Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 04
Süzlärneñ gomumi sanı 4284
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1715
39.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
56.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
65.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Mentre leggevasi questa carta, siccome i padri tenevano in mano una
candela accesa, che in segno d'esecrazione dovevano rovesciare per
ispegnerla, Tadeo di Suessa gridò, percuotendosi il petto: _questo è il
giorno della collera, il giorno delle calamità e della sciagura!_ ed
uscì dall'assemblea. Allorchè Federico ebbe avviso della sua
deposizione, gittò uno sguardo d'indignazione sulla folla che lo
circondava: «Questo papa, disse, mi ha dunque rigettato nel suo sinodo;
mi ha dunque privato della mia corona! ove sono i miei giojelli? mi si
rechino subito.» E facendo aprire la cassetta che racchiudeva le sue
corone, ne prese una e se la fermò in capo; indi alzandosi con occhi
minacciosi: «No, disse, la mia corona non è ancora perduta; nè gli
attacchi del papa, nè i decreti del sinodo hanno potuto levarmela; ed io
non la perderò senza spargimento di sangue[61].»
[61] _Math. Paris ad an. p. 586_ e seguenti; e presso _Raynald.
annal. 1245, § 58, p. 545_.
CAPITOLO XVII.
_Ultimi anni del regno di Federico II. — Assedio di Parma. —
Rivoluzioni in Toscana. — Tirannia d'Ezelino._
1245=1250.
La perseveranza dei papi nel perseguitare un intero secolo tutti i
principi della casa di Svevia fino all'epoca in cui l'ultimo rampollo di
questa sventurata ed illustre famiglia perì sopra un palco, è una cosa
tanto più notabile, in quanto lo spirito del cristianesimo aveva
cominciato ad addolcirsi; e le costumanze e le opinioni non
riconoscevano più la pretesa superiorità de' papi sul potere temporale.
Lo stesso monaco Matteo Paris, che minutamente descrisse le circostanze
del processo intentato a Federico avanti al concilio di Lione, assicura
che gli assistenti non l'udirono pronunciare senza stupore e
raccapriccio[62]. Da una parte i Pauliciani avevano scossa colle loro
prediche la credenza dell'infallibilità papale, specialmente nella
Lombardia, ov'eransi moltiplicati assai; e dall'altra il risorgimento
delle lettere non era meno contrario alla servitù imposta dalla
superstizione. Non si conoscevano allora che tre classi di letterati,
giureconsulti, grammatici e poeti, i quali tutti in fatto di religione
tenevano opinioni abbastanza liberali; e siccome erano da Federico
favoreggiati e protetti, abbracciavano quasi tutti la sua causa contro
la santa sede. Tra gli storici coetanei di questo principe o de' suoi
figli, molti, e forse i migliori sono apertamente ghibellini[63]. La
maggior parte de' gentiluomini che avevano colle azioni loro acquistato
qualche diritto alla pubblica opinione, il Salinguerra, i signori da
Romano, i marchesi Pelavicino e Lancia, stavano per Federico: la metà
delle città libere avevano anch'esse abbracciata la medesima causa; e
tra queste la potente repubblica di Pisa, che lo ajutava con tutte le
sue forze, disprezzava i fulmini del papa per servire l'imperatore.
Mentre così ragguardevole numero d'Italiani impugnavano il potere de'
papi di sciogliere e di legare in terra ed in cielo, fa meraviglia che
questi ardissero spingere all'estremo le loro pretese, arrischiando
tutto lo stato loro sopra un diritto contestato.
[62] _Math. Paris Hist. Angliae ad an. 1245, p. 586. Edit. Londin.
fol. 1684._
[63] Riccardo di san Germano, Nicola di Jamsilla, Corrado Abate
d'Ursperg, Nicola Speciale, Bartolomeo di Neocastro, Gherardo
Maurisio, l'autore della cronaca di Ferrara, ec.
Pare che i papi essendosi accorti dei singolari talenti de' principi
della casa Sveva, si proponessero di disertarli ad ogni costo, onde
imperatori così valorosi ed intraprendenti, rinforzati dai rapidi e
necessarj progressi delle opinioni già in voga, non rivendicassero i
diritti di cui la Chiesa gli aveva spogliati, e ristabilissero in Roma
la suprema loro autorità: autorità che non poteva ripristinarsi senza
distruggere l'indipendenza dei papi.
La santa sede entrando in così pericoloso conflitto, affidavasi
principalmente alla nuova milizia di fresco creata, che non l'abbandonò
ne' suoi bisogni; i due ordini de' Francescani e de' Domenicani. Il più
importante servigio che le rendessero, fu quello di sottometterle
completamente i vescovi ed il clero secolare, cambiando l'aristocrazia
ecclesiastica in un perfetto despotismo. Così adoperando eseguivano il
loro voto d'ubbidienza e s'uniformavano allo spirito de' loro fondatori.
Avevano essi sull'antico clero il doppio vantaggio del fanatismo e del
vigore della gioventù d'una recente istituzione; e con tale superiorità
di forze lo attaccarono e gli tolsero l'affetto dei popoli. I vescovi
erano in modo assoggettati, o talmente persuasi della loro debolezza,
che i concilj, invece di giudicare i papi, come abbiamo veduto
praticarsi nel decimo secolo, e lo vedremo ancora nel quindicesimo,
erano diventati nel tredicesimo strumenti passivi nelle mani de'
pontefici.
Il secondo servigio reso alla santa sede dagli ordini mendicanti fu
quello d'impedire tra il popolo il dilatamento dell'irreligione;
imperciocchè agl'increduli che facevano valere nelle loro invettive
contro la Chiesa i depravati costumi del clero, opponevano quella
austera santità di vita che da più secoli non più vedevasi nei grandi
prelati. Non dirò già che ottenessero di richiamare a meno libere
opinioni coloro che la nascente passione dello studio, o lo spirito di
partito allontanavano dal cattolicismo; ma se un uomo dava qualche
indizio di timorata coscienza, veniva all'istante assediato dai nuovi
monaci che se ne impadronivano; e predicandogli come principalissima
virtù la cieca ubbidienza alla santa sede, e facendogli vedere i fulmini
della Chiesa pendenti sul capo de' Ghibellini, lo forzavano a
riconciliarsi colla medesima, a prezzo non poche volte d'un tradimento a
danno degli antichi alleati. A ciò si debbono attribuire quelle
imprevedute congiure che si videro scoppiare nelle città più fedeli
all'Impero, e quei mali umori che annunziavano i progressi della parte
guelfa e l'imminente caduta dei Ghibellini. Nella città di Parma, che
fino al 1245 erasi mantenuta fedele all'Impero, e che riceveva ogni anno
un podestà scelto dall'imperatore, tre delle più principali famiglie
nobili, i Lupi, i Rossi, i Correggeschi, parenti a dir vero di quella
del papa, si dichiararono del partito guelfo e dovettero abbandonare la
città; e nel susseguente anno (1246) altri Guelfi, pretestando di non
potere in buona coscienza ubbidire agli ordini dell'imperatore, si
ritirarono a Piacenza ed a Milano[64], ove con Gregorio di Montelungo,
legato del papa in Lombardia, ordirono quella trama che diede ben tosto
la loro patria alla parte guelfa. Un eguale abbandono del partito
ghibellino ebbe luogo in Reggio, per cui, dopo una sanguinosa zuffa,
vennero esiliate le famiglie guelfe dei Roberti, dei Fogliani, dei
Lupicini[65].
