La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 04
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ancora più animatamente alcune parole all’ufficiale d’ordinanza, e
l’ufficiale, facendo atti di collerica minaccia, uscì impetuosamente
dal palchetto.
Evidentemente da quel Giove in miniatura del duca era partito il
fulmine, portato da quell’aquila d’ufficiale. Il giovane della platea,
incrociate le braccia al petto, gli occhi sempre fissi sul palchetto
dove era il principe, stette tranquillamente ad aspettare lo scroscio.
X.
Il fulmine non tardò a colpire, e fu sotto forma di un brigadiere de’
gendarmi, più irsuto, più burbero, più tracotante che il solito, il
quale, aprendosi il passo a spallate fra la gente, venne dritto alla
volta del giovane forestiero.
— Signore: — gli disse con una vociaccia burbera e sopracciglia
fieramente corrugate: — lei venga fuori!
Il vicino d’Alfredo, che aveva visto accostarsi il brigadiere sempre
colla medesima placidezza e tranquillità, rispose tranquillamente,
senza scomporsi menomamente e senza smettere il suo fine sorriso
ironico:
— Io? Vi assicuro che non ho nessun desiderio di muovermi, che ho
pagato il mio biglietto d’ingresso, e che perciò ho diritto di godermi
tutto lo spettacolo, e quindi se non mi dimostrate con e per quale
autorità voi mi volete allontanare, io non faccio neanche un passo.
E si appoggiò con tutte due le spalle alla parete su cui si alzava il
parapetto delle loggie del prim’ordine.
La venuta del brigadiere e l’intimazione da costui fatta con voce
abbastanza alta al giovane forestiero, avevano attirato l’attenzione
della folla circostante su quella scena, e in un attimo tutto il
teatro e tutti i vicini, e per la prepotenza del fatto, e per la calma
dignitosa dell’uomo oltraggiato in quella guisa, davano non dubbi segni
di simpatia verso il forestiero e di disapprovazione alla condotta
del brigadiere e di chi lo faceva agire. Più di tutti il nostro
Alfredo sentivasi tratto a simpatizzare con quel giovane, il quale si
manteneva, in mezzo allo sdegno che doveva provare, così calmo, così
dignitoso, così superiore.
— Meno parole: — rispose ancora più brusco il brigadiere che si sapeva
guardato dal palchetto dov’erano il principe e il colonnello Anviti. —
Venga subito, altrimenti sarò costretto ad usare la forza.
— Va bene! — disse il giovane, sempre tranquillo, sempre sorridente. —
Ecco almeno una ragione che per voi può parer buona. Vi domando in nome
di quale autorità e con qual diritto voi procedete, e voi mi rispondete
che userete la forza.... A questa mi sottopongo; protesto, ma mi
sottopongo.
— Presto! — gridò il gendarme. — Finisca le chiacchere.... Avanti,
_marche_!
— Un momento, mio gentile brigadiere; uscendo di qua, sarò libero di
andarmene dove voglio o avrò ancora la vostra amabile compagnia?
— L’accompagnerò dal Direttore di Polizia.
— Bene! Una visita piacevolissima. Oh che belle sorprese capitano nella
felicissima Parma!...
— Silenzio!... Avanti, le ho già detto....
— _Marche!_ — suggerì il forestiero ridendo e avviandosi. — Andiamo
pure a far la conoscenza del signor Direttore di Polizia; ma ripeto
innanzi a tutti questi signori che protesto.
— Zitto! le ripeto: — gridò il brigadiere e allungò la mano per
afferrare il braccio del giovane.
Questi si fece indietro d’un balzo.
— Ah _fi donc_! — esclamò. — Non mi toccate!
Ebbe un aspetto di tanta fierezza, di sì sdegnoso orgoglio, di
imponente autorità, che il brigadiere, alto, grosso, forte, rozzo,
tracotante, lasciò cader la mano e chinò gli occhi innanzi a quel
giovane piccolo, mingherlino, dall’aspetto delicato e gentile.
Siccome nello scostarsi vivamente dal gendarme il forestiero aveva
dato una pestata ai piedi d’un signore che gli stava di dietro, egli si
volse e disse colla più squisita cortesia d’un gentiluomo elegante:
— _Pardon!_
Colui al quale aveva pestato i piedi era il conte di Camporolle.
— Nulla di male: — rispose Alfredo: — e se lei mi permette, io mi
prenderò la libertà di accompagnarla dal Direttore di Polizia: e potrò
attestare colà l’illegale modo con cui si è proceduto verso di lei.
— Ella mi fa un insigne favore: — disse il giovane piemontese: — ma non
vorrei che ciò avesse da comprometterla e farle avere dei dispiaceri,
degl’incomodi o dei pericoli.
Alfredo scosse le spalle in un modo che piacque dimolto all’altro,
perchè gli prese la mano e gliela strinse forte, soggiungendo
vivamente:
— La ringrazio ed accetto.
Uscirono insieme dietro i passi del gendarme i due giovani,
accompagnati da un susurro pieno di simpatia di tutti i circostanti;
e molti di questi li seguirono fin nell’atrio; ma là alcuni gendarmi
appostati, ad un cenno del brigadiere fecero stare indietro, anzi
ricacciarono dentro la platea, tutti i curiosi.
Venendo fuori dal teatro i due giovani di conserva, il piemontese disse
al compagno:
— Almeno che lei sappia verso chi si dimostra così generosamente
gentile, e io a chi vado debitore di sì coraggiosa prova di cortesia.
Trasse di tasca un elegante portafogli e, levatane una polizzina di
visita, la porse ad Alfredo, il quale fu lesto a contraccambiarlo.
Nella cartolina del piemontese, sotto una corona di conte, stava
scritto: ERNESTO SANGRÉ DI VALNEVE, _luogotenente del 1º Reggimento
Guardie_.
I due giovani lessero a vicenda le rispettive polizzine e poi si
scambiarono un amichevole saluto col capo.
— Conte di Camporolle: — disse l’uno: — mi auguro che si presenti
l’occasione di renderle un pari servizio da amico.
— Conte di Valneve: — rispose l’altro: — sono lieto che l’occasione
m’abbia recato la fortuna di fare la sua conoscenza.
Arrivarono sollecitamente al cospetto del Direttore di Polizia,
il quale, dicerto già preavvisato, li aspettava seduto alla sua
scrivania, una lampada innanzi a sè con una ventola disposta in modo
che rifletteva tutta la luce sulla faccia delle persone che gli si
presentavano e lasciava lui perfettamente nell’ombra. Pur tuttavia
Alfredo riconobbe la poco simpatica persona del famoso Pancrazi.
— Il suo nome, signore? — domandò egli bruscamente, appena i due
giovani gli comparvero innanzi.
L’ufficiale piemontese pronunziò chiaramente e spiccatamente il suo.
Alfredo disse a sua volta:
— Credo che lei mi riconosce...
— A lei non ho mica domandato nulla: — interruppe burbero il
poliziotto. — Sì, la riconosco e mi stupisco di vederla qui, lei che
non ci ha nulla da fare.
— Io era vicino al conte di Valneve, — soggiunse con qualche calore il
Camporolle, — quando egli ebbe l’inqualificabile intimazione...
— Sarà inqualificabile per lei: — interruppe di nuovo il Pancrazi: — ma
nessuno qui a lei domandò i suoi apprezzamenti, e creda a me che Ella
non ha diritto, nè la convenienza di darli.
— Mio caro signore, — disse gentilmente il conte di Valneve, — Ella ha
già fatto fin troppo per me e non voglia procacciarsi altri fastidi. Il
signor Direttore della Polizia riconoscerà subito il deplorevole errore
commesso dai suoi subalterni a mio riguardo, si affretterà a farmi
delle scuse da quel gentiluomo che è ed a lasciarmi in libertà.
