Il destino: romanzo - 8

Süzlärneñ gomumi sanı 4583
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1873
37.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
52.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
60.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Fulvia, e procurò consolarlo, poi instando egli lo sfasciò da capo, gli
mutò le fila scegliendo le più sottili fra le sottilissime, e un po' di
refrigerio parve che l'infermo sentisse. Ma indi a poco lo spasimo prese
a tribolarlo più veemente di prima; non è da dirsi quanta la smania e lo
scontorcersi del malcapitato: si attorcigliava da sè più che le
curandaie non aggrovigliano panno per ispremerne l'acqua, e quindi a
spazio non lungo di tempo anch'egli diventa in faccia color di cenere,
in pelle in pelle trema, si disfà come morto; anco a lui s'infossano gli
occhi dentro un cerchio grigio quasi cadaveri dentro le casse di piombo;
il sudore gronda giù dalla fronte a pioggia; la voce diventa rantolosa e
fioca: ecco le convulsioni orribili, più violente in lui che nel
Bulgarini, come quello che non era attrito dalla infermità come Paride;
ecco l'umore viscoso gocciolare giù dalla bocca, lo insopportabile
fetore; tutto il corpo diventa chiazzato di macchie pagonazze; — anco
sopra cotesta fronte la morte ha piantato la sua bandiera come dentro
una rôcca presa. Chiamasi il prete o chiamasi il cerusico? Mandisi per
ambedue, comecchè si preveda che il cerusico cascava a proposito come il
soccorso di Pisa.
Il prete venne, ma accostandosi non potè ricevere altro che il vomito
del corpo, e se ei maledisse le dieci volte il moribondo, Cristo lo sa;
quanto al vomito dell'anima Lelio se lo tenne in sè, almeno, finchè il
prete stette in camera; egli uscito, Lelio a strappi parlò tanto quanto
bastava a palesare, che inferno fosse l'anima sua. Dai tronchi accenti
si argomentò finzione essere la presente mitezza: odiare Lattanzio,
odiare Fulvia, odiare tutti; nel presagio di guarire volere implorare
pace, e darla; breve; farsi il commento vivo del _Pater noster_,
appendice alla orazione domenicale; così tranquillarli, ed intanto
ammannire il tossico, ed un bel giorno fra le gioie convivali avvelenare
come cani quanti erano. Gli assistenti appunto per paura di essere morsi
dal moribondo spulezzarono dintorno al letto; sola rimase la Fulvia: e
Dio, com'è da credersi, notò codesto atto, che presso lui ha da essere
stato lavacro per ben molte colpe.
Ultimo a comparire fu il cerusico sorgnone: costui portava due occhiali
sul naso, che parevano due lanterne, se per sovvenire la virtù visiva, o
per dissimulare la malignità degli occhi, pendeva dubbio: questo era
certo che quando intendeva speculare profondo dardeggiava lo sguardo di
sopra agli occhiali. Ed ora di fatto guardava il moribondo traverso le
lenti, ed ora la Fulvia a pupilla ignuda, in su ed in giù come fa
l'uccello quando beve; ma la Fulvia si manteneva serena sotto cotesto
grandinare di mortale sospetto; certo la Innocenza non avrebbe tolto
cotesta fronte per insegna alla sua bottega, ma il Delitto nè anco ci
avrebbe potuto scrivere: _posto preso_. Alla fine al cerusico dopo non
poca esitanza parve bene non menare scandolo, ed abbuiare la cosa,
sentenziando a voce alta: il povero (chi muore è sempre povero, e a
patto che tu muoia ti loderanno anco i nemici, e, sto quasi per dire,
anco gli amici; così almeno spero, che sarà di me; anzi ne vado sicuro)
esser morto di colica intestinale acuta; a voce bassa poi chiamata la
Fulvia in disparte, le sussurrò dentro gli orecchi:
— Donna Fulvia, Gesù Cristo quando bandì la sentenza: chi di coltello
ammazza, di coltello conviene che pera, nol disse già in modo tassativo,
bensì dimostrativo, cosicchè hassi ad intendere di ogni altro arnese o
mezzo: nel caso presente intendi così: chi di veleno uccide, di veleno
ha da morire.