[64] _Chron. Parmen, Scrip. Ital. t. IX, p. 769._
[65] _Memoriale Potest. Regiens. t. VIII, p. 1114. — Annales veteres
Mutinens. t. XI, p. 62._
Non contento il papa di suscitare nemici a Federico nelle città
lombarde, che incoraggiava a difendere contro di lui la propria libertà,
cercava di ribellargli ancora gl'immediati sudditi delle due Sicilie, ai
quali spediva due cardinali con lettere dirette al clero, alla nobiltà
ed al popolo delle città e delle campagne. «Si maravigliano molti, loro
diceva il papa, che oppressi come voi siete da vergognosa servitù, ed
aggravati nella persona e nei beni, abbiate trascurato di procacciarvi
in qualunque modo, come hanno fatto le altre nazioni, le dolcezze della
libertà. Ma la santa sede vi ha per iscusati in vista del terrore che
sembra essersi insignorito del vostro cuore sotto il giogo di un nuovo
Nerone; e non altro per voi sentendo che pietà e paterno affetto, pensa
se i suoi ajuti possono recare sollievo alle vostre pene, o fors'anco
procurarvi il bene d'un'intera libertà.... Cercate dal canto vostro come
potreste rompere le catene della schiavitù, e far fiorire nel vostro
comune la libertà e la pace. Spargasi una volta tra le nazioni la voce,
che il vostro regno così famoso per la sua nobiltà e per l'abbondanza
de' suoi prodotti, ha potuto, coll'ajuto della divina provvidenza, unire
a tanti vantaggi anche quelli di una stabile libertà[66].»
[66] Lettera d'Innocenzo IV scritta da Lione il 6 delle calende di
maggio, an. 3. _Apud Raynald. an. 1246, § 11-13, p. 555._
Un certo che di così nobile e liberale spirano i concetti di questa
lettera, che ci sforza a rimaner dubbiosi intorno alla giustizia della
causa del pontefice e dei Guelfi, ed allo scopo che si proponevano. Ma
quand'anche la libertà, e non una licenziosa indipendenza, fosse
effettivamente l'oggetto dei Pugliesi e dei Siciliani ribellati, furono
certo indegni di così nobil causa i modi tenuti per acquistarla;
riducendosi a vili cospirazioni, nelle quali presero parte gli antichi
amici ed i confidenti di Federico, da loro guadagnati. I due figliuoli
del grande giustiziere del Mora, tutti i Sanseverino, tre fratelli della
Fasanella, ed altri molti avevano nel 1244 cospirato coi frati minori
per assassinare il loro sovrano. Federico, come si disse altrove, aveva,
dietro i primi indizj di tale congiura, fatti imprigionare molti frati,
nell'istante medesimo in cui il papa fuggì da Roma. Ciò nulla meno la
sentenza del Sinodo e l'esortazione dei cardinali legati riaccesero la
sopita congiura, che avrebbe facilmente avuto effetto, se il complice
Giovanni di Presenzano, scosso dai rimorsi, non palesava il segreto a
Federico. Quando seppero imprigionati alcuni de' loro compagni, i del
Mora ed i Fasanella si salvarono nello stato del papa, altri
s'impadronirono delle rocche di Capaccio e della Scala, ove furono presi
dopo lungo assedio. Un solo fanciullo della casa Sanseverino fu salvato
da un domestico della famiglia[67]. Quasi tutti i congiurati, condannati
a pena capitale, attestarono prima di morire, che il papa era partecipe
della loro congiura. L'imperatore dando notizia di questo macchinamento
a tutti i re e principi dell'Europa con una lettera circolare, che forse
fu l'ultima che scrivesse Pietro delle Vigne, la chiude con queste gravi
parole: «Chiamiamo in testimonio il giudice supremo, che ci vergogniamo
di quanto abbiam detto, perchè eravamo troppo alieni dal credere di
dover vedere e sentire attestato somigliante delitto; non essendoci mai
immaginati che i nostri amici, i nostri pontefici, ci volessero vittima
di così cruda morte. Lungi da noi per sempre tanto obbrobrio! Lo sa
Iddio, che dopo l'iniqua procedura del papa contro di noi intentata nel
concilio di Lione, non abbiamo mai voluto acconsentire alla sua morte od
a quella di taluno de' suoi fratelli, quantunque caldamente richiesti da
persone zelanti del nostro servigio, limitandoci a difenderci dagli
altrui attentati colla giustizia, e non colle vendette»[68].
[67] _Diurnali di Matteo Spinelli di Giovenazzo t. VII, p. 1073._
[68] _Petri de Vineis Epistolæ l. II, c. 10, p. 278._
Ma la più dolorosa perdita di Federico fu quella del suo primo ministro,
del suo intimo confidente, del suo amico, Pietro delle Vigne. Ossia che
quest'uomo affatto straordinario si fosse macchiato di un tradimento, o
che il principe, reso diffidente dalle congiure che ogni giorno si
andavano scoprendo, desse troppo facile orecchio alle suggestioni
degl'invidiosi cortigiani; o giusta o ingiusta che si fosse la sentenza
di Pietro; si dice che Federico esclamasse più volte prima di
pronunciarla: «me sciagurato, qual uomo io gastigo!»[69]
[69] _Matt. Paris Hist. Angl. ad an. 1249, p. 662._
Pietro delle Vigne era nato a Capoa affatto povero; la passione per lo
studio lo aveva condotto all'università di Bologna, ov'era costretto di
andare elemosinando per vivere, sebbene desse prove di maravigliosi
talenti nello studio della legge, dell'eloquenza e della poesia.
Condotto accidentalmente innanzi a Federico, ebbe la fortuna di
meritarsi in modo la sua stima, che lo tenne in corte, facendolo a bella
prima suo segretario; in appresso giudice, consigliere, protonotaro, e
partecipe di tutti i suoi segreti. Pietro delle Vigne aveva una
maravigliosa arte nello scriver lettere; aggiungendo ad una nobile e
dignitosa eloquenza una certa qual forza di ragionamento che convince e
persuade. Perciò verun principe avanti che s'inventassero la stampa ed i
giornali aveva, come Federico, fatto tanto capitale dell'illusione delle
scritture, nè provocato colle sue lettere sopra le proprie azioni la
pubblica opinione. Nè in ciò solo valevasi l'accorto principe de'
talenti di Pietro; abbiamo altrove osservato che approfittò de' suoi
consigli e dell'opera sua per riformare le leggi del regno, e per
rianimare lo studio delle scienze e delle lettere; abbiamo veduto che lo
incaricò di giustificare la propria condotta innanzi al popolo di Padova
contro la sentenza di scomunica pubblicata contro di lui; che lo aveva
più volte mandato suo deputato al papa, e per ultimo incaricato di
trattare la sua causa innanzi al concilio di Lione. Nella quale ultima
occasione parve che Pietro mal rispondesse all'antica sua riputazione,
conservando un misterioso silenzio, mentre Tadeo di Suessa difese
caldamente il suo sovrano[70].
[70] Pietro delle Vigne conobbe i prelati adunati nel concilio di
Lione affatto ligi al papa, e non voleva trattare innanzi a loro la
causa di Federico contro il papa che presedeva e dirigeva tutte le
risoluzioni conciliari. Se ne accorse, ma troppo tardi anche lo
Suessa, e fece un'inutile protesta. Pietro delle Vigne è uno di que'
grandi Italiani che hanno maggior diritto ad essere posti nel novero
de' più illustri italiani. _N. d. T._
Dopo tale epoca Pietro delle Vigne non ebbe forse più l'intera
confidenza di Federico, non trovandolo adoperato in veruna importante
occasione, nè meno nello scriver lettere a nome del sovrano; anzi una ne
troviamo diretta al medesimo per accertarlo della propria innocenza[71].
È probabile che, senza abbandonare la corte, non vi avesse più
quell'opinione che gli aveva dato la confidenza del sovrano; e che
soltanto tre anni dopo cedesse alle istigazioni degli emissarj del papa;
oppure che i suoi nemici si approfittassero di qualche apparenza per
farlo credere a Federico, quantunque non avesse ceduto[72]. Ecco come
racconta il fatto Matteo Paris.
[71] _Petri de Vineis Epistolæ l. III, c. 2, p. 391._ — Benvenuto da
Imola parlando di altre lettere nelle quali Pietro si chiama colpevole,
dice che queste sono false. _Excerpta in Comœd. Dantis ap. Murat.
