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Annali d'Italia, vol. 1 - 50

Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Süzlärneñ gomumi sanı 4398
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1626
39.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
56.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
63.8 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
  Genziano, augure, console, proconsole della provincia di Lione_, e
  _conte_ (cioè consigliere ed assessore) _degl'imperatori Severo ed
  Antonino Caracalla_. Perciò il Relando[1622] diede tutti questi nomi a
  _Genziano_ console di questo anno. Io non mi sono attentato a
  seguirlo. Imperocchè Capitolino[1623] ci fa vedere sotto Pertinace
  _Lolliano Genziano consolare_, a cui verisimilmente appartiene il
  marmo gruteriano; nè questi può essere il console dell'anno presente,
  perchè sarebbe stato appellato _console per la seconda volta_. Perciò
  più sicuro partito reputo io il non proporre se non i loro indubitati
  cognomi. Di corta durata fu l'accordo stabilito coi Britanni barbari.
  Tornarono essi alle primiere insolenze; Severo tanto bollente di
  collera, fatte raunar le sue schiere, inumanamente comandò loro
  l'esterminio di que' popoli, senza perdonar neppure alle lor donne e
  fanciulli. Trovavasi già da qualche tempo esso Augusto indisposto di
  corpo, più pel crepacuore di mirare i presenti disordini di Caracalla
  e di presagirne dei più gravi, che per gli soliti suoi malori. Andò
  sempre più declinando la di lui sanità, in guisa che restò confinato
  in letto[1624]. Allora sì che il malvagio _Caracalla_ più che mai si
  diede a guadagnare gli animi de' soldati, per escludere, se potea, il
  fratello _Geta_ dal succedere nel comando. Studiossi ancora di
  accelerar la morte del padre, col corrompere quei medici che trovò
  privi di onore: e corse fama ancora, ch'egli aiutasse il male a
  sbrigarlo da questa vita. Si disse inoltre che Severo sugli estremi
  del vivere chiamati i figliuoli, gli esortò a camminar di concordia, e
  ad arricchire e tener ben contenti i soldati, senza poi far conto
  degli altri tutti[1625]. Diede egli fine ai suoi giorni nel dì 4 di
  febbraio dell'anno presente nella città di Jorch, in età di
  sessantacinque e quasi sei mesi. Al di lui corpo furono fatte solenni
  esequie da tutta la milizia, e le ceneri riposte in un'urna di porfido
  o pur d'oro. Se è vero ch'egli prima di morire, fattasi portar
  quell'urna, tastandola con le mani, dicesse: _In te capirà un uomo, a
  capir cui non era bastante tutto il mondo_, fu questo un vanto
  sconvenevole a chi era sull'orlo della vita senza essere per anche
  giunto a conoscere sè stesso. Fu poi portata quell'urna a Roma, e con
  grande onore posta nel mausoleo di Adriano, ed egli dalla stolta
  Gentiltà deificato. Ed ecco terminate le grandezze di _Settimio Severo
  imperadore_, che di bassa fortuna giunse al governo di un vastissimo
  impero, di mirabil penetrazion di mente, principe lodato anche
  all'eccesso pel suo raro valore, e per tante sue vittorie, implacabile
  verso chi cadeva dalla sua grazia, grato e liberale verso gli amici,
  amator delle lettere, avido del danaro che raccoglieva per tutte le
  vie, per ispenderlo poi non già per sè, poichè egli si contentava di
  poco, ma pel pubblico. Avea egli rifatte tutte le più insigni
  fabbriche di Roma[1626], con rimettervi il nome dei primi fondatori.
  Dione[1627] diversamente scrive ch'egli vi mise il suo. Altre
  fabbriche suntuose fece di pianta, e liberale fu verso il popolo, ma
  più verso i soldati; e pure con tante spese lasciò un gran tesoro in
  cassa ai figliuoli, tanto frumento ne' pubblici granai, che potea
  bastar per sette anni a mantener i soldati, e chi del popolo ricevea
  _gratis_ il grano, e tanto olio nei magazzini della repubblica, che
  per cinque anni potea soddisfare al bisogno, non dirò solamente di
  Roma, ma di tutta l'Italia. La sua rapacità nondimeno, e più la sua
  crudeltà guastarono ogni suo merito e pregio. E pure vennero tempi sì
  cattivi, che fu desiderato il suo governo, e si disse, come d'Augusto,
  che egli o non dovea mai nascere, o non mai morire. Sotto di lui
  fiorirono le lettere, e visse il maggiore dei _Filostrati_; e si crede
  che vivesse anche _Diogene Laerzio_, autore della bella opera delle
  Vite de' filosofi, oltre alcuni altri, de' quali abbiamo perduto i
  libri.