— Che dite mai, maestro! chi può avergli propinato il veleno se lo
custodiva proprio io?
— Voi avete a sapere, donna Fulvia, come la gente non si avveleni già
solo per bocca, ma sì anco per assorbimento, il quale avviene mettendo
il veleno sopra le carni umane: ora siffatto assorbimento è accaduto
celerissimo oltre il consueto, nel marito vostro, perchè aveva il sangue
disposto a corrompersi, e perchè il veleno spiegò la sua virtù sopra
carni scoperte e inciprignite dalla piaga.
La Fulvia diede in un grido, e si percosse la fronte pure balenando
della persona per cascare; la sorresse il cerusico aggiungendole a voce
sommessa: — Povera signora, voi non ne avete colpa, lo so; però mettiamo
una pietra su tutto; pensate a suffragare l'anima del defunto.
In questa passando il prete, per amministrare la estrema unzione, udì le
ultime parole del cerusico, per la qual cosa soprastette alquanto, e
voltosi alla Fulvia confermò dicendo:
— Gli è il meglio, che vostra signoria lustrissima possa fare.
E veramente di messe, mortori, ed altri ganci siffatti, per ripescare
un'anima cristiana cascata nel pozzo del purgatorio, la Fulvia non fece
a spilluzzico; onde salì in fama presso i religiosi così regolari come
secolari di pia, di angiolo di bontà, di matrona insomma, la quale, per
troppo levarla al cielo, non significava che non si potesse inalzare
anco più in su. Per converso, alla stregua che cresceva il favore
sacerdotale abbassava quello del popolo: e già il Griffoli era venuto in
compassione a parecchi; in ispecie ai mariti gelosi interi e mezzo
gelosi, i quali si attentavano, nientemeno, ad affermare che la moglie
si piglia per sè e non per gli altri; e che chi cavalca la mula l'ha da
ferrare; e che le donne hanno da badare a casa, senza uscir fuori così
attillate, e con tanti fronzoli attorno; nè la femmina che costuma a
cotesto modo deve lodarsi come pudica, imperciocchè quando anco non sia
anco arrivata a casa del diavolo, pure è in cammino per lo inferno; nè
si ha a credere, che chi tende archetti non voglia pigliare uccelli;
antichi i proverbi, e di quelli proprio buoni: che chi non vuol vendere
il vino levi la frasca, e chi imbianca la facciata cerca appigionare la
casa.
La quale opinione, in prima latente, divampò poco dopo per un altro
anello, che si aggiunse alla catena ribadita dal destino ai piedi di
Lattanzio e di Fulvia: questa, quando se lo aspettava meno, sentì essere
successa in lei una trasformazione. Qual mai trasformazione? Mi domanda
ingenua una fanciulla allevata presso le Suore del sacro Cuore; ed io di
cui la Musa crebbe all'ombra della disciplina delle Monache dei santi
Pietro e Paolo qui in Livorno (o che credete, che siamo eretici in
Livorno? Pensate forse che non si trovino conventi in Livorno? In
Livorno ci si trovano benissimo; anzi non ce ne furono mai tanti come
ora, che non ci hanno più ad essere; e oltre i conventi qui ti occorre
il suo bravo seminario, il municipio, il prefetto, i bagni di acqua di
mare _et etiam di acqua dolce_, i lampioni che mandano talvolta un
sospiro di luce, e le scuole dove la luce sta in agonia permanente, la
cattedrale in mezzo alla città, la sinagoga dietro, da per tutto are a
Venere pandemia, e macelli di buona e di mala carne, e cavalieri dei
santi Maurizio e Lazzaro, e taluno della Corona d'Italia altresì:
insomma qui cessi pubblici, qui guardie di pubblica sicurezza, qui tutti
gli oneri e gli onori, attribuzioni e prerogative di una città civile,
compresi due vescovi) mormoro detti segreti: voi tutte lo sapete, o
l'avrete a sapere; però a cui lo sa, giudico inutile dirlo, a cui non lo
sa, siccome non può tardare a provarlo, ed ella, leggiadrissima, che me
lo domanda; forse più presto delle altre, mi permetta che io me ne
passi.
