Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 12 (of 16) - 13

Süzlärneñ gomumi sanı 4325
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1529
41.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
58.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
67.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
[270] _Jac. Nardi delle Istor. Fior. l. II, p. 34._
[271] _Machiavelli Framm. Ist._
[272] _Allegr. Allegretti Diari Sanesi, p. 842. — Orl. Malavolti
Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 100. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p.
210._
I Fiorentini, che si erano sinceramente attaccati all'alleanza della
Francia, e che, dietro le esortazioni di Savonarola, continuavano a
mantenersele fedeli, malgrado i motivi di malcontento che loro dava il
re, mandarono deputati a Napoli, a Carlo VIII, per chiedergli la
guarenzia de' loro dominj, in conformità degli obblighi che si era
assunti nel trattato, e perchè obbligasse i Sienesi, suoi alleati, a
rendere loro una borgata ed il suo territorio, che avevano ingiustamente
occupati. Ma Carlo rispose loro con un amaro sarcasmo: «Che posso io
fare in vostro favore, se così voi maltrattate i vostri sudditi che
tutti si ribellano[273]?»
[273] _Fr. Guicciardini, l. II, p. 89._
Non meno che le parole, le azioni di Carlo mostravano quanto facesse
poco conto del suo trattato coi Fiorentini, e dell'appoggio loro, mentre
contro di lui si andava condensando un turbine nella parte
settentrionale dell'Italia. Gli ambasciatori pisani, ch'erano a Napoli,
da lui ottennero seicento soldati tra Svizzeri e Guasconi, che giunsero
a Pisa sopra una nave di trasporto, e che in aprile ricominciarono
l'assedio di Librafratta, di cui s'impadronirono. Lucio Malvezzi riprese
press'a poco tutti i castelli de' Pisani che aveva dovuto prima
abbandonare[274]. Aveva occupato la fortezza della Verrucola, la quale,
essendo posta sopra la più orientale sommità della montagna che divide
dal Pisano il territorio Lucchese, signoreggia la Val d'Arno, e scuopre
tutto il piano pel quale i Fiorentini potevano avvicinarsi a Pisa.
Questa posizione dava al Malvezzi il vantaggio di conoscere tutti gli
andamenti del nemico e di prevenirne i progetti. Francesco Secco,
generale fiorentino, si apparecchiava ad attaccare Verrucola, ma il
Malvezzi lo sorprese a Buti, sgominandogli l'armata e facendogli molti
prigionieri. Occupò poscia san Romano e Montopoli; ed i Fiorentini,
vedendo le bandiere francesi tra le truppe nemiche, non vollero battersi
contro di loro, ed abbandonarono Pontadera e tutto il territorio
pisano[275].
[274] _P. Jovii Hist., l. II, p. 60. — Jacopo Nardi Hist. Fior., l.
II, p. 35. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 212._
[275] _P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 61._
L'antico attaccamento de' Fiorentini per la corona di Francia veniva
indebolito da tante ingiurie e da così costante mancamento di fede.
