Agide.
Questo re di Sparta ebbe con voi comune la morte, per giudizio
iniquo degli efori; come voi, per quello d'un ingiusto parlamento.
Ma quanto fu simile l'effetto, altrettanto diversa n'era la
cagione. Agide, col ristabilire l'uguaglianza e la libertá, volea
restituire a Sparta le sue virtú, e il suo splendore; quindi egli
pieno di gloria moriva, eterna di se lasciando la fama. Voi, col
tentare di rompere ogni limite all'autoritá vostra, falsamente il
privato vostro bene procacciarvi bramaste: nulla quindi rimane di
voi; e la sola inutile altrui compassione vi accompagnò nella
tomba.
I disegni d'Agide, generosi e sublimi, furono poi da Cleoméne suo
successore, che il tutto trovò preparato, felicemente e con
grande sua gloria eseguiti. I vostri, comuni al volgo dei
regnanti, da molti altri principi furono e sono tuttavia tentati,
ed anche a compimento condotti, ma senza fama pur sempre. Della
vostra tragica morte, non essendone sublime la cagione, in nessun
modo, a mio avviso, se ne potrebbe fare tragedia: della morte
d'Agide (ancorché tentata io non l'avessi) crederei pure ancora,
attesa la grandezza vera dello spartano re, che tragedia
fortissima ricavarsene potrebbe.
Sí l'uno che l'altro, ai popoli foste e sarete un memorabile
esempio, e un terribile ai re: ma, colla somma differenza tra
voi, che de' simili alla MAESTÁ VOSTRA, molti altri re ne sono
stati e saranno; ma de' simili ad Agide, nessuno giammai.

Martinsborgo, 9 Maggio 1786.
VITTORIO ALFIERI.


PERSONAGGI
AGIDE.
LEONIDA.
AGESISTRATA.
AGIZIADE.
ANFARE.
Efori.
Senatori.
Popolo.
Soldati di Leonida.
_Scena, il Foro, poi la prigione, di Sparta._


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA
LEONIDA, ANFARE.

ANFAR. Ecco, or di nuovo sul regal tuo seggio
stai, Leonida, assiso. Intera Sparta,
o d'essa almen la miglior parte, i veri
maturi savj, e gli amator dell'almo
pubblico bene, a te rivolti han gli occhi,
per ottener dei lunghi affanni pace.
LEON. Di Sparta il re non io perciò mi estimo,
finché rimane Agide in vita. Ei vive
non pur, ma ei regna in cor de' molti. Asilo
gli è questo tempio, il cui vicino foro
empie ogni dí tumultuante ardita
plebe, che re lo vuol pur anco, e in trono
un'altra volta a me compagno il grida.
ANFAR. E temi tu d'esserne or vinto? Io 'l giuro,
e gli altri efori tutti il giuran meco;
Agide mai non fia piú re. Ma, vuolsi
oprar destrezza or, piú che forza...
LEON. Egli era
da tanto giá, che co' raggiri suoi,
con le sue nuove mal sognate leggi,
tutto sossopra a forza aperta porre,
e me cacciarne ardia del soglio in bando:
ed io, da' miei fidi Spartani al soglio
richiamato, or dovrò con vie coperte
la vendetta pigliarne?
ANFAR. Un velo è forza
porvi: ei genero t'è. Quel dí, che in crudo
esiglio, solo, abbandonato, e privo
del regio serto, fuor di Sparta andavi,
umano ei t'era. Ai percussor feroci
che Agesiláo crudel su l'orme tue
a svenarti inviava, Agide a viva
forza si oppose; e di Tegéa (il rimembri)
salvo al confin ti trasse: in ciò soltanto
non figlio ei d'Agesístrata, ed avverso
apertamente al rio di lei fratello.
Sol del pubblico bene or puoi far dunque
a tua vendetta velo.
LEON. Infame dono
ei mi fea della vita, il dí ch'espulso
m'ebbe dal seggio; e a vie piú grande oltraggio
recar mel debbo. Ei mi credea nemico
da non piú mai temersi? oggi nel voglio
disingannare appieno. In me raddoppia
l'esser egli mio genero il dispetto.
Genero a me? deh! quale error fu il mio,
d'avere a lui donna dissimil tanto
data in consorte? Ammenda omai null'altra,
che lo spegnerlo, resta. Unica figlia,
Agiziade diletta, a me compagna,
sostegno a me nel duro esiglio l'ebbi.
Abbandonava ella il suo amato sposo,
perché al padre nemico; ella i legami
di natura tenea piú sacri ancora
che quei d'amore: e al fianco mio trar vita
misera volle errante, anzi che al fianco
del mio indegno offensore in trono starsi.
ANFAR. Pur, per quanto sia giusto in te lo sdegno,
premilo in petto, se sbramarlo or vuoi.
Io men di te non odio Agide altero;
e la sua pompa di virtudi antiche,
finta in biasmo di noi. Sparta ridurre
qual giá la fea Licurgo, è al par crudele,
che ambizíosa stolidezza: è tale
pure il disegno suo; quindi ebbe ei quasi
la cittá nostra all'ultimo ridotta:
e, sconvolta pur anco, in risse e affanni
egra ella sta. Ma, van cangiando i tempi:
quei traditori, efori allor, che schiavi
eran d'Agesiláo, piú a lui venduti
che ad Agide, con esso ora sbanditi
son tutti, o spenti: e sta in noi soli Sparta.
Ma il popol rio, mendico, e ognor di nuove
cose voglioso, Agide ancora elegge
mezzo a sue mire ingiuste. A schietta forza,
mal frenare il potremmo; ogni novello
governo erra adoprandola. Deluso,
pria che sforzato, il popol sia. Tal cura,
che a cor mi sta non men che a te, mi lascia.
Ecco la madre d'Agide: gran donna
ogni dí piú degli Spartani in core
si fa costei: temer si debbe anch'ella.