Dunque la Fulvia, avendo sentito come in lei fosse successa una
trasformazione, mandò a chiamare il Bulgarini con le debite cautele, e
tenne con lui un colloquio del quale il sugo fu questo: bisogna,
Lattanzio, che, tronca ogni dimora, voi diate un padre ad un figliuolo,
ed un marito alla madre; ed egli: — Magari!
Potevano anco qui non precipitare le cose: potevano consultarsi con
persone prudenti, e dar miglior garbo al partito: si peritarono a
domandare l'avviso altrui perchè lo avrebbero chiesto ad occhi bassi, e
loro malgrado la faccia per vergogna avrebbero sentito avvamparsi fino
alla radice dei capelli; sposarono di notte quasi paurosi fosse di
coteste nozze testimone il sole. E fu notato altresì che le candele
accese in cotesta occasione erano servite per una messa da morto pochi
giorni innanzi celebrata in cotesta cappella; anzi giusto nel momento,
che la Fulvia rispondendo al prete disse: _sì_, una di quelle male
assicurata dentro lo spunzone del candeliere cascò sopra l'altare e si
spense: per uno istante tutti si sentirono ghiacciare di paura; il prete
stesso sospese il rito per indagare un po' che diavolo fosse: quanti ci
erano presenti ne trassero augurio sinistro. Nei ricordi dei tempi[7],
trovo che la Fulvia si costituì in dote scudi 7400, vale dire
ventiquattro scudi più di quello, che pel medesimo titolo aveva portato
al Griffoli: il matrimonio successe nel giorno terzo di maggio 1663; la
Fulvia allora noverava 33 anni, Lattanzio ventisei.
[7] «Pertanto (narra la Cronachetta da me trovata nella
Magliabechiana) questo matrimonio seguìto tanto presto dopo la
morte dei Griffoli aperse affatto gli occhi al popolo di Siena
facendo manifesto quello, che sino allora era stato dubbio, cioè
la vera cagione di cotesta morte, e cominciossene a parlare
tanto largamente, che la Corte pensò a mettervi su le mani, e
formarne processo per chiarire il fatto; ma trattandosi di
esporre a fiero cimento due delle più nobili e principali
famiglie di Siena, una delle quali per giunta era stretta di
parentado con la casa di Alessandro VII sommo Pontefice non
parve a cui governava lo Stato cacciarsi dentro il negozio senza
parteciparlo al Granduca; la quale cosa egli fece per via di
relazione puntuale di quanto si andava dicendo, e di quanto
verosimilmente poteva credersi. Tutto bene considerato cotesto
Principe giudicò imprudente caricarsi di fascine verdi
intorbidando per _causa privata_ la buona intelligenza, che
passava fra Sua Santità e lui, ed ordinò, che per allora fino a
nuovo ordine si soprasedesse. Ma forse _fremendo_ il popolo di
Siena, e mormorando gli uomini dabbene della giustizia, e
dolendosi, che in caso sì atroce non si facesse diligenza per
trovarne la verità, ed assicurarsi delle persone di coloro, che
erano reputati principali autori di tanta scelleratezza, il
Granduca ricordandosi come Lattanzio Bulgarini era per altra
parte contumace della giustizia, pensò sotto quel pretesto
levarlo a passeggiare per cotesta città, senza punto intaccare
la Fulvia, e così non dare al Papa la minima cagione di
disgustarsi, ch'era il suo particolare fine. Aveva la famiglia
dei Bulgarini, come hanno quasi tutti i gentiluomini sanesi, sue
tenute in Maremma, ed in quelle una vena, ovvero miniera di
ferro assai ricca, della quale avevano usato per molti anni
servirsi i ministri della Magona di Siena, per servizio di
quello Stato con guadagno notabile di quei gentiluomini, che ci
erano padroni. Ora accadde, che per consiglio ed instigazione di
certo ministro della medesima Magona, di cui il nome non ho
potuto rinvenire fin qui, la Magona di Siena abbandonando la
miniera de' Bulgarini, e lasciando di più servirsene, si gettò
alle miniere dell'Elba, con pregiudizio notabile di cotesti
signori, che restando privi dello esito, e dello smaltimento di
quella loro mercanzia rimasero anco privi di un grande utile,