Nello stesso tempo tutta l'Italia si muoveva contro i Francesi, ed i
deputati di Venezia e di Milano pressavano i Fiorentini ad unirsi alla
causa dell'indipendenza d'Italia[276]; vi sarebbero senza dubbio
riusciti, se Girolamo Savonarola non avesse colle sue profetiche
ammonizioni accresciuto il timore che aveva la signoria per trovarsi la
prima in sul passaggio dell'armata francese al suo ritorno. Già da più
anni il Savonarola aveva annunciato che una straniera invasione
cagionerebbe la ruina d'Italia. Allorchè apparve Carlo VIII aveva
dichiarato essere costui il monarca scelto da Dio per gastigare i
malvagi e per riformare la Chiesa[277]. Proseguiva a dire che sebbene
Carlo VIII non avesse soddisfatto all'incarico impostogli dalla
divinità, era però sempre il suo inviato; che Dio continuerebbe a
condurlo quasi per mano, liberandolo da tutte le difficoltà in cui si
era posto[278]. Cotali profezie, ripetute con tanta asseveranza dal
pulpito, venivano pienamente credute dal popolo e dai capi della
repubblica. Firenze più non era omai diretta da una politica umana, ma a
seconda delle rivelazioni che credeva di ricevere dal cielo; ed il
riformatore italiano esercitava sulla repubblica fiorentina
quell'influenza che cinquant'anni dopo ebbe il riformatore francese
sulla repubblica di Ginevra. Savonarola e Calvino avevano press'a poco
gli stessi principj, ed univano egualmente la religione alla politica;
ma il Savonarola coll'immaginazione del mezzodì e coll'ardore del suo
carattere credeva di ricevere immediatamente dalla divinità quelle
ispirazioni che gli venivano dalle sue riflessioni e dalle sue
cognizioni. Questa stessa immaginazione signoreggiava troppo la sua
ragione, perchè gli venisse in pensiero di assoggettare a disamina il
corpo della religione. Limitava la sua riforma all'organizzazione della
Chiesa, alla purificazione de' costumi, senza avere mai voluto
introdurre veruna variazione nella sua fede.
[276] _Scip. Ammirato, l. XXVI, p. 210._
[277] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. II, p. 34._
[278] _Vita del P. Savonarola, l. II, § 14, p. 81. — Mém. de Phil.
de Comines, l. VIII, c. III, p. 270. — Jac. Nardi, l. II, p. 36._
Gli altri stati d'Italia, la di cui politica non era diretta dalle
profezie e dalle prediche di un uomo che credevasi inviato da Dio, non
avevano potuto vedere senz'estrema inquietudine l'inaudita prosperità
de' Francesi, la conquista di Napoli, fatta senza venire a battaglia, e
il subito rovesciamento di quella casa di Arragona che per tanto tempo
aveva inspirato terrore a tutti gli stati italiani, ed era scomparsa al
primo soffio di contraria fortuna. L'arroganza de' Francesi accresceva
quest'inquietudine; siccome la loro mal dissimulata ambizione stendevasi
a tutta l'Italia, essa rendeva precaria l'esistenza di tutti i sovrani.
Il duca d'Orleans, rimasto in Asti, apertamente manifestava le sue
pretese sullo stato di Milano, e minacciava Lodovico il Moro, mentre
Carlo VIII a Napoli pareva che a bella posta cercasse d'accrescere la
diffidenza di questo suo primo alleato. Erasi Carlo affezionato Gian
Giacopo Trivulzio, personale nemico dello Sforza, e proscritto come
ribelle dallo stato di Milano, e lo avea preso al suo soldo con cento
lance. Erasi pure affezionato con larghe promesse il cardinale Fregoso
ed Ibletto de' Fieschi, i due capi degli emigrati genovesi, nemici dello
Sforza; per ultimo aveva ricusato a Lodovico il Moro il principato di
Taranto, già solennemente promesso, dichiarando di non essere tenuto a
dargliene il possesso che dopo che tutto il regno di Napoli sarebbe a
lui subordinato[279].