  Morto dunque Severo Augusto, _Marco Aurelio Antonino_ suo maggior
  figliuolo, soprannominato dipoi _Caracalla_, che si trovava
  all'armata, in tempo che i Britanni barbari aveano ricominciata la
  guerra[1628], marciò contra di loro, non già per disertarli, ma per
  mettere tal terrore in essi, che abbracciassero la pace, altra voglia
  non allignando in suo cuore, che quella di tornare il più presto
  possibile alle delizie di Roma. Stabilì dunque una pace, non quale si
  conveniva ad un romano imperadore, ma quale la prescrissero que'
  Barbari, con restituir loro il paese ceduto, ed abbandonare i luoghi
  fortificati dal padre. I suoi iniqui maneggi, perchè i soldati
  riconoscessero lui solo per imperadore ad esclusione di _Publio
  Settimio Geta_, suo minor fratello, dichiarato, siccome vedemmo,
  anch'esso _Imperadore Augusto_, non sortirono l'effetto ch'egli
  desiderava. Giurarono i soldati fedeltà all'uno e all'altro; e tanto
  si adoperò _Giulia Augusta_ lor madre, e tanto dissero i comuni amici,
  che i due fratelli si unirono insieme, in apparenza nondimeno;
  perciocchè Caracalla, il qual pure godea se non tutta l'autorità del
  comando, certamente la maggior parte, da gran tempo covava in cuore il
  maligno pensiero di voler sedere solo sul trono cesareo. Ma finchè
  Geta si trovò in mezzo all'esercito, che l'amava forte, non osò mai di
  levargli la vita. Abbiamo bensì da Dione[1629], ch'egli tolse a
  _Papiniano_ la carica di prefetto del pretorio, alzandolo forse al
  grado senatorio, e fece ammazzare _Evodo_ che era stato suo balio, ed
  avea prestato a lui grande aiuto per levar di vita Plauziano. Del pari
  tolse di vita _Castore_, che già vedemmo mastro di camera di suo
  padre. Mandò poscia ordini, perchè fosse uccisa _Plautilla_ sua
  moglie, e _Plauto_ o _Plauzio_ di lei fratello, relegati nell'isola di
  Lipari. Erodiano aggiugne che fece anche morir que' medici che non
  l'aveano voluto ubbidire per sollecitar la morte del padre; e molti
  altri ch'erano stati de' più cari ed onorati appresso il medesimo suo
  genitore. Con tali scene di crudeltà diede principio Caracalla al suo
  governo, e passato dipoi il mare colla madre, col fratello e
  coll'armata, accompagnato dai voti degli adulatori, sen venne a Roma,
  dove fu ricevuto con gran festa e solennità[1630], e rendè gli ultimi
  doveri alla memoria del padre. Vedesi descritto da Dione il
  solennissimo funerale e l'empia deificazion di Severo fatta allora. Io
  mi dispenso dall'entrarvi. Può il lettore informarsene ancora, se
  vuole, da Onofrio Panvinio[1631].
  NOTE:
  [1620] Panvin., in Fast. Consul.
  [1621] Gruterus, Thes. Inscr., pag. 304, n. 6.
  [1622] Reland., Fast. Cons.
  [1623] Capitolin., in Pertinace.
  [1624] Dio, lib. 76. Herodian., lib. 3.
  [1625] Aurelius Victor, in Epitome. Eutropius, in Breviario.
  [1626] Spartianus, in Sev.
  [1627] Dio, in Excerptis Vales.
  [1628] Herodian., lib. 3.
  [1629] Dio, lib. 76.
  [1630] Herodianus, lib. 4.
  [1631] Panvin., in Fast. Consul.
