Novelle brianzuole - 8

Süzlärneñ gomumi sanı 4396
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 2004
31.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
44.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
50.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Alla primiera
Gioja d'ingenua
Fede sincera,
E il tuo congiunsero
Col mio destin.
D'allora, al giubilo,
E al pianto insieme,
Insieme al fremito
Ed alla speme,
La morte colgami
A te vicin.
Quel dì, chinandoti
Sul letto mio,
Tra 'l prego flebile,
Tra 'l rotto addio,
Senza i rimproveri
D'un reo pensier,
Sul fronte madido,
Sui muti rai,
Quando a me l'ultimo
Bacio darai,
Ripensa al trepido
Bacio primier.
Fra il sonno degli uomini e il silenzio della notte, saliva
quell'armonia alla solinga stanza d'Ermellina, che conosceva la voce di
Tibaldo; conosceva le arie, use a cercarle la via dei cuore quand'egli
veniva rallegrando i paterni convivii; conosceva la romanza onde, al
tempo dei dolci sospiri, le svelò primamente le sue timide speranze.
L'accoglieva nelle cupide orecchie, e sola — quanti cari pensieri,
quante memorie s'affollavano intorno all'accorata! e i desiderii, e il
dovere, e il profetare bugiardo dell'indovina di Pontida, e i fulgidi
occhi del Trovadore, e il severo piglio del signor suo, e l'aver potuto
essere felice e il dover non appartenere a quello cui era appartenuta
per tutte le sue speranze; tutti i suoi piaceri, tutti i suoi dolori —
e piangeva, piangeva dirotto.
Così un mese durò, così due, contenta e spossata della sua resistenza.
Ma troppo rozzi erano que' battaglieri; troppo era lunga la lontananza:
troppo lusinghevoli i Trovadori. Una volta Ermellina s'affacciò alle
dipinte vetriate del balcone — guai, o fanciulle, al primo passo! —
un'altra le aperse; poi vi dimorò alquanto: la sera seguente uscì sul
verone al discoperto: che più? discese alla porticella di soccorso
che riesce sul lago, e tolse dentro l'amoroso. — Sentenziatela voi,
leggiadre donne, che per prova intendete amore.
Da quella, che sere avventurate! Delizie sempre eguali e sempre
diverse; cento cose a dire e cento volte replicare le stesse; e
un'ebbrezza crescente più l'un dì che l'altro, e più l'un dì che
l'altro indugiato il momento del distacco. Nè più fantasie di guerra o
sventure di innamorati insegna il Trovatore alla laguna: ma dolcezze e
festività e il giocondo spettacolo della bellezza, e i voluttuosi baci
delle colombe, e i tripudii delle corti bandite e delle gare d'amore.
Si perigliavano intanto i guerrieri di Brianza nelle fraterne
battaglie: al biscione de' Visconti soccombeva la croce dei Guelfi,
che, invano benedetti, andavano di rotta in rotta, di fuga in fuga:
sicchè di là del lago di Brivio, diffusi per bande tra le gole della
val San Martino, avventavansi ad ora ad ora nel ferro, e con inclite
prove facevano a Barnabò amara la vittoria, se dovette comprarla col
sangue d'Ambrogio suo figliuolo.
Ma quei tumulti che fanno a Tibaldo, ad Ermellina? oh la gioja loro,
oh i loro affanni non pendono dall'evento delle battaglie fraterne.
La delirante esultanza del presente, e nulla più in là. Il silenzio,
dio de' fortunati, copre le mutue delizie, a cui li conduce il cantar
dell'usignuolo, da cui li diparte il pigolio dell'allodoletta. — Deh
cedesse più tosto il sole l'imperio del cielo alla mite stella della
sera! Deh l'aurora indorasse più tardi le vette dell'Albenza! Domani,
amor mio, per quanto bene mi vuoi, torna più presto domani.

IV.