che da tempo in qua era resultato alla loro casa; il che
dispiacendo infinitamente a Lattanzio per la morte del fratello
Paride principale della famiglia, e malvolontieri tollerandolo,
come giovane di spiriti molto risentiti, pensò vendicarsene
contro colui, che universalmente si era tenuto autore, del quale
attentato fu inquisito, e cominciatosene il processo, poi fu,
non so per qual ragione, lasciato da parte. Ora il Granduca
ordinò si rimettesse mano a cotesto processo, e si tirasse a
fine: il che fu fatto; in sequela di ciò Lattanzio venne
condannato allo esilio ed allo sfratto da tutti i felicissimi
Stati del Granduca.»
Per questo fatto la opinione pubblica, chè un pezzo stette sospesa sopra
il capo loro a mo' di nugolo nero, scoppiò rovesciando ruina. Nella
perpetua altalena degli amori e degli odi del popolo, adesso toccava al
Griffoli trovarsi in su prossimo al cielo, e gli altri giù vicino allo
inferno. Donde mai tanta mutazione? Un po', come sempre suole, per cause
buone, e molto per cause cattive: erano buone il poco rispetto al
costume, la dimostrazione di cuore spietato contro il morto, lo esempio
d'incontinenza, e lo impaziente assettarsi sopra una fossa dianzi
riempita come sopra un lettuccio, arnese superlativo pei colloqui di
amore. Inoltre tanto non aveva potuto celarsi la cagione della morte del
Griffoli, che ormai la notizia non avesse trapelato nella città dove
ogni dì pur troppo si andava allargando: le cattive consistevano nello
spirito di contradizione, che regge e governa la umana natura. Tutto qui
vediamo essere contradizione e contrasto; anima e materia, vita e morte,
sereno e procella, dì e notte, pianura e collina, tenebre e luce,
libertà e tirannide, e via via; l'uomo poi, contradizione suprema; ed
appunto in proposito un Bargagli sanese, bello umore se altri fu mai, mi
disse un giorno, che messer Domineddio, presagendo di che panni avrebbe
vestito l'uomo, prima creò tutte le cose, e all'ultimo si riserbò a
mettere fuori l'uomo, che per lo appunto fu il sesto giorno, perchè dove
lo avesse fatto il primo con tanti vetri rotti egli gli avrebbe seminato
il terreno, tanti contrasti mosso, con tante contradizioni
scombussolato, che a questa ora la opera della creazione non sarebbe
anco finita, e i magazzini della Eternità conterrebbero più mondi
sciupati, che i magazzini del municipio di Firenze non ha lampioncini
per la illuminazione della festa dello Statuto. E perchè tu veda se mi
apponga al vero; considera questo: quante volte si commette un delitto,
la mente del popolo infellonisce; la giustizia, per non parere, mette le
mani addosso a sei, ovvero ad otto e l'ira del popolo si avventa contro
tutti; che tutti non possano essere colpevoli a lui non preme cercare nè
sapere; se li potesse avere fra l'ugna li ridurrebbe in brindelli in
meno che non si dice un credo. Applaude allo accusatore, aizza i giudici
a condannare; si dimena inquieto all'esame dei testimoni, i quali
attestano in pro dello incolpato, digrigna i denti alla difesa: ecco
alla fine la sentenza, che manda al patibolo l'oggetto del suo furore:
sarà pago al fine? — All'opposto; adesso avviene una mutazione di
pianta: un diluvio di pietà si rovescia sul condannato; per lui
accendonsi le candele, per lui si supplicano gli altari, per lui si
accatta a fine di accompagnarlo con una buona scorta di suffragi a piedi
e a cavallo nel viaggio dell'altro mondo. Nè lo trascurano in questo:
marzapani, bianco mangiare, di ogni ragione delicature non gli fanno
difetto; chieda e domandi, gli risponderanno a bacchetta: anzi perchè
non si dimentichi troppo il condannato della condizione in cui si versa,
onde poi non gli riesca fuori di misura angoscioso il ritorno alla
realità, procureranno mescere nel dolce un po' di amaro, arte sopra
quanti popoli si conoscono al mondo professata dai Veneziani[8].
