Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 13
Süzlärneñ gomumi sanı 4701
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1839
36.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
52.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
59.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
altrove pietà pascersi delle membra dei cari defunti. Rimorso e odio
pubblico aspettano quaggiù l’uomo crudele, che potendo non soccorse al
pericolante nell’acqua; in China, rimorso e rampogna aspettano colui che
salva il naufrago. Leggi, e pene, e giudici noi abbiamo contro il furto,
e tanto più lo puniamo, quanto più vi adoperarono ingegno, o destrezza;
gli Spartani avevano premii pei ladri; e più larghi, quanto meglio si
dimostravano arguti. Nel paese dei Battas lo adultero còlto in fallo
diventa preda del marito offeso, che lo lega ad un albero, e convita la
parentela a mangiarlo: ogni commensale si accosta per ordine di dignità,
e taglia il pezzo che meglio gli talenta; il marito sceglie primo, ed è
giusta, e per quanto leggiamo, come parte meglio saporosa, si riserba le
orecchie; in altre contrade il marito offre la moglie a cui primo gli
giunge per casa, come dono ospitale: e se questo avviene adesso tra
popoli da noi chiamati barbari, gli Spartani, solenni maestri di
civiltà, lo costumavano una volta, allo scopo che dalle proprie mogli
uscissero uomini gagliardi per la difesa della patria. Vereconda cosa
sono i connubii presso gli uomini, e presso gli Dei; imperciocchè il
divino Omero racconti come lo stesso Giove circondasse di una nuvola
impenetrabile agli occhi dei mortali e dei celesti i suoi abbracciamenti
con Giunone. Sir Bank ci narra avere veduto nei suoi viaggi un simile
atto esercitato in pubblico, e con molta cerimonia costituire il rito
dell’adorazione di certi popoli selvaggi, al quale assistevano con tali
manifestazioni di pietosissimo zelo, da richiamare sopra il ciglio
lacrime di tenerezza; e tanto basta.
Nè già crediamo che di cosiffatte immani costumanze le genti presso alle
quali si praticano non sappiano porgere, male o bene, la ragione. Non
credono perchè non comprendono; astrattezze fuori dei sensi non arrivano
a concepire, quindi le rifiutano. Presumerebbero, gli stolti! che Dio si
dimostrasse come un teorema di Euclide sopra la lavagna: per religione
vorrebbero un’algebra; per altare, l’aritmetica; per sagrificio votivo,
un conto fatto in regola; per sacerdote, un computista. Estimano pietà
troncare una vita diventata oramai irremediabile dolore; il proprio seno
reputano più decoroso sepolcro, che la terra o i marmi non sono;
temerario consiglio rompere i disegni della natura; utili alla
repubblica i cittadini educati per tempo nei sottili accorgimenti;
bellissima cortesia mostrarsi così amico dell’ospite, da offerirgli la
cosa più caramente diletta. Peregrinate; apprendete, e mentre vi punge
il desiderio di raccogliere fiori da tutto lo universo per inebriarvi di
voluttuose fragranze, ecco insinuarvisi nel cuore il mal verme del
dubbio, che ve lo imputridisce. Il cuore scettico è morto; ma siccome la
mente vive, così noi sembriamo come gente sopravvissuta a noi stessi:
custodi quasi dei nostri sepolcri. — In verità, io vi consiglio a starvi
contenti al _quia_. Amate molto, leggete poco, e leggendo, più che altro
vi aggradi la poesia, vino purissimo dell’anima, licore prezioso che
emana da fontane celesti. — E qui notate ch’io parlo dell’alta poesia,
figlia della mente infiammata dal cuore, conciossiachè anche la poesia
che scende unicamente dallo intelletto generi dubbio. Chi più sarebbe
stato avventuroso del Byron? Quali mai creò la natura poderosissime ale,
che meglio delle sue valessero a volo smisurato? Chi ebbe maggior cuore,
chi miglior mente di lui? — Ma egli volle vedere troppo, troppo
conoscere, troppo sottilmente indagare la genesi degli affetti; nuovo
Atteone, porta la pena delle temerarie investigazioni; i suoi stessi
fidatissimi veltri lo perseguitano, e lo lacerano. Quasi per vaghezza
volle aggiungere la corda del dubbio alla sua lira; parve a lui, che si
allargasse la copia dei suoni svariati, e s’ingannò: cotesta corda gli
tagliò le dita peggio del filo di un pugnale. Consiglio sapientissimo fu
quello dell’Eforo, che ruppe con la scure la nuova corda aggiunta alla
lira argiva. Tre furono le corde della lira di Olimpo e di Terpandro,
quando accompagnarono i canti di Dio e della umanità; dodici di quella
di Timoteo, quando cantava al convito di Alessandro e di Taide, onde ne
usciva la infamia di lui, che si era acquistato il nome di magno, e lo
incendio dell’antica Persepoli; e tre saranno le corde di qualunque
lira, che intende a condurre la umanità per quanto vi ha di onorato e di
grande sopra la terra, alla patria eterna dei cieli: — queste corde poi
sono, _amore, fede e speranza_.
Ma come entra tutto questo nella mia storia? — Voi vedrete che ci entra
benissimo; imperciocchè proseguendo vi sarà manifesto come povere genti,
timorose di Dio, e ferme nei precetti della carità cristiana, vi
somministreranno esempii di virtù, che ormai voi ricercate invano presso
uomini o di maggiore ingegno, o di più larga istruzione dotati.
Giordano in compagnia di Cecchino e di Titta si erano ridotti, studiando
i passi, al casino di San Marco. Pensavano questi due servi potersi
ristorare di cibo e di bevanda, e dare alle membra stanche pur
finalmente riposo; ma s’ingannarono. Giordano appena entrato si lasciò
cadere sopra la prima seggiola che gli si parò davanti, e quivi stette
immobile alcun tempo con gli occhi chiusi; dipoi alzò la destra verso la
fronte, e ve la tenne come se temesse che gli si fosse spezzata, e
mormorava tra sè:
— “Qui avvelena ogni cosa! Qui respiro un’aria di delitto! Mi hanno
versato l’inferno nell’anima! Orsù, voi Titta e Cecchino; qui abbisogna
adesso che compariscano intere la fedeltà, la prestanza, e la
discretezza vostre. Andate al mio palazzo; presentatevi a madonna la
duchessa; avvertitela.... no.... aspettate.... Da scrivere....”
E il custode del casino, prontissimo esecutore degli ordini ricevuti,
portava quanto gli veniva richiesto. Giordano agitato com’era si provò a
scrivere, ma la mano tremante gli negava l’ufficio: voleva affrettarsi,
e non gli riusciva; gli bisognò posare. Tornò più quieto a scrivere
brevissime note, che suggellò, e porse a Titta, continuando lo
interrotto discorso:
— “Non l’avvertite di nulla: porgetele questa lettera, e le direte
precedermi voi di uno o due giorni. Io non sono a Firenze; — badate
bene. In casa osservate attentissimi ogni atto, ogni detto notate, e
quando avvenga o si dica cosa che per poco vi paia importante, venite
cautamente a referirmela. Io non mi muovo di qua. — Andate, siatemi
fedeli, non mancate al vostro signore: in breve saprete.... saprete
quello che non avreste voi dovuto sapere mai.... e quello.... pur
troppo! che non avrei mai dovuto dirvi io....”
E con un cenno della mano gli accomiatava. I servi, piegata la persona
ad atto di ossequio, si dipartivano.
Venuti sopra la strada, e mutati forse cento passi, Titta prese a dire
così:
— “Spero che la fortuna consentirà alla fine di lasciarci cenare:
abbiamo sofferto in questa nostra cena più sinistri che lo imperatore
Carlo nel suo regno....”
— “Io poi penso, anzi pensava, ed ho deliberato in questo momento di
abbandonare il soldo del duca, e ricondurmi qui presso a casa mia.”
— “Domine aiutalo! Avresti per avventura perduto il cervello? Talvolta
lo fa, quando camminiamo di questi giorni sotto la sferza del sole....”