Antiq. Ital. t. I, p. 1051._
[72] Il racconto di Matteo Paris distruggerebbe, se fosse vero, la
supposizione del nostro autore. Se da tre anni Pietro non godeva più
dell'intera confidenza del principe, come sarebbe stato scelto, per
presentargli, unitamente al medico, la bevanda avvelenata? Per
imputargli quest'orribile attentato conviene supporlo nell'intima
confidenza di Federico. Ma conviene di più dare a Pietro delle Vigne
carattere, opinioni, inclinazioni affatto diverse da quelle
costantemente seguite in tutto il corso della gloriosa sua vita
politica; lo che non deve supporsi col solo appoggio di memorie
tanto incerte ed oscure. _N. d. T._
Federico giaceva infermo quando Pietro gli si presentò col medico
ch'egli aveva guadagnato, il quale gli offrì come medicina una bevanda
avvelenata. Il principe, nell'atto di accostare il nappo alla bocca,
disse ai traditori: io credo che voi non vogliate darmi veleno. Pietro,
turbato a un tempo e sorpreso, si dolse di un dubbio che faceva torto
alla sua lealtà, chiamandosene altamente offeso: ma Federico,
rivolgendosi in atto minaccioso al medico, gli porse il calice,
ordinandogli di beverne la metà. Il medico sbigottito finse d'inciampare
e lasciò cadere il calice in terra; ma Federico fatto raccogliere quanto
si poteva della sospetta bevanda, la fece dare ad un condannato a pena
capitale, che morì all'istante. Avute così evidenti prove del delitto,
l'imperatore ordinò che il medico perdesse la vita sul palco, e che
Pietro delle Vigne fosse abbacinato; ma questi diede del capo contro il
muro con tanta violenza, che si spaccò il cranio, e morì dopo pochi
istanti[73]. Matteo Paris è il solo storico contemporaneo che parli
circostanziatamente della morte di quest'uomo straordinario; e non
bastano a smentirlo le vaghe ed incerte relazioni degli scrittori guelfi
de' tempi posteriori. Non devo per altro lasciar di dire che nel secolo
decimoquarto credevasi comunemente che Pietro fosse stato vittima della
calunnia; onde Dante, ponendolo tra i suicidi nell'inferno, gli fa dire:
_Canto XIII, vers. 70_:
«L'animo mio, per disdegnoso gusto,
«Credendo, col morir, fuggir disdegno,
«Ingiusto fece me contro me giusto.»
[73] _Math. Paris p. 662._ L'istoria di Pietro delle Vigne è assai
oscura, e piena di contraddizioni. Nè io intendo parlare solamente
delle favole narrate da Tritemio nel suo Chronic. _Hirsang. ad ann.
1229_; e ripetute da altri molti; ma ancora de' moderni scrittori e
de' più acuti critici. Mi sono più che d'ogni altro valso della
_Storia della letteratura italiana del Tiraboschi p. IV, l. I, c. 2,
p. 5-14, 16-30_, da cui per altro mi sono talvolta allontanato per
seguire gli autori originali, che ho pure voluto consultare; quali
sono, _Ricordano Malespini Stor. Fior. c. 131, p. 964. — Giovanni
Villani Istorie l. VI, c. 22, p. 169. — F. Franc. Pipini Chron. t.
IX, c. 39, p. 660. — Benvenuto da Imola Comment. Antich. Ital. t. I,
p. 1051. — Giannon. Istoria Civile l. XVII, c. 3, § 2, p. 584. —
Flamin. Del Borgo Dissert. dell'Istoria pisana l. IV, § 2, p. 257._
Questi riporta un MS. dell'ospitale di Pisa, stando al quale Pietro
delle Vigne sarebbe morto in Pisa, nella chiesa di sant'Andrea.
Allorchè Federico ebbe notizia della scomunica pronunciata dal Sinodo,
non si lasciò punto smuovere, e scrisse a tutti i principi d'Europa per
rappresentar loro che il clero, corrotto dalle ricchezze, abusava
stranamente del suo potere: scrisse di nuovo al re di Francia per
attaccare l'irregolare condotta del papa, e mostrare la nullità del
processo contro di lui intentato, invitandolo a riflettere che potrebbe
ben venire la volta loro, quando i sovrani non si unissero a reprimere
l'arroganza della corte di Roma[74]. Ma in breve oppresso da spiaceri
d'ogni genere, tradito dai suoi più cari amici, abbandonato dai principi
tedeschi che avevangli sostituito, in qualità di re dei Romani, Enrico,
langravio della Turingia, il quale sconfiggeva suo figlio, il re
Corrado, ad altro più non pensò che a pacificarsi col papa, onde metter
fine alla travagliata sua vita. A tale oggetto sottoscrisse in presenza
di molti prelati una professione di fede conforme affatto a quella della
Chiesa; ed in pari tempo chiedeva la mediazione di san Luigi: ma tutto
inutilmente.
[74] _Petri de Vineis Epistolæ l. I, c. 1, p. 87; e c. 3, p. 98._
Senza decidere se queste lettere siano o no scritte da Pietro delle
Vigne, osserverò soltanto che tutte le lettere di Federico scritte
anche dopo la morte del suo segretario furono comprese in questa
raccolta.
(1247) Nel susseguente anno, non ommise Federico di rinnovare le sue
calde istanze per rientrare in seno della Chiesa, sebbene avesse avuta
notizia della totale disfatta e della morte del suo rivale, Enrico di
Turingia, all'assedio di Ulma. Le condizioni da lui offerte nel presente
anno, e ne' due successivi con nuovi schiarimenti, pare che lo mostrino
atterrito dalle censure della Chiesa, e che, a fronte della fierezza del
suo carattere, e del prospero stato de' suoi affari, non avrebbe
ricusato di sottoporsi alle più penose umiliazioni, ai più dolorosi
sagrificj, per rappacificarsi col clero. In questo tempo san Luigi si
apparecchiava a condurre in Egitto quell'armata di crociati ch'ebbe così
sventurato fine. Federico proponeva di unire tutte le sue forze a quelle
del re francese, e di fare insieme l'impresa d'Oriente; e perchè tale
offerta non era di piena soddisfazione del papa, aggiunse l'altra
condizione di militare contro gl'infedeli oltre mare finchè vivesse.
Acconsentiva inoltre alla divisione della sua eredità, purchè non ne
fossero privati i suoi figliuoli. L'Impero germanico non doveva più
essere unito al regno di Puglia; ma il primo rimarrebbe a Corrado, ed
avrebbe il secondo Enrico, figlio di Federico e d'Isabella, sua terza
moglie[75]. E perchè Innocenzo IV, rigettando la confessione di fede
fatta avanti ai prelati per iscolparsi del delitto d'eresia, aveva
dichiarato appartenere a lui solo la disamina della coscienza del
monarca, e ch'era disposto ad ascoltarlo, qualora si recasse
personalmente alla corte pontificia[76]; Federico volle acconsentire
ancora a quest'ultima umiliazione, e si pose effettivamente in viaggio,
attraversando la Lombardia con un treno affatto pacifico, e non toccando
il territorio delle città nemiche, delle quali pareva volerne scordare
le offese[77]. E già era giunto a Torino, quando ebbe avviso che i
parenti del papa gli avevano ribellata la città di Parma. Abbiamo già
osservata che tre delle principali famiglie, i Rossi, i Lupi ed i
Correggeschi, essendosi dichiarati del partito guelfo, avevano dovuto
uscir di Parma. Erano costoro parenti o alleati dei Fieschi, i quali,
all'istante che fu nominato papa uno della loro famiglia, eransi dati
alla fazione nemica dell'Impero. Altri fuorusciti parmigiani avevano
pure raggiunti i primi a Piacenza, aspettando che le prediche di alcuni
frati lasciati in Parma disponessero quel popolo alla sedizione. Quando
credettero giunto l'istante favorevole, la domenica del 16 giugno 1247,
tutti gli emigrati parmigiani s'avanzarono sotto il comando di Gherardo
da Correggio fino al Taro, ove trovarono sull'opposta riva Enrico Testa,
podestà imperiale, con un grosso corpo di nobili e popolani di Parma; il
quale credendosi sicuro della vittoria attraversò il Taro per
attaccarli: ma, durante la battaglia, tutti quelli della sua armata, che
segretamente favorivano i Guelfi, si unirono ai nemici. Quest'impensato
avvenimento portò lo spavento nelle truppe, che non sostennero l'urto
de' Guelfi, restando tra i morti lo stesso podestà, Manfredi di
Cornazano, ed Ugo Manghirotti, due de' più illustri Ghibellini,
salvandosi gli altri colla fuga. Intanto la massa del popolo, perduti i
capi, manifestava con segni di acclamazione il suo attaccamento alla
Chiesa, e conduceva in trionfo gli emigrati entro le mura di Parma.