— Lei crede? — disse il Pancrazi impassibile nell’oscurità mandata
dalla ventola. — Il conte di Camporolle, se ha la curiosità di
assistere al colloquio che ho l’onore d’avere con lei, è padrone;
lo conosco abbastanza per lasciargli procurarsi questa magra
soddisfazione; ma fra noi due, signor conte di Valneve, la cosa non
sarà tanto liscia e di quella guisa come lei crede.
— Mi permetta, signor Pancrazi: — saltò su Alfredo: — ma come
testimonio al fatto, posso proprio attestare che il conte non ha
avuto il menomo torto, che mentre era tranquillo ad assistere allo
spettacolo...
— Signor conte di Camporolle — interruppe il Direttore di Polizia:
— Io ho avuto per lei delle raccomandazioni tali che mi impongono la
maggiore considerazione e il maggiore interessamento in suo vantaggio;
ma mi trovo pure obbligato a ripeterle che in questo fatto Ella non
c’entra, e il _meglio per lei sotto tutti i riguardi_ — pronunziò assai
spiccatamente queste parole — è di non entrarci per l’affatto.
E poi voltosi al piemontese di nuovo:
— Lei ha il suo passaporto in regola?
— Ho già avuto il piacere di mostrarlo cinque o sei volte a vari agenti
della Autorità ducale: — rispose il conte di Valneve colla sua ironica
affettazione e gentilezza.
— Ebbene, abbia ancora una volta questo piacere mostrandolo a me: —
proruppe burbero il Direttore di Polizia.
L’ufficiale piemontese trasse lentamente di tasca la carta e la porse
con un atto di sprezzosa noncuranza al poliziotto.
Questi vi gettò appena sopra un’occhiata e disse:
— Non va, non va.
— Come non va? — esclamò il conte di Valneve. — Vuol dire che non
sapevano quel che si facevano i vostri subalterni che lo esaminarono!
— Lei ha un modo di parlare molto acconcio a compromettere la sua causa.
— La mia causa?... Ma che causa? Io non ho causa di sorta nè con
lei, nè con nessuno di qui. Sono un ufficiale del Re di Sardegna di
passaggio in questa città, al quale mi stupisco che si osi dare di
queste molestie.
— Le molestie, come osa dire lei, poteva risparmiarsele non venendo.
— Bravo! — esclamò con un’ironia piena di scherno il giovane piemontese.
— E le saranno subito finite — riprese con collera il Pancrazi — perchè
lei domani se ne partirà.
— Davvero?
— Sì signore.
— E perchè?
— Perchè questo suo passaporto non è stato vidimato dall’agente
consolare di Parma a Milano, donde Ella viene.
— E se non parto?
— La faremo accompagnare alla frontiera dai gendarmi.
— Bellissimo modo per ottenere quel che si vuole.... Ci penserò fino
a domani, poichè non dev’essere che allora la mia partenza, secondo
le buone vostre intenzioni. E ora, spero, che mi lascierete andare in
libertà.
— La lascio andare alla sua locanda a dormire.
— Grazie della generosità.
— Le proibisco assolutamente di rimetter piede in teatro.
— Che peccato! È l’unico posto dove avrei voluto andare.... Pazienza!
Ci rinunzio.... Andremo a cena; non è vero conte di Camporolle?
E senza fare il menomo atto di saluto, prese il braccio di Alfredo ed
uscì. Il Direttore di Polizia mandò dietro ai due giovani uno sguardo
acuto e quasi soddisfatto.
— La Zoe sarà contenta: — mormorò fra sè, e si mise con tutta
attenzione ad esaminare un monte di carte che aveva dinanzi.
XI.
Ernesto di Valneve, uscito dall’uffizio di Polizia a braccetto con
Alfredo di Camporolle, quando furono un poco allontanati dal portone
innanzi a cui passeggiava la sentinella, disse al suo compagno:
— È per lei un sacrifizio il non tornar più a teatro?
— Niente affatto, — rispose Alfredo. — Anzi volevo già partirmene.
— Sarei indiscreto, la torrei a qualche occupazione o ritrovo, se la
pregassi di favorirmi della sua compagnia per un’ora o due questa sera?
— Niente affatto, — rispose con cordiale sollecitudine Alfredo: — anzi
le dirò che mi rende un vero e gradito servizio. Io aveva appunto
da studiare il modo di occupare il mio tempo sino all’una dopo la
mezzanotte.
— Ebbene, allora cominciamo per far quello che abbiamo detto a quel
gufo di Direttore della Polizia: andiamo a cena; là, e forse soltanto
là, potremo discorrere un po’ liberamente. Vede quelle ombre che
rasentano il muro laggiù? Sono spie che il Direttore di Polizia ci ha
messo alle costole per sapere i nostri fatti e i nostri discorsi, e
io ho gran bisogno di tenere celati a lui e ai pari suoi gli uni e gli
altri... Non già, — soggiunse vivamente con una uscita di franco buon
umore, — ch’io voglia commettere qualche delitto... ma qualche cosa
voglio fare, per cui ho bisogno anche della complicità di qualcheduno.
— Eccomi a Lei, se io le posso servire: — disse Alfredo.
— Sicuro! Ed è proprio la mia buona sorte che mi fece incontrare così
gentile e simpatica persona.
Giunsero alla locanda dove era alloggiato il conte di Valneve, e questi
ordinò si portasse loro da cena nella propria camera. Non c’è nulla che
accomuni di più due giovani della medesima condizione, delle medesime
abitudini, i quali sieno già l’uno all’altro simpatici, che un pasto
di questa fatta fronte a fronte, in tutta libertà, con buone vivande e
vini squisiti. Alle frutta i due conti erano amici e si davano del tu;
e fu allora che, fatto allontanare i camerieri, con alcune bottiglie di
_bordeaux_ ancora sulla tavola, un allegro fuoco acceso nel caminetto,
un eccellente sigaro ambedue i commensali fra le labbra, il piemontese
cominciò il discorso che gli stava a cuore.
— Per confessarti subito tutta la verità, caro Alfredo, — così disse
Ernesto di Valneve, — l’avventura a cui ti prego d’assistermi bisogna
che finisca con un duello.
— Un duello serio? — domandò Alfredo, il quale, abilissimo nella
scherma e nel maneggio d’ogni arma, chè questo era pure stato un
elemento della sua educazione a cui avevano posto molta cura i suoi
istitutori, pure non s’era mai trovato in simil caso, e provava una
certa impressione.
— Spero di sì: — rispose sempre con quella sua allegra tranquillità
il piemontese. — In fatto di duelli, eccoti la mia opinione, che
ti raccomando: evitarli per le bazzecole, ritenerli ridicoli per le
minchionerie, e farli sul serio quando ve ne sia un motivo reale e non
si possa ottenere un’altra soddisfacente soluzione.
— Mi rincresce pel pericolo a cui vai incontro, — disse Alfredo, — ma
confido pure che la tua abilità e il tuo coraggio...
— Evvia! — interruppe allegramente a suo modo Ernesto: — il pericolo
ed io ce la diciamo abbastanza bene. Già lo saprai che la fortuna
in queste cose assiste i capi scarichi, gli sventati. Ora io ho la
mortificazione di doverti dichiarare che sono uno sventato, un capo
scarico di prima classe... E poi, e poi... che cosa t’ho a dire?... non
mi è ancora capitato di dover sentir paura per nulla e per nessuno:
figuriamoci se avrò da provarne per quel gran pagnottone bianco dai
baffi tirati e fatti a lesina che pare un bue vestito da ufficiale
austriaco!
— Ah! — esclamò Camporolle: — il tuo avversario del duello sarà dunque
quel colossale capitano d’Ulani che era questa sera col duca...
— E che mi guardava... insieme con quel carissimo duchino... tanto
insolentemente.
— Ed è per codeste sguardate?...
— Che non ti pare le bastino, quando chi ce le manda ha un muso come
quello e una montura d’austriaco?... Corpo di bacco! vorrei poter
tirare sul terreno anche quella faccia impertinente del signor duca e
mostrare anche a lui un tantino d’educazione!...
