Novelle brianzuole - 9
Süzlärneñ gomumi sanı 4738
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1793
35.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
48.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
54.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
confessarsi, gli rispondeva altro se non — Datemi dei quattrini.
Poi, vedete come si riesce da un primo passo in traverso; una volta si
trovò scorbacchiato dai compagni che, sapendolo all'asciutto per fargli
izza gli dicevano, — Ehi, Tita, non ci stai più al bicchierino? non
vuoi fare una partita alle palle? una partita e un fiaschetto? Egli,
entrato in casa di una vicina, le tolse un agone d'argento, di quelli
che s'infilano nelle trecce, e ne ebbe quaranta soldi, che succiò coi
camerati.
La vicina, accortasi, ne levò rumore; la madre di Tita procurò parar
via la cosa, e sarebbe riuscita a rimpaciarla se il segretario comunale
non ne avesse avuto sentore; sicchè lo denunciò alla giustizia, e a
Tita toccò la prigione.
Capite? la prigione come a un ladro.
Fortuna che, tra il perdono della vicina, tra le preghiere della madre
e l'essere la prima volta, e il ricoprirlo come ubbriaco, ci fu messo
una toppa, onde, pochi giorni apresso, il signor giudice il rilasciò
dandogli una seria paternale, e il precetto di più non metter piede
all'osteria.
Venuto fuori, la lezione era stata di tal qualità, ch'egli parve
aver messo giudizio, e babbo e mamma ne stavano consolati. Ma come
la gramigna ricaccia se non è svelta dalle radici, così il vizio.
Un giorno le vecchie praticacce di Tita stavano battendosi alla mora
sulle pancacce dinanzi alla bettola. E vedendolo passare, — Ehi, Tita,
vuoi fare il quarto? o sei ridotto al moccolino? C'è un vinetto da
risuscitare un morto.
Egli ci pensa, — E perchè no? finalmente trattasi di una volta. E se
nol fo; costoro mi fan martire.
Si giuoca; se ne fa portare una mezzetta, poi un'altra: quell'urlare
villano dà buon bere. Il primo sorso sapeva d'amarognolo a Tita,
ricordandosi la gabbia; ma pensava: — Tanto non è che un bicchiere: poi
all'osteria proprio non ci vo.
Al secondo colpo non fece così brutto ceffo: al terzo allappò la bocca
dicendo — Come è buono! e in quattro e quattr'otto si trovò brillo e
spensierato. La mattina, quando la balla fu smaltita, egli sentivasi
scontento di sè; rinnovava mille bei propositi; ma alla bass'ora, per
caso, tornò a passare di là, e guardare ustolando, e quegli oziosi ad
invitarlo a giocare ai tresetti. Nicchiò sulle prime, ma quelli lo
presero a berteggiare, e — Che? sei forse sul lastrico? non hai più
gajo il taschino? Messo al punto, egli giocò e bevve. Altrettanto al
domani: poi, bever fuori e bever dentro dell'osteria (pensava egli) non
è tutt'uno? Entrò; alzò il gomito più del bisogno; tornò a casa tardi e
colle traveggole.
I genitori s'accorsero d'essere alla cantilena di prima; il padre
dava nelle furie, ma la madre lo assonnò, e gli diceva: — Sapete
che? diamogli moglie, e metterà giudizio. Quanti col torre moglie son
diventati tutt'altri!
Il padre, facendo spallucce, rispondeva: — Fate voi. La donna allora
pose gli occhi sopra la Laurina; una buona ragazza; un angelo in carne.
Aveva costei una nidiata di fratelli: onde i suoi, che erano povera
gente, non vedevano quell'ora benedetta di darle il cristiano, pur che
sia, per poter dire, — E una.
Veramente quando la mamma di Tita ne fece la chiesta, il maritarla a
una stirpaccia di così cattivo nome pesava non poco ai parenti di lei:
ma la madre di Tita li confortava. — Sì; ha dato quello scappuccio. Eh!
ognuno una volta o l'altra ha da scorrer la cavallina. E chi rompe la
cavezza da giovane, riesce poi un uomo come si deve. Adesso, credetemi,
ha messo testa; ha un buon mestiero per le mani: del suo cuore poi non
vi dico altro. Chiedetene e domandatene a chi volete.
Quelli in fatto cui domandavano, per paura di mormorare, non c'era bene
che non ne dicessero, ed era fin troppo per contentare i genitori,
il cui scopo astratto è sempre di dar marito alle ragazze. Alla sera
dunque la madre domanda a Tita: — Prenderesti moglie?
— Perchè no? risponde questi, immelensito dal vino Ma chi ho da
togliere?
— Ti piacerebbe la Laurina del Forno?
— A me sì.
Al domani Tita, rimpulizzito e colla gala smerlata e colla scatola
del tabacco, siccome usano qui, andò a trovar la ragazza, e farle
le paroline. Essa non ne sapeva nulla; ma visto i parenti usargli
cortesie, gliene usò anch'essa, tanto che la madre di lei corse da
quella del Tita a riferirle: — Ehi, la va coi fiocchi: il parentorio si
farà: le è piaciuto.
Ma quando la chiarirono che si trattava di sposarlo, Laurina diede
fuori a piangere, e che non lo voleva perchè era un qua e un là, e
perchè aveva rubato, e perchè bazzicava all'osteria, e perchè non aveva
il timor di Dio.
Sua madre le recitò una sequenza di ragioni, una più gagliarda
dell'altra; e le mostrò la povertà della famiglia, i tanti fratelli; ma
essa replicava: — Vedete? non son in qua tutto il di a dipanare seta?
Lavorerò anche di più, tanto da fare le spese a me, e un poco anche a
voi; ma per carità non mi affogate a questo modo.
La madre s'ingrugnò: vennero le comari a darle della pazza pel capo:
— Cosa vai a rimestare, scioccherella che tu sei? Avresti a far
Gesù colle due mani. Magari quante lo vorrebbero: e tu non dovresti
chiamartene degna. Credi che si trovi un'occasione ad ogni uscio?
Hai già ventidue anni suonati: vuoi rimanerti a spulciare il gatto? o
presumi scavizzolar un signore di carrozza?
Se ne mischiò anche il signor curato, un buon uomo, di nulla più
smanioso che di vedere i giovani e le ragazze accasati, e pieno di
fiducia che quel sacramento rimetta il senno a chi l'ha smarrito.
Insomma tante e tante gliene dissero, che la Laurina fu indotta a dare
il sì, e l'affare si stiacciò.
Andò sposa. Il bel primo giorno, bevi e ribevi, Tita fu messo in terra
da una solenne imbriacatura. — Pazienza! sarà stata la compagnia, lo
straordinario. Ma egli toccò via di quel passo; onde la Laurina fu
chiara che il vizio era nelle ossa, nè le restava di che sperare. Tutto
il dì a sbevazzare, tutte le sere a casa ubbriaco: non c'erano più
padre e madre da dargli una sbrigliata: se prima al lavoro badava poco,
ora niente, e non cercava che passar la giornata senza stracca: poi
cominciò a vendere questa o quella masseriziuola della moglie.
E lei? colla pazienza, colla dolcezza (povera fanciulla!) faceva di
tutto per indurlo al bene. Avrebbe potuto andare dai suoi e dir loro, —
Vedete mo? non ve l'avevo detto io? ma perchè crescere in cordoglio che
già capiva che n'avevano? Taceva dunque e mandava giù; e se alcuno le
domandasse: «Come va Laurina?»; e a Dio pregava, a Dio espandeva i suoi
rancori, da Dio sperava l'ajuto.