E al domani, come appena intese la barchetta fender le onde e
soffermarsi, Ermellina scendeva e tra via via rassettandosi le
biondissime chiome sulla fronte e la stola sul petto, che prelibando
le delizie, saliva e scendeva più ansioso che mai. Apre lo sportello
— ma che? Invece della morbida destra dell'amante, qual è questa che
tanto aspra l'afferra? Invece del velluto della cilestre casacca, ha
toccato una ferrea armatura: invece delle piume cascanti con vezzo dal
roseo tòcco sulle fiorite guance di Tibaldo, fissa una negra celata; e
attraverso la bruna visiera ha riconosciuto Oldrado.
Il quale ghermitala, senza far motto la trae nel battello, e batte la
voga. Essa, la costernata, assisa tacente in su la prora, non osava
levare gli occhi sull'oltraggiato: e prima li teneva colle supine
palme velati; poi, quasi cercando una consolazione in quell'universale
abbandono, li girava intorno. Era una di quelle limpide sere, in cui
tanto è soave solcare l'increspato zaffiro delle onde, soli con una
sola che c'intenda e ci risponda. — Ma per Ermellina! La luna, dalla
piena faccia versando i silenzi di sua luce sulla natura, mostrava
all'afflitta sul poggio lontano la torre del palazzo, ove gioito
aveva, fanciulla imprevidente d'un infausto avvenire: più da presso
il campanile di Pontida, ove la vecchia indovina le aveva predetto
che finirebbe i suoi giorni abbracciata all'amato giovinetto: ecco
la portella ov'egli primamente le tese al collo le braccia. — Oh! tu
almeno sei salvo, amor mio tu rimani a compiangere chi doveva vivere
solo per te, chi per te muore. Povera Ermellina!
In brevissimo tragitto prendono spiaggia al dosso della vicina
isoletta. Oldrado trascina di barca la donna: pochi passi ed... ahi
vista! su l'arena giaceva resupino Tibaldo: avea fisso in petto lo
stile dal pome dorato, e le sue dita premevano sulle tiepide labbra una
viola del pensiero, tessuta di biondi capelli.
Mise un grido la disperata, cadde sovr'esso, confuse il suo coll'ultimo
sospiro di lui; e neppur sentì il pugnale che, tratto dal cuore
dell'amante, le fisse e rifisse nel suo l'adirato: poi la precipitò
nelle onde, abbracciata al troppo diletto garzone. — Ahi, come
s'adempiva il presagio dell'indovina di Pontida!
I poverelli, usati venire dalla pietosa a mendicare il tozzo, più non
la rimirarono, esilarata nel piacere del benefizio: invano l'attesero
le forosette ad avvivare di sua presenza le baldanzose carole del
giorno festivo o della vendemmia; i Francescani, che da Sabbioncello
e da San Rocco venivano alla cerca, si videro mandar al convento larga
limosina per celebrare suffragi, e l'ordine di non tornar più.

V.
E Oldrado?
Le sentinelle più non alternano dagli spaldi l'allarme, più la
saracinesca non si rialza all'entrata del castello. Per un pezzo
corse voce ch'egli fosse andato colla vinta sua fazione in esigilo, ma
quando Gian Galeazzo Visconti perdonò ai nemici, e, di salute affidati,
tutti i Guelfi nostri risalutarono il sorriso de' tuoi colli festanti
e l'olezzante sereno delle tue aurore incantatrici, o mia Brianza,
Oldrado solo non ritornò. Variamente ne fu che dire per tutti i
contorni, ma nessuno colse nel vero. Però la vecchia indovina, a chi la
interrogava se ne sapesse, rispondeva col no misterioso di chi vuol far
intendere che sa tutto: finchè, passati dieci anni e dieci giorni, essa
raccontò la storia a pochi, e troncandola sulla fine, batteva del piede
in un certo luogo del castello.
E quella storia la ridissero poi gli uomini a chi chiedeva quali erano
i padri nostri; la ridissero le vecchie alle fanciulle che domandavano
quanto gran colpa fosse il bacio d'amore; e corse di bocca in bocca
fino a un tempo di sbigottita noncuranza, quando nessuno più impedì che
i colpi delle sciabole o la ruggine della pace consumassero foglio a
foglio le nostre memorie.