S’interruppe e soggiunse con un po’ più di serietà:
— E pensare che questi sono principi, che sono regnanti, val quanto
dire debbono rappresentare ed essere tutto ciò che v’ha di più nobile,
di più eletto, di più valoroso, di più generoso nel mondo. È cosa da
far dar nei lumi! E poi c’è che si stupisce che la monarchia scapiti
ogni giorno più!... Basta, non ficchiamoci a filosofare... Come puoi
facilmente capire, non è la prima volta che barattiamo di queste
occhiataccie io e quel mastodonte d’ulano austriaco che si chiama
von Klernick. Ci siamo incontrati a Milano dove io ho l’abitudine di
passare ogni anno una parte del carnevale in casa di certi parenti che
ci ho. Fu alla Scala che l’ho visto la prima volta; già era destino
che la nostra attinenza dovesse essere qualche cosa di teatrale, e per
isciogliersi degnamente avrà da finire in tragedia. Quell’elefante
ha trovato modo di farsi presentare alla marchesa Respetti-Landeri,
che è la moglie di quel mio lontano cugino presso cui abitavo, che io
riguardo quasi come un fratello, perchè oltre ad essere il miglior uomo
di questo mondo, suo padre era il più grande amico del mio, ed egli è
appunto figlioccio di mio padre e si chiama Ernesto come mi chiamo io,
e come da chi sa quante generazioni si chiamano tutti i primogeniti
dei Valneve... Ciò sia detto fra parentesi... La marchesa Sofia, la
moglie di mio cugino, è una donna graziosissima, bellina, di spirito,
il meno civetta che possa esserlo una signora, ricca, di venticinque
anni, e che non ha nemmeno l’occupazione d’un bambino da allevare:
avevo già sentito a dire che c’era un torrione d’ufficiale austriaco
che le faceva la corte e ciò mi indispettiva per lei, pel mio amico e
cugino, e per me stesso, che, a dirti la verità, non posso vedere le
monture austriache. Non l’avevo ancora mai visto, quando una sera, come
ti dicevo, alla Scala, mentre ero nel palchetto della marchesa Sofia,
vedo venire a stringerle la mano e sedersele presso quella balena di
tedesco. Fatta la presentazione, ci guardammo come un cagnaccio e un
gattino. Tu sai che un gatto, per quanto piccolo, se è di buona razza,
non si lascia impaurire da un cane per quanto grosso. Della freddezza
che si usava verso di lui, quel colosso non se ne dava per inteso: mi
destava un’irritazione che, se non fosse stata presente la marchesa,
avrebbe corso rischio di farmi commettere perfino qualche inciviltà.
Il sopraggiungere di nuove visite obbligò me a uscire dal palchetto,
e lasciai là dentro quel Golia a fare il grazioso col garbo d’un
orso. Incontrai parecchi giovinotti milanesi che, discretamente, ma
francamente, mi toccarono della cattiva impressione che faceva nella
società milanese il vedere così frequentemente intorno alla marchesa
Respetti, piemontese, moglie d’un piemontese, quell’uniforme turchina
del von Klernick. Stavo studiando meco stesso un modo di pigliarmela
con quel campanile d’ulano, senza che ne avessero ad essere compromessi
nè mio cugino, nè sua moglie, nè la delicata condizione in cui mi
trovavo nella mia qualità di ufficiale piemontese, quando, fra le tante
vane ciarle che si tengono dai giovani sfaccendati, udii far cenno
d’una passione che il medesimo rinoceronte al servizio dell’imperatore
d’Austria nutriva per una delle prime ballerine, la Carlotta.
— Quella che è venuta ora qui a Parma, e che ha esordito questa sera?
— domandò Alfredo che ascoltava con simpatico interesse il racconto del
suo nuovo amico.
— Appunto... Quella ragazza io l’aveva conosciuta... abbastanza
intimamente, quando era venata a ballare a Torino e... non me ne
fo un merito.... avevo acquistato su di lei un certo influsso, un
certo ascendente, come si suol dire, che ero riuscito più volte a far
prevalere ai suoi capricci... chè la n’è impastata, quella creatura...
le mie bizzarrie, che pure non sono poche nè ordinarie. Fino a quel
momento non m’era nè anco venuto in capo di andarla a vedere, chè, a
dir la verità, l’impressione lasciatami dalla sua frequentazione d’un
mese non era tale da suscitarmi un vivissimo desiderio di rinnovarla:
ma appena sentii che quel Montebianco d’alemanno n’era invaghito, mi
venne una matta voglia di portargliela via di sotto ai baffi. Quella
stessa sera andai ad aspettarla alla porticina per cui doveva uscire
dal teatro, finito il ballo. Ella venne saltellando fuor dell’uscio,
per islanciarsi nella carrozza che stava lì davanti a lei già collo
sportello aperto. Io m’avanzai da una parte chiamandola per nome:
«Carlotta!» Dall’altra, camminando col suo passo pesante, si presentò
quel bufalo d’un ulano. Ella stette sospesa con un piede giù dal
predellino, una mano in aria, quel suo nasino volto in su, palpitante
di curiosità e di voglia di ridere. Io non perdetti un minuto di tempo,
e le dissi nel mio piemontese che ella capisce perfettamente: «Ora io
salgo in carrozza con te e t’accompagno a casa; se non mi vuoi, tu
non hai che da gettare una parola, uno sguardo, un saluto a quello
spaventapasseri di tedesco; io faccio _dietro-front_, e non mi vedi
più.» La Carlotta fece una gran risata, saltò nel legno gridandomi:
«vieni» senza dir nemmanco «va al diavolo» all’ulano; io mi slanciai al
fianco di lei nella carrozza, rinchiusi lo sportello, e via al trotto
delle rozze pagate dall’impresario, mentre l’austriaco, rimasto con
tanto di naso, ci mandava dietro un _zum Teufel_ colossale come la sua
persona.
XII.
Ernesto di Valneve riempiè i bicchieri di _bordeaux_, riaccese il suo
sigaro d’avana che si era spento e domandò al suo compagno con quel suo
simpatico sorriso:
— Il mio racconto comincia ad annoiarti?
— No, tutt’altro: — rispose con calore Alfredo: — mi diverte assaissimo
invece.
— E allora continuo. Il mio disegno era che quel pezzo da sessanta,
indispettito meco, venisse ad insultarmi e si prendesse lui
tutt’insieme l’iniziativa, il torto e la responsabilità della contesa
e del duello che le avrebbe dovuto tenere dietro; ma quel Sancarlone
di ciccia pare che sia tanto paziente quanto è grande e grosso: si
contentava di guardarmi con quei suoi occhiacci da uccello notturno
e non mostrava neppure di accorgersi ch’io gli volgevo le spalle per
non salutarlo, quando lo vedevo ad arrivare. Ostentai di mostrarmi al
Corso in carrozza e al teatro Re in palchetto colla Carlotta, di cui, a
dire il vero, non mi importava un cavolo; e ne ricevetti i rimproveri
dal mio buon cugino Ernesto. Tutto inutilmente! Presi la Carlotta a
quattr’occhi. «Tu scellerata, le dissi, ricevi ancora von Klernick?»
— «Oh tanto poco!» rispose lei: «quando tu non puoi venire.» — «Per
quanto sia poco, è sempre troppo!» gridai io fingendo di montare in
collera: «e se non gli chiudi proprio per sempre su quel mascherone
da fontana l’uscio del tuo quartiere, io non mi lascio più vedere da
te nè cotto nè crudo.» L’ingenua creatura si mise a piangere. «Ogni
qual volta egli viene,» esclamò nel candore della sua innocenza, «mi
porta sempre un regalo di valore.» — «Ah! non voglio che tu ci abbia
da perdere,» soggiunsi io ridendo: «e a ogni mia visita saranno due
i regali che mi farò premura d’offrirti.» Le lagrime cessarono e il
mastodonte alemanno rimase alla porta. Le cose non potevano andare
in lunga di quel modo; e sai tu il bel modo che ha trovato nella sua
grossezza quel toro di Falaride? Il medesimo che ora si vuole applicare
qui dal governo del duca: mi si mandò a chiamare da Santa Margherita
e mi si fissarono cinque giorni per partire e tornarmene in Piemonte.