Eccovi la storia di quella setajuola. Passò, nel modo che v'ho detto,
la stagione della filanda: i denari erano consumati in erba da quel
goloso: ond'ella pensa con ansietà al figliuolo che aveva da nascere;
per allestire a questo le fasce e i pannicelli, non poteva essa che
ritagliare i vestimenti e le biancherie sue; ma tutto era niente,
purchè il suo Tita non ne facesse qualcuna: qui batteva la sua continua
paura. E perciò non lo perdeva mai d'occhi; lo tenea, quant'era
possibile, in casa, li presso di sè, a dar qualche punto lasagnon
lasagnone: ma il più del tempo a far nulla, mentre essa lavorava ad
accannellare seta per buscare qualche soldo, che difficilmente poteva
sottrarre alla colui avidità.
Quando poi egli s'indugiava fuori, correva a cercarlo, massime alla
sera, e ridurlo a casa. Se ne ricevesse dei rabbuffi, nol mi domandate,
e anche peggio, perchè l'ubbriaco ha perduto il più bel dono di Dio, la
ragione; e più non sa quello che si faccia.
Ma un giorno fra gli altri, essendogli riuscito di trovare alcuni
soldi ch'ella aveva riposti nel pagliericcio pei bisogni che prevedeva
vicini, Tita, inchiodatosi nella taverna, si abbandonò al chiasso e a
tracannare vino e vino; il cervello se n'era andato. La Laurina, visto
farsi tardi, girò di bettola in bettola sulla traccia di lui; alla fine
lo trovò che sciscinando ne diceva di tutti i colori, e attorno una
fitta di bevoni, cotti al par di lui, a metterlo su e pigliare pasto
delle pappolate che gli cascavano di bocca, e tenergli bordone con
delle somiglianti.
La buona moglie se gli mise allato, quanto dolce sapeva, a pregarlo,
ad ammansirlo, a volerlo menar via. La gente guardava, e ne facevano
scene. Tita un po' e un po' sopportolla, poi sentì pizzicarsi le mani,
e balzato in piedi, rosso come lo sverzino, senza lasciar brutto nome
che non lo dicesse, la acciuffò, e cominciò a picchiarla da forsennato.
Batter la moglie! e in que' piedi! A quali orrori trascorre l'ubbriaco!
Gli avventori e l'oste riuscirono a trargliela dalle mani; essa,
tutta pesta e scarmigliata uscì, colui continuò un pezzo ancora le
smanie da non si dire, poi, come succede quando la pentola pel troppo
bollire trabocca, che spegne da sè la fiamma e calma il bollore, così
quello sfogo fece rientrare in cervello il brutale; — Andrò (diceva)
a domandarle scusa. È tanto buona! oh quest'oggi ho proprio passato i
confini. Non ci voglio tornar più.
Ma come nel lago, quando ci fu burrasca, sebbene il vento abbia dato
luogo e le onde si vadano posando, pure tratto tratto un'altra buffata
di aria le solleva di nuovo, così accadeva nell'animo di lui. Onde
dopo quelle belle parole, ripigliava: — Ma lei, perchè la ha sempre
d'arrangolare? perchè sempre mi corre tra' piedi? chi cerca trova.
Non voglio padronanze. Le ho sonato un tientamente che deve durarle un
pezzo... Infine però, povera creatura! la opera per il mio bene, e son
io una bestia da legare. Basta! voglio metter giudizio. Questa Pasqua
voglio fare davvero un buon bucato, e diventare un tutt'altro. No; Tita
non sarà più Tita come c'è scritto in quell'esempio che la Laurina
mi leggeva sul Catechismo. — Ma intanto, la mi lasci stare, se no,
vuol sentir sonare più d'un doppio; e se sta volta fu acqua, un'altra
saranno tempeste.
Così berciando e barcollando fra la ragione e l'ebbrezza, fra le
ispirazioni del suo buon angelo e le tirate del vizio inveterato, mosse
verso casa dondolando come disvincolato. Vide la Laurina entrare tutta
indolenzita.
— Ecco (diceva egli tra sè) la poverina va in casa, e ci starà a
piangere... e in grazia mia. Ma poco appresso la vede uscire: ha sul
braccio il fazzoletto da capo, accosta l'uscio e se ne va.
— Ah maligna! ah vipera! esclamava colui assaettato. Lo so: ella va dai
parenti suoi a far una scena, a svesciare quel che è successo. Va dal
curato a farmi chiamare... Aspetta a me! se mi fa questo, in fede mia,
la fiacco di mazzate.
E a stento contenendosi, grullo grullo la seguita di lontan via.
La vede passare da casa sua, e non entrarvi; passar dalla casa
parrocchiale, e non entrarvi.
— Dove diamine va?
Quattro passi fuor del villaggio sta un oratorio della Madonna
addolorata, riverita con gran divozione dai paesani, e che impetra
tante grazie a chi la prega di cuore.
Verso quella si volse la Laurina; e come fu presso, si coperse il capo
col fazzoletto, entrò, si fece sino alle balaustre, s'inginocchiò e
pregò. Tita sulle orme di lei era giunto anch'esso; poi come vide
ove capitava, il suo mal genio gli diceva: — Dà di volta, torna
all'osteria, che t'aspettano a finir la partita; ma l'angelo buono gli
suggeriva: — Entra tu pure in chiesa: osservala; prega anche tu.
A questo diede ascolto: e v'entrò. Non c'era anima, essendo sulla sera
e buiccio: vide la tribolata, col volto ascoso nel fazzoletto e curvo
sulle mani giunte. Che piangesse ne davano segno i singhiozzi, che
tratto tratto la scotevano; tratto tratto ancora si udivano alcune voci
che pronunziava più forti, non credendosi ascoltata: — Cara Madonna dei
dolori; datemi pazienza! — Non vogliate castigarlo: non sa quello che
si faccia. — Perdonategli come gli perdono io. — Toccategli il cuore:
— oh cara Madre del buon consiglio! fate che abbia a diventare un buon
cristiano e timorato.
Queste voci erano tramezzate da altre, che esso non capiva: saranno
state quelle preghiere che impariamo da nostra madre quando siamo
bambini; quel saluto a Maria che ripetiamo ogni giorno più volte, che
forse neppur intendiamo, ma sappiamo che è una preghiera alla madre di
Dio e madre nostra, affinchè preghi per noi Colui che sa tutti i nostri
bisogni.
Quando Tita racconta quest'avventura, dice che quelle parole
dell'offesa sua moglie lo commossero più che non avessero mai fatto le
prediche del signor curato, — e neppure (aggiungeva) neppur quelle dei
missionari. E dovette essere proprio così: perchè tacente, mansuefatto,
si avvicinò a lei, quasi temendo disturbarne la mesta devozione, le
s'inginocchiò a fianco, e pregò. Quand'ella si accorse di lui, lo
guardò con una meraviglia lieta e pacata, dicendo: — O Tita, anche tu?
— Sì, rispose egli, perdonami Laurina; e prega il Signore che mi
perdoni, come io ti prometto di cambiar vita.
Recitarono insieme il rosario, poi s'avviarono a casa in pace e quiete,
facendo proposito di condursi come ella desiderava.
Propositi d'ubbriaco, direte voi che l'avete visto altre volte
promettere e ricascare. Ma e la grazia del Signore non la valutate per
nulla? Non valutate la fede con cui la Laurina aveva pregato? Ho il
piacere di dirvi che Tita, secondo aveva promesso, non fu più Tita.
Capì qual tesoro sia una moglie buona: capì che stomachevole vizio è
quel dell'osteria, il quale oltre lo scapito dell'anima, vi fa tenere
per amici i discoli e i beoni, ed oltraggiare quelli che più meritano
rispetto ed amore: istupidisce la mente, logora il corpo, anticipa
la vecchiaja disprezzata che fra i vilipendii e gli scherni trascina
innanzi tempo a finire la vita, se pure si può chiamare vita quella
vergognosa vegetazione.