— “Io non ho perduto il cervello, Titta; non l’ho perduto. Vedi, quando
m’ingaggiai per lancia spezzata col signor duca, io lo feci per le
ragioni che or ti dirò. Mio padre si era trovato ai tempi della
repubblica, e mi donava un mal dono, perchè invece di accomodarmi
l’animo ai tempi, non rifiniva mai di favellarmi del signor Giovanni
delle bande nere, del Giacomino, del Ferruccio e di altri tali, per cui
mi entrava la febbre addosso di menare le mani, parendomi che anche
dentro di me la natura avesse cacciato qualche cosa; ma dove potessi
sfogare questa smania io non vedeva: la guerra di Siena era finita, e
poi mi sarei piuttosto tagliato le mani, che unirmi agli strozzatori di
cotesta nobile cittadinanza. Condussi moglie per attutire questo feroce
talento: e’ furono novelle. Ad arte meccanica io non sapeva adattarmi;
mercè donna Isabella, ch’è sorella di latte di mogliema, presi soldo
come lancia spezzata del signor duca, confidando che egli condotto dal
papa o dai Viniziani per generale, avrei militato almeno contro i nemici
di Cristo, questi sozzi cani di Turchi, che Dio confonda. Ora ho logoro
gli anni migliori della vita a Roma senza levare un ragno da un buco, e
la spada mi si è arrugginita nel fodero.”
— “Ah sì! La morte si fa tanto aspettare, che vale proprio la pena di
andarle incontro. — O non è tanta vita trovata? Non hai riscosso la
paga? Che cosa puoi fare di meglio nel mondo, che mangiare e dormire?”
— “E perchè questo? Gli uomini di cui la rinomanza corre su per le
bocche dei popoli, non erano carne ed ossa come noi siamo? Non bevevano
gli stessi raggi di luce? Non gl’intirizziva il verno, non li scaldava
la state? Non piangevano essi? Non ridevano essi? Mortali non erano come
siamo noi?”
— “Senti, Cecchino, vi hanno uomini, che crescono come pini, altri come
strame: questo nasce ogni anno, e ogni anno vi si mette dentro la falce;
lo lasciano a seccare su i prati, e poi lo danno alle bestie. Noi siamo
di questa seconda specie. — Il fieno può dire: io voglio diventare pino?
Tanto vale che uno di noi presumesse diventare duca, o principe, o che
so io. Quando avrai lasciato un occhio in Affrica, un braccio in
America, una gamba in Ungheria, al rimanente tronco del tuo corpo dentro
al quale l’anima immortale si sarà ritirata come il presidio nel cassero
della fortezza, daranno il titolo di sergente, e un paio di giulii di
paga. Negli stati popolari, qualche volta uno di noi poteva scappare
avanti; ma adesso la gloria è pei grandi signori: la nostra parte è
quella di farci ammazzare; sicchè il meglio sta nel tirare la paga, e
conservarci più che possiamo in salute. Se la vita è male, anche peggio
è la morte. Chiamano questo mondo valle di lacrime, ma pare che agli
uomini garbi di piangere, perchè nessuno vorrebbe uscirne neanche con lo
sfratto....”
— “E poniamo che tu abbi ragione: ma io non mangerò mai il pane
acquistato con la viltà e col delitto; — egli mi romperebbe i denti, mi
si convertirebbe in veleno dentro le viscere: io voglio conservarmi in
pace con me stesso.”
— “Che Dio ti aiuti! O che cosa vuoi che i padroni si facciano della tua
virtù? Tu mi pari Diogene, che condotto al mercato per esservi venduto
gridava: — Chi vuole comprare un padrone! — La virtù è vela con la quale
facciamo poco cammino sul mare della vita; adesso pei tempi che corrono,
la virtù torna in proposito come uno scaldaletto nel mese di agosto. La
vigilanza sopra la salute dei nostri padroni, la obbedienza ai
comandamenti loro, una pazienza tedesca di aspettare dietro al cantone,
una prontezza di assestare nel buio un colpo che spacci senza dar tempo
ad un Gesù Maria, e il mistero per non metterli in cimento, ci
procureranno quella fama che a noi è dato di conseguire, e pane per noi
e per le nostre famiglie....”
— “Mai no, che questo non farò io, — no per San Giovambattista mio
protettore; io prego ch’ei mi mandi prima la mala morte.... — Andate,
spiate, referite. — Io mi morderò piuttosto la lingua, che fare la spia.
— E aggiungi, Titta; non senti tu qui dentro un odore di sangue? E un
giorno di questo sangue dovremo rendere conto. E noi qual pretesto, o
quale scusa potremo addurre di questo sangue versato? Potremo dire: —
Chiedetene conto al nostro padrone?....”
— “Veramente tu mi metti addosso qualche scrupolo; no pel sangue, chè
questo entra nel mestiero.... E di vero essi ci hanno comprato l’anima e
il pugnale, e certamente per adoperarlo in modo diverso da quello
costumato dallo imperatore Domiziano; ma cotesto nome di spia mi ritorna
traverso la gola.... Oltrecchè il duca ci avvilisce senza bisogno. —
Quale ha mestieri (perchè io vedo chiaro che qui dentro giace nocco) di
spie per sapere se gli sia infedele la moglie? Non ti pare egli così,
Cecchino? O che vorrebbe essere egli il primo marito che intacca il pane
di oro? Questi signori chiappano talora certe fantasie! Proprio chi più
ne sa, meno ne apprende. Ben fece Rinaldo di Montalbano quando gli
misero davanti la coppa piena, che il marito senza corona beveva, e il
coronato rigettava: — Tengo la moglie mia per bella e buona; — e buttò
via la tazza. Questo è prudente vivere di marito; e poi volga la fortuna
la ruota, e il villano la marra: ma quando vuolsi cercare il nodo nel
giunco, a che sommano tutte queste stimate? Tanto è detto antico: — Le
femmine sono tutte di un conio....”
— “Non è mica vero; e vedi, io giurerei che adesso parli una cosa, che
tu non credi.... O non fu donna tua madre?”
— “Ah sì! Mia madre fu donna; ma di lei già non parlava io, nè pensava
punto a lei: dico delle altre....”
— “E tu non credi che nessuna donna possa amare...?”
— “Io per me lo credo, comecchè paia alcuna volta il contrario. Pónti
sopra la bocca di una spilonca, e géttavi dentro un grido; l’eco te lo
replicherà sei o dieci volte. Ma il grido è tuo, o della spilonca? È
tuo. Pare che ti rispondano altre voci, ma t’inganni, perchè tutte
quelle voci sono una cosa con la tua voce stessa. Così se dirai a una
donna: — io ti amo, — ella ti risponderà: — io amo, io amo, io amo; — ma
guai se credi che ella lo abbia profferito da sè; e’ fu l’eco della tua
voce, e male per te se t’innamori della tua voce come Narciso s’innamorò
della propria faccia.... ai tempi antichi, quando le donne toccando un
fiore rimanevano incinte....”
— “Senti, Titta, io sono giovane, e di poche tavole; ma comprendo chiaro
che il tuo cuore gronda sangue, forse per qualche meritata ferita: tu
non sei stato amato, o sei stato tradito; ma tu hai amato?”
— “Io ne parlo da filosofo, vedi, senza avere riguardo a me in nulla.
Quello che ti dico sta nella natura; e non può essere che proceda
altramente. La incostanza è frutto della giovanezza, come la fravola
odorosa e vermiglia della primavera; la costanza è frutto degli anni
maturi, come la nespola è il frutto dell’autunno: — però nella donna la
virtù si deve chiamare la nespola della vita! — Tutte le cose belle
appariscono splendide di varietà. Guarda l’arco baleno, guarda il collo
della colomba davanti al sole, guarda la coda del pavone. — Perchè le
api fanno il dolce mèle e la cera? Perchè volano ora sopra questo fiore
ora sopra quell’altro. E le femmine sono mosse dallo studio medesimo
delle api. Gli stolti siamo noi, che pretendiamo prendere un’anima, e
riporla in gabbia come un uccello, o inchiodarla come fa del ducato
sopra il suo banco il cambiatore; anzi, più crudeli che stolti, anche
morti sporgiamo di sotto terra il braccio diventato nudo osso, e
presumiamo tenere pei capelli una povera donna. Se si manterrà buona
vedova, — dicono i testamenti, — abbia tanto; se no, nulla: sensi
bruttissimi in brutte parole: perchè noi siamo morti, non hanno gli
altri a godere della vita? Noi baciamo come beviamo; badisi al vino, non
al bicchiere: poco importa, anzi nulla, se la tazza di oggi sia quella
d’ieri; quello che importa moltissimo si è, che il vino di oggi rallegri
il cuore, ed esalti lo spirito....”