Pigliano a mordere lo accusatore e i giudici; il difensore torna a
galla; il carnefice, forse il più innocente di tutti, inseguono con le
contumelie, con la sassaiola ammaccano; potessero, lo ridurrebbero in
massa di mota insanguinata. Ma forse questa contradizione non è causa
bensì effetto, stando la vera causa riposta in più remota parte, la
quale, dubito assai che risieda nello istinto ferocemente naturale
dell'uomo di perseguitare; così prima egli perseguitò con la legge, la
morale, i tribunali e gli sbirri lo incolpato; adesso, questa vicenda
trovando esaurita, piglia il condannato in mano come un flagello e ne
percuote sbirri, giudici, morale e legge. O la brutta tragica farsa che
si rappresenta da cinquanta o cento secoli nell'universo! Io fo conto
che dal primo giorno la venne solennemente fischiata; ma lo _Autore_
avendola _trovata buona_ non se ne diede per inteso, nè per ora fa cenno
di calare il sipario.... Vanità di autore è vanità spietata!
[8] «Venuta la mattina, fu loro dal Doge (siccome usa fare ad
ogni condannato a morte) mandato un sontuoso ed amarissimo
desinare, negli animali del quale erano i segni di qual foggia
di morte avessero a finire la vita: perciocchè ogni starna, ogni
pollo, ed ogni altro uccello, aveva legata una piccola fune al
collo, nel vedere la quale si voleva, che gl'infelici condannati
mangiando si ricordassero, come poco dopo dovevano essere
impiccati.» — _Da Porto_. Lettere storiche. 6. I. p. 2. Let. 37
— E fu pietà veramente veneziana!
Fin qui il cronista; io aggiungo, che Lattanzio prima di partire per lo
esilio, avendosi su quel subito eletto a domicilio la città di Lucca,
convenne con la Fulvia, che talora sotto mentite vesti sarebbe andato a
trovarla: verrebbe notturno fra la mezzanotte e la prima ora del
mattino; si annunzierebbe con tre fischi; ella lo aspettasse per
aprirgli, o per fargli aprire: non frequente la sua comparsa; una volta
forse in capo al mese. Si divisero senza mirarsi, senza pigliarsi per
mano, peritaronsi a guardarsi in viso; ognuno di essi temeva di leggere
su quello dell'altro la colpa e il rimprovero. Da prima Lattanzio fu
puntuale: non iscattava il mese, ch'egli si presentasse, e così durò,
finchè Fulvia non ebbe partorito, la quale cosa successe sette mesi dopo
la morte del Griffoli, onde il parto fu giudicato suo per virtù dello
assioma legale, che _pater est quem justæ nuptiæ demonstrant_. Le
presunzioni generano, e poi fanno le maraviglie se Giunone ingravidò
toccando un fiore, e Maria mercè un'ambasciata dentro l'orecchio: dopo
la nascita della bambina (che di questo sesso fu il portato di Fulvia),
le visite diventarono mano a mano più rade, imperciocchè per quanti
sforzi Lattanzio facesse non potè mai baciare cotesta creaturina; si
provò una volta a benedirla ponendole una mano sul capo e Fulvia quasi
per animarlo a sua posta allungò la destra; ma Lattanzio, avendo
incontrato la mano di Fulvia in quella, che stava per posarsi su i
capelli della bimba, egli la ritirò vivamente come se avesse tocco un
ferro rovente, — e:
— Non ne facciamo niente, susurrò sospettoso; la nostra benedizione
potrebbe apportarle sciagura.