Ed io fanciullo coi fanciulli del mio villaggio, assumendo alcuno di
que' nomi che erano allora la maraviglia delle città e dei tugurii,
dei re e dei garzoncelli, sovente fingevo assalti e battaglie presso a
quel castello, che pomposamente denominavamo Austerlitz, Barcellona o
Smolensko. E tra quelle finte imprese, dove ci addestravamo agognando
alle vere, m'arrestò talvolta il più annoso pescatore del paese, affine
di raccontarmi i casi di Ermellina. Io l'ascoltava, deh come attento!
ma quando soggiungeva certe fantasie, d'un pipistrello che ogni sera
aliava intorno alla portella, di certe graffiature che, poc'anni fa, si
discernevano sulle bruciacchiate pareti d'un camerotto disabitato; di
due fiammelle che, fino a' suoi giorni si vedeano dal lago inseguirsi
rasente i torrioni senza raggiungersi mai, — Buon vecchio (io gli
chiedeva) perchè tutto questo fino ai dì vostri, ed ora non più?
E mentr'egli rimaneva, mal predicendo di questi fanciulli, che,
dopo venuta la Rivoluzione, nascono ad occhi aperti e non temono
del demonio, io tornava sui trastulli, a strappare i vilucchi e
il capelvenere dalle ingombre feritoje del castello, a racimolare
le coccole selvatiche e l'uva turca sui dirotti muricci, e fingere
innocenti battaglie su per le brecce, un tempo insanguinate dalle vere.
Ora fa poc'anni, smurandosi colà, per _far bello_, col qual titolo il
giorno d'oggi va distruggendo ogni memoria del jeri, fu dissotterrata
una grossa lapida, impressa a rozzi caratteri, e sott'essa un
guerriero. Il cadavere, al primo sentir dell'aria, si sfasciò, ma
durarono i suoi arnesi di ferro e una negra celata e un giaco di
maglia, nel cui mezzo dal lato sinistro era piantato uno stilo dal pome
dorato.
Ma chi si curò di sapere chi fosse?
1832.

NOTA.
È Brivio un borgo di antichissimo ricordo, posto sulla destra
dell'Adda, dieci miglia di sotto di Lecco; e il suo nome (anzichè
da _Bi ripa_, come vogliono i latinisti, raffrontando a _Bi-lacus_,
Bellagio) ne pare derivato dalla radice celtica _briva_, ponte; da cui
i gallici _Sumorabriva_ fra Auxerre e Troyes; _Durobriva_ e _Ourobriva_
in Bretagna; _Brivia Curretia_, Brives sulla Corrèze, ecc.
Nel secolo IV è ricordato che san Simpliciano, succeduto a
sant'Ambrogio nel vescovado di Milano, e che una antica tradizione
farebbe dei Capitanei o Cattanei del prossimo villaggio di Beverate,
venisse fin a Brivio a ricevere i corpi dei ss. martiri dell'Anaunia
(Val di Non), Sisinio, Martirio ed Alessandro, ch'egli trasportò nella
basilica milanese, denominata poi da esso santo vescovo. Il titolo
di que' tre santi rimase alla chiesa prepositurale di Brivio. Doveva
però questo borgo stare sulla riva sinistra dell'Adda, in quella
che chiamavasi Val di San Martino, e che appartenne alla diocesi di
Milano fino al 1746, quando fu ceduta alla diocesi di Bergamo. Forse
allora sulla riva destra non sorgeva che il castello: il quale è un
vastissimo quadrato, avente ai quattro angoli quattro torrioni rotondi.
Apparteneva questo, avanti il mille, ai signori di Almenno; di poi
passò ai signori di Lecco; e Attone, conte di Lecco, e Ferlinda, sua
moglie, lo donarono al vescovo di Bergamo _pro remedio animæ suæ_, come
appare da un diploma di Enrico I imperatore, dato nel 1015, e riferito
dal Lupo, _Codex diplomaticus ecclesiae bergomensis_.