Tita cominciò a far l'uomo posato; e starsi in casa. Oh! la casa ha
una tale attrattiva in sè, che chi la gusta da vero una volta, non se
ne svia mai più. Tornò affezionato al mestiero, tornò alla parsimonia,
tornò alla quiete: e temperante, e assennato, stette colla moglie al
bene e al male che occorre nella vita: bene che tanto s'accresce, male
che s'allevia tanto allorchè si divida con una buona compagna. Egli
stesso confessa che se qualche volta (per usare la sua espressione)
il diavolo lo tenta per tirarlo alle pratiche vecchie, non ha rimedio
migliore che ricordarsi i pugni dati a sua moglie.
La Laurina, lieta quanto si può dire, non rifina di ringraziare la
Madonna. Alla nuova stagione, eccola ricomparire alla filanda con
un bambino in collo: ricomparire festiva e vivace come quando era da
marito, e discorrere e canterellare.
Se mai v'accade di passare per quella borgatina, lì sul canto dello
sdrucciolo a mancina, per cui dalla strada maestra s'esce ai campi,
v'occorrerà alla vista una botteguccia raccoltina, nella quale una
donna siede a girar un aspo, mentre un fantolino appena divezzato va
baloccandosi sul pavimento coi ritagli di panno che cascano da una
tavola, sulla quale un uomo assiduamente lavora, nel tempo che fa
bordone alle allegre canzoni di una setajuola. Sono la Laurina, il
marito suo e il loro bambino; un inferno mutato in paradiso per la
prudente pazienza di una moglie virtuosa.
AGNESE
O LA VEGLIA DI STALLA
Quando gennajo copre di nevi o di brine le campagne, e tutto
ringhiaccia alla buffa del tramontano, e sugli ispidi stecchi degli
alberi non si fa intendere più lo stormire dei passeri a folate e
il crocitare dei corvi, sogliono i contadini temperar lo stridore
della stagione facendo crocchio nelle stalle; e a quel tepore
lavorando, discorrendo, pregando, dispensare i giorni melanconici e le
interminabili serate. Le vecchie già vi si sono crogiolate, non appena
al mezzodì si furono refiziate col povero desinare; e poichè alquanto
ebbero adoperato la striglia contro il tale e il quale, volentieri
si rifanno sui casi di loro gioventù, quando, a sentirle, il mondo
camminava così diritto, così allegro, così onesto; rammemorano le
persone con cui vissero, e che ora da un pezzo dormono tra i più; e
come predicava il curato, antecessore dell'antecessore del presente; e
come l'andava innanzi che capitasse il Buonaparte; e del tempo quando
v'erano tuttora le streghe e le paure, che ciascuna di esse ha veduto,
ha udito cogli occhi, cogli orecchi suoi proprii. L'una rammenta quel
palazzotto poco discosto, ove guai che qualcuno si fosse arrischiato di
dormire, perchè sulla mezzanotte, vi correva di su di giù la fantasima
con grande fracasso di catene, dopo che il diavolo se n'era, corpo ed
anima, portato via il padrone, il quale era così ingordo avaro, che
in una gran carestia avendo ammassato di molto grano, eppoi essendone
scaduto il prezzo, per disperato s'appiccò.
— Io non so darmi pace (così dice la Simona, vecchia impresciuttita
e rubizza) di certuni, che queste cose non le vogliono credere. E
in castello? Al tempo dei tempi vi stava un cavaliero, che aveva una
moglie delle belle che si potessero vedere con un par d'occhi. Ora,
venuto geloso d'un bel paggetto, un giorno egli lo fece squartare,
gli cavò il cuore, e bell'e fritto, quel cuore lo imbandì alla sua
signora. Quando la signora se n'è accorta, si traboccò dalla finestra
nella fossa. Il cavaliero poco dopo fece anche lui cattiva fine; e per
questo, Iddio ci guardi dal commettere omicidi. Io stessa, non conto
ciance, io stessa ho veduto, una volta come mille, un uccellaccio
strano, che aveva la forma d'un ferro di lancia, aliare sulla sera
attorno ai merli del castello, ed era l'anima di quel cattivo.
— Ma (interrompe comar Giuditta, mentre sbracia il veggio) dopo che vi
alloggiarono dentro i Giacobini, quell'uccellaccio non s'è lasciato più
vedere, come non ci s'è più sentito in palazzo.
— Uh! coloro, torna su la Simona: erano frammassoni, senza nè legge
nè fede, che si ungevano gli stivali coll'olio santo, e giocavano alle
palle colle teste dei preti.
— L'avete visto voi anche questo? domanda un'ingenua ragazzetta, che,
sopra un sediolino, sta tutt'orecchi a quei paurosi racconti.
— No, risponde l'altra; ma lo dicevano tutti: e questo poi è frumento
secco, che non andavano a messa neppure la festa.
— E sì, la festa bisogna rispettarla, aggiunge biascicando le parole
la sdentata Teresa. E voglio dirvi questa, che mi contò, deh quante
volte, fra Spiridione buon'anima sua. Che, quando si fabbricò il
loro convento, avevasi a portare un masso smisurato, da collocare
per fondamento al campanile. Sicchè il padre guardiano, il quale era
un sant'uomo, pregò i terrazzani che la domenica venissero con tutte
le leve, i carri, i bovi a trasportarlo. Si trattava di un'opera
in servizio di santa chiesa, eppure quei buoni villani risposero,
— Riverenza no; e che sarebbero andati piuttosto il lunedì, prima
che cominciasse la giornata. Sapete che? quando comparvero, il padre
guardiano si fece loro incontro e disse: — Buona gente, ecco fatto: il
Signore, per chiarire come gli sia gradita la devozione che avete al
suo giorno, ha voluto far un miracolo; e mostrò loro... indovinereste?
quel ceppo, che così massiccio com'era, di per sè erasi levato dal suo
posto, e collocatosi dove aveva a stare, nè più nè manco.
— E l'han creduto tutti? domandava la bambinuccia.
— Mi fai giusto da ridere, ripiglia la vecchia. Non volevi che si
credesse una cosa tanto straordinaria?
Qui comar Giuditta entra dicendo: — E fu durante la fabbrica stessa,
io credo, quando v'era quel converso, il quale faceva di sì spessi
miracoli e sì strepitosi, che, per toglierlo dal rischio di levarsi
in superbia, il padre priore gli intimò di non farne più senza sua
permissione. Ora, mentre il converso stava guardando a murare, ecco si
fiacca un palco, e un muratore casca giù fin dal tetto. — Ajuto, fra
Vincenzo, gridò il meschino. — Ajuto, replicarono maestri e manovali. E
fra Vincenzo tutto cuore avrebbe voluto fare su' due piedi un miracolo,
ma n'avea la proibizione, onde stesa la mano, gli gridò: — Fermati,
tanto che io corra a domandarne licenza. E corse; ma il miracolo era
bell'e fatto, perchè colui si fermò a mezz'aria, come fosse stato in
piana terra.
— Eh, i frati! attacca un'altra sospirando. Del gran bene facevano i
frati. Tutto il dì, tutto l'anno mai non facevano niente, per poter
pregare anche per quelli che non pregano, e massime per noi villani,
che, costretti a faticare il giorno intero, non ci avanza tempo da dare
a Domenedio.
— E i benefizi che compartivano, dite poco? (È la Simona che parla.)
Mai non venivano alla cerca, che non regalassero o una coroncina, o
un santino, od almeno non benedicessero il mal di madre, i figliuoli
ammaliati, e scongiurassero i bruchi e le formiche.
— E voi cosa davate loro? chiede quella tal ragazzina.
— Oh, un poco di tutta quella grazia di Dio che si coglieva. Caspita!
non erano state le loro preghiere che l'aveano salvata dalle brine e
dalla gragnuola? Ma non si portava mai al convento una coppia di polli
o qualche stajo di grano, che non ci ricambiassero or coll'insalata, or
con le carote... Che sgrigno è cotesto? Chiacchierina! porta rispetto,
chè di fame non moriva nessuno, e il Signore faceva andare sempre co'
fiocchi la campagna: il melgone si comprava a otto lire il moggio,
e la gente non era così spessa. E quando d'un figliuolo non si sapea
che cosa farne, c'era dove collocarlo: e se il marito o la suocera ci
facevano mandar giù degli stranguglioni, si aveva dove andar a vuotare
il sacco e chiedere un parere.