Fui sul punto di dare un calcio a tutta la prudenza e di fare una
scenata a quella caricatura del Colosso di Rodi; ma per fortuna venne
il caso a favorirmi. La prima ballerina di questo teatro di Parma,
come sai, cadde ammalata, e per sostituirla si pensò di chiamare la
Carlotta, la quale ci ha dei parenti in questo paese. Io era sicuro
che se la ragazza fosse venuta qui, quel cammello di von Klernick le
sarebbe corso dietro; qui, lungi da Milano, non ci sarebbe più stato
pericolo che venisse frantesa la causa di una disputa fra lui e me e
che nessuno fosse compromesso, e avrei potuto finalmente esser io a
coronare l’opera, obbligando quel pilastro a uscire dalla sua prudente
passività, anche con un diretto insulto: epperciò istigai vivamente la
Carlotta ad accettare. La lasciai, come fosse questa sera, decisa di
venire, e il domani mattina la trovai melanconica, perplessa, agitata,
d’un umore insopportabile. Insistetti per sapere che cosa fosse
avvenuto, e la cara innocentina mi porse con atto da grande attrice,
senza pure una parola, un bigliettino di calligrafia germanica, scritto
in un italiano più germanico ancora, in cui quel colosso d’uomo le
annunziava la generosa idea che gli era saltata in mente di pagarle
la somma di cinquemila lire se ella aveva l’eroismo di resistere alle
seduzioni dell’impresario di Parma e rimanere a Milano.
— Per bacco! — esclamò Alfredo. — Ci metteva proprio un gran puntiglio
nella gara!
— Sicuro! — soggiunse Ernesto. — E ce l’avevo messo anch’io oramai.
S’era fatta una lotta in cui ciascuno credeva quasi impegnato il
proprio onore a non restarci disotto. Io poi assolutamente voleva
spuntarla, perchè quell’Oloferne d’un ulano tentava compromettere mia
cugina, una delle più brave donne del mondo e moglie del mio più caro
amico, perchè era grande e grosso come il cavallo di marmo di Torino,
perchè era un ufficiale austriaco e perchè mi era antipatico in sommo
grado. Conclusione: stracciai in minutissimi pezzi l’eloquenza scritta
del gigante teutonico e dissi alla donzella disperata e che quasi
minacciava saltarmi agli occhi colle unghie: «Sta quieta: quel pitocco
d’un megaterio....» (la poverina non sapeva nella sua innocenza che
cosa fosse un megaterio; le spiegai per amore dell’esattezza che gli
era un animale tardigrado antidiluviano grosso come una cattedrale)....
«quel pitocco d’un megaterio non ti offre che cinque mila lire per
restare? Ebbene, io te ne do sette mila per partire.»
— E glie le hai date? — domandò Alfredo.
E l’ufficiale piemontese, con un leggero sospiro che forse ricordava le
difficoltà provate per procurarsi quella somma:
— Sicuro! Non sono stato colle mani alla cintola e il domani stesso le
mettevo sulla sua tavoletta un sacchetto pieno di napoleoni d’oro.
— Corbezzoli! — disse il conte di Camporolle: — io t’ammiro. Tu fai
cotanto per quella donna che probabilmente non ne vale la pena.
— Oh no! non ne vale davvero la pena...
— Senza sentir nulla per lei... solamente per un puntiglio!... Che cosa
faresti se tu avessi nel cuore una grande, una forte passione?...
Era sul punto d’aggiungere: «come ho io»; ma si trattenne a tempo,
pensando che quella donna misteriosa non gli avrebbe forse perdonato di
confidare quel segreto neppure ad un amico di anni ed anni, figurarsi
poi ad un amico di poche ore.
Il conte di Valneve rise in un cotal suo modo pieno di spensieratezza e
di garbo.
— Eh! non ne so nulla io stesso, — rispose. — Io sono un originale,
umor bizzarro, che forse pratico il meno di quanti mai uomini sono e
furono il saggio precetto di Socrate di conoscere sè stessi. Per una
follìa sono capace d’un miracolo, per una passione seria chi sa?...
E anzitutto dubito perfino s’io sia capace di una passione seria. Mio
padre, al quale, poveretto, ho già dato tanti dispiaceri, — mandò un
altro sospiro in cui si sentiva un verace e sincero rincrescimento —
mio padre mi dice sempre che ho un cervello bislacco, un cuore che
non è cattivo, ma si lascia pigliare da chi vuole, e una ragione
la quale, non già che manchi, ma è sempre a spasso, il che torna lo
stesso come se non ci fosse. E ora tu mi puoi conoscere come i miei
compagni d’Accademia e i camerati di reggimento, e puoi decidere con
apprezzamento più giusto se fai bene o fai male ad assistermi nel mio
duello con quel cetaceo terrestre.
Alfredo, vinto sempre più da una calda simpatia per quel giovane, gli
porse tutte e due le mani:
— Ma io sono qui disposto a far tutto quello che ti piace, e magari
battermi io in tua vece...
— No: — interruppe Ernesto ridendo — questo non mi piace.
Trasse fuori dal taschino l’oriuolo e guardò l’ora.
— Appunto le undici, — soggiunse — il teatro finirà a momenti. È l’ora
opportuna. L’elefante si recherà dalla ninfa. Ci dobbiamo essere
anche noi. A Milano aspettavo che fosse lui a risentirsi delle mie
punzecchiature; qui posso esser io a risentirmi subito subito, e le sue
occhiataccie di questa sera mi bastano. Beviamo ancora un bicchiere di
_bordeaux_ e andiamo.
Sorsero in piedi ambedue, e il Sangré mescette nei bicchieri. In quella
s’udì un picchio all’uscio.
— Avanti! — gridò la voce franca e squillante di Ernesto.
Entrò un cameriere.
— Scusi, signor conte, — disse rivolgendosi al Valneve, — c’è un
signore arrivato adesso adesso da Torino che ha bisogno di parlarle e
aggiunge subito subito per cose di gran premura.
Ernesto corrugò le sopracciglia.
— Da Torino! — ripetè con accento di malumore. — Scommetto che
indovino. È qualcheduno che mi ha mandato mio padre per tentare di
richiamare in casa quella certa ragione che è sempre a spasso. Ha detto
il suo nome?
— Mi ha dato questo biglietto da rimetterle.
Il conte di Valneve prese in fretta dalle mani del cameriere il
biglietto, ne aprì la busta, e in furia spiegato il foglietto, vi diede
una rapida sguardata.
l’ufficiale, facendo atti di collerica minaccia, uscì impetuosamente
dal palchetto.
Evidentemente da quel Giove in miniatura del duca era partito il
fulmine, portato da quell’aquila d’ufficiale. Il giovane della platea,
incrociate le braccia al petto, gli occhi sempre fissi sul palchetto
dove era il principe, stette tranquillamente ad aspettare lo scroscio.
X.
Il fulmine non tardò a colpire, e fu sotto forma di un brigadiere de’
gendarmi, più irsuto, più burbero, più tracotante che il solito, il
quale, aprendosi il passo a spallate fra la gente, venne dritto alla
volta del giovane forestiero.
— Signore: — gli disse con una vociaccia burbera e sopracciglia
fieramente corrugate: — lei venga fuori!