  
  
   Anno di CRISTO CCXII. Indizione V.
   ZEFIRINO papa 16.
   CARACALLA imperad. 15 e 2.
  _Consoli_
  CAIO GIULIO ASPRO per la seconda volta e CAJO GIULIO ASPRO.
  
  Erano fratelli questi due consoli, e, per attestato di Dione[1632],
  figliuoli di _Giuliano Aspro_, personaggio pel suo sapere e per la
  grandezza d'animo assai rinomato, e tanto amato da Caracalla, che
  tanto egli che i suoi figliuoli furono esaltati da lui a' primi onori.
  Ma poca sussistenza ebbe il favore di questo bestiale Augusto.
  _Giuliano_ da qui a non molto fu vituperosamente cacciato fuori di
  Roma ed obbligato a tornarsene alla sua patria. Un'iscrizione
  pubblicata dal Fabretti[1633] ci fa vedere che sì l'un come l'altro
  portava il nome di _Cajo Giulio Aspro_: cosa nondimeno assai rara, e
  Dio sa se vera, non veggendosi distinto per alcun segno, come si
  usava, l'uno dallo altro. Nel viaggio a Roma dei due fratelli Augusti,
  _Caracalla_ e _Geta_, diede negli occhi ad ognuno la comune lor
  diffidenza e discordia, perchè non alloggiavano mai nè mangiavano
  insieme; temendo cadaun d'essi di veleno. Più visibile riuscì poi in
  Roma il lor contraggenio, anzi l'odio vicendevole che l'un covava
  contro dell'altro, quantunque Geta, giovane di miglior cuore,
  solamente per necessità stesse in guardia, perchè assai persuaso del
  cuor fellone di suo fratello[1634]. Questa fiera diffidenza cagion fu
  ch'essi fecero due parti del palazzo cesareo, per istar ben separati
  l'uno dall'altro, con far chiudere le porte frapposte fra i loro
  appartamenti, e tenendo solamente aperte quelle delle sale, dove
  amendue davano pubblica udienza. Nè già ad alcun d'essi mancava veruna
  delle comodità, perchè il palazzo imperiale era più vasto, se Erodiano
  dice il vero, del resto di Roma stessa: il che un gran dire a me
  sembra, e nol so digerire. Andò tanto innanzi questa contrarietà e
  mutola guerra fraterna, che ognun d'essi s'ingegnava di tirar più
  gente nel suo partito; nel che Geta avea più destrezza e fortuna,
  perchè generalmente più amato che l'altro, a cagion d'essere giovane
  placido, cortese verso tutti, in una parola assai diverso dal barbaro
  suo fratello. Cadauno intanto volle la sua guardia separata,
  lasciandosi vedere di rado insieme, e questo nelle sole pubbliche
  funzioni. Fu dunque proposto da qualche amico e consigliere, per
  prevenir maggiori disordini, che si dividesse fra loro l'imperio.
  Erano come d'accordo i due fratelli su questo. Contentavasi Geta di
  aver in sua parte l'Asia, la Soria e l'Egitto, lasciando tutto il
  resto nell'Europa e nell'Africa al fratello, con pensiero di mettere
  la sua residenza o in Antiochia o in Alessandria, città che allora
  poteano gareggiare in grandezza con Roma. I senatori di nazione
  europea resterebbono in Roma; gli altri potrebbono seguitar Geta. Nel
  consiglio degli amici del padre, e alla presenza di _Giulia Augusta_
  lor madre, spiegarono i due Augusti questa loro risoluzione. Con
  ribrezzo e con gli occhi fitti nel suolo ciascuno gli ascoltò, nè
  alcuno osava di aprir bocca, quando saltò su Giulia, e pateticamente
  loro parlò dicendo, _che potrebbono ben partire gli Stati, ma come poi
  partirebbono fra loro la madre?_ e qui con singhiozzi e con lagrime li
  pregò di piuttosto uccidere lei, che di lasciarla sopravvivere a
  questo sì lagrimevole spettacolo. Correndo poi ad abbracciarli
  teneramente amendue, gli scongiurò di vivere uniti in pace. Questo
  bastò perchè anche gli altri disapprovassero un tal fatto, troppo
  orrore sentendo ciascuno all'udire che s'avesse a dividere, e per
  conseguente da indebolir cotanto il romano imperio. Però nulla se ne
  fece.