— Voi non dite male, no, Simona: così la Teresa. E vorrà forse essere
per altro, ma quest'è un fatto che allora non si pativa tante malsanie.
Confessate in verità vostra: vi ricorda che, da qui indietro, si
parlasse tanto di catarri, di reumi, di tutti questi acciacchi che ora
non si dice altro?
— Quanto a questo, rompe il ghiaccio la Betta, che di tutte è la più
sufficiente; ho sentito io soggetti che la sanno lunga, assicurare che
la causa n'è l'innesto del vajuolo vaccino. Non parliamone nè anche di
questo scandalo d'innestare una bestia, e una bestia di quella fatta,
sopra i ragazzi, e peggio sulle bambine, che è forse per questo che
non hanno ancora gli occhi rasciutti, e già le pajono così maliziose.
È bensì vero che molti morivano, molti rimanevano conci nemmeno da
vedere; però era uno spurgo necessario come tant'altri, e dopo si
campava sani come acciajo. Ora hanno voluto andare contro a quello che
veniva di lassù; non so che dire: tal sia di loro.
Fra questi e simili discorsi fatto notte, sopraggiungono vispe,
leste le più giovani, e dietro ad esse i garzoni, moscheggiando,
barzellettando, soffiando sulle mani aggranchite ed esclamando: — Oh
che freddo! Allora così al bujo, è un via vai, un passerajo di cento
voci che una soverchia l'altra, una l'altra interrompe; onde se tu
volessi trovarne il filo, oh va raccapezzare quel che si ciancia sur un
mercato. Dispongono quindi i trespoli e gli scannelli, e cominciano ad
acchiocciarsi, a quetarsi. E la Savina dopo aver allegramente contato
quel che fece, quel che disse, quel che intese fuori per la giornata,
piglia la rocca, e sbattendo il pennecchio del lino — Su via (dice)
facciamola finita; è ora d'accendere il lume e lavorare, se ho da
ammannire il corredo della biancheria per quando mi fo sposa. E, nel
dire, stazzona col gomito un giovinotto che le sta a spalla.
— La lingua batte ove duole il dente, n'è vero? scappa fuori una
camerata invidiosetta. Oh, si sa bene che hai l'innamorato.
— Ah ah! ride la Savina. Chi? io? ti par egli? sei pur la dabbene! Così
fosse! Ma chi vuoi che mi musi? Ha da venir neve rossa.
— Sì, sì, insiste l'altra. Non farmi la forestiera. Non ti ho forse
io scorta jeri quando andavi per acqua, eh? Egli ti pedinava, e che
paroline t'ha detto? Oh, se mi tocchi, squatterò io gli altarini.
Scommettiamo...
— Neanche un quattrin bucato, interrompe la Savina. Io non me ne
ricordo niente. Sarà stato un caso... E poi... se anche fosse, c'è del
male? Han fatto così anche le nostre madri, sicchè...
— Adagio, adagio, salta la Teresa. Io so che le vostre madri avevano
più giudizio di voi, farfarelle; e, non fo per dire, ma si era
belle tanto e più che voi. Eppure si sposava quello che i parenti
proponevano, delle volte senza nemmanco avergli parlato; si facevano le
cose come andavano fatte; e non si cercava alla fine che di adempire le
intenzioni di santa madre Chiesa.
— Non c'era tanta premura d'andar a marito, aggiunge una pulzellona
di cinquant'anni. Ma ora voi altre non avete appena i venti, e già vi
puzza il fiato, e parlate d'amore, frasche!
— Tempo passato perchè non ritorni, eh? ripiglia la giovane; sempre fu
sole e nugolo, grano e loglio. Però, dico io, noi del male ne facciamo
noi?
— Questo non si può dire, piglia la parola comar Giuditta. Ma in tali
faccende non si va mai cauti che basti, perchè il primo scappuccio, Dio
sa dove porta. L'è giusto appunto come quando i puttini scivolano sul
ghiaccio: presa una volta l'andata, vatti accatta dove si fermeranno.
Ve l'ho ben raccontata, eh, la storia dell'Agnese?
— No, no, replicano le giovani per una bocca. Contatela, comare:
contate la storiella: e così al fosco, colle mani sotto al grembiule,
se le stringono più da presso per ascoltarla. Essa comincia:
— Era l'Agnese una fanciulla bella come un'immagine, tenera come latte
spremuto, ma anche dabbene, che, chiedete e domandate, neppur le vicine
poteano dir altro che lodi. Le era morta sua mamma mentre era ancora
d'otto o nov'anni, ed essa appena cresciuta un poco, tirava innanzi la
casa e la bottega con tanta capacità ed amore, che suo padre non sapeva
finire di dirne, e le ripeteva: — Tu sarai la mia consolazione. Udirete
che pezzo di consolazione.
In que' tempi la devozione era molto più d'adesso: e la sera del
giovedì santo si costumava una bella processione, dove i garzoni e
le giovinette rappresentavano il mistero della Passione, coi Giudei,
con Pilato e il Cireneo che ajutava nostro Signore, e le Marie che lo
piangevano, e tutto. L'Agnese si vestiva da Maddalena, perchè l'aveva
la più ricca treccia di capelli, che lasciava cascare sulle spalle; e
quanti la vedevano esclamavano: — Oh la bella Maddalena!
Viveva allora nello stesso villaggio un tal Sandro, un garzonotto così
d'un vent'anni, non somigliante a questi tisicuzzi d'oggi, fatti di
calza disfatta; ma un pezzo d'uomo, ben formato e ben fondato, con due
bracciotti da vangar una vigna da sè a sè. In quella processione egli
figurava da Giudeo, e toccandogli di stare a fianco della Maddalena
per tener dietro colla lancia la folla, cominciò in quell'occasione
adocchiare l'Agnese, ed essa lui. Poi, quando in appresso si
scontravano per via, essa diventava rossa come una ciliegia, ed egli,
passandole a lato, la pigiava un pocolino col gomito: pigiarla; che
male c'era? Cominciarono poi a farsi un motto; esso le presentò qualche
volta un garofano, e lei lo accettò. — Che male fo io? diceva tra sè.
Venuta poi la state, qualche sera egli pigliava la sua brava zampogna,
e su e giù sonandola girellone per la via dove l'Agnese stava di casa.
Faceva caldo, ed essa, tanto per godere una boccata d'aria, si metteva
un po' sul balcone. Quand'egli passava sotto la salutava colla mano.
Sulle prime ella non mostrò di vedere, poi non stette al martello, e
fece anch'essa altrettanto: alla fin dei conti che male c'è?
Una sera egli la chiamò in basso tono, e — M'occorre di dirvi una
parola. — Ditela pure, essa replicò. — Ma volete? qui così dalla
strada? Fatevi abbasso. — Non posso, rispose ella; c'è il mio babbo.
Al domani il babbo non c'era; ella discese a sportello, mise fuori la
testa ed ascoltò. Ma il discorso non potè terminarsi quella sera, e al
giorno appresso, poi l'altro, e l'altro, sempre egli aveva a ragionarle
qualche cosa; e poi quando ella era dabbasso, non si ricordava più, e
bisognava riportarsi al giorno seguente.