Il vicino d’Alfredo, che aveva visto accostarsi il brigadiere sempre
colla medesima placidezza e tranquillità, rispose tranquillamente,
senza scomporsi menomamente e senza smettere il suo fine sorriso
ironico:
— Io? Vi assicuro che non ho nessun desiderio di muovermi, che ho
pagato il mio biglietto d’ingresso, e che perciò ho diritto di godermi
tutto lo spettacolo, e quindi se non mi dimostrate con e per quale
autorità voi mi volete allontanare, io non faccio neanche un passo.
E si appoggiò con tutte due le spalle alla parete su cui si alzava il
parapetto delle loggie del prim’ordine.
La venuta del brigadiere e l’intimazione da costui fatta con voce
abbastanza alta al giovane forestiero, avevano attirato l’attenzione
della folla circostante su quella scena, e in un attimo tutto il
teatro e tutti i vicini, e per la prepotenza del fatto, e per la calma
dignitosa dell’uomo oltraggiato in quella guisa, davano non dubbi segni
di simpatia verso il forestiero e di disapprovazione alla condotta
del brigadiere e di chi lo faceva agire. Più di tutti il nostro
Alfredo sentivasi tratto a simpatizzare con quel giovane, il quale si
manteneva, in mezzo allo sdegno che doveva provare, così calmo, così
dignitoso, così superiore.
— Meno parole: — rispose ancora più brusco il brigadiere che si sapeva
guardato dal palchetto dov’erano il principe e il colonnello Anviti. —
Venga subito, altrimenti sarò costretto ad usare la forza.
— Va bene! — disse il giovane, sempre tranquillo, sempre sorridente. —
Ecco almeno una ragione che per voi può parer buona. Vi domando in nome
di quale autorità e con qual diritto voi procedete, e voi mi rispondete
che userete la forza.... A questa mi sottopongo; protesto, ma mi
sottopongo.
— Presto! — gridò il gendarme. — Finisca le chiacchere.... Avanti,
_marche_!
— Un momento, mio gentile brigadiere; uscendo di qua, sarò libero di
andarmene dove voglio o avrò ancora la vostra amabile compagnia?
— L’accompagnerò dal Direttore di Polizia.
— Bene! Una visita piacevolissima. Oh che belle sorprese capitano nella
felicissima Parma!...
— Silenzio!... Avanti, le ho già detto....
— _Marche!_ — suggerì il forestiero ridendo e avviandosi. — Andiamo
pure a far la conoscenza del signor Direttore di Polizia; ma ripeto
innanzi a tutti questi signori che protesto.
— Zitto! le ripeto: — gridò il brigadiere e allungò la mano per
afferrare il braccio del giovane.
Questi si fece indietro d’un balzo.
— Ah _fi donc_! — esclamò. — Non mi toccate!
Ebbe un aspetto di tanta fierezza, di sì sdegnoso orgoglio, di
imponente autorità, che il brigadiere, alto, grosso, forte, rozzo,
tracotante, lasciò cader la mano e chinò gli occhi innanzi a quel
giovane piccolo, mingherlino, dall’aspetto delicato e gentile.
Siccome nello scostarsi vivamente dal gendarme il forestiero aveva
dato una pestata ai piedi d’un signore che gli stava di dietro, egli si
volse e disse colla più squisita cortesia d’un gentiluomo elegante:
— _Pardon!_
Colui al quale aveva pestato i piedi era il conte di Camporolle.
— Nulla di male: — rispose Alfredo: — e se lei mi permette, io mi
prenderò la libertà di accompagnarla dal Direttore di Polizia: e potrò
attestare colà l’illegale modo con cui si è proceduto verso di lei.
— Ella mi fa un insigne favore: — disse il giovane piemontese: — ma non
vorrei che ciò avesse da comprometterla e farle avere dei dispiaceri,
degl’incomodi o dei pericoli.
Alfredo scosse le spalle in un modo che piacque dimolto all’altro,
perchè gli prese la mano e gliela strinse forte, soggiungendo
vivamente:
— La ringrazio ed accetto.
Uscirono insieme dietro i passi del gendarme i due giovani,
accompagnati da un susurro pieno di simpatia di tutti i circostanti;
e molti di questi li seguirono fin nell’atrio; ma là alcuni gendarmi
appostati, ad un cenno del brigadiere fecero stare indietro, anzi
ricacciarono dentro la platea, tutti i curiosi.
Venendo fuori dal teatro i due giovani di conserva, il piemontese disse
al compagno:
— Almeno che lei sappia verso chi si dimostra così generosamente
gentile, e io a chi vado debitore di sì coraggiosa prova di cortesia.
Trasse di tasca un elegante portafogli e, levatane una polizzina di
visita, la porse ad Alfredo, il quale fu lesto a contraccambiarlo.
Nella cartolina del piemontese, sotto una corona di conte, stava
scritto: ERNESTO SANGRÉ DI VALNEVE, _luogotenente del 1º Reggimento
Guardie_.
I due giovani lessero a vicenda le rispettive polizzine e poi si
scambiarono un amichevole saluto col capo.
— Conte di Camporolle: — disse l’uno: — mi auguro che si presenti
l’occasione di renderle un pari servizio da amico.
— Conte di Valneve: — rispose l’altro: — sono lieto che l’occasione
m’abbia recato la fortuna di fare la sua conoscenza.
Arrivarono sollecitamente al cospetto del Direttore di Polizia,
il quale, dicerto già preavvisato, li aspettava seduto alla sua
scrivania, una lampada innanzi a sè con una ventola disposta in modo
che rifletteva tutta la luce sulla faccia delle persone che gli si
presentavano e lasciava lui perfettamente nell’ombra. Pur tuttavia
Alfredo riconobbe la poco simpatica persona del famoso Pancrazi.
— Il suo nome, signore? — domandò egli bruscamente, appena i due
giovani gli comparvero innanzi.
L’ufficiale piemontese pronunziò chiaramente e spiccatamente il suo.
Alfredo disse a sua volta:
— Credo che lei mi riconosce...
— A lei non ho mica domandato nulla: — interruppe burbero il
poliziotto. — Sì, la riconosco e mi stupisco di vederla qui, lei che
non ci ha nulla da fare.
— Io era vicino al conte di Valneve, — soggiunse con qualche calore il
Camporolle, — quando egli ebbe l’inqualificabile intimazione...
— Sarà inqualificabile per lei: — interruppe di nuovo il Pancrazi: — ma
nessuno qui a lei domandò i suoi apprezzamenti, e creda a me che Ella
non ha diritto, nè la convenienza di darli.
— Mio caro signore, — disse gentilmente il conte di Valneve, — Ella ha
già fatto fin troppo per me e non voglia procacciarsi altri fastidi. Il
signor Direttore della Polizia riconoscerà subito il deplorevole errore
commesso dai suoi subalterni a mio riguardo, si affretterà a farmi
delle scuse da quel gentiluomo che è ed a lasciarmi in libertà.
— Lei crede? — disse il Pancrazi impassibile nell’oscurità mandata
dalla ventola. — Il conte di Camporolle, se ha la curiosità di
assistere al colloquio che ho l’onore d’avere con lei, è padrone;
lo conosco abbastanza per lasciargli procurarsi questa magra
soddisfazione; ma fra noi due, signor conte di Valneve, la cosa non
sarà tanto liscia e di quella guisa come lei crede.
— Mi permetta, signor Pancrazi: — saltò su Alfredo: — ma come
testimonio al fatto, posso proprio attestare che il conte non ha
avuto il menomo torto, che mentre era tranquillo ad assistere allo
spettacolo...
— Signor conte di Camporolle — interruppe il Direttore di Polizia:
— Io ho avuto per lei delle raccomandazioni tali che mi impongono la
maggiore considerazione e il maggiore interessamento in suo vantaggio;
ma mi trovo pure obbligato a ripeterle che in questo fatto Ella non
c’entra, e il _meglio per lei sotto tutti i riguardi_ — pronunziò assai
spiccatamente queste parole — è di non entrarci per l’affatto.