  Ma le dissensioni, le gare e i sospetti andarono sempre più crescendo,
  ed ognun d'essi fratelli pensava alla maniera di opprimere
  l'altro[1635]. Venne in mente a Caracalla di sbrigarsi di Geta nelle
  feste Saturnali dell'anno presente, perchè in esse una gran licenza si
  concedeva agli schiavi; ma perchè ebbe paura che troppo pubblico fosse
  il misfatto, se ne astenne. Tutte le strade ch'egli andò meditando,
  parendogli sempre pericolose, perchè Geta stava molto bene in guardia,
  ed era ben voluto, massimamente dai soldati, dai quali, siccome anche
  da buon numero di gladiatori, veniva custodito, prese in fine il
  partito di valersi dell'inganno, che che gliene potesse avvenire. Fece
  dunque credere a Giulia sua madre di volersi riconciliar da dovero col
  fratello, e che si abboccherebbe con lui nella di lei camera segreta.
  Chiamato Geta dalla madre, buonamente corse colà. Quando fu dentro,
  secondo Erodiano[1636], lo stesso Caracalla di sua man lo scannò.
  Dione[1637], che scrive i fatti de' suoi giorni, confessa che
  Caracalla dipoi consacrò a Serapide la spada con cui avea ucciso il
  fratello; ma con aggiugnere che sbucarono fuori alcuni centurioni, già
  messi da Caracalla in agguato, che gli si avventarono anch'essi coi
  ferri nudi addosso. Altro non potè fare l'infelice giovane, che
  correre ad abbracciare strettamente l'atterrita Giulia, gridando:
  _Mamma, mamma, aiutatemi, che mi ammazzano._ L'ammazzarono in fatti
  nel seno dell'ingannata madre, che restò tutta coperta del sangue del
  misero figlio, e ne riportò anch'essa una ferita nella mano, per
  averla stesa affin di trattener que' colpi. Questo fu il miserabil
  fine di _Geta Augusto_, nell'età sua di ventidue anni e nove mesi,
  probabilmente negli ultimi giorni di febbraio, o pur ne' primi di
  marzo, essendo egli nato nell'anno 189 della nostr'Era. Erodiano non
  men che Sparziano[1638] cel descrivono per giovane non esente già da
  difetti, ma pure alieno dalla crudeltà, amabile, e che teneva a mente
  tutti i buoni documenti del padre. L'indegno Caracalla, dopo così
  enorme misfatto, corse qua e là pel palazzo, facendo lo
  spaventato[1639], e gridando di essere scampato dal più gran pericolo
  del mondo, e fingendo di non tenersi sicuro ivi, a gran passi (ed era
  la sera) marciò verso il quartiere de' pretoriani. I soldati, che
  erano di guardia del palazzo, non sapendo come fosse l'affare, gli
  tennero dietro anch'essi, passando per mezzo alla città con ispargere
  un gravissimo terrore fra il popolo, che non intendeva il soggetto di
  tanto rumore. Allorchè arrivò Caracalla alla fortezza de' pretoriani,
  andò diritto al luogo, dove stavano le insegne e gl'idoletti loro,
  fatto a guisa di cappella; e quivi prostrato a terra, fece vista di
  ringraziar il cielo che gli avesse salvata la vita. Corsero colà tutti
  i soldati, ansiosi di sapere che novità era quella; ed egli sempre
  parlando con parole ambigue di pericoli, d'insidie a lui tese, a poco
  a poco finalmente arrivò a far loro intendere che non aveano più se
  non un padrone. Poscia, per amicarseli, promise loro un regalo di
  duemila e cinquecento dracme per testa, e la metà di più del grano
  solito darsi loro: di maniera che in un sol dì egli dissipò tutti i
  tesori ammassati in diciotto anni colla crudeltà e rapacità da suo
  padre. Permise anche ai soldati di andare a spogliar vari templi delle
  cose preziose. Tanta prodigalità di Caracalla, ancorchè si venisse da
  lì a poco a scoprire il fratricidio, quetò gli animi di coloro, che
  non solamente proclamarono lui _Imperadore_, ma dichiararono nemico
  pubblico l'estinto Geta.