Gherardo da Correggio venne sulla pubblica piazza proclamato podestà, e
dati il palazzo, le mura e le torri in guardia ai suoi soldati.
[75] _Bartholomæi Scribæ, continuat. Caffari Ann. Genuens. l. VI,
an. 1248, t. VI, p. 515. — Raynaldi Ann. Eccl. an. 1246, § 24, p.
558. — Id. an. 1249, § 14, p. 592. — Math. Paris. Hist. Angl. an.
1249, p. 665._
[76] Lettera dei papa del 10 giugno an. 3 presso il Raynaldi
all'anno 1246, § 20, _p. 557_.
[77] _Barthol. Scribæ Ann. Genuens. p. 511._
Enzo, ossia Enrico, figliuolo di Federico, e re di Sardegna, trovavasi
allora nel contado di Brescia all'assedio di Quinzano. Avuto avviso
della rivoluzione di Parma, abbrucia le macchine guerresche, e viene a
grandi giornate fino alle rive del Taro, lusingandosi di sottomettere i
ribelli con un colpo di mano. Federico, informato a Torino dello stesso
avvenimento, avvampa di collera contro il papa, e deposto con orrore il
pensiero di andare a Lione per umiliarsi innanzi ad un uomo che non
cessava di macchinare contro di lui, riunisce tutti i suoi partigiani
delle vicine città, e fattane una piccola armata, raggiugne il figlio
sulle rive del Taro, di dove si avanza fino a pochi passi dalla
città[78].
[78] _Chron. Parmense, t. IX, p. 770._
La perdita di Parma gli toglieva la comunicazione colle città ghibelline
dalle Alpi al suo regno di Puglia, la quale mantenevasi per Torino,
Alessandria, Pavia, Cremona, Parma, Reggio, Modena e Toscana; oltrecchè
Parma e Cremona gli aprivano un'altra importantissima comunicazione con
Verona, gli stati d'Ezelino e la Germania. Affrettava perciò la leva di
una formidabile armata e faceva avanzare a grandi giornate un corpo di
Saraceni, i soli suoi sudditi non esposti all'influenza de' frati, nè al
terrore delle scomuniche. Ma prima che potesse formare un'armata
abbastanza forte per fare l'assedio di Parma, i Guelfi ebbero tempo di
provvederla abbondantemente di truppe e di vittovaglie. Il legato del
papa, Gregorio di Montelungo, vi si chiuse con mille soldati scelti di
Milano, e seicento di Piacenza, ch'egli vi aveva condotti per difficili
strade. Un altro rinforzo vi spediva da Mantova il conte di san
Bonifacio, il quale alla testa d'un altro corpo di Mantovani entrava in
pari tempo nel territorio cremonese, per guastarlo, onde sforzare i
Cremonesi ad abbandonare il campo dell'imperatore per venire in soccorso
della loro patria. Anche il marchese d'Este, poco curandosi di lasciare
in balìa di Ezelino le proprie terre, si gettò con un corpo di Ferraresi
in Parma, ov'eransi pure adunati tutti i fuorusciti guelfi di Reggio, di
modo che vi si trovarono due mila cavalieri forastieri e mille della
città. La milizia dividevasi per quartieri; e le milizie di due porte
occupavansi ogni giorno della guardia della terra, dello scavamento di
nuove fosse e dell'innalzamento di bastioni e di palizzate per supplire
alla conosciuta debolezza delle antiche mura.
Mentre Parma era alleata dell'imperatore, gli aveva spediti dei soldati,
ch'egli teneva nelle vicine città; de' quali, essendogli, dopo
l'accaduto, talmente sospetta la fede da poterli trattare come aperti
nemici, ne fece imprigionare ottanta a Reggio e cinquanta in Modena,
ritenendoli per ostaggi; ed inoltre fece arrestare tutti i giovani
parmigiani che trovavansi allo studio di Modena, i quali tutti spogliati
de' loro cavalli, delle armi, dei libri e di quanto avevano, furono
mandati carichi di catene al campo imperiale[79].
[79] _Chron. Parmense, p. 771._
Intanto l'armata ghibellina riceveva ogni giorno nuove genti; erano
arrivati dalla Puglia molti Saraceni a piedi ed a cavallo: Ezelino aveva
seco condotte le milizie di Padova, di Vicenza, di Verona; ed i
Ghibellini di tutte le città d'Italia si univano sotto le bandiere di
Federico per ricominciare una sanguinosa guerra: ma ossia che le forze
ghibelline non fossero tali da poter impedire ai nemici di battere la
campagna, oppure gli mancassero le macchine d'assedio, nè assediò la
città, nè venne a giornata con Bianchino da Camino ed Alberico da
Romano, i quali con un'armata guelfa eransi trincerati dalla banda
settentrionale di Parma sull'altra riva del Po. Tutte le fazioni di
questa campagna si ridussero dunque ad alcune scaramucce coi Saraceni, i
quali cercavano d'impedire che fosse vittovagliata la città: al quale
oggetto s'impadronirono un dopo l'altro de' castelli del territorio
parmigiano, tranne Colorno; e tutti li distrussero; di modo che le bande
de' soldati guelfi, quando ancora potevano scorrere la campagna, non
trovavano viveri di veruna sorte per portare in città: onde i cittadini
cominciavano a soffrire la fame, ed i viveri si vendevano a carissimo
prezzo.
Credette Federico giunto l'istante opportuno d'atterrire gli assediati
con sanguinose esecuzioni. Fece dunque condurre nel prato di Flazano, a
due tiri di balestra dalle mura, quattro prigionieri parmigiani, due
gentiluomini, e due borghesi, e fece loro tagliar il capo, proclamando
in pari tempo che ogni giorno, finchè s'arrendesse la città, farebbe
morire quattro Parmigiani, e mille ne teneva allora Federico in poter
suo; ma il podestà ed i consiglieri, cui il consiglio generale aveva
dati illimitati poteri per la difesa della città, presero le più
rigorose misure per impedire che dal campo imperiale si recasse notizia
di quanto accadeva; onde il pericolo che correvano tanti cittadini, non
consigliasse i loro parenti ed amici a qualche atto di debolezza. Molte
spie e messi, che tentarono di penetrare nascostamente in città, furono
colti dalle guardie del podestà, ed abbruciati nella pubblica piazza,
talchè niuno della città osò parlare di entrar in trattati col nemico.
Frattanto nel susseguente giorno erano stati decapitati due altri
candela accesa, che in segno d'esecrazione dovevano rovesciare per
ispegnerla, Tadeo di Suessa gridò, percuotendosi il petto: _questo è il
giorno della collera, il giorno delle calamità e della sciagura!_ ed
uscì dall'assemblea. Allorchè Federico ebbe avviso della sua
deposizione, gittò uno sguardo d'indignazione sulla folla che lo
circondava: «Questo papa, disse, mi ha dunque rigettato nel suo sinodo;
mi ha dunque privato della mia corona! ove sono i miei giojelli? mi si
rechino subito.» E facendo aprire la cassetta che racchiudeva le sue
corone, ne prese una e se la fermò in capo; indi alzandosi con occhi
minacciosi: «No, disse, la mia corona non è ancora perduta; nè gli
attacchi del papa, nè i decreti del sinodo hanno potuto levarmela; ed io
non la perderò senza spargimento di sangue[61].»