Impertanto, quando egli entrava, non levava mai gli occhi sopra la sua
donna, ned ella i suoi sopra lui. — Buona sera — diceva egli: — buona
sera, — rispondeva ella; ed appressatosi alla culla mirava rabbrividendo
le sembianze della pargola, le quali ogni di più arieggiavano le sue.
Era un piacere acuto, o se ti piace meglio un dolore soave; nè
arricciare il niffo, chè il cuore umano ha più bisticci della lingua, e
gli antichi, che se ne intendevano, chiamarono le Furie _Eumenidi_
benefiche (lo attesta Pausania) e le finsero sorelle nientemeno che di
Venere, e di questa altro ci ammaestra Epimenide. Lattanzio si
genufletteva davanti la culla, e quivi tanto dimorava, finchè un rivo di
lacrime non gli uscisse dagli occhi; e certa notte, che gli parve udire
singhiozzare la Fulvia favellò soave questi accenti:
— Non ti affannare, Fulvia: le lacrime sono la migliore preghiera per
me, — e forse per tutti.
Quando si partiva, lo accompagnava Fulvia fino su la soglia della porta
di casa, senza lume, tentone; colà Lattanzio diceva in voce di _requiem
æternam_: — Addio! — a cui Fulvia rispondeva: — Addio!
La fanciullina a cui fu posto il nome Caterina Gaetana, ebbe per comare
al fonte battesimale donna Virginia di Agostino Chigi; la Fulvia
l'allevò, e la custodì come sanno custodire le madri, le quali dopo
avere gustato gli amari frutti della colpa furono purificate dalla
sventura, e si santificarono col pentimento. Di veruna cosa tanto
pregava Dio, come le durasse la vita per poterla allogare in modo degno
di lei; ma sentendosi ogni dì venir meno la lena, giudicò che non
avrebbe conseguito questo fine supremo, laddove non si fosse affrettata.
A tale scopo se ne aperse con donna Virginia Chigi, moglie che fu di
Giambatista Piccolomini e nipote del Papa Alessandro, la quale come
svisceratissima sua le propose stringere con nuovo nodo di parentela il
vincolo, che già le univa di amicizia e di cognazione fra loro, sposando
la Caterina col proprio figliuolo Francesco. Parve alla povera Fulvia
toccare il cielo col dito, nè seppe in altra guisa significare la
profonda gratitudine, eccettochè col gittarsi nelle braccia dell'amica,
e versare copiosissime lacrime. Dava un po' noia la età della fanciulla,
che varcava di poco il dodicesimo anno; ma comparendo atticciata e ben
complessa, fu giudicato di non cercare il nodo nel giunco: rimaneva ad
assestare la dote, ma Lattanzio oltre allo assentire, che la Fulvia
dêsse alla Caterina interi gli scudi 7400, chiese in grazia di portarli
col suo fino a 15000; e fu tenuta grossa dote, imperciocchè tuttavia
corressero costumi nei quali
Non faceva nascendo ancor paura
La figlia al padre, chè il tempo e la dote
Non fuggian quinci e quindi la misura.[9]
[9] Dante; ma ai tempi suoi le doti non superavano i 400 fiorini
di oro, e queste siffatte si vituperavano come sbardellate; di
vero 400 fiorini di allora, a ragguaglio nostro, farebbero 40000
scudi almeno.
Questo Francesco riuscì assai spettabile gentiluomo, ed avendo
accompagnato in Francia Flavio Chigi cardinale, e _legato a latere_, e
Sigismondo Chigi nipoti del Papa, assai si trattenne in Corte di Luigi
XIV.