  Fermossi tutta la notte Caracalla nel campo dei pretoriani[1640], e la
  mattina seguente accompagnato da tutto l'esercito in armi più del
  solito, portando egli stesso la corazza sotto le vesti, si portò al
  senato, facendovi anche entrare parecchi soldati con volere che
  sedessero. Parlò delle insidie in varie guise a lui tese dal nemico
  fratello, da cui anche ultimamente poco era mancato che non fosse
  stato ucciso a tradimento; ma che egli, in difendendo sè stesso, aveva
  ammazzato l'altro. Se crediamo ad Erodiano[1641], parlò anche con
  asprezza e volto fiero contro gli amici di Geta. Dione[1642] nol dice,
  e nè pure Sparziano. Amendue bensì attestano, che all'uscir della
  curia rivolto a senatori: _Ascoltate_, disse, _una cosa che rallegrerà
  tutto il mondo. Io fo grazia a tutti i banditi e relegati nelle
  isole._ Con che egli venne a riempiere Roma di scellerati e
  malviventi, per poi popolar quelle medesime isole di persone
  innocenti. Tornossene Caracalla dal senato al palazzo, accompagnato di
  qua e di là da _Papiniano_ e da _Fabio Cilone_, che gli davano di
  braccio, e sembravano due suoi cari fratelli, ma per far in breve
  un'altra ben diversa figura. Comandò poi che al cadavero dell'ucciso
  Geta fosse fatto un solenne funerale[1643], e che gli fosse data
  sepoltura nel sepolcro dei Settimii nella via Appia. Di là fu poi esso
  trasportato nel mausoleo di Adriano. Che egli allora fosse deificato,
  lo scrive taluno, ma non se ne trovano sufficienti prove. Tutto ciò
  fece Caracalla per isminuir, se poteva, l'universale odiosità che egli
  s'era tirata addosso con sì nero misfatto. Non istarò io qui a
  raccontare i presagii della morte violenta di Geta, che Sparziano,
  fecondo di tali osservazioni, poco per lo più degne di fede, lasciò
  scritti. Dirò bensì che Dio anche in vita punì Caracalla, perchè egli
  ebbe sempre davanti agli occhi l'orrido aspetto del fratello
  svenato[1644], e dormendo se gli presentavano sempre, degli oggetti
  spaventevoli, e pareagli di vedere or esso suo fratello, ed ora il
  padre, che colla spada sguainata gli venivano alla vita. Scrive Dione,
  che, per trovar rimedio a questo interno flagello, ricorse fino alla
  magia, e che gli comparvero l'ombre di molti, fra le quali solamente
  quella di Commodo gli disse: _Va, che t'aspetta il patibolo._ Ne creda
  il lettor quel che vuole. Certo è bensì che questi tetri fantasmi gli
  guastarono a poco a poco la fantasia, talmente che il vedremo furioso.
  Ed egli non mancò di visitar i templi de' suoi dii, dovunque egli
  andava, e di mandarvi dei doni per quetar pure tante interne
  agitazioni; ma tutto fu indarno. Il bello era[1645] che non udiva mai
  ricordarsi il nome di Geta, non ne mirava mai il ritratto, o le statue
  di lui, che non gli venissero le lagrime agli occhi. Ma o egli fingeva
  questo dolore, o pur egli ad ogni soffio di vento mutava affetti e
  voleri. Io mi riserbo di parlare all'anno seguente dell'incredibil sua
  crudeltà contro la memoria del fratello, benchè più propriamente
  appartengano al presente anno tutte quelle sue barbare azioni. E qui
  dirò unicamente ch'egli fece rompere tutte le statue di lui, ed anche
  fondere la moneta, dove era il suo nome.
  NOTE:
  [1632] Dio, in Excerpt. Valesianis.
  [1633] Fabretti, Inscript., pag. 494.
  [1634] Herodianus, lib. 4.
  [1635] Dio, lib. 77.
  [1636] Herodian., lib. 4.
  [1637] Dio, lib. 78.
  [1638] Spart., in Geta.
  [1639] Herod., lib. 4. Dio, lib. 78.