[279] _Fr. Guicciardini, l. II, p. 86. — P. Bembi Ist. Ven., l. II,
p. 31. — P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 56._
I Francesi tenevano sempre le loro guarnigioni nelle fortezze di Sarzana
e di Pietra Santa, che avevano promesso di restituire ai Genovesi; erano
rimasti padroni delle principali fortezze degli stati di Lucca, di Pisa,
di Firenze e di Siena, e con ciò davano legge a tutta la Toscana;
avevano inoltre forzati gli Orsini ed i Colonna a dar loro in mano i più
forti castelli, come pegni del loro attaccamento, e finalmente ridotto
il papa a consegnare le sue migliori fortezze. Il progetto di
signoreggiare tutta l'Italia pareva essersi adottato dall'ambiziosa
corte di Carlo VIII, e sostituito al primo della spedizione della
Grecia, che omai più non si risguardava che come uno stratagemma
inventato per disarmare i popoli cristiani. I sovrani forastieri non
erano nè meno scontenti, nè meno inquieti. In Ispagna Ferdinando ed
Isabella deploravano l'infortunio del loro cugino, e la perdita d'un
regno che aggiungeva splendore e potere alla casa d'Arragona. Altronde
essi temevano per conto della Sicilia, la quale, avendo appartenuto agli
Angiovini, poteva essere, come Napoli, richiamata dai Francesi, e che
potrebbe difficilmente difendersi contro di loro, qualora riuscisse loro
di stabilirsi dall'altra banda del Faro. Massimiliano, re de' Romani,
conservava un amaro rancore contro Carlo VIII, che in occasione del suo
matrimonio, gli aveva fatti i più sanguinosi affronti che possano farsi
ad un padre e ad uno sposo. Vero è che avevano fatta la pace, ma Carlo
VIII, attraversando l'Italia, non aveva mostrato verun rispetto per i
diritti imperiali, era entrato da conquistatore nelle terre dell'impero,
ed aveva parlato come padrone; di modo che aveva dati all'imperatore
eletto infiniti motivi di lagnarsi e di ricominciare la guerra[280].
[280] _P. Jovii Hist. sui temp., l. II, p. 56. — Guicciardini, l.
II, p. 87. — P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 31._
Filippo di Comines, signore d'Argenton, il sottile politico, e lo
storico che descrive con tanto interessamento il regno di Lodovico XI e
la spedizione di Carlo VIII, era in allora ambasciatore di Francia a
Venezia, ove soggiornò otto mesi. Era stato colà mandato per persuadere
quella potente repubblica a collegarsi alla Francia, o per lo meno a
mantenere la promessa neutralità: gli offriva nel primo caso la
ricompensa di Brindisi e d'Otranto, a condizione che i Veneziani
restituirebbero quelle città, quando il re, acquistando la Grecia,
potrebbe assegnar loro un più vasto dominio in quel paese. Ma i
Veneziani, che invece di prevedere i rapidi avanzamenti del re, non
supponevano nè meno che perseverasse ne' suoi progetti, avevano con
onesti pretesti rifiutate così magnifiche condizioni che non avevano
apparenza di potersi eseguire, e protestarono di mantenersi
neutrali[281]. Nella stessa maniera avevano rinviati gli ambasciatori
del re Alfonso e quello del sultano Bajazette, che tutti volevano
persuaderli a difendere il re di Napoli; mentre l'ambasciatore milanese,
che pure si trovava in Venezia, li riteneva nella sicurezza che il suo
padrone ben saprebbe a quale partito appigliarsi per far tornare, quando
fosse tempo, il re di Francia al di là delle Alpi[282].
[281] _Phil de Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 244._
[282] _Ivi, p. 245._
Il trattato di Pietro de' Medici con Carlo VIII risvegliò finalmente
l'inquietudine della signoria, ed i rapidissimi avanzamenti dell'armata
francese rendettero egualmente inquieti il duca di Milano, il re de'
Romani, che temeva che Carlo VIII non ricevesse dal papa la corona
imperiale, ed il re di Spagna. Questi principi intavolarono dunque in
Venezia un'alleanza per la comune sicurezza. Vi si videro giugnere
successivamente il vescovo di Como e Francesco Bernardino Visconti,
ambasciatori del duca di Milano, Ulrico di Frondsberg, vescovo di
Trento, con altri tre ambasciatori di Massimiliano, ed all'ultimo
Lorenzo Suares de Mendoza y Figueroa, ambasciatore di Spagna[283]. Da
principio questi diplomatici non si adunavano che di notte, sia tra di
loro che coi segretarj della signoria. Lusingavansi con ciò di non
essere osservati dal Comines; ma avendo costui scoperte per tempo le
loro pratiche, strinse francamente gli ambasciatori milanesi a fargli
parte delle loro doglianze per provvedervi amicamente, piuttosto che
alienarsi dalla Francia, la di cui alleanza era stata e poteva anche in
avvenire riuscire utile al loro signore[284].