Quel castello, assiso sul fiume che a Napoleone pareva il più
strategico dell'alta Italia, acquistò importanza nelle guerre
successive. A mezzo il secolo XIII vi si rifuggirono i nobili milanesi
scacciati dalla plebe prevalente, la quale inviò ducento balestrieri,
che demolirono la ròcca. Ancora conservano il nome la _Mura_, che
doveva essere un posto avanzato sulla sinistra dell'Adda; e sulla
destra la _Bastia_ e più lungi la _Rocchetta_; e quanto al ponte,
doveva sporgersi di rimpetto al castello, sebbene nessuna orma di pile
si trovi nel letto del fiume. Quando i soldati viscontei, perseguitando
i Guelfi che, capitanati dal conte di Savoja e benedetti dal papa
come crociati, si difendevano nella Valle San Martino, vollero varcare
l'Adda nel 1373, vi fecero un ponte di legno, sul quale passò Ambrogio,
figlio naturale di Barnabò Visconti, che da essi Guelfi venne ucciso
presso di Caprino. _La parentela de burgensibus de Brippio_ trovasi
noverata fra le guelfe cui Giovanni Galeazzo concedette perdonanza nel
1335.
I Veneti, collegati con Francesco Sforza a danno dell'_Aurea Repubblica
Ambrosiana_, nel 1445 presero il castello di Brivio, dove fabbricarono
un ponte, e ristorarono il forte che poi resero al duca di Milano nella
pace del 1454.
Allora già cominciavansi le batterie a fuoco; laonde alle antiche
fortificazioni s'aggiunse una torre angolosa sul fianco nord-est: e
probabilmente allora fu fatta una gran diga, poco disotto, traverso al
fiume non ancor navigabile, acciocchè le acque rifluissero nell'ampia
fossa del castello. Nel 1527 v'era governatore don Giovanni Guasco,
a nome di Carlo V. Questo imperatore, ne' continui suoi bisogni di
denaro, infeudò quel castello al conte Girolamo Brebbia nella cui casa
rimase fin testè.
Divenuto il fiume confine tra il Veneto e il Milanese, tutte le
abitazioni portaronsi sulla destra; ed è notevole la differenza di
dialetto, di vestire, d'agricoltura, di consuetudini che oggi corre
fra terre così vicine e di così continua comunicazione. Fin alle ultime
vicende, una dogana (la Sostra) e un dazio esistevano sulle due rive,
pei diritti dei due dominii.
Nella peste del 1630 la terra restò desolata sì, che solo ne camparono
tre famiglie, Mandelli, Lavelli De Capitanei e Canturj.
Nuova vita diede al paese la grand'opera del naviglio di Paderno, che
pose in comunicazione il lago di Como con Milano. Nel 1777 l'arciduca
Ferdinando, il conte Firmian governatore ed altri magnati s'imbarcarono
a Brivio, per passar essi primi sul nuovo canale fino a Trezzo. Allora
Brivio divenne centro di tale navigazione, e vi si collocarono molte
famiglie di barcajuoli e _paroni_, cioè guide, che conducono le navi
cariche da Lecco fino a Trezzo.
Nel triennio dopo il 1796, un grosso corpo di Francesi vi stanziò, ed
essendo cessato il dominio veneto, si costruì un ponte di chiatte che
congiungesse le due rive. Al ritornare degli Austro-Russi nel 1799,
i Francesi disertarono questo posto, senz'altro che affogare tutte le
barche; ma erra il Botta nel dar colpa a Serrurier di avervi lasciato
un ponte di chiatte. Mentre si combatteva al ponte di Lecco, un
corpo di Cosacchi delle bande di Wucassovich e Bagration, si presentò
davanti al borgo, intimando, O barche, o cannoni. Di che sgomentati i
terrazzani, e trovandosi abbandonati da' Francesi, rialzarono le barche
e tragittarono i vincitori. Ne seguì il saccheggio, dopo il quale
s'avviarono alla battaglia di Verderio.