SCENA SECONDA
AGESISTRATA, LEONIDA, ANFARE.

AGESIS. Chi ne' miei passi trovo? oh! mentre io vado
di Sparta al re, cui sacro asil racchiude,
quí intorno io veggo irsi aggirando or l'altro
re di Sparta novello?
LEON. E il fero giorno,
ch'io, re di Sparta, esul di Sparta usciva,
ebbi al mondo un asilo? Assai gran tempo
dal trono io vissi in bando; e reo, ch'è il peggio,
in apparenza io vissi. Avriami ucciso
il duol, se in un coll'usurpato seggio
restituita la innocenza mia
non m'era appieno da un miglior consiglio
di Sparta istessa. Il mio rival cacciato,
quel Cleómbroto iniquo, a chi il mio scettro
signor del tutto allora Agide dava,
giá mie discolpe ei fece. A far le sue,
che tarda Agide piú? Collega ei fummi
sul trono; ancor mi è genero; e nemico
mi sia, se il vuole.--Ma, cagion qual altra,
che il suo fallir, chiuso or nel tempio il tiene?
AGESIS. A Sparta, e a me, Leonida, sei noto:
quai sieno i tuoi, quai sien d'Agide i falli,
è brevissimo a dirsi. Agide volle
libera Sparta; i cittadini uguali,
forti, arditi, terribili; Spartani
in somma: e a nullo sovrastare ei volle,
che in ardire e in virtude. In ozio vile,
ricca, serva, divisa, imbelle, quale
appunto ell'è, Leonida la volle.
Falli son l'opre d'Agide, perch'havvi
copia di rei, piú che di buoni, in Sparta:
di Leonida l'opre or son virtudi,
perch'elle son dei tempi. Oggi rimembra
tu almen, se il puoi, che il mio figliuol mostrossi
nemico aperto del regnar tuo solo,
non di te mai; ch'or non vivresti, pensa,
se cittadino ei piú che re, tua vita
non ti serbava, ed in suo danno forse.
LEON. Vero è; nel dí, che il tuo crudo fratello
a trucidarmi gli assassin suoi vili
mandava, Agide, forse a tuo dispetto,
per altri suoi satelliti mi fea
vivo e illeso serbar: ma un re sbandito,
cui l'onor, l'innocenza, il soglio tolto
vien dal rival, fia ch'a pietade ascriva
la mal concessa vita?
AGESIS. Al par che grande
era imprudente il dono: Agide stesso
tale il credea; ma innata è in quel gran core
ogni magnanim'opra. Agide eccelso
contaminar non volle col tuo sangue
la generosa ed inaudita impresa
di un re, che in piena libertá sua gente
restituir, spontaneo, si accinge.
Dal perdonarti io nol distolsi: e forse
tentato invan lo avrei: d'Agide madre,
mostrarmi io mai potea di cor minore
a quel di un tanto figlio? È ver; mi nacque
Agesiláo fratello; or di un tal nome
indegno egli è. Con libera eloquenza,
e con finte virtú suoi vizj veri
adombrando, ei deluse Agide, Sparta,
e me con essi...
LEON. Ma, non me, giammai.
AGESIS. Noto e simile ei t'era.--A tor per sempre
dei creditori e debitor, de' ricchi
e de' mendici, i non spartani nomi,
Agesiláo, piú ch'altri, Agide spinse.
Vistosi poi dal nostro esemplo astretto
di accomunar le sue ricchezze, ei vinto
dall'avarizia brutta, il sacro incarco
contaminando d'eforo, impediva
la sublime uguaglianza. Il popol quindi,
sconvolto e oppresso piú, dubbio, tremante
fra il servir non estinto e la sturbata