— “Tutto questo starebbe bene se la vita fosse come un libro, che
arrivati al _laus Deo_ chiudiamo, e mettiamo là per non più vederlo; ma
tu sai che il libro della vita, quando è consumato, ritorna alla luce
riveduto e corretto dallo Autore, per non morire mai più.⁷⁶ Quindi noi
pensiamo che avremo a riscontrarci un giorno nella valle di Giosafat: e
se la nostra donna avesse tolto un altro marito, o due, chi seguirebbe
ella? Con chi si accomoderebbe per la eternità?”
— “Con quello che meglio allora le talentasse: e non vi sarebbe mestiere
di dare del capo nei muri, imperciocchè tutti avrebbero la volta loro;
tutti sarebbero contenti, solo che tu pensi alla durata della eternità
delle donne, la quale, per quanto mi venne assicurato da persone degne
di fede, comprende tutta una settimana, e qualche volta un miccino del
lunedì!”
— “Va, va, tu morrai disperato, poichè rinneghi l’amore. L’amore,
dolcissima corrispondenza degli spiriti, che di due anime ne compone una
sola, che raddoppia le forze e gli aiuti, che si nutrisce di mutuo
sacrifizio come la viola della rugiada.”
— “Novelle, figliuolo mio, novelle: amore è istinto di rapina, è agonia
di dominio, è tenacità di possesso. — L’uomo ama la donna, come ama il
campo. Tempo già fu, ma un tempo lontano lontano; fa il tuo conto, anche
prima di Adamo, in cui _il mio_ e _il tuo_ non significavano niente
nelle lingue degli uomini: il passeggero vedeva pendere dall’albero un
frutto maturo, lo coglieva e il mangiava. Ma una notte si trovarono
insieme certi astiosi, e intorno ad una terra, che meglio delle altre
appariva feconda, scavarono una fossa, e la mattina dissero: — Nessuno
passerà questa fossa, perchè la terra quivi dentro compresa è roba
nostra. — Non li badarono gli altri, e fecero come per lo innanzi.
Allora gli astiosi piantarono una pietra nel confine, e minacciarono
mali a cui osasse passarla. Non ottennero niente meglio di prima; gli
uomini esclusi la reputarono burla. Finalmente gli astiosi posero sopra
cotesta pietra una mannaia e dissero: — Chi passerà il termine, avrà
mozza la testa. — Gli esclusi sempre più ridevano della nuova giulleria,
e passarono; ma gli altri, tesi gli agguati, li presero, e li guastarono
davvero. Allora piansero delle donne, dei figliuoli mandarono
dolorosissimi gridi, e la proprietà entrò nelle teste degli uomini
perchè furono troncate le teste....”
— “E che cosa ha da fare questo con l’amore?”
— “Io te l’ho detto, cervellone, amore del campo è uguale allo amore di
donna. Le donne furono un dì come le fontane: chi aveva sete vi
appressava le labbra, e beveva. Uno astioso certo giorno si avvisò dire:
— Questa donna è mia; — e perchè gli credessero, inventò certi suoi
sciolemi di certezza dei figli, ed altre diavolerie, come se alle
cavalle e alle vacche non venissero figliuoli senza tante novelle; e
poichè vide che non capivano un’acca, si raccomandò a un ciarlatano, che
faceva da medico, da dottore, da buffone, e da astrologo; e questi così
per celia giurò, che il Dio Coccodrillo, tenuto in reverenza
grandissima, gli aveva susurrato negli orecchi, che bisognava lasciare
stare la femmina di quel tristo, _aliter_ sarebbero arrostiti dopo morte
a fuoco di carbone di cerro. Non si veniva a capo di niente: il
ciarlatano volle vincere la prova, e giovandosi di una invenzione fresca
fresca, ch’era un frutto della terra innominato allora, e poi chiamato
canapa, attorto in filo lungo e capace a legare e a stringere, ordinò
che ai caparbii si mettesse intorno al collo, e si tirassero su alti
sopra un ramo di quercia. Le quercie stupirono delle nuove ghiande, la
lingua si arricchì di una parolaccia che si chiamò _adulterio_, gli
uomini acquistarono un delitto, e così di male in peggio _venite
adoremus_, come dice lo invitatorio del Diavolo.”
— “Io ti ascolto, e rido, perchè davvero sono tali sconcezze le tue, che
sarebbe fiato gittato rispondervi a dovere. Io ti leggo traverso al
seno, e vedo che in cuor tuo tu vuoi la baia di me....”
— “La baia! Io parlo del miglior senno che abbia mai avuto.”
— “Allora tu sei stato sempre matto.”
— “Matto! Or via: meglio che farti legare e guastare, o non sarebbe che
il tuo fratello di morte dicesse: — Colui che nasce dalla terra e deve
tornare alla terra, non deve usurpare la terra: vieni, cíbati di questi
frutti, che ho colto prima di te; vieni, scáldati a questo fuoco che ho
acceso prima di te, e ripárati in questa spilonca che ho trovato, ed è
capace per tutti? — Non sarebbe meglio, che il padrone della bellezza,
lieto rivo e fugace, invece di respingerne l’assetato, così gli
favellasse amoroso: Dissétati anche tu, povera anima; non intisichire di
agonia, inébriati di amore, e vivi; non voglio che tu vada a male per
cosa di cui tu soffri inopia, e a me ne avanza per benedire e
santificare. Tanto, bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come
fa la luna....”
— “Ma di grazia, ove hai scavato tutte queste giullerie? Comunque
tristissima, non è mica farina del tuo sacco....”
— “E di vero non è: se ti fosse toccato in sorte di udirla come la udiva
io dalla bocca di quell’altissimo filosofo, di quel divino....”
— “Chi mai divino?”
— “Pietro Aretino.”
— “Ah! non voglio sentirne altro. Divino certo lo chiamarono, e
chiamano; il quale titolo se non rende testimonianza della sua divinità,
attesta certo la suprema codardia degli uomini, che o glielo
conferirono, o glielo consentirono.”
— “Tu lo calunnii: egli fu nelle amicizie tenacissimo, e portando amore
maraviglioso al sig. Giovanni delle bande nere, lui con disagio e
pericolo seguitava nelle più arrisicate fazioni....”
— “Cotesta amicizia guasta la fama di quel valentuomo. Io so troppo bene
che mentre il signor Giovanni combatteva, costui si deliziava con le
meretrici del campo....”
— “Non è vero, perchè talora rilevò delle ferite....”
— “E che monta questo? Da quando in qua toccare una ferita significa
prodezza? Anche Achille gli dette di buone pugnalate, ed ei se le tolse
piagnendo, e supplicando la vita. E al Tintoretto, che cosa seppe
rispondere quando gli tolse la misura col pistolese? Cheto come olio. —
E quando Piero Strozzi lo minacciò di farlo ammazzare nel letto, non si
rinchiuse in casa, non inchiodò porte e finestre per paura dell’aria?”⁷⁷
— “O che si fa egli con gente che ti coglie disarmato e alla
sprovvista?.... E in quanto a Piero, se dava soggezione a Cosimo vostro
duca, qual maraviglia se cercava guardarsene il Divino? E quel suo cuore
sviscerato per le sue figliuoline Austria e Adria! Tu lo avessi veduto
quanto pensiero se ne dava, e come fu studioso di assicurare loro la
dota nelle mani del duca di Urbino, e come le raccomandava a tutti i
suoi amici....”⁷⁸
— “Le amava per venderle....”