Di tutto questo non aveva ella fatto confidenza se non ad una sua
vicina, che si chiamava la Bia, una buona pastocchiona, di quelle che
credono tutto bene, e che, invece di darle una lavata di capo come va,
le diceva: — Gli è un dabben ragazzo, se fa per di buono, puoi aver
trovato la tua fortuna, e ringraziare Iddio d'aver dato il capo in un
Poi, vedete come si riesce da un primo passo in traverso; una volta si
trovò scorbacchiato dai compagni che, sapendolo all'asciutto per fargli
izza gli dicevano, — Ehi, Tita, non ci stai più al bicchierino? non
vuoi fare una partita alle palle? una partita e un fiaschetto? Egli,
entrato in casa di una vicina, le tolse un agone d'argento, di quelli
che s'infilano nelle trecce, e ne ebbe quaranta soldi, che succiò coi
camerati.
La vicina, accortasi, ne levò rumore; la madre di Tita procurò parar
via la cosa, e sarebbe riuscita a rimpaciarla se il segretario comunale
non ne avesse avuto sentore; sicchè lo denunciò alla giustizia, e a
Tita toccò la prigione.
Capite? la prigione come a un ladro.
Fortuna che, tra il perdono della vicina, tra le preghiere della madre
e l'essere la prima volta, e il ricoprirlo come ubbriaco, ci fu messo
una toppa, onde, pochi giorni apresso, il signor giudice il rilasciò
dandogli una seria paternale, e il precetto di più non metter piede
all'osteria.
Venuto fuori, la lezione era stata di tal qualità, ch'egli parve
aver messo giudizio, e babbo e mamma ne stavano consolati. Ma come
la gramigna ricaccia se non è svelta dalle radici, così il vizio.
Un giorno le vecchie praticacce di Tita stavano battendosi alla mora
sulle pancacce dinanzi alla bettola. E vedendolo passare, — Ehi, Tita,
vuoi fare il quarto? o sei ridotto al moccolino? C'è un vinetto da
risuscitare un morto.
Egli ci pensa, — E perchè no? finalmente trattasi di una volta. E se
nol fo; costoro mi fan martire.
Si giuoca; se ne fa portare una mezzetta, poi un'altra: quell'urlare
villano dà buon bere. Il primo sorso sapeva d'amarognolo a Tita,
ricordandosi la gabbia; ma pensava: — Tanto non è che un bicchiere: poi
all'osteria proprio non ci vo.
Al secondo colpo non fece così brutto ceffo: al terzo allappò la bocca
dicendo — Come è buono! e in quattro e quattr'otto si trovò brillo e
spensierato. La mattina, quando la balla fu smaltita, egli sentivasi
scontento di sè; rinnovava mille bei propositi; ma alla bass'ora, per
caso, tornò a passare di là, e guardare ustolando, e quegli oziosi ad
invitarlo a giocare ai tresetti. Nicchiò sulle prime, ma quelli lo
presero a berteggiare, e — Che? sei forse sul lastrico? non hai più
gajo il taschino? Messo al punto, egli giocò e bevve. Altrettanto al
domani: poi, bever fuori e bever dentro dell'osteria (pensava egli) non
è tutt'uno? Entrò; alzò il gomito più del bisogno; tornò a casa tardi e
colle traveggole.
I genitori s'accorsero d'essere alla cantilena di prima; il padre
dava nelle furie, ma la madre lo assonnò, e gli diceva: — Sapete
che? diamogli moglie, e metterà giudizio. Quanti col torre moglie son
diventati tutt'altri!
Il padre, facendo spallucce, rispondeva: — Fate voi. La donna allora
pose gli occhi sopra la Laurina; una buona ragazza; un angelo in carne.
Aveva costei una nidiata di fratelli: onde i suoi, che erano povera
gente, non vedevano quell'ora benedetta di darle il cristiano, pur che
sia, per poter dire, — E una.
Veramente quando la mamma di Tita ne fece la chiesta, il maritarla a
una stirpaccia di così cattivo nome pesava non poco ai parenti di lei:
ma la madre di Tita li confortava. — Sì; ha dato quello scappuccio. Eh!
ognuno una volta o l'altra ha da scorrer la cavallina. E chi rompe la
cavezza da giovane, riesce poi un uomo come si deve. Adesso, credetemi,
ha messo testa; ha un buon mestiero per le mani: del suo cuore poi non
vi dico altro. Chiedetene e domandatene a chi volete.
Quelli in fatto cui domandavano, per paura di mormorare, non c'era bene
che non ne dicessero, ed era fin troppo per contentare i genitori,
il cui scopo astratto è sempre di dar marito alle ragazze. Alla sera
dunque la madre domanda a Tita: — Prenderesti moglie?
— Perchè no? risponde questi, immelensito dal vino Ma chi ho da
togliere?
— Ti piacerebbe la Laurina del Forno?
— A me sì.
Al domani Tita, rimpulizzito e colla gala smerlata e colla scatola
del tabacco, siccome usano qui, andò a trovar la ragazza, e farle
le paroline. Essa non ne sapeva nulla; ma visto i parenti usargli
cortesie, gliene usò anch'essa, tanto che la madre di lei corse da
quella del Tita a riferirle: — Ehi, la va coi fiocchi: il parentorio si
farà: le è piaciuto.
Ma quando la chiarirono che si trattava di sposarlo, Laurina diede
fuori a piangere, e che non lo voleva perchè era un qua e un là, e
perchè aveva rubato, e perchè bazzicava all'osteria, e perchè non aveva
il timor di Dio.
Sua madre le recitò una sequenza di ragioni, una più gagliarda
dell'altra; e le mostrò la povertà della famiglia, i tanti fratelli; ma
essa replicava: — Vedete? non son in qua tutto il di a dipanare seta?
Lavorerò anche di più, tanto da fare le spese a me, e un poco anche a
voi; ma per carità non mi affogate a questo modo.
La madre s'ingrugnò: vennero le comari a darle della pazza pel capo:
— Cosa vai a rimestare, scioccherella che tu sei? Avresti a far
Gesù colle due mani. Magari quante lo vorrebbero: e tu non dovresti
chiamartene degna. Credi che si trovi un'occasione ad ogni uscio?
Hai già ventidue anni suonati: vuoi rimanerti a spulciare il gatto? o
presumi scavizzolar un signore di carrozza?
Se ne mischiò anche il signor curato, un buon uomo, di nulla più
smanioso che di vedere i giovani e le ragazze accasati, e pieno di
fiducia che quel sacramento rimetta il senno a chi l'ha smarrito.
Insomma tante e tante gliene dissero, che la Laurina fu indotta a dare
il sì, e l'affare si stiacciò.
Andò sposa. Il bel primo giorno, bevi e ribevi, Tita fu messo in terra
da una solenne imbriacatura. — Pazienza! sarà stata la compagnia, lo
straordinario. Ma egli toccò via di quel passo; onde la Laurina fu
chiara che il vizio era nelle ossa, nè le restava di che sperare. Tutto
il dì a sbevazzare, tutte le sere a casa ubbriaco: non c'erano più
padre e madre da dargli una sbrigliata: se prima al lavoro badava poco,
ora niente, e non cercava che passar la giornata senza stracca: poi
cominciò a vendere questa o quella masseriziuola della moglie.
E lei? colla pazienza, colla dolcezza (povera fanciulla!) faceva di
tutto per indurlo al bene. Avrebbe potuto andare dai suoi e dir loro, —
Vedete mo? non ve l'avevo detto io? ma perchè crescere in cordoglio che
già capiva che n'avevano? Taceva dunque e mandava giù; e se alcuno le
domandasse: «Come va Laurina?»; e a Dio pregava, a Dio espandeva i suoi
rancori, da Dio sperava l'ajuto.
Eccovi la storia di quella setajuola. Passò, nel modo che v'ho detto,
la stagione della filanda: i denari erano consumati in erba da quel
goloso: ond'ella pensa con ansietà al figliuolo che aveva da nascere;
per allestire a questo le fasce e i pannicelli, non poteva essa che
ritagliare i vestimenti e le biancherie sue; ma tutto era niente,
purchè il suo Tita non ne facesse qualcuna: qui batteva la sua continua
paura. E perciò non lo perdeva mai d'occhi; lo tenea, quant'era
possibile, in casa, li presso di sè, a dar qualche punto lasagnon
lasagnone: ma il più del tempo a far nulla, mentre essa lavorava ad
accannellare seta per buscare qualche soldo, che difficilmente poteva
sottrarre alla colui avidità.