E poi voltosi al piemontese di nuovo:
— Lei ha il suo passaporto in regola?
— Ho già avuto il piacere di mostrarlo cinque o sei volte a vari agenti
della Autorità ducale: — rispose il conte di Valneve colla sua ironica
affettazione e gentilezza.
— Ebbene, abbia ancora una volta questo piacere mostrandolo a me: —
proruppe burbero il Direttore di Polizia.
L’ufficiale piemontese trasse lentamente di tasca la carta e la porse
con un atto di sprezzosa noncuranza al poliziotto.
Questi vi gettò appena sopra un’occhiata e disse:
— Non va, non va.
— Come non va? — esclamò il conte di Valneve. — Vuol dire che non
sapevano quel che si facevano i vostri subalterni che lo esaminarono!
— Lei ha un modo di parlare molto acconcio a compromettere la sua causa.
— La mia causa?... Ma che causa? Io non ho causa di sorta nè con
lei, nè con nessuno di qui. Sono un ufficiale del Re di Sardegna di
passaggio in questa città, al quale mi stupisco che si osi dare di
queste molestie.
— Le molestie, come osa dire lei, poteva risparmiarsele non venendo.
— Bravo! — esclamò con un’ironia piena di scherno il giovane piemontese.
— E le saranno subito finite — riprese con collera il Pancrazi — perchè
lei domani se ne partirà.
— Davvero?
— Sì signore.
— E perchè?
— Perchè questo suo passaporto non è stato vidimato dall’agente
consolare di Parma a Milano, donde Ella viene.
— E se non parto?
— La faremo accompagnare alla frontiera dai gendarmi.
— Bellissimo modo per ottenere quel che si vuole.... Ci penserò fino
a domani, poichè non dev’essere che allora la mia partenza, secondo
le buone vostre intenzioni. E ora, spero, che mi lascierete andare in
libertà.
— La lascio andare alla sua locanda a dormire.
— Grazie della generosità.
— Le proibisco assolutamente di rimetter piede in teatro.
— Che peccato! È l’unico posto dove avrei voluto andare.... Pazienza!
Ci rinunzio.... Andremo a cena; non è vero conte di Camporolle?
E senza fare il menomo atto di saluto, prese il braccio di Alfredo ed
uscì. Il Direttore di Polizia mandò dietro ai due giovani uno sguardo
acuto e quasi soddisfatto.
— La Zoe sarà contenta: — mormorò fra sè, e si mise con tutta
attenzione ad esaminare un monte di carte che aveva dinanzi.
XI.
Ernesto di Valneve, uscito dall’uffizio di Polizia a braccetto con
Alfredo di Camporolle, quando furono un poco allontanati dal portone
innanzi a cui passeggiava la sentinella, disse al suo compagno:
— È per lei un sacrifizio il non tornar più a teatro?
— Niente affatto, — rispose Alfredo. — Anzi volevo già partirmene.
— Sarei indiscreto, la torrei a qualche occupazione o ritrovo, se la
pregassi di favorirmi della sua compagnia per un’ora o due questa sera?
— Niente affatto, — rispose con cordiale sollecitudine Alfredo: — anzi
le dirò che mi rende un vero e gradito servizio. Io aveva appunto
da studiare il modo di occupare il mio tempo sino all’una dopo la
mezzanotte.
— Ebbene, allora cominciamo per far quello che abbiamo detto a quel
gufo di Direttore della Polizia: andiamo a cena; là, e forse soltanto
là, potremo discorrere un po’ liberamente. Vede quelle ombre che
rasentano il muro laggiù? Sono spie che il Direttore di Polizia ci ha
messo alle costole per sapere i nostri fatti e i nostri discorsi, e
io ho gran bisogno di tenere celati a lui e ai pari suoi gli uni e gli
altri... Non già, — soggiunse vivamente con una uscita di franco buon
umore, — ch’io voglia commettere qualche delitto... ma qualche cosa
voglio fare, per cui ho bisogno anche della complicità di qualcheduno.
— Eccomi a Lei, se io le posso servire: — disse Alfredo.
— Sicuro! Ed è proprio la mia buona sorte che mi fece incontrare così
gentile e simpatica persona.
Giunsero alla locanda dove era alloggiato il conte di Valneve, e questi
ordinò si portasse loro da cena nella propria camera. Non c’è nulla che
accomuni di più due giovani della medesima condizione, delle medesime
abitudini, i quali sieno già l’uno all’altro simpatici, che un pasto
di questa fatta fronte a fronte, in tutta libertà, con buone vivande e
vini squisiti. Alle frutta i due conti erano amici e si davano del tu;
e fu allora che, fatto allontanare i camerieri, con alcune bottiglie di
_bordeaux_ ancora sulla tavola, un allegro fuoco acceso nel caminetto,
un eccellente sigaro ambedue i commensali fra le labbra, il piemontese
cominciò il discorso che gli stava a cuore.
— Per confessarti subito tutta la verità, caro Alfredo, — così disse
Ernesto di Valneve, — l’avventura a cui ti prego d’assistermi bisogna
che finisca con un duello.
— Un duello serio? — domandò Alfredo, il quale, abilissimo nella
scherma e nel maneggio d’ogni arma, chè questo era pure stato un
elemento della sua educazione a cui avevano posto molta cura i suoi
istitutori, pure non s’era mai trovato in simil caso, e provava una
certa impressione.
— Spero di sì: — rispose sempre con quella sua allegra tranquillità
il piemontese. — In fatto di duelli, eccoti la mia opinione, che
ti raccomando: evitarli per le bazzecole, ritenerli ridicoli per le
minchionerie, e farli sul serio quando ve ne sia un motivo reale e non
si possa ottenere un’altra soddisfacente soluzione.
— Mi rincresce pel pericolo a cui vai incontro, — disse Alfredo, — ma
confido pure che la tua abilità e il tuo coraggio...
— Evvia! — interruppe allegramente a suo modo Ernesto: — il pericolo
ed io ce la diciamo abbastanza bene. Già lo saprai che la fortuna
in queste cose assiste i capi scarichi, gli sventati. Ora io ho la
mortificazione di doverti dichiarare che sono uno sventato, un capo
scarico di prima classe... E poi, e poi... che cosa t’ho a dire?... non
mi è ancora capitato di dover sentir paura per nulla e per nessuno:
figuriamoci se avrò da provarne per quel gran pagnottone bianco dai
baffi tirati e fatti a lesina che pare un bue vestito da ufficiale
austriaco!
— Ah! — esclamò Camporolle: — il tuo avversario del duello sarà dunque
quel colossale capitano d’Ulani che era questa sera col duca...
— E che mi guardava... insieme con quel carissimo duchino... tanto
insolentemente.
— Ed è per codeste sguardate?...
— Che non ti pare le bastino, quando chi ce le manda ha un muso come
quello e una montura d’austriaco?... Corpo di bacco! vorrei poter
tirare sul terreno anche quella faccia impertinente del signor duca e
mostrare anche a lui un tantino d’educazione!...