— “Per Dio, non dirlo...!”
— “Non dirlo? Io lo dico, e lo dirò per quanto il fiato mi basti. O che
pensi che anche a me non giungesse la fama vergognosa della morte di
cotesto sozzo cane vituperato? Non morì egli udendo con riso infame le
schifezze delle sue sorelle meretrici nel bordello di Venezia?⁷⁹
Lévamiti dinanzi, tu sei fracido fino alle ossa. Va, mangia pane
insanguinato: io tolgo a patti piuttosto morire di fame: — va, tienti la
tua fede, io la mia. Al capezzale del letto, nella ora della tua morte,
tu vedrai il diavolo che ti sgraffierà dalla fronte la cresima: io spero
vedere la moglie castissima e dilettissima, i figli buoni, e la pace
degli angioli. — Separiamoci, tu va solo a casa Orsini.”
— “Io, vedi, dovrei corrucciarmi teco, e farti conoscere che Titta non
pate villanía; ma anche questo appresi dal Divino, che ai banditori
delle verità è per giunta se tocca meno della lapidazione. Io dirò al
palazzo che ti ha preso male, o che so io; inventerò una scusa per
lasciarti tempo a dare le spese al tuo cervello, e ridurti domani al tuo
solito posto....”
— “Gran mercè; io non voglio tornare, e non tornerò. — Titta! accóstati.
Vedi, cotesta casa è casa mia: lì nacqui, e lì crebbi. — Titta! Non vedi
un lume alle finestre? Dimmelo; ho gli occhi offuscati di lacrime, e non
iscorgo bene. Santissima Vergine! è una donna quella che sta affacciata
al balcone? — Titta, travedo, o vedo bene?”
— “Vedi bene; ella è proprio una femmina.”
— “O questa è Maria! Povera donna, ella mi aspetta? Chi sa quante notti
ha passato alla finestra! O che consolazione rivedere la mia cara, la
mia dolce Maria!....”
E così esclamando spiccò tale una corsa, che non gli avrebbe tenuto
dietro un capriolo.
Titta si affaticava invano a raggiungerlo, e gridava:
— “Cecchino, férmati! Cecchino, senti!”
E l’altro correva più che mai. Affannoso, sudante, arriva Cecchino alla
porta di casa sua, e appena con voci interrotte chiama: — Maria! —
Cecchino! — le rispose la donna con un grido di altissima allegrezza; e
sparve dalla finestra, e fu sentita precipitare quasi giù per le scale.
In meno che non si dice un _amen_ fu aperto l’uscio di strada, e con le
braccia levate si corsero quelle due buone creature incontro,
confondendo baci, lagrime e sospiri, con tale una passione irrefrenata e
profonda, da fare tenerezza a chiunque avesse potuto vederle, come
propriamente lo fa anche a me adesso, che lo racconto....
Titta arrivò tardi, e trovò l’uscio chiuso e incatenato. Volle prima
battere, ma poi si trattenne, dicendo:
“Tanto varrebbe bussare alle porte di un camposanto, e aspettare che
venisse ad aprirmi il primo padre Adamo. _Requiem æternam dona eis,
Domine._ — Ormai Cecchino ha dato un tuffo a capo fitto nello scimunito.
— Non vi è stato verso da cavarne niente di buono; e Dio sa se mi vi
sono slogato le spalle, perchè io gli voglio bene come a figliuolo, e
disegnava farmene un allievo. — Vedete un po’, una femminuccia me lo ha
cavato di sotto. È inutile! finchè le donne non saranno tolte via, e gli
uomini non s’innesteranno come susini, il mondo camminerà di male in
peggio. Ma egli è giovane; e il sangue vuole la sua parte; domani
tornerà, un poco abbattuto, s’intende, ma tornerà. Ora sta a me far
tutto; ed io incomincerò da mangiare, e poi andarmene a letto, e dormire
finchè ne abbia voglia.... — E intanto il signore Paolo Giordano
aspetta? — Aspetti sicuro! io non ho bisogno di lui: questi padroni
vorrebbero che fossimo buoni, e cattivi; mansueti, e coltellatori;
fedeli, e traditori; tonti, e saputi; angioli, e demoni; e poi non
mangiassimo mai, mai non vestissimo, e non chiedessimo: insomma se un
servitore possedesse la metà delle virtù che domandano i padroni da
loro, non vi sarebbe così povero fante che non meritasse avere per servo
almeno un marchese. E poi, a che monta vegliare? Non ha da essere in
casa la Giulia? In meno di cinque minuti saprò più di quello che io non
potrò tenere a mente, o referire; ed anche senza tanti anfanamenti, se
io vorrò fare seco del ben bellezza, chi fie che mi trattenga? Certo non
ella; il nostro bene è durevole e forte, non circoscritto, non mai
sterile; noi invece dello individuo amiamo la specie: ella tutti gli
uomini; io tutte le donne; in modo che per noi non si dà lontananza, non
assenza, siamo sempre presenti, sempre innamorati, siamo come perle di
un medesimo vezzo; di ogni fiore facciamo ghirlanda, e ce ne incoroniamo
la vita. — Un fiore non fa primavera; l’amore non è compreso in uno
affetto solo.” — E questi, e tali altri concetti rivolgendo per la
mente, si allontanava dalla casa di Cecchino, tardandogli oramai di
arrivare al palazzo del suo signore.
Con animo più giocondo io ritorno a Cecchino e alla Maria. Abbracciati e
lieti salirono, o piuttosto volarono su per le scale, offerendo la
immagine delle colombe, che con ale tese e aperte si affrettano al dolce
nido, la quale per essere stata adoprata dal Dante, a me non rimane a
fare altro che ricordarla. Giunti nel mezzo della sala, si rinnuovarono
le amorose accoglienze: uno interrogava l’altro, e l’altro per risposta
domandava a sua volta; e senza pure aspettare queste risposte, cose
sopra cose ricercavano, e via, e via, sicchè dai labbri di ambedue
prorompeva un turbine di parole ardenti di curiosità e di passione. Ma
alla fine si accorsero di cotesto singolare colloquio, e ne risero
svisceratamente, e tornarono a cambiarsi castissimi baci.
— “Orsù,” tutta rubiconda con occhi sfavillanti favellò la Maria; “tu
se’ sozzo di polvere e di sudore; aspetta ch’io ti porti da lavare mani
e viso.”
E quindi a poco tornò, ponendogli davanti la catinella piena d’acqua; e
lieta cantando come se fosse di bel mezzo giorno, si fece all’armario,
prese uno asciugamano di elettissimo lino tutto odoroso di fior di
gaggío, e glielo porse per asciugarsi, ed ella pure lo andava aiutando
in questo ufficio. Nè qui si rimase la cura della buona femmina, che
quando è dabbene, davvero ella è la cara gioia pel cuore dell’uomo; e
postasi a sedere, ordinò che anche il suo Cecchino sedesse, e sporgendo
le mani gli strinse dolcemente la testa, e se l’adagiò in grembo, e col
pubblico aspettano quaggiù l’uomo crudele, che potendo non soccorse al
pericolante nell’acqua; in China, rimorso e rampogna aspettano colui che
salva il naufrago. Leggi, e pene, e giudici noi abbiamo contro il furto,
e tanto più lo puniamo, quanto più vi adoperarono ingegno, o destrezza;
gli Spartani avevano premii pei ladri; e più larghi, quanto meglio si
dimostravano arguti. Nel paese dei Battas lo adultero còlto in fallo
diventa preda del marito offeso, che lo lega ad un albero, e convita la
parentela a mangiarlo: ogni commensale si accosta per ordine di dignità,
e taglia il pezzo che meglio gli talenta; il marito sceglie primo, ed è
giusta, e per quanto leggiamo, come parte meglio saporosa, si riserba le
orecchie; in altre contrade il marito offre la moglie a cui primo gli
giunge per casa, come dono ospitale: e se questo avviene adesso tra
popoli da noi chiamati barbari, gli Spartani, solenni maestri di
civiltà, lo costumavano una volta, allo scopo che dalle proprie mogli
uscissero uomini gagliardi per la difesa della patria. Vereconda cosa
sono i connubii presso gli uomini, e presso gli Dei; imperciocchè il
divino Omero racconti come lo stesso Giove circondasse di una nuvola
impenetrabile agli occhi dei mortali e dei celesti i suoi abbracciamenti
con Giunone. Sir Bank ci narra avere veduto nei suoi viaggi un simile
atto esercitato in pubblico, e con molta cerimonia costituire il rito
dell’adorazione di certi popoli selvaggi, al quale assistevano con tali
manifestazioni di pietosissimo zelo, da richiamare sopra il ciglio
lacrime di tenerezza; e tanto basta.