Quando poi egli s'indugiava fuori, correva a cercarlo, massime alla
sera, e ridurlo a casa. Se ne ricevesse dei rabbuffi, nol mi domandate,
e anche peggio, perchè l'ubbriaco ha perduto il più bel dono di Dio, la
ragione; e più non sa quello che si faccia.
Ma un giorno fra gli altri, essendogli riuscito di trovare alcuni
soldi ch'ella aveva riposti nel pagliericcio pei bisogni che prevedeva
vicini, Tita, inchiodatosi nella taverna, si abbandonò al chiasso e a
tracannare vino e vino; il cervello se n'era andato. La Laurina, visto
farsi tardi, girò di bettola in bettola sulla traccia di lui; alla fine
lo trovò che sciscinando ne diceva di tutti i colori, e attorno una
fitta di bevoni, cotti al par di lui, a metterlo su e pigliare pasto
delle pappolate che gli cascavano di bocca, e tenergli bordone con
delle somiglianti.
La buona moglie se gli mise allato, quanto dolce sapeva, a pregarlo,
ad ammansirlo, a volerlo menar via. La gente guardava, e ne facevano
scene. Tita un po' e un po' sopportolla, poi sentì pizzicarsi le mani,
e balzato in piedi, rosso come lo sverzino, senza lasciar brutto nome
che non lo dicesse, la acciuffò, e cominciò a picchiarla da forsennato.
Batter la moglie! e in que' piedi! A quali orrori trascorre l'ubbriaco!
Gli avventori e l'oste riuscirono a trargliela dalle mani; essa,
tutta pesta e scarmigliata uscì, colui continuò un pezzo ancora le
smanie da non si dire, poi, come succede quando la pentola pel troppo
bollire trabocca, che spegne da sè la fiamma e calma il bollore, così
quello sfogo fece rientrare in cervello il brutale; — Andrò (diceva)
a domandarle scusa. È tanto buona! oh quest'oggi ho proprio passato i
confini. Non ci voglio tornar più.
Ma come nel lago, quando ci fu burrasca, sebbene il vento abbia dato
luogo e le onde si vadano posando, pure tratto tratto un'altra buffata
di aria le solleva di nuovo, così accadeva nell'animo di lui. Onde
dopo quelle belle parole, ripigliava: — Ma lei, perchè la ha sempre
d'arrangolare? perchè sempre mi corre tra' piedi? chi cerca trova.
Non voglio padronanze. Le ho sonato un tientamente che deve durarle un
pezzo... Infine però, povera creatura! la opera per il mio bene, e son
io una bestia da legare. Basta! voglio metter giudizio. Questa Pasqua
voglio fare davvero un buon bucato, e diventare un tutt'altro. No; Tita
non sarà più Tita come c'è scritto in quell'esempio che la Laurina
mi leggeva sul Catechismo. — Ma intanto, la mi lasci stare, se no,
vuol sentir sonare più d'un doppio; e se sta volta fu acqua, un'altra
saranno tempeste.
Così berciando e barcollando fra la ragione e l'ebbrezza, fra le
ispirazioni del suo buon angelo e le tirate del vizio inveterato, mosse
verso casa dondolando come disvincolato. Vide la Laurina entrare tutta
indolenzita.
— Ecco (diceva egli tra sè) la poverina va in casa, e ci starà a
piangere... e in grazia mia. Ma poco appresso la vede uscire: ha sul
braccio il fazzoletto da capo, accosta l'uscio e se ne va.
— Ah maligna! ah vipera! esclamava colui assaettato. Lo so: ella va dai
parenti suoi a far una scena, a svesciare quel che è successo. Va dal
curato a farmi chiamare... Aspetta a me! se mi fa questo, in fede mia,
la fiacco di mazzate.
E a stento contenendosi, grullo grullo la seguita di lontan via.
La vede passare da casa sua, e non entrarvi; passar dalla casa
parrocchiale, e non entrarvi.
— Dove diamine va?
Quattro passi fuor del villaggio sta un oratorio della Madonna
addolorata, riverita con gran divozione dai paesani, e che impetra
tante grazie a chi la prega di cuore.
Verso quella si volse la Laurina; e come fu presso, si coperse il capo
col fazzoletto, entrò, si fece sino alle balaustre, s'inginocchiò e
pregò. Tita sulle orme di lei era giunto anch'esso; poi come vide
ove capitava, il suo mal genio gli diceva: — Dà di volta, torna
all'osteria, che t'aspettano a finir la partita; ma l'angelo buono gli
suggeriva: — Entra tu pure in chiesa: osservala; prega anche tu.
A questo diede ascolto: e v'entrò. Non c'era anima, essendo sulla sera
e buiccio: vide la tribolata, col volto ascoso nel fazzoletto e curvo
sulle mani giunte. Che piangesse ne davano segno i singhiozzi, che
tratto tratto la scotevano; tratto tratto ancora si udivano alcune voci
che pronunziava più forti, non credendosi ascoltata: — Cara Madonna dei
dolori; datemi pazienza! — Non vogliate castigarlo: non sa quello che
si faccia. — Perdonategli come gli perdono io. — Toccategli il cuore:
— oh cara Madre del buon consiglio! fate che abbia a diventare un buon
cristiano e timorato.
Queste voci erano tramezzate da altre, che esso non capiva: saranno
state quelle preghiere che impariamo da nostra madre quando siamo
bambini; quel saluto a Maria che ripetiamo ogni giorno più volte, che
forse neppur intendiamo, ma sappiamo che è una preghiera alla madre di
Dio e madre nostra, affinchè preghi per noi Colui che sa tutti i nostri
bisogni.
Quando Tita racconta quest'avventura, dice che quelle parole
dell'offesa sua moglie lo commossero più che non avessero mai fatto le
prediche del signor curato, — e neppure (aggiungeva) neppur quelle dei
missionari. E dovette essere proprio così: perchè tacente, mansuefatto,
si avvicinò a lei, quasi temendo disturbarne la mesta devozione, le
s'inginocchiò a fianco, e pregò. Quand'ella si accorse di lui, lo
guardò con una meraviglia lieta e pacata, dicendo: — O Tita, anche tu?
— Sì, rispose egli, perdonami Laurina; e prega il Signore che mi
perdoni, come io ti prometto di cambiar vita.
Recitarono insieme il rosario, poi s'avviarono a casa in pace e quiete,
facendo proposito di condursi come ella desiderava.
Propositi d'ubbriaco, direte voi che l'avete visto altre volte
promettere e ricascare. Ma e la grazia del Signore non la valutate per
nulla? Non valutate la fede con cui la Laurina aveva pregato? Ho il
piacere di dirvi che Tita, secondo aveva promesso, non fu più Tita.
Capì qual tesoro sia una moglie buona: capì che stomachevole vizio è
quel dell'osteria, il quale oltre lo scapito dell'anima, vi fa tenere
per amici i discoli e i beoni, ed oltraggiare quelli che più meritano
rispetto ed amore: istupidisce la mente, logora il corpo, anticipa
la vecchiaja disprezzata che fra i vilipendii e gli scherni trascina
innanzi tempo a finire la vita, se pure si può chiamare vita quella
vergognosa vegetazione.