La Fulvia dopo questa consolazione si diede intera alle pratiche di
pietà: usciva di casa per girsene a supplicare in chiesa, tornava di
chiesa per fare orazione in casa; visitava infermi, non respingeva mai
poverello di Dio senza averlo con larghezza aiutato; di ora in ora
metteva una penna all'ale, che l'avrebbono, secondo la sua opinione, a
tempo e a luogo trasportata di volo in paradiso. La vita certo le
mancava, pure, se la intensa preghiera non la disfaceva, l'avrebbe
tirata in lungo: la prece ardente e continua la consumò. Incominciò a
supplicare per Paride, poi per Lattanzio, poi anco per sè, ma terminato
questo ciclo, le pareva vedere, e vedeva certo due mani giunte scaturire
fuori da un mare di tenebre in atto d'implorare un po' di refrigerio,
d'intercessione: cotesta vista la faceva rabbrividire; pensava al
naufrago, che presso a dare l'ultimo tuffo solleva a quel mo' le mani su
le acque; e allora pregava anco per Lelio. Questo roteare senza posa si
rinnovava da prima distinto e completo, poi rotto a pezzi, e il capo ne
usciva indolenzito come se lo recingesse una corona di spine; questo
dolore sparso mano a mano si concentrò in ispasimo fissandosi sul ciglio
destro; ei cruciava come un chiodo fitto dentro l'occhio: difatti lo
appellano chiodo solare però che col crescere del sole aumenti
l'angoscia, e col declinare diminuisca. Questo fiero malore, che ad
altro non saprei rassomigliare che al mal dei denti, nel cervello
precipitò il corso mortale della vita di Fulvia: ella morì perdonando a
tutti, esaltata dai lumi, dai canti, dagl'incensi ed anco dai singhiozzi
dei preti, degl'incappati, degli uomini e delle donne che le stavano
intorno al letto: morì contenta, e credè sul serio, prosciolta dal
martirio terreno, andare assunta alla pace di Dio. — L'opinione pubblica
aveva di già segnato sul conto suo una giravolta, il clero già non la
derelisse mai: cosa papale ell'era; e la pietà sua spremuta dal rimorso
stillava olio all'altare più della oliva stretta nel torchio; in oltre a
lodare la sua munificenza il clero ci trovava il proprio interesse
avendo egli considerato, che se la pietà donava alla Chiesa con la
mestola, la vanità sbraciava con la pala. I poveri, la plebe insomma, ha
confinato la sua tenerezza nei denti: gettale sotto pane da mordere, e
ti amerà; ritirale il pane e ti vorrà male di morte. La gente dabbene si
stringeva nelle spalle, e diceva: «Povera donna! certo non è stata uno
stinco di Santo, ma ha sofferto molto; Dio la perdoni come il mondo l'ha
perdonata.»
A Lattanzio, o per moto proprio, ovvero a istanza altrui, il Granduca
Ferdinando II concesse lettere di grazia della pena dello esilio; onde
quegli tornasse a morire in casa. In città non si fece più vedere: pose
stanza in campagna, dove visse solitario, fuggendo ogni aspetto umano,
concentrato in sè, raro parlante; veruna cura si pigliava delle faccende
sue, poca della persona. Sovente fu visto sdraiarsi sotto un arbore
all'ombra, e quando l'ombra cessava egli rimaneva nel medesimo luogo
sotto la sferza del sole senza che mostrasse accorgersene; ancora
(mirabile a dirsi!) vespe, tafani gli si ammucchiavano sul viso; ned
egli, il più delle volte, moveva la mano per cacciarli, tanto il suo
spirito vagava dilungato fuori dalla realità della vita, sicchè quando
si levava la sua sembianza grondante sangue offeriva anch'ella la
immagine dell'_ecce homo!_ Sul cadere delle foglie chiamato a sè il
curato della prossima parrocchia, invitollo a pranzo, dove si
alternarono fra loro di molti e dotti ragionamenti, che il prete non
pure intendeva di divinità assaissimo, ma sì andava non mediocremente
ornato di umane lettere. Dopo il pasto recatisi in giardino, Lattanzio
di un tratto soffermatosi domandò:
— Che ora abbiamo? Il parroco guardò l'ombra che mandavano gli arbori a
sole cadente e rispose: — Le ventuna non possono star di molto a sonare.