sua libertade rinascente appena,
te richiamava al seggio: e te stromento
degno ei sceglieva al rincalzare i molli
non cangiabili in lui guasti costumi.
Il popol stesso, avvinto in man ti dava
qual Cleómbroto re pur dianzi eletto:
e il popol stesso alla custodia or sola
di un asilo abbandona il giá sí amato
Agide, il riverito idolo suo.
ANFAR. Piú custodito è dalle leggi assai,
che da questo suo asilo. Ei delle leggi
sovvertitore, annullator, pur debbe
ad esse e a noi la sua salvezza. E a noi
efori veri, a Sparta tutta innanzi,
ei dará di se conto: ove non reo
vaglia a chiarirsi, ei non del re, né d'altri
temer de' mai.
LEON. S'egli in suo cor se stesso
reo non stimasse, a che l'asilo? al giusto
giudizio aperto popolar me pria
perché non trarre?
AGESIS. Perché d'armi e d'oro
tu ti fai scudo, ei di virtude ignuda:
perché tu pieno di vendetta riedi,
ed ei neppure la conosce: in somma,
perché i tuoi, non di Sparta, efori nuovi
suonan ben altro, che terror di leggi.
Nulla paventa Agide mio; ma torsi
vuol dalla infamia; e darla, ancor che breve,
altrui può sempre chi il poter si usurpa.
LEON. Che fará dunque Agide tuo? piú a lungo
racchiuso starsi omai non può, s'ei teme
la infamia vera.
ANFAR. E molto men può Sparta
nelle presenti sue strane vicende
d'un de' suoi re star priva. Agide il nome
tuttor ne serba; e il necessario incarco
pur non ne adempie: mal sicura intanto
e dentro e fuori è la cittá; sossopra
gli ordini tutti; e manca...
AGESIS. Agide manca;
e con lui tutto. Al par di noi ciò sanno
i nemici di Sparta, in cui novello
fea rinascer terror dell'armi nostre
Agide solo. Sí, gli Etoli feri,
cui disfar non sapea canuto duce
il grande Aráto co' suoi prodi Achei,
tremar d'Agide imberbe; antico tanto
spartano egli era.--A non imprender cosa
or contro a lui, Leonida, ti esorto:
che se pur anco, ingiusto spesso, il fato
palma or ten desse, onta non lieve un giorno
ne trarresti dal tempo, e danno espresso
della patria. Non so, se patria un nome
sacro a te sia: ma primo, e forte tanto
nome è fra noi, che se in mio cor sorgesse
un leggier dubbio mai, ch'anco i pensieri,
non che d'Agide l'opre, al ben di Sparta
non fosser volti tutti, io madre, io prima,
il rigor pieno delle sante leggi
implorerei contra il mio figlio.--Or dunque
opra a tuo senno tu: tremar non ponno
Agide mai, né chi a lui dié la vita,
che per la patria lor: tu, benché in armi,
ed in prospera sorte, entro al tuo core
conscio di te, sol per te stesso tremi.
LEON. Donna, sei madre; e d'uom ch'ebbe giá scettro,
il sei; quind'io ti escuso. In voi temenza
non è; di' tu? meglio per voi: ma Sparta,
gli efori, ed io, vi diam sol uno intero
giorno, a mostrar questa innocenza vostra,
sempre esaltata e non provata mai.
Esca al fin egli, e se difenda; e accusi
me stesso ei pur, se il vuol: tranne l'asilo,
tutto or gli sta. Ma, se a celarsi ei segue,
digli, che al nuovo dí né Sparta il tiene
piú per suo re, né per collega io il tengo.