S’interruppe e soggiunse con un po’ più di serietà:
— E pensare che questi sono principi, che sono regnanti, val quanto
dire debbono rappresentare ed essere tutto ciò che v’ha di più nobile,
di più eletto, di più valoroso, di più generoso nel mondo. È cosa da
far dar nei lumi! E poi c’è che si stupisce che la monarchia scapiti
ogni giorno più!... Basta, non ficchiamoci a filosofare... Come puoi
facilmente capire, non è la prima volta che barattiamo di queste
occhiataccie io e quel mastodonte d’ulano austriaco che si chiama
von Klernick. Ci siamo incontrati a Milano dove io ho l’abitudine di
passare ogni anno una parte del carnevale in casa di certi parenti che
ci ho. Fu alla Scala che l’ho visto la prima volta; già era destino
che la nostra attinenza dovesse essere qualche cosa di teatrale, e per
isciogliersi degnamente avrà da finire in tragedia. Quell’elefante
ha trovato modo di farsi presentare alla marchesa Respetti-Landeri,
che è la moglie di quel mio lontano cugino presso cui abitavo, che io
riguardo quasi come un fratello, perchè oltre ad essere il miglior uomo
di questo mondo, suo padre era il più grande amico del mio, ed egli è
appunto figlioccio di mio padre e si chiama Ernesto come mi chiamo io,
e come da chi sa quante generazioni si chiamano tutti i primogeniti
dei Valneve... Ciò sia detto fra parentesi... La marchesa Sofia, la
moglie di mio cugino, è una donna graziosissima, bellina, di spirito,
il meno civetta che possa esserlo una signora, ricca, di venticinque
anni, e che non ha nemmeno l’occupazione d’un bambino da allevare:
avevo già sentito a dire che c’era un torrione d’ufficiale austriaco
che le faceva la corte e ciò mi indispettiva per lei, pel mio amico e
cugino, e per me stesso, che, a dirti la verità, non posso vedere le
monture austriache. Non l’avevo ancora mai visto, quando una sera, come
ti dicevo, alla Scala, mentre ero nel palchetto della marchesa Sofia,
vedo venire a stringerle la mano e sedersele presso quella balena di
tedesco. Fatta la presentazione, ci guardammo come un cagnaccio e un
gattino. Tu sai che un gatto, per quanto piccolo, se è di buona razza,
non si lascia impaurire da un cane per quanto grosso. Della freddezza
che si usava verso di lui, quel colosso non se ne dava per inteso: mi
destava un’irritazione che, se non fosse stata presente la marchesa,
avrebbe corso rischio di farmi commettere perfino qualche inciviltà.
Il sopraggiungere di nuove visite obbligò me a uscire dal palchetto,
e lasciai là dentro quel Golia a fare il grazioso col garbo d’un
orso. Incontrai parecchi giovinotti milanesi che, discretamente, ma
francamente, mi toccarono della cattiva impressione che faceva nella
società milanese il vedere così frequentemente intorno alla marchesa
Respetti, piemontese, moglie d’un piemontese, quell’uniforme turchina
del von Klernick. Stavo studiando meco stesso un modo di pigliarmela
con quel campanile d’ulano, senza che ne avessero ad essere compromessi
nè mio cugino, nè sua moglie, nè la delicata condizione in cui mi
trovavo nella mia qualità di ufficiale piemontese, quando, fra le tante
vane ciarle che si tengono dai giovani sfaccendati, udii far cenno
d’una passione che il medesimo rinoceronte al servizio dell’imperatore
d’Austria nutriva per una delle prime ballerine, la Carlotta.
— Quella che è venuta ora qui a Parma, e che ha esordito questa sera?
— domandò Alfredo che ascoltava con simpatico interesse il racconto del
suo nuovo amico.
— Appunto... Quella ragazza io l’aveva conosciuta... abbastanza
intimamente, quando era venata a ballare a Torino e... non me ne
fo un merito.... avevo acquistato su di lei un certo influsso, un
certo ascendente, come si suol dire, che ero riuscito più volte a far
prevalere ai suoi capricci... chè la n’è impastata, quella creatura...
le mie bizzarrie, che pure non sono poche nè ordinarie. Fino a quel
momento non m’era nè anco venuto in capo di andarla a vedere, chè, a
dir la verità, l’impressione lasciatami dalla sua frequentazione d’un
mese non era tale da suscitarmi un vivissimo desiderio di rinnovarla:
ma appena sentii che quel Montebianco d’alemanno n’era invaghito, mi
venne una matta voglia di portargliela via di sotto ai baffi. Quella
stessa sera andai ad aspettarla alla porticina per cui doveva uscire
dal teatro, finito il ballo. Ella venne saltellando fuor dell’uscio,
per islanciarsi nella carrozza che stava lì davanti a lei già collo
sportello aperto. Io m’avanzai da una parte chiamandola per nome:
«Carlotta!» Dall’altra, camminando col suo passo pesante, si presentò
quel bufalo d’un ulano. Ella stette sospesa con un piede giù dal
predellino, una mano in aria, quel suo nasino volto in su, palpitante
di curiosità e di voglia di ridere. Io non perdetti un minuto di tempo,
e le dissi nel mio piemontese che ella capisce perfettamente: «Ora io
salgo in carrozza con te e t’accompagno a casa; se non mi vuoi, tu
non hai che da gettare una parola, uno sguardo, un saluto a quello
spaventapasseri di tedesco; io faccio _dietro-front_, e non mi vedi
più.» La Carlotta fece una gran risata, saltò nel legno gridandomi:
«vieni» senza dir nemmanco «va al diavolo» all’ulano; io mi slanciai al
fianco di lei nella carrozza, rinchiusi lo sportello, e via al trotto
delle rozze pagate dall’impresario, mentre l’austriaco, rimasto con
tanto di naso, ci mandava dietro un _zum Teufel_ colossale come la sua
persona.
XII.
Ernesto di Valneve riempiè i bicchieri di _bordeaux_, riaccese il suo
sigaro d’avana che si era spento e domandò al suo compagno con quel suo
simpatico sorriso:
— Il mio racconto comincia ad annoiarti?
— No, tutt’altro: — rispose con calore Alfredo: — mi diverte assaissimo
invece.
— E allora continuo. Il mio disegno era che quel pezzo da sessanta,
indispettito meco, venisse ad insultarmi e si prendesse lui
tutt’insieme l’iniziativa, il torto e la responsabilità della contesa
e del duello che le avrebbe dovuto tenere dietro; ma quel Sancarlone
di ciccia pare che sia tanto paziente quanto è grande e grosso: si
contentava di guardarmi con quei suoi occhiacci da uccello notturno
e non mostrava neppure di accorgersi ch’io gli volgevo le spalle per
non salutarlo, quando lo vedevo ad arrivare. Ostentai di mostrarmi al
Corso in carrozza e al teatro Re in palchetto colla Carlotta, di cui, a
dire il vero, non mi importava un cavolo; e ne ricevetti i rimproveri
dal mio buon cugino Ernesto. Tutto inutilmente! Presi la Carlotta a
quattr’occhi. «Tu scellerata, le dissi, ricevi ancora von Klernick?»
— «Oh tanto poco!» rispose lei: «quando tu non puoi venire.» — «Per
quanto sia poco, è sempre troppo!» gridai io fingendo di montare in
collera: «e se non gli chiudi proprio per sempre su quel mascherone
da fontana l’uscio del tuo quartiere, io non mi lascio più vedere da
te nè cotto nè crudo.» L’ingenua creatura si mise a piangere. «Ogni
qual volta egli viene,» esclamò nel candore della sua innocenza, «mi
porta sempre un regalo di valore.» — «Ah! non voglio che tu ci abbia
da perdere,» soggiunsi io ridendo: «e a ogni mia visita saranno due
i regali che mi farò premura d’offrirti.» Le lagrime cessarono e il
mastodonte alemanno rimase alla porta. Le cose non potevano andare
in lunga di quel modo; e sai tu il bel modo che ha trovato nella sua
grossezza quel toro di Falaride? Il medesimo che ora si vuole applicare
qui dal governo del duca: mi si mandò a chiamare da Santa Margherita
e mi si fissarono cinque giorni per partire e tornarmene in Piemonte.