— Or bè, don Antonio, voi cominciando da domani udrete la mia
confessione generale, perchè tra quindici giorni a questa ora precisa io
morirò; e se possibile fosse io mi vorrei acconciare dell'anima.
— O chi vi ha detto che morirete fra quindici giorni; come potete
saperlo voi?
— Lo so. — Sento qui dentro la voce del destino, la quale non mi ha
ingannato mai.
— Che destino andate voi farneticando? Il destino la è roba da Pagani;
dite la Provvidenza.
— Provvidenza sia, io non mi voglio bisticciare con voi, provvidenza o
destino, una forza invincibile, spietata che dentro e fuori di noi ne
può più di noi.
Nel seguente giorno incominciò la confessione; _per ore e ore Lattanzio
pallido in faccia come un morto stava genuflesso a piè del confessore_,
e il confessore grondava sudore tanto da intriderne due fazzoletti; per
modo che la serva della Canonica essendosene accorta ebbe a dirgli: — O
don Antonio, che novità è questa? Non fareste mica le prove per correre
il palio su la piazza di Siena?
[Illustrazione: — Don Antonio, ditemelo da galantuomo,
ci vedete verso che io mi possa salvare? (Pag. 160.)]
Terminata la confessione, Lattanzio con voce spenta interrogò:
— Don Antonio, ditemelo da galantuomo, ci vedete verso che io mi possa
salvare?
— Guà!
La misericordia di Dio ha sì gran braccia
Che piglia ciò, che si rivolve a lei.
E quando al nostro divino Redentore non avessero inchiodato le braccia,
tanto è, ei le terrebbe sempre aperte per raccogliere le anime pentite
che confidano in lui.
Venuto il decimo giorno del termine da Lattanzio presagito, si mise a
letto, e al parroco, che ormai gli si era fatto indivisibile compagno,
parlò a lungo nell'orecchio; e siccome quegli crollava il capo come uomo
che tentenni fra due diversi concetti, egli con maggior fervore
s'industriò persuaderlo, e parve riuscisse, imperciocchè all'ultimo
rispose:
— Restate consolato, sarà fatto.
Giunse il giorno quindici; fino da mezzodì, gli assistenti avevano
dichiarato, che Lattanzio non avrebbe passato la giornata. Strana
infermità davvero! Non febbre, non doglia di capo, o di visceri;
ordinato il moto del cuore, ordinati i polsi, e con tutto questo la vita
gli scappava da tutti i pori; ei si disfaceva come la massa di metallo
se ne va in forfora sotto l'azione della lima. Gli occhi teneva fitti
nella parete opposta al letto, e moveva le labbra come se contasse; di
repente si scosse, ed accennato al prete, che si accostasse, domandò:
— Avete avvisato in tempo?
— Vi ripeto per la decima volta, che sì.
— E verrà?
— Verrà senz'altro... eccola se non erro.
E fu sentito strepito di carrozza, che si affretti.
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Çirattagı - Il destino: romanzo - 9
  • Büleklär
  • Il destino: romanzo - 1
    Süzlärneñ gomumi sanı 4613
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1865
    34.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    50.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 2
    Süzlärneñ gomumi sanı 4684
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1820
    35.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 3
    Süzlärneñ gomumi sanı 4669
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1835
    34.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    50.0 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 4
    Süzlärneñ gomumi sanı 4640
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1844
    37.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 5
    Süzlärneñ gomumi sanı 4638
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1875
    35.1 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 6
    Süzlärneñ gomumi sanı 4662
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1849
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  • Il destino: romanzo - 7
    Süzlärneñ gomumi sanı 4660
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1841
    35.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    51.1 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 8
    Süzlärneñ gomumi sanı 4583
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1873
    37.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Il destino: romanzo - 9
    Süzlärneñ gomumi sanı 456
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 300
    57.3 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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