SCENA TERZA
AGESISTRATA, ANFARE.

ANFAR. Dal fresco esiglio inacerbito ei parla:
ma, non ha Sparta l'ira sua.--Dovresti,
tu cui son cari Agide e Sparta, il figlio
piegare ai tempi alquanto, e indurlo...
AGESIS. A farsi
vile, non io, né voi, né Sparta indurlo
mai non potremmo. Che del re lo sdegno
non sia sdegno di Sparta, assai mel dice
l'immenso stuolo di Spartani in folla
presso all'asilo d'Agide ogni giorno
adunati, che il chiamano con fere
libere grida ad alta voce padre,
cittadin re, liberator secondo,
nuovo Licurgo. Assai pur alta e vera
esser de' in lui la sua virtú, poich'osa
laudarla ancor con suo periglio Sparta;
poiché, piú del terror dell'armi vostre,
può in Sparta ancor la maraviglia d'essa.
ANFAR. Si affolla e grida il popolo; ma nulla
opra ei perciò: né i ribellanti modi
altro faran, che inacerbir piú sempre
contra il tuo figlio i buoni. Assai tu puoi,
d'Agide madre, entro a spartani petti,
e sovr'Agide piú: quelli (a me il credi)
al cessar dai tumulti, e questo or traggi,
per poco almeno, all'adattarsi ai tempi.
Se il ben di tutti e il ben del figlio brami,
fra víolenze e rabide contese,
mal si ritrova, il sai. Se in ciò tu nieghi
caldamente adoprarti, e Sparta, ed io,
e Leonida, a dritto allor nemici
crederem voi di Sparta; allor parranno,
a certa prova, i vostri ampj tesori
malignamente accomunati in prezzo,
non di uguaglianza, di comun servaggio.
Dell'alte imprese, ottima o trista, pende
dall'evento la fama. All'opre vostre
generose, magnanime (se il sono)
macchia non rechi il rio sospetto altrui,
che giustamente voi pentiti accusa
del tanto dono; e del volerne infame
traffico far, vi accusa. Io tutto appieno,
qual cittadin, qual eforo, ti espongo;
non qual nemico: a voi l'oprar poi spetta.

SCENA QUARTA
AGESISTRATA.

--Tempo acquistar voglion costoro; e tempo
dar lor non vuolsi. Ah! di costui la finta
dolcezza, e di Leonida la rabbia
repressa a stento, indizj a me (pur troppo!)
son del destino e d'Agide, e di Sparta.
Tutto si tenti or per salvarli; e s'anco
irati i Numi della patria vonno
sol placarsi col sangue, Agide, ed io,
per la patria morremo; a lei siam nati.--
Pur che risorga dal mio sangue Sparta.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA
AGIDE.

Pietosi Numi, a cui finora piacque
dal furor di Leonida sottrarre
l'innocenza mia nota, omai non posso
piú rimaner nel vostro tempio. Asilo
volli appo voi, perché la patria inferma
piú víolenze, e piú tumulti, e stragi
a soffrir non avesse: or v'ha chi ardisce
a' miei delitti ascriverlo, al terrore
di giusta pena? ecco, l'asilo io lascio.--
Oh Sparta, oh Sparta!... esser fatal dei sempre
ai veri tuoi liberatori? Ah! data
fosse a me pur la sorte, che al tuo primo
padre eccelso toccò! piú che il perenne
bando, a se stesso da Licurgo imposto,
morte non degna anco scerrei, se al mio
cader vedessi almen rinascer teco
il vigor prisco di tue sacre leggi!...
Ma, chi sí ratto a questa volta?... Oh cielo!
Chi mai veggio? Agiziade? La figlia
di Leonida? oimè!... la mia giá dolce
moglie, che pur mi abbandonò pel padre?

SCENA SECONDA
AGIDE, AGIZIADE.