Nè già crediamo che di cosiffatte immani costumanze le genti presso alle
quali si praticano non sappiano porgere, male o bene, la ragione. Non
credono perchè non comprendono; astrattezze fuori dei sensi non arrivano
a concepire, quindi le rifiutano. Presumerebbero, gli stolti! che Dio si
dimostrasse come un teorema di Euclide sopra la lavagna: per religione
vorrebbero un’algebra; per altare, l’aritmetica; per sagrificio votivo,
un conto fatto in regola; per sacerdote, un computista. Estimano pietà
troncare una vita diventata oramai irremediabile dolore; il proprio seno
reputano più decoroso sepolcro, che la terra o i marmi non sono;
temerario consiglio rompere i disegni della natura; utili alla
repubblica i cittadini educati per tempo nei sottili accorgimenti;
bellissima cortesia mostrarsi così amico dell’ospite, da offerirgli la
cosa più caramente diletta. Peregrinate; apprendete, e mentre vi punge
il desiderio di raccogliere fiori da tutto lo universo per inebriarvi di
voluttuose fragranze, ecco insinuarvisi nel cuore il mal verme del
dubbio, che ve lo imputridisce. Il cuore scettico è morto; ma siccome la
mente vive, così noi sembriamo come gente sopravvissuta a noi stessi:
custodi quasi dei nostri sepolcri. — In verità, io vi consiglio a starvi
contenti al _quia_. Amate molto, leggete poco, e leggendo, più che altro
vi aggradi la poesia, vino purissimo dell’anima, licore prezioso che
emana da fontane celesti. — E qui notate ch’io parlo dell’alta poesia,
figlia della mente infiammata dal cuore, conciossiachè anche la poesia
che scende unicamente dallo intelletto generi dubbio. Chi più sarebbe
stato avventuroso del Byron? Quali mai creò la natura poderosissime ale,
che meglio delle sue valessero a volo smisurato? Chi ebbe maggior cuore,
chi miglior mente di lui? — Ma egli volle vedere troppo, troppo
conoscere, troppo sottilmente indagare la genesi degli affetti; nuovo
Atteone, porta la pena delle temerarie investigazioni; i suoi stessi
fidatissimi veltri lo perseguitano, e lo lacerano. Quasi per vaghezza
volle aggiungere la corda del dubbio alla sua lira; parve a lui, che si
allargasse la copia dei suoni svariati, e s’ingannò: cotesta corda gli
tagliò le dita peggio del filo di un pugnale. Consiglio sapientissimo fu
quello dell’Eforo, che ruppe con la scure la nuova corda aggiunta alla
lira argiva. Tre furono le corde della lira di Olimpo e di Terpandro,
quando accompagnarono i canti di Dio e della umanità; dodici di quella
di Timoteo, quando cantava al convito di Alessandro e di Taide, onde ne
usciva la infamia di lui, che si era acquistato il nome di magno, e lo
incendio dell’antica Persepoli; e tre saranno le corde di qualunque
lira, che intende a condurre la umanità per quanto vi ha di onorato e di
grande sopra la terra, alla patria eterna dei cieli: — queste corde poi
sono, _amore, fede e speranza_.
Ma come entra tutto questo nella mia storia? — Voi vedrete che ci entra
benissimo; imperciocchè proseguendo vi sarà manifesto come povere genti,
timorose di Dio, e ferme nei precetti della carità cristiana, vi
somministreranno esempii di virtù, che ormai voi ricercate invano presso
uomini o di maggiore ingegno, o di più larga istruzione dotati.
Giordano in compagnia di Cecchino e di Titta si erano ridotti, studiando
i passi, al casino di San Marco. Pensavano questi due servi potersi
ristorare di cibo e di bevanda, e dare alle membra stanche pur
finalmente riposo; ma s’ingannarono. Giordano appena entrato si lasciò
cadere sopra la prima seggiola che gli si parò davanti, e quivi stette
immobile alcun tempo con gli occhi chiusi; dipoi alzò la destra verso la
fronte, e ve la tenne come se temesse che gli si fosse spezzata, e
mormorava tra sè:
— “Qui avvelena ogni cosa! Qui respiro un’aria di delitto! Mi hanno
versato l’inferno nell’anima! Orsù, voi Titta e Cecchino; qui abbisogna
adesso che compariscano intere la fedeltà, la prestanza, e la
discretezza vostre. Andate al mio palazzo; presentatevi a madonna la
duchessa; avvertitela.... no.... aspettate.... Da scrivere....”
E il custode del casino, prontissimo esecutore degli ordini ricevuti,
portava quanto gli veniva richiesto. Giordano agitato com’era si provò a
scrivere, ma la mano tremante gli negava l’ufficio: voleva affrettarsi,
e non gli riusciva; gli bisognò posare. Tornò più quieto a scrivere
brevissime note, che suggellò, e porse a Titta, continuando lo
interrotto discorso:
— “Non l’avvertite di nulla: porgetele questa lettera, e le direte
precedermi voi di uno o due giorni. Io non sono a Firenze; — badate
bene. In casa osservate attentissimi ogni atto, ogni detto notate, e
quando avvenga o si dica cosa che per poco vi paia importante, venite
cautamente a referirmela. Io non mi muovo di qua. — Andate, siatemi
fedeli, non mancate al vostro signore: in breve saprete.... saprete
quello che non avreste voi dovuto sapere mai.... e quello.... pur
troppo! che non avrei mai dovuto dirvi io....”
E con un cenno della mano gli accomiatava. I servi, piegata la persona
ad atto di ossequio, si dipartivano.
Venuti sopra la strada, e mutati forse cento passi, Titta prese a dire
così:
— “Spero che la fortuna consentirà alla fine di lasciarci cenare:
abbiamo sofferto in questa nostra cena più sinistri che lo imperatore
Carlo nel suo regno....”
— “Io poi penso, anzi pensava, ed ho deliberato in questo momento di
abbandonare il soldo del duca, e ricondurmi qui presso a casa mia.”
— “Domine aiutalo! Avresti per avventura perduto il cervello? Talvolta
lo fa, quando camminiamo di questi giorni sotto la sferza del sole....”
— “Io non ho perduto il cervello, Titta; non l’ho perduto. Vedi, quando
m’ingaggiai per lancia spezzata col signor duca, io lo feci per le
ragioni che or ti dirò. Mio padre si era trovato ai tempi della
repubblica, e mi donava un mal dono, perchè invece di accomodarmi
l’animo ai tempi, non rifiniva mai di favellarmi del signor Giovanni
delle bande nere, del Giacomino, del Ferruccio e di altri tali, per cui
mi entrava la febbre addosso di menare le mani, parendomi che anche
dentro di me la natura avesse cacciato qualche cosa; ma dove potessi
sfogare questa smania io non vedeva: la guerra di Siena era finita, e
poi mi sarei piuttosto tagliato le mani, che unirmi agli strozzatori di
cotesta nobile cittadinanza. Condussi moglie per attutire questo feroce
talento: e’ furono novelle. Ad arte meccanica io non sapeva adattarmi;
mercè donna Isabella, ch’è sorella di latte di mogliema, presi soldo
come lancia spezzata del signor duca, confidando che egli condotto dal
papa o dai Viniziani per generale, avrei militato almeno contro i nemici
di Cristo, questi sozzi cani di Turchi, che Dio confonda. Ora ho logoro
gli anni migliori della vita a Roma senza levare un ragno da un buco, e
la spada mi si è arrugginita nel fodero.”