[61] _Math. Paris ad an. p. 586_ e seguenti; e presso _Raynald.
annal. 1245, § 58, p. 545_.
CAPITOLO XVII.
_Ultimi anni del regno di Federico II. — Assedio di Parma. —
Rivoluzioni in Toscana. — Tirannia d'Ezelino._
1245=1250.
La perseveranza dei papi nel perseguitare un intero secolo tutti i
principi della casa di Svevia fino all'epoca in cui l'ultimo rampollo di
questa sventurata ed illustre famiglia perì sopra un palco, è una cosa
tanto più notabile, in quanto lo spirito del cristianesimo aveva
cominciato ad addolcirsi; e le costumanze e le opinioni non
riconoscevano più la pretesa superiorità de' papi sul potere temporale.
Lo stesso monaco Matteo Paris, che minutamente descrisse le circostanze
del processo intentato a Federico avanti al concilio di Lione, assicura
che gli assistenti non l'udirono pronunciare senza stupore e
raccapriccio[62]. Da una parte i Pauliciani avevano scossa colle loro
prediche la credenza dell'infallibilità papale, specialmente nella
Lombardia, ov'eransi moltiplicati assai; e dall'altra il risorgimento
delle lettere non era meno contrario alla servitù imposta dalla
superstizione. Non si conoscevano allora che tre classi di letterati,
giureconsulti, grammatici e poeti, i quali tutti in fatto di religione
tenevano opinioni abbastanza liberali; e siccome erano da Federico
favoreggiati e protetti, abbracciavano quasi tutti la sua causa contro
la santa sede. Tra gli storici coetanei di questo principe o de' suoi
figli, molti, e forse i migliori sono apertamente ghibellini[63]. La
maggior parte de' gentiluomini che avevano colle azioni loro acquistato
qualche diritto alla pubblica opinione, il Salinguerra, i signori da
Romano, i marchesi Pelavicino e Lancia, stavano per Federico: la metà
delle città libere avevano anch'esse abbracciata la medesima causa; e
tra queste la potente repubblica di Pisa, che lo ajutava con tutte le
sue forze, disprezzava i fulmini del papa per servire l'imperatore.
Mentre così ragguardevole numero d'Italiani impugnavano il potere de'
papi di sciogliere e di legare in terra ed in cielo, fa meraviglia che
questi ardissero spingere all'estremo le loro pretese, arrischiando
tutto lo stato loro sopra un diritto contestato.
[62] _Math. Paris Hist. Angliae ad an. 1245, p. 586. Edit. Londin.
fol. 1684._
[63] Riccardo di san Germano, Nicola di Jamsilla, Corrado Abate
d'Ursperg, Nicola Speciale, Bartolomeo di Neocastro, Gherardo
Maurisio, l'autore della cronaca di Ferrara, ec.
Pare che i papi essendosi accorti dei singolari talenti de' principi
della casa Sveva, si proponessero di disertarli ad ogni costo, onde
imperatori così valorosi ed intraprendenti, rinforzati dai rapidi e
necessarj progressi delle opinioni già in voga, non rivendicassero i
diritti di cui la Chiesa gli aveva spogliati, e ristabilissero in Roma
la suprema loro autorità: autorità che non poteva ripristinarsi senza
distruggere l'indipendenza dei papi.
La santa sede entrando in così pericoloso conflitto, affidavasi
principalmente alla nuova milizia di fresco creata, che non l'abbandonò
ne' suoi bisogni; i due ordini de' Francescani e de' Domenicani. Il più
importante servigio che le rendessero, fu quello di sottometterle
completamente i vescovi ed il clero secolare, cambiando l'aristocrazia
ecclesiastica in un perfetto despotismo. Così adoperando eseguivano il
loro voto d'ubbidienza e s'uniformavano allo spirito de' loro fondatori.
Avevano essi sull'antico clero il doppio vantaggio del fanatismo e del
vigore della gioventù d'una recente istituzione; e con tale superiorità
di forze lo attaccarono e gli tolsero l'affetto dei popoli. I vescovi
erano in modo assoggettati, o talmente persuasi della loro debolezza,
che i concilj, invece di giudicare i papi, come abbiamo veduto
praticarsi nel decimo secolo, e lo vedremo ancora nel quindicesimo,
erano diventati nel tredicesimo strumenti passivi nelle mani de'
pontefici.
Il secondo servigio reso alla santa sede dagli ordini mendicanti fu
quello d'impedire tra il popolo il dilatamento dell'irreligione;
imperciocchè agl'increduli che facevano valere nelle loro invettive
contro la Chiesa i depravati costumi del clero, opponevano quella
austera santità di vita che da più secoli non più vedevasi nei grandi
prelati. Non dirò già che ottenessero di richiamare a meno libere
opinioni coloro che la nascente passione dello studio, o lo spirito di
partito allontanavano dal cattolicismo; ma se un uomo dava qualche
indizio di timorata coscienza, veniva all'istante assediato dai nuovi
monaci che se ne impadronivano; e predicandogli come principalissima
virtù la cieca ubbidienza alla santa sede, e facendogli vedere i fulmini
della Chiesa pendenti sul capo de' Ghibellini, lo forzavano a
riconciliarsi colla medesima, a prezzo non poche volte d'un tradimento a
danno degli antichi alleati. A ciò si debbono attribuire quelle
imprevedute congiure che si videro scoppiare nelle città più fedeli
all'Impero, e quei mali umori che annunziavano i progressi della parte
guelfa e l'imminente caduta dei Ghibellini. Nella città di Parma, che
fino al 1245 erasi mantenuta fedele all'Impero, e che riceveva ogni anno
un podestà scelto dall'imperatore, tre delle più principali famiglie
nobili, i Lupi, i Rossi, i Correggeschi, parenti a dir vero di quella
del papa, si dichiararono del partito guelfo e dovettero abbandonare la
città; e nel susseguente anno (1246) altri Guelfi, pretestando di non
potere in buona coscienza ubbidire agli ordini dell'imperatore, si
ritirarono a Piacenza ed a Milano[64], ove con Gregorio di Montelungo,
legato del papa in Lombardia, ordirono quella trama che diede ben tosto
la loro patria alla parte guelfa. Un eguale abbandono del partito
ghibellino ebbe luogo in Reggio, per cui, dopo una sanguinosa zuffa,
vennero esiliate le famiglie guelfe dei Roberti, dei Fogliani, dei
Lupicini[65].
[64] _Chron. Parmen, Scrip. Ital. t. IX, p. 769._
[65] _Memoriale Potest. Regiens. t. VIII, p. 1114. — Annales veteres
Mutinens. t. XI, p. 62._
Non contento il papa di suscitare nemici a Federico nelle città
lombarde, che incoraggiava a difendere contro di lui la propria libertà,
cercava di ribellargli ancora gl'immediati sudditi delle due Sicilie, ai
quali spediva due cardinali con lettere dirette al clero, alla nobiltà
ed al popolo delle città e delle campagne. «Si maravigliano molti, loro
diceva il papa, che oppressi come voi siete da vergognosa servitù, ed
aggravati nella persona e nei beni, abbiate trascurato di procacciarvi
in qualunque modo, come hanno fatto le altre nazioni, le dolcezze della
libertà. Ma la santa sede vi ha per iscusati in vista del terrore che
sembra essersi insignorito del vostro cuore sotto il giogo di un nuovo
Nerone; e non altro per voi sentendo che pietà e paterno affetto, pensa
se i suoi ajuti possono recare sollievo alle vostre pene, o fors'anco
procurarvi il bene d'un'intera libertà.... Cercate dal canto vostro come
potreste rompere le catene della schiavitù, e far fiorire nel vostro
comune la libertà e la pace. Spargasi una volta tra le nazioni la voce,
che il vostro regno così famoso per la sua nobiltà e per l'abbondanza
de' suoi prodotti, ha potuto, coll'ajuto della divina provvidenza, unire
a tanti vantaggi anche quelli di una stabile libertà[66].»