AGIZ. Che veggo! Agide mio, fuor dell'asilo
tu stai? ratta a trovarviti veniva...
AGIDE Qual che ver me tu fossi, amata sempre
consorte mia, perché i tuoi passi or volgi
verso un misero sposo?...
AGIZ. Agide;... appena...
parlare io posso;... io riedo a te con l'aspra
mutata sorte: il tuo stato infelice
staccarmi sol potea dal padre. Il core
io strappar mi sentia, nel dí che i nostri
figli, e te, sposo, abbandonar dovea,
per non lasciar nel misero suo esiglio
irne solo il mio padre: né piú vista
tu mai mi avresti in Sparta, or tel confesso,
se ai crudi strali di fortuna avversa
ei rimanea pur segno. In alto ei torna,
tu nel periglio stai: chi, chi potrebbe
tormi or da te? teco ritorno io tutta:
e te scongiuro, per l'amor mio vero;
(pel tuo, non so s'io l'abbia ancor) pe' figli
che tanto amavi, e per la patria tua,
(amor che tu tanto altamente intendi)
io ti scongiuro, almen per ora, a porre
tue nuove leggi in tregua. Amor di pace,
dei beni il primo, a ciò t'induca: il freno
ripigliar con Leonida ti piaccia
della cittá, qual per l'addietro ell'era...
AGIDE Donna, d'amare il padre tuo, chi puote
biasmarten mai? conoscerlo, nol puoi;
l'arte tua non è questa: ottima ognora,
e costumata, e pia, tu raro esemplo
fra' guasti tempi di verace antico
e filíale e conjugale amore,
altro non sai, magnanima, che farti
fida compagna a chi piú avverso ha il fato.
Se mai cara mi fosti, oggi il vederti
a me tornar, quando me lascian tutti.
certo piú assai mi ti fa cara. Io meno
dal tuo gran cor non mi aspettai; null'altro
temea, fuorch'ebro di sua lieta sorte
Leonida, non forse or ti vietasse
il ritornarne a me.
AGIZ. Tu ben temesti.
Tre giorni or son, ch'ei vincitore in Sparta
riposto ha il piè; tre giorni or son, ch'io seco
pugno per te. Né, per negar ch'ei fesse
a me l'assenso, era io perciò men ferma
di ritrovarti ad ogni costo. Ei stesso,
cangiato al fine, or dianzi a te mi volle
messo inviar di pace: ei, per mia bocca,
piena or te l'offre; e supplica, e scongiura,
che tu, lasciato omai l'asilo, in opra
vogli con lui porre ogni mezzo, ond'abbia
Sparta una volta e intera pace e salda.
AGIDE Ei mi t'invia? sperare a me non lascia
nulla di lieto il suo cangiar sí ratto.
Ma, che dich'io? sperar, se in se non spera,
Agide può? ch'altro a temer mi resta,
quando è piú sempre la mia patria serva?
quando è piú sempre dal poter suo prisco,
dalle giá tante sue virtú lontana?--
Io spontaneo (tu il vedi) avea l'asilo
abbandonato giá: ragion tutt'altra
le astute brame or prevenir mi fea
di Leonida... Ah! sí: fia questo un giorno
grande a Sparta, ed a me; funesto forse
per te, se m'ami... O fida mia consorte,
dubitar non ne posso... Ma, se fede
presti al mio schietto dir, tu d'altro padre
degna, deh! invan non lo irritar; ten prego.
Serbati ai figli nostri; ad essi scudo
contro alla rabbia sii del padre fero:
gli alti pensieri, ond'io ti posi a parte,
e che sí ben sentivi, aggiunti agli alti
innati tuoi, che dell'amor di figlia
son la essenza sublime, in lor trasfondi
sí, ch'ei crescano a Sparta e al padre a un tempo.
Non assetato di vendetta io moro,
ma di virtú Spartana; ancor che tarda,
purch'ella un dí dai figli miei rinasca,
ne sará paga l'ombra mia...
AGIZ. Mi squarci
il core... Oimè!... perché di morte...?
AGIDE O donna;
Spartana sei, d'Agide moglie; il pianto
raffrena. Il sangue mio giovar può a Sparta;
non il mio pianto a te. Rasciuga il ciglio;
non mi sforzare a lagrimar...
AGIZ. So tutte
del tuo sublime, umano, ottimo core
l'atre tempeste; i generosi tuoi
retti disegni entro alla mente io porto
forte scolpiti; e se, a compirgli appieno,
del mio padre la intera alta rovina
d'uopo non era, ad eseguirli presta
me prima avevi, e del mio sangue a costo...
Oh quante volte il padre, sí diverso
da te, m'increbbe! oh quante volte io piansi
d'essergli figlia! ed io pur l'era; e il sono,
ahi lassa!... e fra voi due stommi infelice:
e fra voi debbo esser di pace io 'l mezzo,
o perir deggio.
AGIDE Esser di Sparta figlia,
e di Spartani madre esser dovresti,
se in altri tempi e d'altro sangue nata
tu fossi in Sparta. Il non spartano padre
non io però voglio a delitto apporti.
L'indole tua ben nata, ottima, ed alta,
ma non diretta, udia di padre e sposo
sol ricordar, non della patria, i nomi:
qual fia stupor, se tu piú figlia e sposa,
che cittadina, sei? Ma, qual sei, t'amo;
né al tuo pensar niente spartano io volli
forza usar niuna, che il mio esemplo, mai.
Pel nostro amor quindi ti prego, e, s'uopo
fia, tel comando; oggi a mostrar ti appresta,
che madre sei piú ancor che sposa o figlia.--
Ma, qual si appressa orribile tumulto?
Qual folla è questa? oh! quali grida? Oh cielo!
La madre? e in armi immenso stuol di plebe
segue i suoi passi?