[283] _P. Bembi 1st. Ven., l. II, p. 32. — Cron. Venez._ attribuita
a _Marin Sanuto, t. XXIV, p. 16._
[284] _Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 248._
Il Comines tentò pure di sconsigliare la repubblica da questi ostili
progetti, ma egli cedeva in accortezza agl'Italiani: gli ambasciatori
milanesi gli avevano protestato con solenni giuramenti, che fallaci
erano i suoi sospetti; la signoria lo aveva assicurato che la lega da
lei progettata non solo non era diretta contro il re, ma doveva essere
sottoscritta di accordo con lui, poichè si trattava di fare di concerto
la guerra ai Turchi, di sforzare tutti gli alleati a concorrere alle
spese, e di procurare a Carlo VIII l'alto dominio del regno di Napoli
con tre delle sue principali piazze per guarenzia, conservando per altro
la corona al principe arragonese, che sarebbe feudatario della Francia.
Il Comines chiese tempo per partecipare queste proposizioni al re, e
fece istanza perchè i Veneziani non venissero ad alcuna definitiva
convenzione prima d'averne avuto riscontro. Ma Carlo, i di cui prosperi
successi superavano le sue speranze, non volle porgere orecchio a veruno
accomodamento[285]. Gli ambasciatori, avendo allora conosciuto che i
loro abboccamenti erano noti, più non cercarono di celarsi, e si
adunarono tutti i giorni. Pensavano a determinare il numero delle truppe
che i Veneziani manderebbero a Roma, mentre Ferdinando difendeva
Viterbo; ma quando seppero che questa città era stata abbandonata senza
essersi tirato un colpo di fucile, e che poco dopo era stata evacuata
Roma, i loro timori andarono crescendo colle difficoltà della loro
posizione[286].
[285] _Phil. De Comines Mém., l. VII, c. XIX, p. 250. — Rayn. Ann.
Eccl. 1495, § 13, p. 441._
[286] _Phil. de Comines, l. VII, c. XIX, p. 251. — P. Bembi 1st.
Ven., l. II, p. 33._
«Vedendo i Veneziani (dice il Comines) tutto ciò abbandonato, ed
avvisati che il re si trovava in Napoli, mi mandarono a cercare, e mi
dissero queste notizie, mostrandosene lieti; tuttavolta dicevano che il
detto castello era gagliardamente munito[287]; e ben vedevano esservi da
sperare assai che non si arrendesse, e consentirono che l'ambasciatore
levasse gente d'armi a Venezia per ispedirle a Brindisi, ed erano vicini
a conchiudere la lega, allorchè i loro ambasciatori scrissero che il
castello avea capitolato. Allora una mattina mi fecero nuovamente
chiamare, e li trovai in grosso numero di circa cinquanta o sessanta
nella camera del principe, ch'era infermo di colica; e mi si
raccontarono tali nuove con ridente cera, ma niuno più del principe
sapeva meglio fingere. Alcuni erano seduti su certi marciapiedi delle
panche, e tenevano il capo tra le mani, altri in altro lato, ma tutti
non potevano a meno di lasciar travedere la somma loro tristezza; ed io
credo che quando si ebbe in Roma l'avviso della sconfitta di Canne, i
senatori che erano rimasti non erano più sparuti, nè più spaventati di
loro: perciocchè non vi fu che il solo doge che mi guardasse o mi
volgesse la parola. Ed io gli andava guardando maravigliato. Mi chiese
il doge se il re manterebbe quello che loro aveva sempre fatto sapere, e
che gli aveva detto ancor io. Risposi asseverantemente di sì, e tutto
offersi per rimanere in pace, promettendo che la promessa sarebbe
mantenuta, sperando con ciò di togliere ogni sospetto; indi mi
congedai[288].»