Tita cominciò a far l'uomo posato; e starsi in casa. Oh! la casa ha
una tale attrattiva in sè, che chi la gusta da vero una volta, non se
ne svia mai più. Tornò affezionato al mestiero, tornò alla parsimonia,
tornò alla quiete: e temperante, e assennato, stette colla moglie al
bene e al male che occorre nella vita: bene che tanto s'accresce, male
che s'allevia tanto allorchè si divida con una buona compagna. Egli
stesso confessa che se qualche volta (per usare la sua espressione)
il diavolo lo tenta per tirarlo alle pratiche vecchie, non ha rimedio
migliore che ricordarsi i pugni dati a sua moglie.
La Laurina, lieta quanto si può dire, non rifina di ringraziare la
Madonna. Alla nuova stagione, eccola ricomparire alla filanda con
un bambino in collo: ricomparire festiva e vivace come quando era da
marito, e discorrere e canterellare.
Se mai v'accade di passare per quella borgatina, lì sul canto dello
sdrucciolo a mancina, per cui dalla strada maestra s'esce ai campi,
v'occorrerà alla vista una botteguccia raccoltina, nella quale una
donna siede a girar un aspo, mentre un fantolino appena divezzato va
baloccandosi sul pavimento coi ritagli di panno che cascano da una
tavola, sulla quale un uomo assiduamente lavora, nel tempo che fa
bordone alle allegre canzoni di una setajuola. Sono la Laurina, il
marito suo e il loro bambino; un inferno mutato in paradiso per la
prudente pazienza di una moglie virtuosa.
AGNESE
O LA VEGLIA DI STALLA
Quando gennajo copre di nevi o di brine le campagne, e tutto
ringhiaccia alla buffa del tramontano, e sugli ispidi stecchi degli
alberi non si fa intendere più lo stormire dei passeri a folate e
il crocitare dei corvi, sogliono i contadini temperar lo stridore
della stagione facendo crocchio nelle stalle; e a quel tepore
lavorando, discorrendo, pregando, dispensare i giorni melanconici e le
interminabili serate. Le vecchie già vi si sono crogiolate, non appena
al mezzodì si furono refiziate col povero desinare; e poichè alquanto
ebbero adoperato la striglia contro il tale e il quale, volentieri
si rifanno sui casi di loro gioventù, quando, a sentirle, il mondo
camminava così diritto, così allegro, così onesto; rammemorano le
persone con cui vissero, e che ora da un pezzo dormono tra i più; e
come predicava il curato, antecessore dell'antecessore del presente; e
come l'andava innanzi che capitasse il Buonaparte; e del tempo quando
v'erano tuttora le streghe e le paure, che ciascuna di esse ha veduto,
ha udito cogli occhi, cogli orecchi suoi proprii. L'una rammenta quel
palazzotto poco discosto, ove guai che qualcuno si fosse arrischiato di
dormire, perchè sulla mezzanotte, vi correva di su di giù la fantasima
con grande fracasso di catene, dopo che il diavolo se n'era, corpo ed
anima, portato via il padrone, il quale era così ingordo avaro, che
in una gran carestia avendo ammassato di molto grano, eppoi essendone
scaduto il prezzo, per disperato s'appiccò.
— Io non so darmi pace (così dice la Simona, vecchia impresciuttita
e rubizza) di certuni, che queste cose non le vogliono credere. E
in castello? Al tempo dei tempi vi stava un cavaliero, che aveva una
moglie delle belle che si potessero vedere con un par d'occhi. Ora,
venuto geloso d'un bel paggetto, un giorno egli lo fece squartare,
gli cavò il cuore, e bell'e fritto, quel cuore lo imbandì alla sua
signora. Quando la signora se n'è accorta, si traboccò dalla finestra
nella fossa. Il cavaliero poco dopo fece anche lui cattiva fine; e per
questo, Iddio ci guardi dal commettere omicidi. Io stessa, non conto
ciance, io stessa ho veduto, una volta come mille, un uccellaccio
strano, che aveva la forma d'un ferro di lancia, aliare sulla sera
attorno ai merli del castello, ed era l'anima di quel cattivo.
— Ma (interrompe comar Giuditta, mentre sbracia il veggio) dopo che vi
alloggiarono dentro i Giacobini, quell'uccellaccio non s'è lasciato più
vedere, come non ci s'è più sentito in palazzo.
— Uh! coloro, torna su la Simona: erano frammassoni, senza nè legge
nè fede, che si ungevano gli stivali coll'olio santo, e giocavano alle
palle colle teste dei preti.
— L'avete visto voi anche questo? domanda un'ingenua ragazzetta, che,
sopra un sediolino, sta tutt'orecchi a quei paurosi racconti.
— No, risponde l'altra; ma lo dicevano tutti: e questo poi è frumento
secco, che non andavano a messa neppure la festa.
— E sì, la festa bisogna rispettarla, aggiunge biascicando le parole
la sdentata Teresa. E voglio dirvi questa, che mi contò, deh quante
volte, fra Spiridione buon'anima sua. Che, quando si fabbricò il
loro convento, avevasi a portare un masso smisurato, da collocare
per fondamento al campanile. Sicchè il padre guardiano, il quale era
un sant'uomo, pregò i terrazzani che la domenica venissero con tutte
le leve, i carri, i bovi a trasportarlo. Si trattava di un'opera
in servizio di santa chiesa, eppure quei buoni villani risposero,
— Riverenza no; e che sarebbero andati piuttosto il lunedì, prima
che cominciasse la giornata. Sapete che? quando comparvero, il padre
guardiano si fece loro incontro e disse: — Buona gente, ecco fatto: il
Signore, per chiarire come gli sia gradita la devozione che avete al
suo giorno, ha voluto far un miracolo; e mostrò loro... indovinereste?
quel ceppo, che così massiccio com'era, di per sè erasi levato dal suo
posto, e collocatosi dove aveva a stare, nè più nè manco.
— E l'han creduto tutti? domandava la bambinuccia.
— Mi fai giusto da ridere, ripiglia la vecchia. Non volevi che si
credesse una cosa tanto straordinaria?
Qui comar Giuditta entra dicendo: — E fu durante la fabbrica stessa,
io credo, quando v'era quel converso, il quale faceva di sì spessi
miracoli e sì strepitosi, che, per toglierlo dal rischio di levarsi
in superbia, il padre priore gli intimò di non farne più senza sua
permissione. Ora, mentre il converso stava guardando a murare, ecco si
fiacca un palco, e un muratore casca giù fin dal tetto. — Ajuto, fra
Vincenzo, gridò il meschino. — Ajuto, replicarono maestri e manovali. E
fra Vincenzo tutto cuore avrebbe voluto fare su' due piedi un miracolo,
ma n'avea la proibizione, onde stesa la mano, gli gridò: — Fermati,
tanto che io corra a domandarne licenza. E corse; ma il miracolo era
bell'e fatto, perchè colui si fermò a mezz'aria, come fosse stato in
piana terra.
— Eh, i frati! attacca un'altra sospirando. Del gran bene facevano i
frati. Tutto il dì, tutto l'anno mai non facevano niente, per poter
pregare anche per quelli che non pregano, e massime per noi villani,
che, costretti a faticare il giorno intero, non ci avanza tempo da dare
a Domenedio.
— E i benefizi che compartivano, dite poco? (È la Simona che parla.)
Mai non venivano alla cerca, che non regalassero o una coroncina, o
un santino, od almeno non benedicessero il mal di madre, i figliuoli
ammaliati, e scongiurassero i bruchi e le formiche.
— E voi cosa davate loro? chiede quella tal ragazzina.
— Oh, un poco di tutta quella grazia di Dio che si coglieva. Caspita!
non erano state le loro preghiere che l'aveano salvata dalle brine e
dalla gragnuola? Ma non si portava mai al convento una coppia di polli
o qualche stajo di grano, che non ci ricambiassero or coll'insalata, or
con le carote... Che sgrigno è cotesto? Chiacchierina! porta rispetto,
chè di fame non moriva nessuno, e il Signore faceva andare sempre co'
fiocchi la campagna: il melgone si comprava a otto lire il moggio,
e la gente non era così spessa. E quando d'un figliuolo non si sapea
che cosa farne, c'era dove collocarlo: e se il marito o la suocera ci
facevano mandar giù degli stranguglioni, si aveva dove andar a vuotare
il sacco e chiedere un parere.