— “Ah sì! La morte si fa tanto aspettare, che vale proprio la pena di
andarle incontro. — O non è tanta vita trovata? Non hai riscosso la
paga? Che cosa puoi fare di meglio nel mondo, che mangiare e dormire?”
— “E perchè questo? Gli uomini di cui la rinomanza corre su per le
bocche dei popoli, non erano carne ed ossa come noi siamo? Non bevevano
gli stessi raggi di luce? Non gl’intirizziva il verno, non li scaldava
la state? Non piangevano essi? Non ridevano essi? Mortali non erano come
siamo noi?”
— “Senti, Cecchino, vi hanno uomini, che crescono come pini, altri come
strame: questo nasce ogni anno, e ogni anno vi si mette dentro la falce;
lo lasciano a seccare su i prati, e poi lo danno alle bestie. Noi siamo
di questa seconda specie. — Il fieno può dire: io voglio diventare pino?
Tanto vale che uno di noi presumesse diventare duca, o principe, o che
so io. Quando avrai lasciato un occhio in Affrica, un braccio in
America, una gamba in Ungheria, al rimanente tronco del tuo corpo dentro
al quale l’anima immortale si sarà ritirata come il presidio nel cassero
della fortezza, daranno il titolo di sergente, e un paio di giulii di
paga. Negli stati popolari, qualche volta uno di noi poteva scappare
avanti; ma adesso la gloria è pei grandi signori: la nostra parte è
quella di farci ammazzare; sicchè il meglio sta nel tirare la paga, e
conservarci più che possiamo in salute. Se la vita è male, anche peggio
è la morte. Chiamano questo mondo valle di lacrime, ma pare che agli
uomini garbi di piangere, perchè nessuno vorrebbe uscirne neanche con lo
sfratto....”
— “E poniamo che tu abbi ragione: ma io non mangerò mai il pane
acquistato con la viltà e col delitto; — egli mi romperebbe i denti, mi
si convertirebbe in veleno dentro le viscere: io voglio conservarmi in
pace con me stesso.”
— “Che Dio ti aiuti! O che cosa vuoi che i padroni si facciano della tua
virtù? Tu mi pari Diogene, che condotto al mercato per esservi venduto
gridava: — Chi vuole comprare un padrone! — La virtù è vela con la quale
facciamo poco cammino sul mare della vita; adesso pei tempi che corrono,
la virtù torna in proposito come uno scaldaletto nel mese di agosto. La
vigilanza sopra la salute dei nostri padroni, la obbedienza ai
comandamenti loro, una pazienza tedesca di aspettare dietro al cantone,
una prontezza di assestare nel buio un colpo che spacci senza dar tempo
ad un Gesù Maria, e il mistero per non metterli in cimento, ci
procureranno quella fama che a noi è dato di conseguire, e pane per noi
e per le nostre famiglie....”
— “Mai no, che questo non farò io, — no per San Giovambattista mio
protettore; io prego ch’ei mi mandi prima la mala morte.... — Andate,
spiate, referite. — Io mi morderò piuttosto la lingua, che fare la spia.
— E aggiungi, Titta; non senti tu qui dentro un odore di sangue? E un
giorno di questo sangue dovremo rendere conto. E noi qual pretesto, o
quale scusa potremo addurre di questo sangue versato? Potremo dire: —
Chiedetene conto al nostro padrone?....”
— “Veramente tu mi metti addosso qualche scrupolo; no pel sangue, chè
questo entra nel mestiero.... E di vero essi ci hanno comprato l’anima e
il pugnale, e certamente per adoperarlo in modo diverso da quello
costumato dallo imperatore Domiziano; ma cotesto nome di spia mi ritorna
traverso la gola.... Oltrecchè il duca ci avvilisce senza bisogno. —
Quale ha mestieri (perchè io vedo chiaro che qui dentro giace nocco) di
spie per sapere se gli sia infedele la moglie? Non ti pare egli così,
Cecchino? O che vorrebbe essere egli il primo marito che intacca il pane
di oro? Questi signori chiappano talora certe fantasie! Proprio chi più
ne sa, meno ne apprende. Ben fece Rinaldo di Montalbano quando gli
misero davanti la coppa piena, che il marito senza corona beveva, e il
coronato rigettava: — Tengo la moglie mia per bella e buona; — e buttò
via la tazza. Questo è prudente vivere di marito; e poi volga la fortuna
la ruota, e il villano la marra: ma quando vuolsi cercare il nodo nel
giunco, a che sommano tutte queste stimate? Tanto è detto antico: — Le
femmine sono tutte di un conio....”
— “Non è mica vero; e vedi, io giurerei che adesso parli una cosa, che
tu non credi.... O non fu donna tua madre?”
— “Ah sì! Mia madre fu donna; ma di lei già non parlava io, nè pensava
punto a lei: dico delle altre....”
— “E tu non credi che nessuna donna possa amare...?”
— “Io per me lo credo, comecchè paia alcuna volta il contrario. Pónti
sopra la bocca di una spilonca, e géttavi dentro un grido; l’eco te lo
replicherà sei o dieci volte. Ma il grido è tuo, o della spilonca? È
tuo. Pare che ti rispondano altre voci, ma t’inganni, perchè tutte
quelle voci sono una cosa con la tua voce stessa. Così se dirai a una
donna: — io ti amo, — ella ti risponderà: — io amo, io amo, io amo; — ma
guai se credi che ella lo abbia profferito da sè; e’ fu l’eco della tua
voce, e male per te se t’innamori della tua voce come Narciso s’innamorò
della propria faccia.... ai tempi antichi, quando le donne toccando un
fiore rimanevano incinte....”
— “Senti, Titta, io sono giovane, e di poche tavole; ma comprendo chiaro
che il tuo cuore gronda sangue, forse per qualche meritata ferita: tu
non sei stato amato, o sei stato tradito; ma tu hai amato?”
— “Io ne parlo da filosofo, vedi, senza avere riguardo a me in nulla.
Quello che ti dico sta nella natura; e non può essere che proceda
altramente. La incostanza è frutto della giovanezza, come la fravola
odorosa e vermiglia della primavera; la costanza è frutto degli anni
maturi, come la nespola è il frutto dell’autunno: — però nella donna la
virtù si deve chiamare la nespola della vita! — Tutte le cose belle
appariscono splendide di varietà. Guarda l’arco baleno, guarda il collo
della colomba davanti al sole, guarda la coda del pavone. — Perchè le
api fanno il dolce mèle e la cera? Perchè volano ora sopra questo fiore
ora sopra quell’altro. E le femmine sono mosse dallo studio medesimo
delle api. Gli stolti siamo noi, che pretendiamo prendere un’anima, e
riporla in gabbia come un uccello, o inchiodarla come fa del ducato
sopra il suo banco il cambiatore; anzi, più crudeli che stolti, anche
morti sporgiamo di sotto terra il braccio diventato nudo osso, e
presumiamo tenere pei capelli una povera donna. Se si manterrà buona
vedova, — dicono i testamenti, — abbia tanto; se no, nulla: sensi
bruttissimi in brutte parole: perchè noi siamo morti, non hanno gli
altri a godere della vita? Noi baciamo come beviamo; badisi al vino, non
al bicchiere: poco importa, anzi nulla, se la tazza di oggi sia quella
d’ieri; quello che importa moltissimo si è, che il vino di oggi rallegri
il cuore, ed esalti lo spirito....”
— “Tutto questo starebbe bene se la vita fosse come un libro, che
arrivati al _laus Deo_ chiudiamo, e mettiamo là per non più vederlo; ma
tu sai che il libro della vita, quando è consumato, ritorna alla luce
riveduto e corretto dallo Autore, per non morire mai più.⁷⁶ Quindi noi
pensiamo che avremo a riscontrarci un giorno nella valle di Giosafat: e
se la nostra donna avesse tolto un altro marito, o due, chi seguirebbe
ella? Con chi si accomoderebbe per la eternità?”