[287] Convien dire che il Comines parli del castello di Napoli. _N.
d. T._
[288] _Phil. de Comines Mém., l. VII, c. XX, p. 252._
Malgrado l'abbattimento de' signori Veneziani, ben sentì il Comines che
la posizione del re in fondo all'Italia poteva riuscire pericolosissima,
se questi dichiaravansi contro di lui; e mentre il duca di Milano faceva
ancora difficoltà per sottoscrivere con loro il trattato di alleanza,
sollecitò Carlo VIII, o a far venire di Francia nuovi rinforzi, se
voleva egli medesimo mantenersi nel regno, o ad uscirne immediatamente
colla sua armata, prima che gli si precludesse la strada, lasciando
soltanto buone guarnigioni nelle piazze. In pari tempo egli scrisse al
duca di Borbone rimasto in Francia come luogotenente del regno, ed al
marchese di Monferrato, per persuaderli a mandare subito rinforzi al
duca d'Orleans, ch'erasi trattenuto in Asti soltanto colla sua casa:
perciocchè questa città era in certo modo la porta aperta al re per
tornare in Francia, e se questa veniva occupata da' nemici, estremo
diventare poteva il suo pericolo[289].
[289] _Mém. de Phil. de Comines l. VII, c. XX, p. 254._ — Non
trovansi meno di sei lettere scritte dal 14 al 20 aprile dal duca
d'Orleans al duca di Borbone per chiedergli soccorsi. Sono riportate
da _Dionigi Godefroy Hist. de Charles VIII, p. 70._
«La lega si conchiuse (dice il Comines) una sera, ad era tarda assai il
31 marzo del 1495[290]. La susseguente mattina mi chiese la signoria
assai più per tempo che all'ordinario. Tosto che fui arrivato e seduto,
mi disse il doge che in onore della santa Trinità, aveva conchiusa una
lega col nostro santo padre il papa, col re de' Romani e di Castiglia, e
col duca di Milano, a tre fini: il primo per difendere la Cristianità
contro il Turco; il secondo per la difesa dell'Italia; il terzo per la
preservazione de' loro stati; e che dovessi darne notizia al re. Eravi
grossa adunanza di circa cento o più, e tenevano il capo alto, facevano
buon viso, ed avevano un contegno affatto diverso da quello di quel
giorno in cui mi avevano data notizia della presa del castello di
Napoli. Mi fu altresì detto d'avere scritto ai loro ambasciatori, che
trovavansi presso il re, che partissero e prendessero congedo. Uno di
costoro chiamavasi messere Domenico Loredano e l'altro messere Domenico
Trevisano. Io aveva il cuore chiuso, ed assai temevo per la persona del
re e di tutta la sua compagnia; e li credevo più apparecchiati che non
erano; e dubitavo che tenessero pronti de' Tedeschi; che se ciò fosse
stato, il re più non sarebbe uscito d'Italia. Risolsi di non far molte
parole in quell'impeto di collera; pure essi mi fecero molte dimande.
Loro risposi che la sera precedente aveva tutto scritto al re, e più
volte, e ch'egli pure mi aveva scritto, e che gli era nota ogni cosa da
Roma e da Milano. Tutti mi fecero mal viso per avere detto che aveva
scritto la precedente sera al re, perchè non vi sono persone al mondo
così sospettose, nè che tengano più segreti i loro consiglj; e soltanto
per sospetto esiliano le genti; e perciò aveva loro così parlato. Oltre
di questo loro dissi ancora d'avere scritto a monsignore d'Orleans ed a
monsignore di Borbone, affinchè provvedessero Asti; e lo dicevo sperando
che ciò li ritarderebbe dall'andare sotto Asti; perchè se fossero stati
così apparecchiati come se ne davano il vanto, e credevano, l'avrebbero
preso senza rimedio; perciocchè era, e rimase ancora lungo tempo mal
provveduto[291].»