Dalle inondazioni cui la terra andava soggetta, ora la schermiscono le
utilissime opere intraprese nell'Adda, mercè delle quali è agevolato il
defluvio del lago di Como e la navigazione.
Il castello, come in tempi pacifici avviene, fu vòlto a' servigi
privati: camere, prigioni, manifatture; la fossa occupata da case
ed orti; gli spalti da giardini. Ma nel 1846, volendosi allargar una
piazza tra esso e il lago per uso del mercato, si stimò bene far la
colmata colle pietre della fortezza medesima, togliendo così in gran
parte il carattere pittoresco di questo borgo, e mascherandone la
veduta con folte piante. Nella demolizione uscirono lapidi e rovine e
frammenti curiosi, di cui qui non è luogo di ragionare.
Il patrio castello ispirava all'autore la seguente romanza nel 1834:
ALLA MELANCONIA
Melanconia, dell'anima
Nube soave e cara,
Onde soffrir s'impara
Dei casi all'alternar,
Me del tuo latte al pascolo
Traendo ancor fanciullo,
Dall'ilare trastullo
Volgevi al meditar.
Di tortorella il gemito,
L'aura che bacia il rio,
Il suon d'un mesto addio
Pareanmi il tuo sospir.
Fiori spargeva e lagrime
Degli avi miei sull'urna?
Col vol d'aura notturna
Io ti sentia venir.
Dove quell'ermo vertice
Lungi dal mondo tace,
Chiesi, al tuo piè seguace,
Pensieri e libertà:
O dove il muschio e l'edera
Sul mio castello erranti,
L'ire, le laudi, i pianti
Copron d'un'altra età.
Spinto a lottar nel pelago,
Soffrii, compiansi, amai;
Ma de' tuoi miti rai
Sempre ebbi vago il cor:
Te dall'urbano turbine
Cercai, te in cupa stanza,
Fra sogni di speranza,
Nell'ansia del terror.
Con te fremei se l'empio
Franger il dritto io scòrsi:
Al pio calcato io porsi
Per te l'amica man.
Teco evocai d'Italia
Le ceneri eloquenti,
Cercando ai corsi eventi
Gli eventi che saran.
Giovin, ma stanco e naufrago
Riedo al paterno lido:
Teco all'ombrìa m'assido
Che me fanciul coprì.
Riede, col cor dall'odio,
Straziato e dal dispetto,
Ove a benigno affetto
Tu m'educavi un dì.
Melanconia, col placido
Spettacol di natura,
Le piaghe mie deh cura,
Rendi me stesso a me;
Tornami in pace agli uomini
M'insegna oblio, perdono;
Di' che follia non sono
Onor, giustizia e fè.


LA SETAJUOLA
O virtuoso popolo, o santo,
Che, dal diurno lavoro affranto,
Mentre il briaco ozio profonde
In gioje immonde
Il caro prezzo del tuo sudore,
Stai modulando preci d'amore;
O generoso popolo, o pio,
È teco Iddio.
Oh, i tuoi dolori ti sien contati
Quanto dal ricco sono ignorati;
E tu perdona del ricco al volto
Il riso stolto.
C. DESTEFANI.

Tra le rusticali faccende nessuna riesce così gioconda a vedere come
quella del filare la seta. È una sollecitudine regolata, un vivacissimo
movimento, una pulita attenzione; una fatica non sordida, e rallegrata
dall'idea di un felice guadagno e del sostentamento che ne ricavano
tante e tante famiglie e interi paesi; talchè rimane gradevolmente
commossa l'anima di chiunque sia punto avvezzo a meditare su ciò che lo
circonda, a compiacersi del buono, ancor più che del bello.
Gran comitiva di donne, zitelle le più o fresche spose nel calore
della stagione cocente, dinanzi al fuoco ed alle caldajuole fumanti
stanno lavorando, chi a svolgere gli aurei fili dei bozzoli, chi ad
inasparli, mentre altre vanno rattizzando la vampa, o sciacquattando la
bacaccia, o levando il saggio sul provino; e chi a pesare, a rimondare,
a distribuire.