— “Con quello che meglio allora le talentasse: e non vi sarebbe mestiere
di dare del capo nei muri, imperciocchè tutti avrebbero la volta loro;
tutti sarebbero contenti, solo che tu pensi alla durata della eternità
delle donne, la quale, per quanto mi venne assicurato da persone degne
di fede, comprende tutta una settimana, e qualche volta un miccino del
lunedì!”
— “Va, va, tu morrai disperato, poichè rinneghi l’amore. L’amore,
dolcissima corrispondenza degli spiriti, che di due anime ne compone una
sola, che raddoppia le forze e gli aiuti, che si nutrisce di mutuo
sacrifizio come la viola della rugiada.”
— “Novelle, figliuolo mio, novelle: amore è istinto di rapina, è agonia
di dominio, è tenacità di possesso. — L’uomo ama la donna, come ama il
campo. Tempo già fu, ma un tempo lontano lontano; fa il tuo conto, anche
prima di Adamo, in cui _il mio_ e _il tuo_ non significavano niente
nelle lingue degli uomini: il passeggero vedeva pendere dall’albero un
frutto maturo, lo coglieva e il mangiava. Ma una notte si trovarono
insieme certi astiosi, e intorno ad una terra, che meglio delle altre
appariva feconda, scavarono una fossa, e la mattina dissero: — Nessuno
passerà questa fossa, perchè la terra quivi dentro compresa è roba
nostra. — Non li badarono gli altri, e fecero come per lo innanzi.
Allora gli astiosi piantarono una pietra nel confine, e minacciarono
mali a cui osasse passarla. Non ottennero niente meglio di prima; gli
uomini esclusi la reputarono burla. Finalmente gli astiosi posero sopra
cotesta pietra una mannaia e dissero: — Chi passerà il termine, avrà
mozza la testa. — Gli esclusi sempre più ridevano della nuova giulleria,
e passarono; ma gli altri, tesi gli agguati, li presero, e li guastarono
davvero. Allora piansero delle donne, dei figliuoli mandarono
dolorosissimi gridi, e la proprietà entrò nelle teste degli uomini
perchè furono troncate le teste....”
— “E che cosa ha da fare questo con l’amore?”
— “Io te l’ho detto, cervellone, amore del campo è uguale allo amore di
donna. Le donne furono un dì come le fontane: chi aveva sete vi
appressava le labbra, e beveva. Uno astioso certo giorno si avvisò dire:
— Questa donna è mia; — e perchè gli credessero, inventò certi suoi
sciolemi di certezza dei figli, ed altre diavolerie, come se alle
cavalle e alle vacche non venissero figliuoli senza tante novelle; e
poichè vide che non capivano un’acca, si raccomandò a un ciarlatano, che
faceva da medico, da dottore, da buffone, e da astrologo; e questi così
per celia giurò, che il Dio Coccodrillo, tenuto in reverenza
grandissima, gli aveva susurrato negli orecchi, che bisognava lasciare
stare la femmina di quel tristo, _aliter_ sarebbero arrostiti dopo morte
a fuoco di carbone di cerro. Non si veniva a capo di niente: il
ciarlatano volle vincere la prova, e giovandosi di una invenzione fresca
fresca, ch’era un frutto della terra innominato allora, e poi chiamato
canapa, attorto in filo lungo e capace a legare e a stringere, ordinò
che ai caparbii si mettesse intorno al collo, e si tirassero su alti
sopra un ramo di quercia. Le quercie stupirono delle nuove ghiande, la
lingua si arricchì di una parolaccia che si chiamò _adulterio_, gli
uomini acquistarono un delitto, e così di male in peggio _venite
adoremus_, come dice lo invitatorio del Diavolo.”
— “Io ti ascolto, e rido, perchè davvero sono tali sconcezze le tue, che
sarebbe fiato gittato rispondervi a dovere. Io ti leggo traverso al
seno, e vedo che in cuor tuo tu vuoi la baia di me....”
— “La baia! Io parlo del miglior senno che abbia mai avuto.”
— “Allora tu sei stato sempre matto.”
— “Matto! Or via: meglio che farti legare e guastare, o non sarebbe che
il tuo fratello di morte dicesse: — Colui che nasce dalla terra e deve
tornare alla terra, non deve usurpare la terra: vieni, cíbati di questi
frutti, che ho colto prima di te; vieni, scáldati a questo fuoco che ho
acceso prima di te, e ripárati in questa spilonca che ho trovato, ed è
capace per tutti? — Non sarebbe meglio, che il padrone della bellezza,
lieto rivo e fugace, invece di respingerne l’assetato, così gli
favellasse amoroso: Dissétati anche tu, povera anima; non intisichire di
agonia, inébriati di amore, e vivi; non voglio che tu vada a male per
cosa di cui tu soffri inopia, e a me ne avanza per benedire e
santificare. Tanto, bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come
fa la luna....”
— “Ma di grazia, ove hai scavato tutte queste giullerie? Comunque
tristissima, non è mica farina del tuo sacco....”
— “E di vero non è: se ti fosse toccato in sorte di udirla come la udiva
io dalla bocca di quell’altissimo filosofo, di quel divino....”
— “Chi mai divino?”
— “Pietro Aretino.”
— “Ah! non voglio sentirne altro. Divino certo lo chiamarono, e
chiamano; il quale titolo se non rende testimonianza della sua divinità,
attesta certo la suprema codardia degli uomini, che o glielo
conferirono, o glielo consentirono.”
— “Tu lo calunnii: egli fu nelle amicizie tenacissimo, e portando amore
maraviglioso al sig. Giovanni delle bande nere, lui con disagio e
pericolo seguitava nelle più arrisicate fazioni....”
— “Cotesta amicizia guasta la fama di quel valentuomo. Io so troppo bene
che mentre il signor Giovanni combatteva, costui si deliziava con le
meretrici del campo....”
— “Non è vero, perchè talora rilevò delle ferite....”
— “E che monta questo? Da quando in qua toccare una ferita significa
prodezza? Anche Achille gli dette di buone pugnalate, ed ei se le tolse
piagnendo, e supplicando la vita. E al Tintoretto, che cosa seppe
rispondere quando gli tolse la misura col pistolese? Cheto come olio. —
E quando Piero Strozzi lo minacciò di farlo ammazzare nel letto, non si
rinchiuse in casa, non inchiodò porte e finestre per paura dell’aria?”⁷⁷
— “O che si fa egli con gente che ti coglie disarmato e alla
sprovvista?.... E in quanto a Piero, se dava soggezione a Cosimo vostro
duca, qual maraviglia se cercava guardarsene il Divino? E quel suo cuore
sviscerato per le sue figliuoline Austria e Adria! Tu lo avessi veduto
quanto pensiero se ne dava, e come fu studioso di assicurare loro la
dota nelle mani del duca di Urbino, e come le raccomandava a tutti i
suoi amici....”⁷⁸
— “Le amava per venderle....”
— “Per Dio, non dirlo...!”
— “Non dirlo? Io lo dico, e lo dirò per quanto il fiato mi basti. O che
pensi che anche a me non giungesse la fama vergognosa della morte di
cotesto sozzo cane vituperato? Non morì egli udendo con riso infame le
schifezze delle sue sorelle meretrici nel bordello di Venezia?⁷⁹
Lévamiti dinanzi, tu sei fracido fino alle ossa. Va, mangia pane
insanguinato: io tolgo a patti piuttosto morire di fame: — va, tienti la
tua fede, io la mia. Al capezzale del letto, nella ora della tua morte,
tu vedrai il diavolo che ti sgraffierà dalla fronte la cresima: io spero
vedere la moglie castissima e dilettissima, i figli buoni, e la pace
degli angioli. — Separiamoci, tu va solo a casa Orsini.”