[66] Lettera d'Innocenzo IV scritta da Lione il 6 delle calende di
maggio, an. 3. _Apud Raynald. an. 1246, § 11-13, p. 555._
Un certo che di così nobile e liberale spirano i concetti di questa
lettera, che ci sforza a rimaner dubbiosi intorno alla giustizia della
causa del pontefice e dei Guelfi, ed allo scopo che si proponevano. Ma
quand'anche la libertà, e non una licenziosa indipendenza, fosse
effettivamente l'oggetto dei Pugliesi e dei Siciliani ribellati, furono
certo indegni di così nobil causa i modi tenuti per acquistarla;
riducendosi a vili cospirazioni, nelle quali presero parte gli antichi
amici ed i confidenti di Federico, da loro guadagnati. I due figliuoli
del grande giustiziere del Mora, tutti i Sanseverino, tre fratelli della
Fasanella, ed altri molti avevano nel 1244 cospirato coi frati minori
per assassinare il loro sovrano. Federico, come si disse altrove, aveva,
dietro i primi indizj di tale congiura, fatti imprigionare molti frati,
nell'istante medesimo in cui il papa fuggì da Roma. Ciò nulla meno la
sentenza del Sinodo e l'esortazione dei cardinali legati riaccesero la
sopita congiura, che avrebbe facilmente avuto effetto, se il complice
Giovanni di Presenzano, scosso dai rimorsi, non palesava il segreto a
Federico. Quando seppero imprigionati alcuni de' loro compagni, i del
Mora ed i Fasanella si salvarono nello stato del papa, altri
s'impadronirono delle rocche di Capaccio e della Scala, ove furono presi
dopo lungo assedio. Un solo fanciullo della casa Sanseverino fu salvato
da un domestico della famiglia[67]. Quasi tutti i congiurati, condannati
a pena capitale, attestarono prima di morire, che il papa era partecipe
della loro congiura. L'imperatore dando notizia di questo macchinamento
a tutti i re e principi dell'Europa con una lettera circolare, che forse
fu l'ultima che scrivesse Pietro delle Vigne, la chiude con queste gravi
parole: «Chiamiamo in testimonio il giudice supremo, che ci vergogniamo
di quanto abbiam detto, perchè eravamo troppo alieni dal credere di
dover vedere e sentire attestato somigliante delitto; non essendoci mai
immaginati che i nostri amici, i nostri pontefici, ci volessero vittima
di così cruda morte. Lungi da noi per sempre tanto obbrobrio! Lo sa
Iddio, che dopo l'iniqua procedura del papa contro di noi intentata nel
concilio di Lione, non abbiamo mai voluto acconsentire alla sua morte od
a quella di taluno de' suoi fratelli, quantunque caldamente richiesti da
persone zelanti del nostro servigio, limitandoci a difenderci dagli
altrui attentati colla giustizia, e non colle vendette»[68].
[67] _Diurnali di Matteo Spinelli di Giovenazzo t. VII, p. 1073._
[68] _Petri de Vineis Epistolæ l. II, c. 10, p. 278._
Ma la più dolorosa perdita di Federico fu quella del suo primo ministro,
del suo intimo confidente, del suo amico, Pietro delle Vigne. Ossia che
quest'uomo affatto straordinario si fosse macchiato di un tradimento, o
che il principe, reso diffidente dalle congiure che ogni giorno si
andavano scoprendo, desse troppo facile orecchio alle suggestioni
degl'invidiosi cortigiani; o giusta o ingiusta che si fosse la sentenza
di Pietro; si dice che Federico esclamasse più volte prima di
pronunciarla: «me sciagurato, qual uomo io gastigo!»[69]
[69] _Matt. Paris Hist. Angl. ad an. 1249, p. 662._
Pietro delle Vigne era nato a Capoa affatto povero; la passione per lo
studio lo aveva condotto all'università di Bologna, ov'era costretto di
andare elemosinando per vivere, sebbene desse prove di maravigliosi
talenti nello studio della legge, dell'eloquenza e della poesia.
Condotto accidentalmente innanzi a Federico, ebbe la fortuna di
meritarsi in modo la sua stima, che lo tenne in corte, facendolo a bella
prima suo segretario; in appresso giudice, consigliere, protonotaro, e
partecipe di tutti i suoi segreti. Pietro delle Vigne aveva una
maravigliosa arte nello scriver lettere; aggiungendo ad una nobile e
dignitosa eloquenza una certa qual forza di ragionamento che convince e
persuade. Perciò verun principe avanti che s'inventassero la stampa ed i
giornali aveva, come Federico, fatto tanto capitale dell'illusione delle
scritture, nè provocato colle sue lettere sopra le proprie azioni la
pubblica opinione. Nè in ciò solo valevasi l'accorto principe de'
talenti di Pietro; abbiamo altrove osservato che approfittò de' suoi
consigli e dell'opera sua per riformare le leggi del regno, e per
rianimare lo studio delle scienze e delle lettere; abbiamo veduto che lo
incaricò di giustificare la propria condotta innanzi al popolo di Padova
contro la sentenza di scomunica pubblicata contro di lui; che lo aveva
più volte mandato suo deputato al papa, e per ultimo incaricato di
trattare la sua causa innanzi al concilio di Lione. Nella quale ultima
occasione parve che Pietro mal rispondesse all'antica sua riputazione,
conservando un misterioso silenzio, mentre Tadeo di Suessa difese
caldamente il suo sovrano[70].
[70] Pietro delle Vigne conobbe i prelati adunati nel concilio di
Lione affatto ligi al papa, e non voleva trattare innanzi a loro la
causa di Federico contro il papa che presedeva e dirigeva tutte le
risoluzioni conciliari. Se ne accorse, ma troppo tardi anche lo
Suessa, e fece un'inutile protesta. Pietro delle Vigne è uno di que'
grandi Italiani che hanno maggior diritto ad essere posti nel novero
de' più illustri italiani. _N. d. T._
Dopo tale epoca Pietro delle Vigne non ebbe forse più l'intera
confidenza di Federico, non trovandolo adoperato in veruna importante
occasione, nè meno nello scriver lettere a nome del sovrano; anzi una ne
troviamo diretta al medesimo per accertarlo della propria innocenza[71].
È probabile che, senza abbandonare la corte, non vi avesse più
quell'opinione che gli aveva dato la confidenza del sovrano; e che
soltanto tre anni dopo cedesse alle istigazioni degli emissarj del papa;
oppure che i suoi nemici si approfittassero di qualche apparenza per
farlo credere a Federico, quantunque non avesse ceduto[72]. Ecco come
racconta il fatto Matteo Paris.
[71] _Petri de Vineis Epistolæ l. III, c. 2, p. 391._ — Benvenuto da
Imola parlando di altre lettere nelle quali Pietro si chiama colpevole,
dice che queste sono false. _Excerpta in Comœd. Dantis ap. Murat.