— Che pena! che noja! direbbe il cittadino, per cui è beatitudine
l'ozio; e crederebbe che deve tra loro regnare un dispettoso silenzio,
una pazienza irosa. Tutt'al contrario. La gioja più vivace signoreggia
nella filanda: qui racconti, qui motti arguti, qui singolarmente
allegre canzoni, mal frenate dal severo piglio del padrone, che nei
lauti ozii e nelle pingui speranze di lucro, trova a ridire che le
assidue lavoratrici si ricreino dallo stento, cantando con quella
serenità che è prodotta dalla gioventù, dall'abitudine della fatica,
dalla pace di chi nel poco si appaga, e credesi nato per lavorare.
Molte di quelle donne vennero di lontano, abbandonando casa, parenti,
conoscenti, amori, per mettersi qui alla soggezione, al calore, alla
fatica: ma sanno che, per quel tempo, sollevano dalle spese le povere
loro famiglie; sanno che alla fine riceveranno una ricompensa, scarsa
se dovesse contarsi coll'occhio dell'uomo agiato, ma larga ai modesti
desiderii; sanno che la recheran alle case, ove già calcolarono qual
porzione darne alla madre pe' suoi bisogni, mentre coll'altra si
rinnoveranno, questa un guarnellino, quella un grembiule, l'altra gli
ori, l'altra la tela da ammannire le biancherie pel venturo carnevale,
quando andrà sposa al giovane che le parla.
Ma tra questa laboriosa allegria stavasi pensosa la Laurina nella
filanda di ***. Maritata da pochi mesi, pure non aveva intorno quei
guarnimenti, onde le pari sue amano rinfronzirsi anche nel disordine
di quella fatica: ingegnavasi di parer gaja, ma l'animo non glielo
consentiva; se rideva, il riso non le passava la gola; cominciava
anche essa la canzone colle compagne, ma dopo il primo ritornello era
ricaduta nel silenzio.
Eppure soleva essere tutt'altra gli anni precedenti, quando ella era
l'anima dell'operosa brigata: cara ai padroni perchè attenta, abile e
destra; cara alle amiche perchè sincera, gaja, cuor contento. Adesso,
non appena la campanella dà il segno del riposo, balza a scatto dal
posto suo, non siede nei garruli crocchi ove le altre si aggruppano a
far le comarelle, a contare lungamente le vicende proprie e le altrui,
i semplici casi, le semplici riflessioni, e a saporar quel po' di
pietanza che mandò loro la madre, condita dalla gioja e dall'appetito.
La Laurina all'incontro toglie la sua scodella di minestra e se ne
va; nè torna più se non quando le camerate già sono rimesse alla
bacinella, tanto che i padroni l'ebbero più di una volta a rimproverare
di negligenza. Ed ella rispose: — Hanno ragione; e gonfiandosele gli
occhi, tacque, e ripigliò più solerte il lavoro, per rifarli di quel
minuto che ha sciupato.
— Ma dove va ella?
Se tu ne richiedi il padrone, sorride, e ti domanda celiando se te ne
importa forse perchè essa è belloccia.
Disgustato, ti volgi alle compagne, e le ingenue esclamano: — Eh,
povera tosa! ha pur dato la testa in un cattivo muro! mah! e ti
lasciano più curioso di prima.
Al tocco di domani appostiamola. Ecco, all'usato esce; infila un
viottolo che sbocca alla borgatella qui vicinissima, e lungo la via
essa pilucca dalle spinose fratte il lazzo prugnuolo e lo more, e
se le mangia con pan di melica; — sgigliola pane risecchito e more e
prugnuoli, nel mentre si reca in mano intatta una scodella di minestra,
la cui tepida fragranza deve agguzzarlene il desiderio.
Quella straducola riesce appunto alla sua povera casetta sulla soglia
della quale sta un uomo, strambellato nel vestire e pien di lordume,
dondolandosi sopra un piede, appoggiato allo stipite della portella
con una mano alla cintola, l'altra nel giubbone, e fuma una pipa di
corno, e guarda. Tutto annunzia in lui la disadattaggine e l'abitudine
dell'ozio: scaruffati i capelli; sciamannata la giubba che slabbra
da tutte le parti; grinzose le calze e a bracaloni; e dal suo occhio
trapela quell'isvanita ilarità che sul volto improntar suole il turpe
vizio dell'ubbriachezza.