SCENA TERZA
AGIDE, AGESISTRATA, AGIZIADE, POPOLO.

AGESIS. Figlio, e che? giá fuori
stai dell'asilo? in chi t'affidi? in questa
rea figlia di Leonida? Ben io
piú certo asilo, ecco, ti adduco; ognora
costor fien presti...
AGIDE O madre, Agide meglio
tu conoscer dovresti: o in me mi affido,
o in nulla omai. Questa, che figlia appelli
di Leonida, è moglie, è amante, è parte
del figliuol tuo.--Spartani, ove pur tali
vi siate voi, che minacciosi in armi
tumultuar quí di mia fama a danno
veggio; Spartani, or parla Agide a voi.--
Io, contro a Sparta, in mio favor, non voglio
armi nessune; asil nessuno io cerco;
null'uomo io temo. A dimostrar la mia
piena innocenza, io basto: a vincitrice
farla davver della malizia altrui,
coll'arme no, ma con piú fermi sensi,
potuto avreste un di voi stessi darmi
giusto un soccorso: ma fia tardo, e vano,
e reo (ch'è il peggio) ogni presente ajuto.
AGESIS. E inerme esporti alla maligna rabbia
d'un Leonida vuoi? d'efori compri
agl'iniqui raggiri? Ah! no, nol soffro;
né il soffriran questi Spartani veri,
che quí son presti a dar la vita or tutti
pel loro re.
POPOLO Per Agide, noi tutti
presti a morir veniamo.
AGIDE Agide e Sparta
fur giá sola una cosa; or ben distinti
gli ha in due la sorte; or, che a far salva Sparta,
forse è mestier ch'Agide pera. Il sangue
sparger non vuolsi mai; vie men, qualora
rigenerar virtú non puote il sangue.
Per me morir, voi nol potreste omai,
senza uccider molti altri: e in un le vostre
e le altrui vite in Sparta, al par son tutte
della patria, non vostre. Havvi, nol niego,
de' traviati cittadini molti:
ma, per ritrargli al dritto, alto un esemplo
memorabile appresto. A lor far forza
potrò con esso; e vie piú sempre voi
farò con esso di fortezza amanti.
AGIZ. Misera me! tremar mi fai. Che dunque
disegni?...
AGESIS. Donna; or per chi tremi? parla;
pel marito, o pel padre?
AGIDE Ah! tu non sai,
madre, qual rechi a me dolor, l'udirti
trafigger la mia sposa! Ella, piú cara
che mai nol fosse, appunto a me si è fatta,
per la sua vera filíal pietade.
Madre, consorte, popolo, mi udite.--
Ho fermo in core di convincer oggi
anco i maligni, e gli invidi, e i piú rei,
ch'io della patria sono amator vero.
Ai cittadini, io cittadino e padre,
io cittadino e re, null'altro apparvi;
se non m'inganno io pur: ma in altri forse
da pria destai, con víolenze, io stesso,
dubbio alcuno di me: fu quindi ascritto,
non a saviezza, a coscienza rea,
e a vil timor di meritata pena,
questo mio scelto asilo. Agide n'ebbe
di volgar re la insopportabil taccia?
Qual sia 'l mio core, oggi il vedranno. Oh dolce
periglio a me, quel che affrontar m'è d'uopo,
per ischiarir qual bene io far tentassi,
e l'empia invidia di chi il ben non brama!
Per la pubblica causa io re mostrarmi
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