— “Io, vedi, dovrei corrucciarmi teco, e farti conoscere che Titta non
pate villanía; ma anche questo appresi dal Divino, che ai banditori
delle verità è per giunta se tocca meno della lapidazione. Io dirò al
palazzo che ti ha preso male, o che so io; inventerò una scusa per
lasciarti tempo a dare le spese al tuo cervello, e ridurti domani al tuo
solito posto....”
— “Gran mercè; io non voglio tornare, e non tornerò. — Titta! accóstati.
Vedi, cotesta casa è casa mia: lì nacqui, e lì crebbi. — Titta! Non vedi
un lume alle finestre? Dimmelo; ho gli occhi offuscati di lacrime, e non
iscorgo bene. Santissima Vergine! è una donna quella che sta affacciata
al balcone? — Titta, travedo, o vedo bene?”
— “Vedi bene; ella è proprio una femmina.”
— “O questa è Maria! Povera donna, ella mi aspetta? Chi sa quante notti
ha passato alla finestra! O che consolazione rivedere la mia cara, la
mia dolce Maria!....”
E così esclamando spiccò tale una corsa, che non gli avrebbe tenuto
dietro un capriolo.
Titta si affaticava invano a raggiungerlo, e gridava:
— “Cecchino, férmati! Cecchino, senti!”
E l’altro correva più che mai. Affannoso, sudante, arriva Cecchino alla
porta di casa sua, e appena con voci interrotte chiama: — Maria! —
Cecchino! — le rispose la donna con un grido di altissima allegrezza; e
sparve dalla finestra, e fu sentita precipitare quasi giù per le scale.
In meno che non si dice un _amen_ fu aperto l’uscio di strada, e con le
braccia levate si corsero quelle due buone creature incontro,
confondendo baci, lagrime e sospiri, con tale una passione irrefrenata e
profonda, da fare tenerezza a chiunque avesse potuto vederle, come
propriamente lo fa anche a me adesso, che lo racconto....
Titta arrivò tardi, e trovò l’uscio chiuso e incatenato. Volle prima
battere, ma poi si trattenne, dicendo:
“Tanto varrebbe bussare alle porte di un camposanto, e aspettare che
venisse ad aprirmi il primo padre Adamo. _Requiem æternam dona eis,
Domine._ — Ormai Cecchino ha dato un tuffo a capo fitto nello scimunito.
— Non vi è stato verso da cavarne niente di buono; e Dio sa se mi vi
sono slogato le spalle, perchè io gli voglio bene come a figliuolo, e
disegnava farmene un allievo. — Vedete un po’, una femminuccia me lo ha
cavato di sotto. È inutile! finchè le donne non saranno tolte via, e gli
uomini non s’innesteranno come susini, il mondo camminerà di male in
peggio. Ma egli è giovane; e il sangue vuole la sua parte; domani
tornerà, un poco abbattuto, s’intende, ma tornerà. Ora sta a me far
tutto; ed io incomincerò da mangiare, e poi andarmene a letto, e dormire
finchè ne abbia voglia.... — E intanto il signore Paolo Giordano
aspetta? — Aspetti sicuro! io non ho bisogno di lui: questi padroni
vorrebbero che fossimo buoni, e cattivi; mansueti, e coltellatori;
fedeli, e traditori; tonti, e saputi; angioli, e demoni; e poi non
mangiassimo mai, mai non vestissimo, e non chiedessimo: insomma se un
servitore possedesse la metà delle virtù che domandano i padroni da
loro, non vi sarebbe così povero fante che non meritasse avere per servo
almeno un marchese. E poi, a che monta vegliare? Non ha da essere in
casa la Giulia? In meno di cinque minuti saprò più di quello che io non
potrò tenere a mente, o referire; ed anche senza tanti anfanamenti, se
io vorrò fare seco del ben bellezza, chi fie che mi trattenga? Certo non
ella; il nostro bene è durevole e forte, non circoscritto, non mai
sterile; noi invece dello individuo amiamo la specie: ella tutti gli
uomini; io tutte le donne; in modo che per noi non si dà lontananza, non
assenza, siamo sempre presenti, sempre innamorati, siamo come perle di
un medesimo vezzo; di ogni fiore facciamo ghirlanda, e ce ne incoroniamo
la vita. — Un fiore non fa primavera; l’amore non è compreso in uno
affetto solo.” — E questi, e tali altri concetti rivolgendo per la
mente, si allontanava dalla casa di Cecchino, tardandogli oramai di
arrivare al palazzo del suo signore.
Con animo più giocondo io ritorno a Cecchino e alla Maria. Abbracciati e
lieti salirono, o piuttosto volarono su per le scale, offerendo la
immagine delle colombe, che con ale tese e aperte si affrettano al dolce
nido, la quale per essere stata adoprata dal Dante, a me non rimane a
fare altro che ricordarla. Giunti nel mezzo della sala, si rinnuovarono
le amorose accoglienze: uno interrogava l’altro, e l’altro per risposta
domandava a sua volta; e senza pure aspettare queste risposte, cose
sopra cose ricercavano, e via, e via, sicchè dai labbri di ambedue
prorompeva un turbine di parole ardenti di curiosità e di passione. Ma
alla fine si accorsero di cotesto singolare colloquio, e ne risero
svisceratamente, e tornarono a cambiarsi castissimi baci.
— “Orsù,” tutta rubiconda con occhi sfavillanti favellò la Maria; “tu
se’ sozzo di polvere e di sudore; aspetta ch’io ti porti da lavare mani
e viso.”
E quindi a poco tornò, ponendogli davanti la catinella piena d’acqua; e
lieta cantando come se fosse di bel mezzo giorno, si fece all’armario,
prese uno asciugamano di elettissimo lino tutto odoroso di fior di
gaggío, e glielo porse per asciugarsi, ed ella pure lo andava aiutando
in questo ufficio. Nè qui si rimase la cura della buona femmina, che
quando è dabbene, davvero ella è la cara gioia pel cuore dell’uomo; e
postasi a sedere, ordinò che anche il suo Cecchino sedesse, e sporgendo
le mani gli strinse dolcemente la testa, e se l’adagiò in grembo, e col
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Çirattagı - Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 14
- Büleklär
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 01Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4338Unikal süzlärneñ gomumi sanı 177035.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.49.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 02Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4522Unikal süzlärneñ gomumi sanı 185835.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.50.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 03Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4446Unikal süzlärneñ gomumi sanı 181939.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.54.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.61.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 04Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4460Unikal süzlärneñ gomumi sanı 183537.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.54.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.62.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 05Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4381Unikal süzlärneñ gomumi sanı 167639.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.55.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 06Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4639Unikal süzlärneñ gomumi sanı 184334.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.51.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 07Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4552Unikal süzlärneñ gomumi sanı 189135.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.52.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 08Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4500Unikal süzlärneñ gomumi sanı 180834.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.50.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 09Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4304Unikal süzlärneñ gomumi sanı 178535.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.50.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 10Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4248Unikal süzlärneñ gomumi sanı 172537.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.51.3 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.2 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 11Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4447Unikal süzlärneñ gomumi sanı 183138.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.53.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.60.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 12Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4581Unikal süzlärneñ gomumi sanı 175235.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.51.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 13Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4701Unikal süzlärneñ gomumi sanı 183936.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.52.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 14Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4449Unikal süzlärneñ gomumi sanı 182437.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.54.4 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.61.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 15Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4447Unikal süzlärneñ gomumi sanı 198034.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.49.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 16Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4497Unikal süzlärneñ gomumi sanı 176437.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.53.8 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.62.3 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 17Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4572Unikal süzlärneñ gomumi sanı 186335.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.50.6 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.6 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 18Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4293Unikal süzlärneñ gomumi sanı 188036.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.53.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.61.1 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 19Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4519Unikal süzlärneñ gomumi sanı 185335.6 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.51.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.59.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 20Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4448Unikal süzlärneñ gomumi sanı 192635.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.50.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.58.5 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 21Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4548Unikal süzlärneñ gomumi sanı 182134.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.48.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.55.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 22Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 4385Unikal süzlärneñ gomumi sanı 175837.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.52.7 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.60.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
- Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - 23Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.Süzlärneñ gomumi sanı 2556Unikal süzlärneñ gomumi sanı 125641.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.57.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.63.9 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.