  [1640] Spartianus, in Caracalla.
  [1641] Herodian., lib. 4.
  [1642] Dio, lib. 77.
  [1643] Spartianus, in Geta.
  [1644] Dio, in Excerpt. Valesianis.
  [1645] Spartianus, in Geta.
  
  
   Anno di CRISTO CCXIII. Indizione VI.
   ZEFIRINO papa 17.
   CARACALLA imperad. 16 e 3.
  _Consoli_
  MARCO AURELIO ANTONINO CARACALLA AUGUSTO per la quarta volta e DECIMO
  CELIO BALBINO per la seconda.
  
  Per alcune ragioni da me altrove[1646] accennate, sufficiente motivo
  abbiamo di dubitare se il secondo console fosse _Balbino_ o pure
  _Albino_. Che _Marco Antonino Gordiano_, il qual fu poi imperadore,
  venisse nel presente anno sostituito console a Balbino, pare che si
  ricavi da Capitolino[1647]. Ma un'iscrizione scorretta del
  Grutero[1648] ci fa veder Balbino tuttavia console nel dì 3 di
  novembre; e però resta dubbiosa la cosa. Che _Elvio Pertinace_,
  figliuolo del fu Pertinace Augusto, fosse anch'egli promosso in
  quest'anno al consolato, come stimarono il Panvinio[1649] e il
  Relando[1650], molto più dubbioso, per non dir falso, a me comparisce.
  Debbo io qui ora accennare le immense crudeltà esercitate dall'inumano
  Caracalla nel precedente anno, e parte ancora in questo; ma quasi mi
  cade di mano la penna per l'orrore: tanto fu il sangue innocente
  sparso da quel mostro Augusto. Vanno concordi gli antichi
  storici[1651] in asserire ch'egli sfogò la bestiale sua rabbia contro
  chiunque era stato o domestico o amico o in qualsivoglia maniera
  parziale allo ucciso fratello. Quanti nella numerosa corte di esso
  Geta, o liberti, o schiavi, o cortigiani d'altra specie, si trovarono,
  tutti furono messi a fil di spada; nè si perdonò a donne e fanciulli.
  Fino gli atleti, gl'istrioni, i gladiatori e qualunque altra persona
  che avesse servito al divertimento degli occhi o degli orecchi di
  Geta, e fin que' soldati che stettero alla sua guardia, perderono la
  vita. Questo macello si andava facendo di notte, e, venuto il dì, si
  portavano i lor cadaveri fuori della città. Dione conta venti mila
  persone sacrificate in questa maniera dal furore tirannico di
  Caracalla. Sparziano aggiugne che furono innumerabili. Bastava che
  s'indicasse un qualche filo di attaccamento avuto con Geta, vero o
  falso che fosse, perchè si desse la sentenza di morte. Nè i suoi
  fulmini si fermarono senza percuotere anche l'alte torri. Era in que'
  tempi riputato l'arca del sapere legale il celebre _Papiniano_, stato
  già prefetto del pretorio, verso il quale poco fa vedemmo usate tante
  finezze da Caracalla. Non altro reato di lui si trovava che il
  glorioso di aver fatto il possibile per rimettere la concordia fra i
  due fratelli Augusti. V'ha nondimeno chi scrive[1652], esser egli
  caduto in disgrazia di Caracalla, perchè, chiestagli un'orazione da
  recitare in senato per sua discolpa, egli generosamente rispondesse
  _che non era tanto facile lo scusare un fratricidio, come il
  commetterlo; ed essere un secondo delitto l'accusare un innocente,
  dopo avergli tolta la vita_. Sparziano[1653] crede ciò un sogno de'
  politici. Fuori bensì di dubbio è che Papiniano fu ammazzato per
  ordine di Caracalla, il qual poi riprese l'uccisore, perchè,
  nell'ucciderlo, si fosse servito della scure in vece della spada,
  strumento di morte riservato per la gente nobile. Un figliuolo di esso
  Papiniano, che era allora questore, e tre giorni prima avea fatto
  grande spesa in alcuni magnifici spettacoli, fu anch'egli tolto dal
  mondo. Abbiam veduto ancora _Lucio Fabio Cilone_, stato due volte
  console e prefetto di Roma, in auge di gran credito e fortuna.