— Oh sei qui finalmente? grida egli incontro alla Laurina, come appena
la vede spuntare. Ove diascolo ti sei badata fin adesso? È mezz'ora che
è scoccato il botto, ed io ho una fame che la vedo. Dà qua.
E così, brusco come rasperella, le toglie di mano la scodella, e si
trangugia la minestra. La Laurina cortese quanto sa, scusasi con lui, e
lo carezza, e — Vedi? non la mangio io per darla a te.
— Oh sonate campane! vuol farsi merito d'una straccia di zuppa! Puh!
bada a non sudare. Non è forse tuo dovere? soggiunge colui con un
ghigno disvenevole.
— Si (risponde la Laurina) ma con patto che ti comporti da bene. Sei
stato al vinajo stamattina?
— No.
— Davvero no?
— No... E poi, sì: ci sono stato: ho bevuto prima un calicino di
acquavite, poi una mezzetta, e ho speso il mio santo. Voglio andarci
quando mi gira, e so camminar senza falde, e tu non mi devi dottorare
addosso, e se non ti piace, ricorri. Ecco, ci sono stato e ci sarei
rimasto a bere a rigagno, se l'oste non avesse scritto sul banco:
_Oggi non si fa credenza_. Ma non avevo più un becco d'un quattrino. E
sicchè, quando me ne porterai tu?
— Non te n'ho dato anche sabato? Che ne hai tu fatto?
— Oh l'è garbata! mi bruciavano addosso, e gli ho bevuti su; e ti so
dire che mi fecero pro. Volevi che murassi a secco?
E dicendo sghignazza; e la Laurina a piangere, ed esso a berteggiarla.
— O che? piagnucoli? Già tu le hai in tasca le lagrime, tu. Sta a
vedere: o che le parole ammazzano? Piagnucoli perchè ti vedano cogli
occhi rossi, e ti dicano: O sposina, cos'avete? e tu: L'è il mio Tita
che fa il matto. Oh... e fiottando le misura un manrovescio, scagliando
una dovizia di cancheri e di rabbia.
Ma essa lo accarezza, e, dolce come una melappia, — Quando mi hai
intesa mai nè tu nè alcuno a dir così? Se ti voglio bene il sai: quel
che fo per te lo vedi.
— Di belle cose vedo io: sì, di belle cose! Il passato non mel
ricordo: il vino m'ha fatto andare la memoria in acqua. Ma io voglio
il presente: capisci? il presente. Ho sete e l'acqua fa marcire i
ponti. Voglio quattrini, perchè in fin dei fini ho da vivere anch'io;
(e seguita quel gattiglioso con tono crescente) se udrai che avrò fatto
qualche cattiva azione, la colpa di chi sarà? E se...
— No no, caro mio: ti calma; non mi far disperare; te ne darò. Oggi
è giovedì: doman l'altro mi pagheranno, e faremo metà per uno. Ma
per amor di Dio sta buono; non far del male, non rubare, non contrar
debiti, e ricordati del Signore. Me lo prometti?
Quel ghiotto, sotto la mano della moglie ammansito come una fiera da
colui che gli porge il cibo, la guarda con certi occhi rimbamboliti;
e soggiunge: — Sì: starò quieto, farò bene. Ma tu vedi; le tue sono
promesse di là da venire: e a me occorrerebbe ora qualche soldo. Guarda
a rovesciarmi non ho il seme d'un bezzo.
La Laurina si trae di tasca una mezza lira, e gliela mostra come si fa
per mettere in sapore i fantolini, e — Te la darò per te: ma mi devi
promettere una cosa.
L'occhio di lui s'è fatto di fuoco al mirare quella moneta. — Sì, sì;
ti prometto: che cosa vuoi? dammela tosto.