Antiq. Ital. t. I, p. 1051._
[72] Il racconto di Matteo Paris distruggerebbe, se fosse vero, la
supposizione del nostro autore. Se da tre anni Pietro non godeva più
dell'intera confidenza del principe, come sarebbe stato scelto, per
presentargli, unitamente al medico, la bevanda avvelenata? Per
imputargli quest'orribile attentato conviene supporlo nell'intima
confidenza di Federico. Ma conviene di più dare a Pietro delle Vigne
carattere, opinioni, inclinazioni affatto diverse da quelle
costantemente seguite in tutto il corso della gloriosa sua vita
politica; lo che non deve supporsi col solo appoggio di memorie
tanto incerte ed oscure. _N. d. T._
Federico giaceva infermo quando Pietro gli si presentò col medico
ch'egli aveva guadagnato, il quale gli offrì come medicina una bevanda
avvelenata. Il principe, nell'atto di accostare il nappo alla bocca,
disse ai traditori: io credo che voi non vogliate darmi veleno. Pietro,
turbato a un tempo e sorpreso, si dolse di un dubbio che faceva torto
alla sua lealtà, chiamandosene altamente offeso: ma Federico,
rivolgendosi in atto minaccioso al medico, gli porse il calice,
ordinandogli di beverne la metà. Il medico sbigottito finse d'inciampare
e lasciò cadere il calice in terra; ma Federico fatto raccogliere quanto
si poteva della sospetta bevanda, la fece dare ad un condannato a pena
capitale, che morì all'istante. Avute così evidenti prove del delitto,
l'imperatore ordinò che il medico perdesse la vita sul palco, e che
Pietro delle Vigne fosse abbacinato; ma questi diede del capo contro il
muro con tanta violenza, che si spaccò il cranio, e morì dopo pochi
istanti[73]. Matteo Paris è il solo storico contemporaneo che parli
circostanziatamente della morte di quest'uomo straordinario; e non
bastano a smentirlo le vaghe ed incerte relazioni degli scrittori guelfi
de' tempi posteriori. Non devo per altro lasciar di dire che nel secolo
decimoquarto credevasi comunemente che Pietro fosse stato vittima della
calunnia; onde Dante, ponendolo tra i suicidi nell'inferno, gli fa dire:
_Canto XIII, vers. 70_:
«L'animo mio, per disdegnoso gusto,
«Credendo, col morir, fuggir disdegno,
«Ingiusto fece me contro me giusto.»
[73] _Math. Paris p. 662._ L'istoria di Pietro delle Vigne è assai
oscura, e piena di contraddizioni. Nè io intendo parlare solamente
delle favole narrate da Tritemio nel suo Chronic. _Hirsang. ad ann.
1229_; e ripetute da altri molti; ma ancora de' moderni scrittori e
de' più acuti critici. Mi sono più che d'ogni altro valso della
_Storia della letteratura italiana del Tiraboschi p. IV, l. I, c. 2,
p. 5-14, 16-30_, da cui per altro mi sono talvolta allontanato per
seguire gli autori originali, che ho pure voluto consultare; quali
sono, _Ricordano Malespini Stor. Fior. c. 131, p. 964. — Giovanni
Villani Istorie l. VI, c. 22, p. 169. — F. Franc. Pipini Chron. t.
IX, c. 39, p. 660. — Benvenuto da Imola Comment. Antich. Ital. t. I,
p. 1051. — Giannon. Istoria Civile l. XVII, c. 3, § 2, p. 584. —
Flamin. Del Borgo Dissert. dell'Istoria pisana l. IV, § 2, p. 257._
Questi riporta un MS. dell'ospitale di Pisa, stando al quale Pietro
delle Vigne sarebbe morto in Pisa, nella chiesa di sant'Andrea.
Allorchè Federico ebbe notizia della scomunica pronunciata dal Sinodo,
non si lasciò punto smuovere, e scrisse a tutti i principi d'Europa per
rappresentar loro che il clero, corrotto dalle ricchezze, abusava
stranamente del suo potere: scrisse di nuovo al re di Francia per
attaccare l'irregolare condotta del papa, e mostrare la nullità del
processo contro di lui intentato, invitandolo a riflettere che potrebbe
ben venire la volta loro, quando i sovrani non si unissero a reprimere
l'arroganza della corte di Roma[74]. Ma in breve oppresso da spiaceri
d'ogni genere, tradito dai suoi più cari amici, abbandonato dai principi
tedeschi che avevangli sostituito, in qualità di re dei Romani, Enrico,
langravio della Turingia, il quale sconfiggeva suo figlio, il re
Corrado, ad altro più non pensò che a pacificarsi col papa, onde metter
fine alla travagliata sua vita. A tale oggetto sottoscrisse in presenza
di molti prelati una professione di fede conforme affatto a quella della
Chiesa; ed in pari tempo chiedeva la mediazione di san Luigi: ma tutto
inutilmente.
[74] _Petri de Vineis Epistolæ l. I, c. 1, p. 87; e c. 3, p. 98._
Senza decidere se queste lettere siano o no scritte da Pietro delle
Vigne, osserverò soltanto che tutte le lettere di Federico scritte
anche dopo la morte del suo segretario furono comprese in questa
raccolta.
(1247) Nel susseguente anno, non ommise Federico di rinnovare le sue
calde istanze per rientrare in seno della Chiesa, sebbene avesse avuta
notizia della totale disfatta e della morte del suo rivale, Enrico di
Turingia, all'assedio di Ulma. Le condizioni da lui offerte nel presente
anno, e ne' due successivi con nuovi schiarimenti, pare che lo mostrino
atterrito dalle censure della Chiesa, e che, a fronte della fierezza del
suo carattere, e del prospero stato de' suoi affari, non avrebbe
ricusato di sottoporsi alle più penose umiliazioni, ai più dolorosi
sagrificj, per rappacificarsi col clero. In questo tempo san Luigi si
apparecchiava a condurre in Egitto quell'armata di crociati ch'ebbe così
sventurato fine. Federico proponeva di unire tutte le sue forze a quelle
del re francese, e di fare insieme l'impresa d'Oriente; e perchè tale
offerta non era di piena soddisfazione del papa, aggiunse l'altra
condizione di militare contro gl'infedeli oltre mare finchè vivesse.
Acconsentiva inoltre alla divisione della sua eredità, purchè non ne
fossero privati i suoi figliuoli. L'Impero germanico non doveva più
essere unito al regno di Puglia; ma il primo rimarrebbe a Corrado, ed
avrebbe il secondo Enrico, figlio di Federico e d'Isabella, sua terza
moglie[75]. E perchè Innocenzo IV, rigettando la confessione di fede
fatta avanti ai prelati per iscolparsi del delitto d'eresia, aveva
dichiarato appartenere a lui solo la disamina della coscienza del
monarca, e ch'era disposto ad ascoltarlo, qualora si recasse
personalmente alla corte pontificia[76]; Federico volle acconsentire
ancora a quest'ultima umiliazione, e si pose effettivamente in viaggio,
attraversando la Lombardia con un treno affatto pacifico, e non toccando
il territorio delle città nemiche, delle quali pareva volerne scordare
le offese[77]. E già era giunto a Torino, quando ebbe avviso che i
parenti del papa gli avevano ribellata la città di Parma. Abbiamo già
osservata che tre delle principali famiglie, i Rossi, i Lupi ed i
Correggeschi, essendosi dichiarati del partito guelfo, avevano dovuto
uscir di Parma. Erano costoro parenti o alleati dei Fieschi, i quali,
all'istante che fu nominato papa uno della loro famiglia, eransi dati
alla fazione nemica dell'Impero. Altri fuorusciti parmigiani avevano
pure raggiunti i primi a Piacenza, aspettando che le prediche di alcuni
frati lasciati in Parma disponessero quel popolo alla sedizione. Quando
credettero giunto l'istante favorevole, la domenica del 16 giugno 1247,
tutti gli emigrati parmigiani s'avanzarono sotto il comando di Gherardo
da Correggio fino al Taro, ove trovarono sull'opposta riva Enrico Testa,
podestà imperiale, con un grosso corpo di nobili e popolani di Parma; il
quale credendosi sicuro della vittoria attraversò il Taro per
attaccarli: ma, durante la battaglia, tutti quelli della sua armata, che
segretamente favorivano i Guelfi, si unirono ai nemici. Quest'impensato
avvenimento portò lo spavento nelle truppe, che non sostennero l'urto
de' Guelfi, restando tra i morti lo stesso podestà, Manfredi di
Cornazano, ed Ugo Manghirotti, due de' più illustri Ghibellini,
salvandosi gli altri colla fuga. Intanto la massa del popolo, perduti i
capi, manifestava con segni di acclamazione il suo attaccamento alla
Chiesa, e conduceva in trionfo gli emigrati entro le mura di Parma.
Gherardo da Correggio venne sulla pubblica piazza proclamato podestà, e
dati il palazzo, le mura e le torri in guardia ai suoi soldati.
[75] _Bartholomæi Scribæ, continuat. Caffari Ann. Genuens. l. VI,
an. 1248, t. VI, p. 515. — Raynaldi Ann. Eccl. an. 1246, § 24, p.