  Caracalla il chiamava suo padre, perchè lo avea avuto per suo aio in
  gioventù; era anche creduto il suo braccio diritto; ma niun si potea
  fidare del capo stravolto di un tale imperadore[1654]. Perchè
  anch'egli avea persuasa l'union de' fratelli, Caracalla mandò un
  tribuno con alcuni soldati per tagliargli il capo. Costoro nol
  trovarono tosto; e si perderono a svaligiar le argenterie, i danari e
  gli altri preziosi mobili delle sue stanze. Coltolo poi al bagno, così
  com'era in camicia e in pianelle, il menarono per mezzo la città con
  disegno di ucciderlo nel palazzo, maltrattandolo intanto con pugni sul
  viso per la strada. La plebe e i soldati della città, al vedere in sì
  compassionevole stato un personaggio di tanta stima, alzarono un gran
  rumore e fecero sedizione. Avvisatone Caracalla, per quietare il
  tumulto, avendo paura di peggio, gli venne incontro, e, cavatasi la
  sopravveste militare, la pose indosso al quasi nudo Cilone, gridando:
  _Lasciate stare mio padre; non vogliate toccare il mio aio._ Fece poi
  morire quel tribuno co' soldati ch'erano iti per ucciderlo, fingendoli
  rei, per avere insidiato alla vita di un sì degno personaggio, ma con
  essersi comunemente creduto che li gastigasse per non averlo ucciso.
  Di altri nobili e senatori uccisi parlano Dione, Erodiano e Sparziano,
  facendone un fascio; ma verisimilmente non tulle quelle stragi
  appartengono ai due suoi primi anni. E qui non si dee tacer quella di
  _Quinto Sereno Sammonico_, uno de' più insigni letterati uomini di
  questi tempi, compositore di moltissimi libri, che son quasi tutti
  periti[1655], e che possedeva una biblioteca di sessantadue mila
  volumi, donati poi da suo figliuolo al secondo dei Giordani Augusti.
  Forse perchè Geta si dilettava forte della lettura dei di lui libri,
  Caracalla la prese con lui. Si trovava l'infelice Sammonico a cena
  quando gli arrivarono i sicarii che gli spiccarono la testa dal busto.
  NOTE:
  [1646] Thesaur. Novus Inscript., pag. 356.
  [1647] Capitol., in Giordano.
  [1648] Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 44, n. 2.
  [1649] Panvin., in Fastis Cons.
  [1650] Reland., in Fastis Consular.
  [1651] Dio, lib. 77. Herodianus, lib. 4. Spartianus, in Caracalla.
  [1652] Zosimus., Histor., lib. 1.
  [1653] Spartianus, in Caracalla.
  [1654] Spartianus, in Caracalla. Dio, lib. 77.
  [1655] Spartianus, in Caracalla. Capitolinus, in Giordano.
  
  
   Anno di CRISTO CCXIV. Indizione VII.
   ZEFIRINO papa 18.
   CARACALLA imperad. 17 e 4.
  _Consoli_
  MESSALLA e SABINO.