[290] _ P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 32. — Scip. Ammirato, l. XXVI,
p. 210. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 17._
[291] _Mém. de Phil. de Comines, l. VII, c. XX, p, 256._ Nel
trasportare questo ed il precedente testo di questo antico storico,
ho cercato di non perdere quel carattere d'ingenuità e di buonomia
che ha l'originale. — _Arnoldi Ferroni de Gestis Franc., l. I, p.
12._
Ma mentre che Filippo di Comines vuole darsi vanto, mostrando com'era
ben informato, Pietro Bembo, lo storico veneziano, si compiace di
dipingere la sua sorpresa ed il suo spavento. «Sebbene vi fossero tanti
ambasciatori (egli scrive), e tanti cittadini chiamati alle conferenze,
e che il senato si fosse così frequentemente adunato, tanta era stata la
vigilanza del consiglio de' dieci, per sopprimere ogni diceria su questo
argomento, che Filippo di Comines, inviato di Carlo, sebbene ogni dì
frequentasse il palazzo, e che trattasse con tutti gli ambasciatori, mai
non ebbe il più piccolo sospetto. Perciò, allorchè il giorno dopo la
segnatura, fu chiamato a palazzo, ed il principe gli partecipò la
conchiusione del trattato ed i nomi de' confederati, fu per impazzire.
Per altro il doge gli aveva detto che tutto quanto erasi fatto non
mirava a muovere guerra a chicchefosse, ma soltanto a difendersi ove
alcuno della lega fosse attaccato. Poichè fu alquanto rinvenuto: E che
dunque, esclamò non potrà il mio re tornare in Francia? Lo potrà,
rispose il doge, se vuole ritirarsi da amico, e noi l'ajuteremo con
tutte le nostre forze. Dopo questa risposta il Comines si ritirò; e
mentre usciva di palazzo, dopo sceso lo scalone, nell'attraversare la
piazza, si volse al segretario del senato, che lo accompagnava,
pregandolo a ridirgli ciò che il doge gli aveva detto, avendo egli il
tutto dimenticato[292].»
[292] _P. Bembi Ist. Ven., l. II, p. 30._
Il popolo di Venezia festeggiò questa lega il giorno dopo la
sottoscrizione, e le feste ricominciarono il giorno dodici aprile,
domenica delle Palme, in cui si pubblicò in tutti i paesi de'
confederali[293]. In forza de' convenuti articoli l'alleanza doveva
durare venticinque anni, ed avere per oggetto la difesa della maestà del
romano pontefice, della dignità, della libertà, de' diritti di tutti i
confederati, e di ciò che tutti possedevano. Le potenze alleate dovevano
fra tutte mettere in piedi trentaquattro mila cavalli e venti mila
fanti; cioè il papa quattro mila cavalli; Massimiliano sei; il re di
Spagna, la repubblica di Venezia ed il duca di Milano, cadauno otto.
Ogni confederato doveva somministrare quattro mila pedoni. Coloro che
non avrebbero dato tutto il contingente, supplirebbero col danaro. Come
pure quando fosse stato necessario l'impiego d'una flotta, dovevano
somministrarla le potenze marittime, e le spese essere a carico di tutti
gli alleati in giusta proporzione[294].
[293] _Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 299. — Rayn. Ann. Eccl. 1495, §
14, t. XIX, p. 441._
[294] _Fr. Guicciardini l. II, p. 88. — P. Jovii, l. II, p. 56. — P.