— Voi non dite male, no, Simona: così la Teresa. E vorrà forse essere
per altro, ma quest'è un fatto che allora non si pativa tante malsanie.
Confessate in verità vostra: vi ricorda che, da qui indietro, si
parlasse tanto di catarri, di reumi, di tutti questi acciacchi che ora
non si dice altro?
— Quanto a questo, rompe il ghiaccio la Betta, che di tutte è la più
sufficiente; ho sentito io soggetti che la sanno lunga, assicurare che
la causa n'è l'innesto del vajuolo vaccino. Non parliamone nè anche di
questo scandalo d'innestare una bestia, e una bestia di quella fatta,
sopra i ragazzi, e peggio sulle bambine, che è forse per questo che
non hanno ancora gli occhi rasciutti, e già le pajono così maliziose.
È bensì vero che molti morivano, molti rimanevano conci nemmeno da
vedere; però era uno spurgo necessario come tant'altri, e dopo si
campava sani come acciajo. Ora hanno voluto andare contro a quello che
veniva di lassù; non so che dire: tal sia di loro.
Fra questi e simili discorsi fatto notte, sopraggiungono vispe,
leste le più giovani, e dietro ad esse i garzoni, moscheggiando,
barzellettando, soffiando sulle mani aggranchite ed esclamando: — Oh
che freddo! Allora così al bujo, è un via vai, un passerajo di cento
voci che una soverchia l'altra, una l'altra interrompe; onde se tu
volessi trovarne il filo, oh va raccapezzare quel che si ciancia sur un
mercato. Dispongono quindi i trespoli e gli scannelli, e cominciano ad
acchiocciarsi, a quetarsi. E la Savina dopo aver allegramente contato
quel che fece, quel che disse, quel che intese fuori per la giornata,
piglia la rocca, e sbattendo il pennecchio del lino — Su via (dice)
facciamola finita; è ora d'accendere il lume e lavorare, se ho da
ammannire il corredo della biancheria per quando mi fo sposa. E, nel
dire, stazzona col gomito un giovinotto che le sta a spalla.
— La lingua batte ove duole il dente, n'è vero? scappa fuori una
camerata invidiosetta. Oh, si sa bene che hai l'innamorato.
— Ah ah! ride la Savina. Chi? io? ti par egli? sei pur la dabbene! Così
fosse! Ma chi vuoi che mi musi? Ha da venir neve rossa.
— Sì, sì, insiste l'altra. Non farmi la forestiera. Non ti ho forse
io scorta jeri quando andavi per acqua, eh? Egli ti pedinava, e che
paroline t'ha detto? Oh, se mi tocchi, squatterò io gli altarini.
Scommettiamo...
— Neanche un quattrin bucato, interrompe la Savina. Io non me ne
ricordo niente. Sarà stato un caso... E poi... se anche fosse, c'è del
male? Han fatto così anche le nostre madri, sicchè...
— Adagio, adagio, salta la Teresa. Io so che le vostre madri avevano
più giudizio di voi, farfarelle; e, non fo per dire, ma si era
belle tanto e più che voi. Eppure si sposava quello che i parenti
proponevano, delle volte senza nemmanco avergli parlato; si facevano le
cose come andavano fatte; e non si cercava alla fine che di adempire le
intenzioni di santa madre Chiesa.
— Non c'era tanta premura d'andar a marito, aggiunge una pulzellona
di cinquant'anni. Ma ora voi altre non avete appena i venti, e già vi
puzza il fiato, e parlate d'amore, frasche!
— Tempo passato perchè non ritorni, eh? ripiglia la giovane; sempre fu
sole e nugolo, grano e loglio. Però, dico io, noi del male ne facciamo
noi?
— Questo non si può dire, piglia la parola comar Giuditta. Ma in tali
faccende non si va mai cauti che basti, perchè il primo scappuccio, Dio
sa dove porta. L'è giusto appunto come quando i puttini scivolano sul
ghiaccio: presa una volta l'andata, vatti accatta dove si fermeranno.
Ve l'ho ben raccontata, eh, la storia dell'Agnese?
— No, no, replicano le giovani per una bocca. Contatela, comare:
contate la storiella: e così al fosco, colle mani sotto al grembiule,
se le stringono più da presso per ascoltarla. Essa comincia:
— Era l'Agnese una fanciulla bella come un'immagine, tenera come latte
spremuto, ma anche dabbene, che, chiedete e domandate, neppur le vicine
poteano dir altro che lodi. Le era morta sua mamma mentre era ancora
d'otto o nov'anni, ed essa appena cresciuta un poco, tirava innanzi la
casa e la bottega con tanta capacità ed amore, che suo padre non sapeva
finire di dirne, e le ripeteva: — Tu sarai la mia consolazione. Udirete
che pezzo di consolazione.
In que' tempi la devozione era molto più d'adesso: e la sera del
giovedì santo si costumava una bella processione, dove i garzoni e
le giovinette rappresentavano il mistero della Passione, coi Giudei,
con Pilato e il Cireneo che ajutava nostro Signore, e le Marie che lo
piangevano, e tutto. L'Agnese si vestiva da Maddalena, perchè l'aveva
la più ricca treccia di capelli, che lasciava cascare sulle spalle; e
quanti la vedevano esclamavano: — Oh la bella Maddalena!
Viveva allora nello stesso villaggio un tal Sandro, un garzonotto così
d'un vent'anni, non somigliante a questi tisicuzzi d'oggi, fatti di
calza disfatta; ma un pezzo d'uomo, ben formato e ben fondato, con due
bracciotti da vangar una vigna da sè a sè. In quella processione egli
figurava da Giudeo, e toccandogli di stare a fianco della Maddalena
per tener dietro colla lancia la folla, cominciò in quell'occasione
adocchiare l'Agnese, ed essa lui. Poi, quando in appresso si
scontravano per via, essa diventava rossa come una ciliegia, ed egli,
passandole a lato, la pigiava un pocolino col gomito: pigiarla; che
male c'era? Cominciarono poi a farsi un motto; esso le presentò qualche
volta un garofano, e lei lo accettò. — Che male fo io? diceva tra sè.
Venuta poi la state, qualche sera egli pigliava la sua brava zampogna,
e su e giù sonandola girellone per la via dove l'Agnese stava di casa.
Faceva caldo, ed essa, tanto per godere una boccata d'aria, si metteva
un po' sul balcone. Quand'egli passava sotto la salutava colla mano.
Sulle prime ella non mostrò di vedere, poi non stette al martello, e
fece anch'essa altrettanto: alla fin dei conti che male c'è?
Una sera egli la chiamò in basso tono, e — M'occorre di dirvi una
parola. — Ditela pure, essa replicò. — Ma volete? qui così dalla
strada? Fatevi abbasso. — Non posso, rispose ella; c'è il mio babbo.
Al domani il babbo non c'era; ella discese a sportello, mise fuori la
testa ed ascoltò. Ma il discorso non potè terminarsi quella sera, e al
giorno appresso, poi l'altro, e l'altro, sempre egli aveva a ragionarle
qualche cosa; e poi quando ella era dabbasso, non si ricordava più, e
bisognava riportarsi al giorno seguente.
Di tutto questo non aveva ella fatto confidenza se non ad una sua
vicina, che si chiamava la Bia, una buona pastocchiona, di quelle che
credono tutto bene, e che, invece di darle una lavata di capo come va,
le diceva: — Gli è un dabben ragazzo, se fa per di buono, puoi aver
trovato la tua fortuna, e ringraziare Iddio d'aver dato il capo in un
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Çirattagı - Novelle brianzuole - 10
- Büleklär
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