558. — Id. an. 1249, § 14, p. 592. — Math. Paris. Hist. Angl. an.
1249, p. 665._
[76] Lettera dei papa del 10 giugno an. 3 presso il Raynaldi
all'anno 1246, § 20, _p. 557_.
[77] _Barthol. Scribæ Ann. Genuens. p. 511._
Enzo, ossia Enrico, figliuolo di Federico, e re di Sardegna, trovavasi
allora nel contado di Brescia all'assedio di Quinzano. Avuto avviso
della rivoluzione di Parma, abbrucia le macchine guerresche, e viene a
grandi giornate fino alle rive del Taro, lusingandosi di sottomettere i
ribelli con un colpo di mano. Federico, informato a Torino dello stesso
avvenimento, avvampa di collera contro il papa, e deposto con orrore il
pensiero di andare a Lione per umiliarsi innanzi ad un uomo che non
cessava di macchinare contro di lui, riunisce tutti i suoi partigiani
delle vicine città, e fattane una piccola armata, raggiugne il figlio
sulle rive del Taro, di dove si avanza fino a pochi passi dalla
città[78].
[78] _Chron. Parmense, t. IX, p. 770._
La perdita di Parma gli toglieva la comunicazione colle città ghibelline
dalle Alpi al suo regno di Puglia, la quale mantenevasi per Torino,
Alessandria, Pavia, Cremona, Parma, Reggio, Modena e Toscana; oltrecchè
Parma e Cremona gli aprivano un'altra importantissima comunicazione con
Verona, gli stati d'Ezelino e la Germania. Affrettava perciò la leva di
una formidabile armata e faceva avanzare a grandi giornate un corpo di
Saraceni, i soli suoi sudditi non esposti all'influenza de' frati, nè al
terrore delle scomuniche. Ma prima che potesse formare un'armata
abbastanza forte per fare l'assedio di Parma, i Guelfi ebbero tempo di
provvederla abbondantemente di truppe e di vittovaglie. Il legato del
papa, Gregorio di Montelungo, vi si chiuse con mille soldati scelti di
Milano, e seicento di Piacenza, ch'egli vi aveva condotti per difficili
strade. Un altro rinforzo vi spediva da Mantova il conte di san
Bonifacio, il quale alla testa d'un altro corpo di Mantovani entrava in
pari tempo nel territorio cremonese, per guastarlo, onde sforzare i
Cremonesi ad abbandonare il campo dell'imperatore per venire in soccorso
della loro patria. Anche il marchese d'Este, poco curandosi di lasciare
in balìa di Ezelino le proprie terre, si gettò con un corpo di Ferraresi
in Parma, ov'eransi pure adunati tutti i fuorusciti guelfi di Reggio, di
modo che vi si trovarono due mila cavalieri forastieri e mille della
città. La milizia dividevasi per quartieri; e le milizie di due porte
occupavansi ogni giorno della guardia della terra, dello scavamento di
nuove fosse e dell'innalzamento di bastioni e di palizzate per supplire
alla conosciuta debolezza delle antiche mura.
Mentre Parma era alleata dell'imperatore, gli aveva spediti dei soldati,
ch'egli teneva nelle vicine città; de' quali, essendogli, dopo
l'accaduto, talmente sospetta la fede da poterli trattare come aperti
nemici, ne fece imprigionare ottanta a Reggio e cinquanta in Modena,
ritenendoli per ostaggi; ed inoltre fece arrestare tutti i giovani
parmigiani che trovavansi allo studio di Modena, i quali tutti spogliati
de' loro cavalli, delle armi, dei libri e di quanto avevano, furono
mandati carichi di catene al campo imperiale[79].
[79] _Chron. Parmense, p. 771._
Intanto l'armata ghibellina riceveva ogni giorno nuove genti; erano
arrivati dalla Puglia molti Saraceni a piedi ed a cavallo: Ezelino aveva
seco condotte le milizie di Padova, di Vicenza, di Verona; ed i
Ghibellini di tutte le città d'Italia si univano sotto le bandiere di
Federico per ricominciare una sanguinosa guerra: ma ossia che le forze
ghibelline non fossero tali da poter impedire ai nemici di battere la
campagna, oppure gli mancassero le macchine d'assedio, nè assediò la
città, nè venne a giornata con Bianchino da Camino ed Alberico da
Romano, i quali con un'armata guelfa eransi trincerati dalla banda
settentrionale di Parma sull'altra riva del Po. Tutte le fazioni di
questa campagna si ridussero dunque ad alcune scaramucce coi Saraceni, i
quali cercavano d'impedire che fosse vittovagliata la città: al quale
oggetto s'impadronirono un dopo l'altro de' castelli del territorio
parmigiano, tranne Colorno; e tutti li distrussero; di modo che le bande
de' soldati guelfi, quando ancora potevano scorrere la campagna, non
trovavano viveri di veruna sorte per portare in città: onde i cittadini
cominciavano a soffrire la fame, ed i viveri si vendevano a carissimo
prezzo.
Credette Federico giunto l'istante opportuno d'atterrire gli assediati
con sanguinose esecuzioni. Fece dunque condurre nel prato di Flazano, a
due tiri di balestra dalle mura, quattro prigionieri parmigiani, due
gentiluomini, e due borghesi, e fece loro tagliar il capo, proclamando
in pari tempo che ogni giorno, finchè s'arrendesse la città, farebbe
morire quattro Parmigiani, e mille ne teneva allora Federico in poter
suo; ma il podestà ed i consiglieri, cui il consiglio generale aveva
dati illimitati poteri per la difesa della città, presero le più
rigorose misure per impedire che dal campo imperiale si recasse notizia
di quanto accadeva; onde il pericolo che correvano tanti cittadini, non
consigliasse i loro parenti ed amici a qualche atto di debolezza. Molte
spie e messi, che tentarono di penetrare nascostamente in città, furono
colti dalle guardie del podestà, ed abbruciati nella pubblica piazza,
talchè niuno della città osò parlare di entrar in trattati col nemico.
Frattanto nel susseguente giorno erano stati decapitati due altri
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Çirattagı - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 05
- Büleklär
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 01Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4194Unikal süzlärneñ gomumi sanı 159142.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.66.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 02Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4270Unikal süzlärneñ gomumi sanı 167639.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.8 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.64.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 03Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4291Unikal süzlärneñ gomumi sanı 166141.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 04Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4284Unikal süzlärneñ gomumi sanı 171539.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 05Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4285Unikal süzlärneñ gomumi sanı 168640.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 06Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4309Unikal süzlärneñ gomumi sanı 172740.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 07Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4304Unikal süzlärneñ gomumi sanı 159640.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.6 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 08Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4352Unikal süzlärneñ gomumi sanı 164942.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 09Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4259Unikal süzlärneñ gomumi sanı 172240.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 10Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4317Unikal süzlärneñ gomumi sanı 162741.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.67.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 11Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4402Unikal süzlärneñ gomumi sanı 164641.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.66.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 12Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4278Unikal süzlärneñ gomumi sanı 157439.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.55.8 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 13Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4268Unikal süzlärneñ gomumi sanı 155238.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.55.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.64.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 14Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4263Unikal süzlärneñ gomumi sanı 157040.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.55.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 15Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4320Unikal süzlärneñ gomumi sanı 166443.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.65.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 16Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4364Unikal süzlärneñ gomumi sanı 167542.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.67.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 17Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4388Unikal süzlärneñ gomumi sanı 157542.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.66.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 18Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4355Unikal süzlärneñ gomumi sanı 160342.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.66.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 19Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4360Unikal süzlärneñ gomumi sanı 165541.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.66.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 20Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4320Unikal süzlärneñ gomumi sanı 157540.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 21Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4239Unikal süzlärneñ gomumi sanı 165439.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.56.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 22Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 2715Unikal süzlärneñ gomumi sanı 107844.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.68.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16) - 23Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 1833Unikal süzlärneñ gomumi sanı 75445.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.62.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.69.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.