Bembi Ist. Ven., l. II, p. 32. — And. Navagero Stor. Ven., t. XXIII,
p. 1204. — Fr. Belcarii Comm. rer. Gallic., l. VI, p. 157._
Ma a questi articoli, che furono pubblicati, i confederati aggiunsero
altre segrete condizioni, che affatto mutavano la natura dell'alleanza,
e la disponevano ad una guerra offensiva. Di già Ferdinando ed Isabella
avevano mandato in Sicilia una flotta di sessanta galere, che aveva a
bordo seicento cavalieri e cinque mila fanti, ed avevano dato il comando
di queste truppe a Gonzalvo di Cordova, che si era renduto glorioso
nella guerra di Granata[295]. Convennero gli alleati che questa armata
asseconderebbe Ferdinando di Napoli, per riporlo in trono, dove i suoi
sudditi, rinvenuti dalla loro confidenza in Carlo VIII, di già lo
richiamavano. Gli è vero che i re di Spagna si erano obbligati col
trattato di Perpignano a non impedire al re di Francia l'acquisto del
regno di Napoli[296], ma vi avevano aggiunta la clausola, che niuna
condizione sarebbe obbligatoria se trovavasi pregiudicievole alla
Chiesa; ed essi pretendevano, che, essendo il regno di Napoli un feudo
ecclesiastico, essi non potevano restare dal difenderlo, quando il papa
gl'invitasse a farlo[297]. I confederati convennero pure fra di loro
segretamente, che i Veneziani attaccherebbero le terre occupate dai
Francesi lungo le coste del regno di Napoli colla loro flotta, che
avevano portata a quaranta galere, sotto il comando d'Antonio
Grimani[298]; che il duca di Milano si opporrebbe all'avanzamento de'
soccorsi che potessero arrivare dalla Francia; che attaccherebbe Asti,
scacciandone il duca d'Orleans; che il re de' Romani ed i re di Spagna
invaderebbero nello stesso tempo i confini della Francia con potenti
armate, e riceverebbero per questa guerra sussidj dagli altri
alleati[299].
[295] _P. Jovii Hist., l. II, p. 56._
[296] È nell'articolo III del trattato di Perpignano che trovasi
quest'obbligazione, ma per altro senza nominare il re di Napoli. I
re di Spagna si obbligano soltanto a preferire l'alleanza della
Francia: _Aliis quibuscumque ligis et confederationibus factis, vel
faciendis, cum quocumque principe, vel principibus, Vicario Christi
excepto. Den. Godefroy Hist. de Charles VIII, p. 664._
[297] _Fr. Guicciardini, l. II, p. 87._
[298] _P. Jovii, l. II, p. 56. — And. Navagero, t. XXIII, p. 1202._
[299] _Fr. Guicciardini, l. II. p. 88._
Massimiliano faceva agli stati d'Italia splendide promesse, ma non si
tardò a conoscere che non recava all'alleanza che un gran nome. Egli non
sapeva porre alcun ordine nè alcuna economia nell'amministrazione de'
suoi stati ereditarj, e non poteva avere dall'impero nè uomini, nè
danari, sebbene pretendesse d'entrare in guerra colla Francia soltanto
per l'interesse de' feudi imperiali. La dieta di Vormazia gli promise
nel 1495 soltanto centocinquanta mila fiorini, assegnati sul danaro
comune che doveva levarsi in tutto l'impero, e che non si pagò in verun
luogo. Di modo che, in cambio di sei mila cavalli da lui promessi,
appena potè assoldare tre mila uomini[300].
[300] _Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. XXVII, t. V, p. 369._
Non eravi forse verun duca d'Italia, che non fosse effettivamente più
potente dell'imperatore, o la di cui cooperazione non fosse almeno più
efficace. Perciò le potenze alleate avrebbero ardentemente desiderato
che tutta l'Italia fosse entrata nella stessa confederazione, ed
insistettero presso il duca di Ferrara e presso i Fiorentini, perchè
prendessero parte nella lega. Il duca di Ferrara lo ricusò[301], ma per
tenersi amici tutti i partiti fu contento che suo figlio primogenito,
don Alfonso, passasse ai servigj del duca di Milano col titolo di
luogotenente generale delle sue truppe, e col comando di cento cinquanta
lance[302]. I Fiorentini, ai quali Lodovico Sforza offriva un'armata,
per difenderli contro Carlo VIII nel di lui ritorno, e per ajutarli in
appresso a ricuperar Pisa e tutte le loro fortezze, costantemente
ricusarono di staccarsi da un principe, che per altro loro dava così
giusti titoli di lagnanze. Preferirono di aspettare da lui la
restituzione delle loro province, piuttosto che ritorgliele colla forza,
ajutati dagli alleati, de' quali diffidavano più che del re[303].