  
  Non è certo, come vuole il Relando[1656], che _Messalla_ portasse il
  nome di _Silio_; nè questi potè essere quel _Silia Messalla_ che Dione
  mette console nell'anno 193 sotto Giuliano, perchè sarebbe appellato
  console _per la seconda volta_. Tornando ora a Caracalla, volle egli,
  non so ben dire se in questo o nel precedente anno, rallegrare il
  popolo romano con degli spettacoli[1657], cioè con cacce di fiere,
  combattimenti di gladiatori e corse di cavalli. Ma quivi ancora ebbe
  luogo la sua crudeltà, mostrando il suo piacere nel vedere i
  gladiatori scannarsi l'un l'altro. Si sa[1658] che, quando egli era
  fanciullo, pareva così inclinato alla clemenza, che non si poteva
  immaginare di più; perchè, vedendo uomini esposti alle fiere, si
  metteva a piangere, e voltava il viso altrove. E un dì, perchè uno de'
  fanciulli che giocavano seco fu aspramente battuto, per essersi
  scoperto attaccato alla religion giudaica (probabilmente vuoi dire
  Sparziano la cristiana), egli non guardò mai più di buon occhio il
  padre di esso fanciullo, o pur colui che l'avea sferzato. Ma, fatto
  grande, cangiò ben costumi e natura, e sua delizia divenne lo
  spargimento e la vista del sangue. Fra gli altri gladiatori che in
  que' giuochi perirono, uno fu Batone, forzato da lui a combattere
  nello stesso dì con tre altri di fila. Restò egli ucciso dall'ultimo,
  ma ebbe la consolazione che il pazzo imperadore gli fece una magnifica
  sepoltura. Un altro di essi gladiatori, appellato Alessandro, gli fu
  sì caro, che a lui innalzò molte statue in Roma ed altrove. Nelle
  corse poi dei cavalli, perchè alcuni del popolo dissero qualche burla
  contro ad uno de' carrettieri da lui favoriti, ordinò a tutti i
  soldati di ammazzar chiunque avea parlato. Non conoscendosi i rei di
  questo gran delitto, restarono molti innocenti uccisi, e gli altri con
  denari riscattarono la lor vita. Ma perciocchè Roma era divenuta per
  lui un teatro di nere immaginazioni, se ne partì Caracalla, non già
  nel precedente, ma nel presente anno, perchè si ha una sua legge[1659]
  data in Roma nel dì 5 di febbraio. Prese il pretesto di visitar le
  provincie, e di levar dall'ozio le milizie[1660]. Andò nella Gallia,
  ed appena arrivato colà, fece morir il proconsole della provincia
  narbonese, sconvolse tutti quei popoli, guastò i privilegii delle
  città, e si comperò l'odio di ognuno. Ammalatosi quivi, guarì, e
  trattò poi crudelmente que' medici che l'aveano curato. Di là passò
  nella Germania. Che prodezze egli facesse in quelle parti, non è ben
  noto. Scrive Sparziano ch'egli verso la Rezia ammazzò molti Barbari, e
  soggiogò i Germani. Certo è[1661] che una specie di guerra fu da lui
  fatta contra dei Catti e degli Alemanni o Alamanni, il nome de' quali
  si comincia ad udire in questi tempi. Se crediamo ad Erodiano[1662],
  fece Caracalla una bellissima figura fra i suoi soldati, perchè andava
  vestito da fantaccino, era de' primi ad alzar terreno, a far ponte,
  marciava a piedi coll'armi, mangiava poveramente al pari di essi, con
  altre simili scene di bravura. Dione[1663] confessa anch'egli che la
  funzion di soldato seppe farla, fingendo nondimeno più di quel che
  era; ma non già quella di generale; e ch'egli in quella spedizione si
  fece assai ridere dietro dai popoli della Germania. Venivano i lor
  deputati fin dall'Elba per dimandar pace, ma nello stesso tempo
  dimandavano danaro; e Caracalla, dopo aver fatta qualche rodomontata,
  li pagava bene, ed accordava loro delle pensioni, comperando a questo
  prezzo la loro amicizia. Anzi si cominciò ad affratellar cotanto con
  loro, che si vestiva alla lor moda, portava parrucca bionda, per
  assomigliar i loro capelli, e venne fino ad arrolar nelle sue schiere,
  ed anche nelle sue guardie, moltissimi di loro, con fidarsi da lì
  innanzi più di essi che dei soldati romani. Trattava anche in segreto
  alle volte con quei deputati, non essendovi presenti che
  gl'interpreti, a' quali fece poi levar la vita, affinchè non
  rivelassero le sue conferenze. In somma, o per diritto o per rovescio,
  tanto egli fece, che prese il titolo di _Germanico_, il quale comincia
  a vedersi nelle monete[1664] di questi tempi. Truovasi anche appellato
  _Imperadore per la terza volta_, che non dà un sicuro indizio di
  vittoria, trattandosi di questo general da commedia.
  NOTE:
  [1656] Reland., Fast. Cons.
  [1657] Herod., lib. 4. Dio, lib. 77.
  [1658] Spartianus, in Caracalla.
  [1659] L. Si hi quos servos., C. de libera causa.
  [1660] Spartianus, in Caracalla.
  
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Çirattagı - Annali d'Italia, vol. 1 - 51