— Promettimi (ella ripiglia) che oggi non andrai dal vinajo. Hai quella
sottana che, già quindici giorni, ti hanno data a rattoppare. Lavora
oggi a quella, domani ti pagano: hai que' denari, e poi anche questi.
— Sì, dici vero, soggiunge colui, e sghignazzando le ciuffa la moneta,
e si dà a ridere a scroscio, e beffarla, e saltabellare, e intonar una
canzonaccia. In quella suona la campanella che richiama le filatore
al lavoro: la Laurina, asciugandosi gli occhi e dimenando il capo, si
avvia di gran passo là, dove certo il soprantendente la rimbrotterà di
questo ritardo; e il marito suo gongolando si difila alla mèscita del
vino, e accolto fra i _benvenuto_ di altri beoni che giocano alla mora,
sbatte con trionfo la moneta sul deschetto dell'ostiere, e — Qua un
orcioletto della vostra sciacquatura di bicchieri.
Sin dalla fanciullezza cominciò quel tentennone a piacersi del far
nulla; e in questa inclinazione lo secondò il cieco amore della madre.
Suo babbo voleva avviarlo a lavorare la campagna come lui, ma non ne
poteva trarre costrutto: e la madre gli diceva: — Non vedete com'è
pochino? non ha quelle spallacce digrossate coll'ascia, quelle manacce
che avete voi, da fare la talpa e zappare la terra. Avreste a volerlo
accoppare il poverino.
Il padre, per amor di pace, lo mise sotto un ferrajo: ma anche qui
bisogna adoperar la schiena, e a colui il far nulla era una sanità.
Dunque da capo a mutare; lo allogarono con un sartore; ma neppur questo
basto non gli entrando, egli salava di spesso la bottega per andare a
gironi, gingillar sulle piazze, foraggiare pei campi, tendere varchetti
alle lepri, alleggerire i peschi e i tralci. Suo padre si rodeva il
cuore, lo rimproverava, lo batteva perfino: ma la madre, — Poveraccio,
tu se' magro spento! Mala cosa! ti rintisichiscono in quella bottega:
hai bisogno d'un po' di svago. Tè; e gli dava un cinque soldi per
andare a confortarsi alla bettola con un bicchierino (diceva ella) di
quel che rimette in gamba. Appena pigliò pratica in quei brutti luoghi,
Tita saltò la granata; giacchè il vizio è come la quartana: presto si
piglia; ma a sradicarla ti voglio.
Quindi ogni briciolino egli tornava a stuzzicare sua mamma per qualche
soldo: ed essa gliene dava di quelli che ritraeva dal vender le uova
e i pulcini; ma sì, non sarebbero bastati se le chiocce avessero
fatto tre volte al giorno. Allora dunque che non poteva smungere
nulla, il tristanzuolo ingrugnava che non si poteva avere bene di
lui; stava sulle picche e sui dispetti, non voleva saperne di bottega
e di obbedienza: se sua madre lo sollecitava d'andare a messa e a
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Çirattagı - Novelle brianzuole - 9
  • Büleklär
  • Novelle brianzuole - 1
    Süzlärneñ gomumi sanı 4372
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1966
    34.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Novelle brianzuole - 2
    Süzlärneñ gomumi sanı 4522
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1880
    36.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Novelle brianzuole - 3
    Süzlärneñ gomumi sanı 4430
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1946
    34.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Novelle brianzuole - 4
    Süzlärneñ gomumi sanı 4535
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1890
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  • Novelle brianzuole - 5
    Süzlärneñ gomumi sanı 4490
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1949
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  • Novelle brianzuole - 6
    Süzlärneñ gomumi sanı 4572
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 2032
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  • Novelle brianzuole - 7
    Süzlärneñ gomumi sanı 4373
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1957
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  • Novelle brianzuole - 8
    Süzlärneñ gomumi sanı 4396
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 2004
    31.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Novelle brianzuole - 9
    Süzlärneñ gomumi sanı 4738
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1793
    35.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    48.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Novelle brianzuole - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4215
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1627
    36.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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