[301] _Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 298._
[302] _Diar. Ferrar., p. 302._
[303] _Fr. Guicciardini, l. II, p. 89. — Scip. Ammirato, l. XXVI, p.
210._
Frattanto tutti i confederati si apparecchiavano sollecitamente alla
guerra: i Veneziani chiamavano molti Stradioti, o cavalleggeri
dall'Epiro, dalla Macedonia e dal Peloponneso: Lodovico Sforza aveva
mandato molti danari in Svevia per assoldarvi truppe mercenarie;
Massimiliano prometteva di scendere in Italia con quelle formidabili
schiere tedesche, delle quali i Francesi nel 1492 avevano sperimentato
il valore nelle pianure dell'Artois. Bajazette II offriva ai Veneziani
d'ajutarli con tutte le sue forze di terra e di mare contro i
Francesi[304]. Il sultano non era compreso nell'alleanza, la quale anzi,
stando al trattato pubblico, sembrava fatta contro di lui; pure il suo
ambasciatore era stato ammesso nelle adunanze della confederazione, e
terminata la sua missione era rimasto in Venezia per assistere alle
feste colle quali si celebrò la pubblicazione della lega[305]. In ogni
parte l'Europa vestiva un aspetto ostile contro i Francesi; e Filippo di
Comines, che da gran tempo avvisava il suo padrone del turbine che si
andava contro di lui condensando, essendosi ancora trattenuto un mese in
Venezia dopo la sottoscrizione della lega, si pose in cammino per
recarsi al campo di Carlo, attraversando gli stati del duca di Ferrara,
di Giovanni Bentivoglio e dei Fiorentini. Fu da loro accolto come
l'ambasciatore d'un monarca alleato, mentre che la sua partenza da
Venezia fu in certo qual modo il segnale della rottura d'ogni
negoziazione[306].
[304] _P. Jovii, l. II, p. 56._
[305] _Phil. de Comines, Mém., l. VII, c. XX, p. 259._
[306] _Ivi, p. 260._


CAPITOLO XCVI.
_Carlo VIII abbandona il regno di Napoli; attraversa Roma e la
Toscana; si apre un passaggio a Fornovo malgrado i confederati,
e giugne fino ad Asti. Tratta a Vercelli col duca di Milano,
libera il duca d'Orleans, assediato in Novara, e ripassa le
Alpi._
1495.

Per quanto fosse grande il disprezzo che Carlo VIII e la sua corte
avevano concepito per la nazione italiana dopo la facile loro vittoria,
avevano per altro sentito di avere bisogno di guadagnarsi l'affetto del
popolo, per mantenere ubbidiente il regno che avevano occupato. Carlo
VIII e la sua corte avevano infatti cercato di cattivarselo con un
decreto, che, riducendo le imposte a ciò che erano ai tempi dei re
angioini, scaricavano il regno di quasi dugento mila ducati di
contribuzione[307]; ma perchè aveva accordata questa grazia colla
leggerezza che lo caratterizzava, senza calcolare i bisogni dello stato,
nè il conguaglio tra le rendite e le spese, non ispirò veruna
confidenza, tanto più che si vedeva in tutto il restante della sua
amministrazione la rapacità de' suoi subordinati, il loro disordine, e
l'assoluto loro disprezzo per le leggi e per le costumanze della
nazione. Il regno di Napoli era il solo paese d'Italia in cui le
instituzioni feudali si fossero mantenute in pieno vigore. Alfonso I le
aveva confermate con nuove concessioni fatte ai gentiluomini. Le
province erano quasi assolutamente dipendenti dalla nobiltà; e per
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Çirattagı - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 12 (of 16) - 14
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