Fui sul punto di dare un calcio a tutta la prudenza e di fare una
scenata a quella caricatura del Colosso di Rodi; ma per fortuna venne
il caso a favorirmi. La prima ballerina di questo teatro di Parma,
come sai, cadde ammalata, e per sostituirla si pensò di chiamare la
Carlotta, la quale ci ha dei parenti in questo paese. Io era sicuro
che se la ragazza fosse venuta qui, quel cammello di von Klernick le
sarebbe corso dietro; qui, lungi da Milano, non ci sarebbe più stato
pericolo che venisse frantesa la causa di una disputa fra lui e me e
che nessuno fosse compromesso, e avrei potuto finalmente esser io a
coronare l’opera, obbligando quel pilastro a uscire dalla sua prudente
passività, anche con un diretto insulto: epperciò istigai vivamente la
Carlotta ad accettare. La lasciai, come fosse questa sera, decisa di
venire, e il domani mattina la trovai melanconica, perplessa, agitata,
d’un umore insopportabile. Insistetti per sapere che cosa fosse
avvenuto, e la cara innocentina mi porse con atto da grande attrice,
senza pure una parola, un bigliettino di calligrafia germanica, scritto
in un italiano più germanico ancora, in cui quel colosso d’uomo le
annunziava la generosa idea che gli era saltata in mente di pagarle
la somma di cinquemila lire se ella aveva l’eroismo di resistere alle
seduzioni dell’impresario di Parma e rimanere a Milano.
— Per bacco! — esclamò Alfredo. — Ci metteva proprio un gran puntiglio
nella gara!
— Sicuro! — soggiunse Ernesto. — E ce l’avevo messo anch’io oramai.
S’era fatta una lotta in cui ciascuno credeva quasi impegnato il
proprio onore a non restarci disotto. Io poi assolutamente voleva
spuntarla, perchè quell’Oloferne d’un ulano tentava compromettere mia
cugina, una delle più brave donne del mondo e moglie del mio più caro
amico, perchè era grande e grosso come il cavallo di marmo di Torino,
perchè era un ufficiale austriaco e perchè mi era antipatico in sommo
grado. Conclusione: stracciai in minutissimi pezzi l’eloquenza scritta
del gigante teutonico e dissi alla donzella disperata e che quasi
minacciava saltarmi agli occhi colle unghie: «Sta quieta: quel pitocco
d’un megaterio....» (la poverina non sapeva nella sua innocenza che
cosa fosse un megaterio; le spiegai per amore dell’esattezza che gli
era un animale tardigrado antidiluviano grosso come una cattedrale)....
«quel pitocco d’un megaterio non ti offre che cinque mila lire per
restare? Ebbene, io te ne do sette mila per partire.»
— E glie le hai date? — domandò Alfredo.
E l’ufficiale piemontese, con un leggero sospiro che forse ricordava le
difficoltà provate per procurarsi quella somma:
— Sicuro! Non sono stato colle mani alla cintola e il domani stesso le
mettevo sulla sua tavoletta un sacchetto pieno di napoleoni d’oro.
— Corbezzoli! — disse il conte di Camporolle: — io t’ammiro. Tu fai
cotanto per quella donna che probabilmente non ne vale la pena.
— Oh no! non ne vale davvero la pena...
— Senza sentir nulla per lei... solamente per un puntiglio!... Che cosa
faresti se tu avessi nel cuore una grande, una forte passione?...
Era sul punto d’aggiungere: «come ho io»; ma si trattenne a tempo,
pensando che quella donna misteriosa non gli avrebbe forse perdonato di
confidare quel segreto neppure ad un amico di anni ed anni, figurarsi
poi ad un amico di poche ore.
Il conte di Valneve rise in un cotal suo modo pieno di spensieratezza e
di garbo.
— Eh! non ne so nulla io stesso, — rispose. — Io sono un originale,
umor bizzarro, che forse pratico il meno di quanti mai uomini sono e
furono il saggio precetto di Socrate di conoscere sè stessi. Per una
follìa sono capace d’un miracolo, per una passione seria chi sa?...
E anzitutto dubito perfino s’io sia capace di una passione seria. Mio
padre, al quale, poveretto, ho già dato tanti dispiaceri, — mandò un
altro sospiro in cui si sentiva un verace e sincero rincrescimento —
mio padre mi dice sempre che ho un cervello bislacco, un cuore che
non è cattivo, ma si lascia pigliare da chi vuole, e una ragione
la quale, non già che manchi, ma è sempre a spasso, il che torna lo
stesso come se non ci fosse. E ora tu mi puoi conoscere come i miei
compagni d’Accademia e i camerati di reggimento, e puoi decidere con
apprezzamento più giusto se fai bene o fai male ad assistermi nel mio
duello con quel cetaceo terrestre.
Alfredo, vinto sempre più da una calda simpatia per quel giovane, gli
porse tutte e due le mani:
— Ma io sono qui disposto a far tutto quello che ti piace, e magari
battermi io in tua vece...
— No: — interruppe Ernesto ridendo — questo non mi piace.
Trasse fuori dal taschino l’oriuolo e guardò l’ora.
— Appunto le undici, — soggiunse — il teatro finirà a momenti. È l’ora
opportuna. L’elefante si recherà dalla ninfa. Ci dobbiamo essere
anche noi. A Milano aspettavo che fosse lui a risentirsi delle mie
punzecchiature; qui posso esser io a risentirmi subito subito, e le sue
occhiataccie di questa sera mi bastano. Beviamo ancora un bicchiere di
_bordeaux_ e andiamo.
Sorsero in piedi ambedue, e il Sangré mescette nei bicchieri. In quella
s’udì un picchio all’uscio.
— Avanti! — gridò la voce franca e squillante di Ernesto.
Entrò un cameriere.
— Scusi, signor conte, — disse rivolgendosi al Valneve, — c’è un
signore arrivato adesso adesso da Torino che ha bisogno di parlarle e
aggiunge subito subito per cose di gran premura.
Ernesto corrugò le sopracciglia.
— Da Torino! — ripetè con accento di malumore. — Scommetto che
indovino. È qualcheduno che mi ha mandato mio padre per tentare di
richiamare in casa quella certa ragione che è sempre a spasso. Ha detto
il suo nome?
— Mi ha dato questo biglietto da rimetterle.
Il conte di Valneve prese in fretta dalle mani del cameriere il
biglietto, ne aprì la busta, e in furia spiegato il foglietto, vi diede
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Avanti - La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 05
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- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 03Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4322Il numero totale di parole univoche è 158439.2 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni53.1 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni60.7 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 04Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4488Il numero totale di parole univoche è 161838.6 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni52.1 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.8 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 05Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4431Il numero totale di parole univoche è 157637.0 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.8 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni59.7 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 06Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4461Il numero totale di parole univoche è 153939.9 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni55.5 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni63.5 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 07Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4385Il numero totale di parole univoche è 161737.6 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.5 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni59.5 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 08Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4494Il numero totale di parole univoche è 165634.1 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni49.6 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni57.7 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 09Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4390Il numero totale di parole univoche è 168534.7 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni49.3 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni57.4 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 10Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4444Il numero totale di parole univoche è 152841.5 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni58.1 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni65.7 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 11Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4423Il numero totale di parole univoche è 171536.6 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.4 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni60.0 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
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- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 13Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4397Il numero totale di parole univoche è 158939.0 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni53.8 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni61.9 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 14Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4407Il numero totale di parole univoche è 161837.3 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.8 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni60.0 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 15Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4373Il numero totale di parole univoche è 168234.8 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.1 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.2 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 16Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4413Il numero totale di parole univoche è 172335.6 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni48.6 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni56.2 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 17Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4441Il numero totale di parole univoche è 163836.9 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.2 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.5 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 18Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4423Il numero totale di parole univoche è 161537.0 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.8 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.1 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 19Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4406Il numero totale di parole univoche è 174537.0 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.9 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.8 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 20Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4454Il numero totale di parole univoche è 166838.2 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni51.1 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni58.6 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 21Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 4449Il numero totale di parole univoche è 169838.3 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni52.7 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni60.4 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni
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- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 25Ogni riga rappresenta la percentuale di parole su 1000 parole più comuni.Il numero totale di parole è 3483Il numero totale di parole univoche è 144040.8 delle parole sono tra le 2000 parole più comuni55.7 delle parole sono tra le 5000 parole più comuni63.3 delle parole sono tra le 8000 parole più comuni