Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3 - 09

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Oltre i _Mudden_, che dall'alto delle torri delle moschee chiamano il
popolo alla preghiera, i _Wehhabiti_ hanno stabilito a Djedda una
seconda specie di banditori, che potrebbero dirsi esecutori per
costringere i fedeli a recarsi al tempio. Alle ore indicate vanno per le
strade gridando: _Andiamo alla preghiera; alla preghiera:_ essi spingono
tutti gli abitanti per obbligarli d'andare alla moschea, ed obbligando
gli artigiani ed i mercanti ad abbandonare le loro botteghe, e i loro
magazzini, perchè vengano ad assistere alla pubblica preghiera cinque
volte al giorno com'è prescritto dalla legge. Prima che spunti l'aurora
gridano pure e fanno un orribile fracasso per le strade, per costringere
tutto il mondo ad alzarsi, ed a venire al tempio. Quanto non è ardente
il loro zelo! L'abito di questi esecutori è assai semplice non avendo
che un pajo di piccole mutande bianche, ed una coperta ripiegata sulla
spalla, ed un enorme bastone in mano. Seppi che alla Mecca erasi di già
cominciato a far uso di questi eccitatori per isforzare il popolo a
recarsi alla moschea; ma si usa maggiore moderazione a Djedda perchè si
limitano al gridare, al rimbrottare, ed allo spingere tutti quelli che
incontrano: almeno ciò è quanto mi accadde di osservare dalle mie
finestre che guardavano sulla gran piazza.
Durante il mio soggiorno a Djedda vi diede fondo un grosso bastimento
procedente da Bengala con bandiera rossa musulmana armata di venti pezzi
di cannone, carico di riso. Il commercio riceve tutti gli anni quattro o
cinque bastimenti di questa specie che portano oltre il riso altri
prodotti dell'India.

_Tragitto all'Iemboa._
Il sabato 21 marzo, giorno dell'equinozio, m'imbarcai dopo il cader del
sole sopra una specie di battello detto _Sarabok_. Dopo un'ora e mezzo
di ravvolgimenti tra i banchi e gli scogli della rada, arrivai al
bastimento che doveva condurmi a Suez: era un daos come quello sul quale
ero venuto.
A quattr'ore e mezzo del mattino del giorno 23 si levò l'ancora, e fu il
bastimento rimurchiato a traverso di una infinità di scogli che chiudono
la bocca del porto. A mezzo giorno rinfrescò il vento d'O., e si gettò
l'ancora ad un'ora e mezzo in una cattiva rada, detta _Delmaa_, ove
trovavansi all'ancora cinque altri _daos_ che tenevano la medesima
strada. Il mare era grosso, ed il nostro bastimento era gagliardamente
agitato dalle onde.
Il martedì 24 si mise alla vela alle quattro ore del mattino, e benchè
il vento non fosse troppo favorevole, il bastimento marciava assai bene.
Alle due dopo mezzogiorno si diede fondo otto miglia lontano del
villaggio d'Omelmusk. L'ancoraggio era eccellente, e vi restammo tutto
il giorno per ricevervi il sopraccarico di trecento quintali di caffè,
che si erano esportati da Djedda senza pagare la gabella. Tra il
bastimento e la gran terra eravi un'isola bassa, e molto estesa. Il
capitano discese nella scialuppa colle sue reti, e riportò molto pesce.
Il tempo si mantenne costantemente cupo, e dopo mezzogiorno il vento
rinforzò, ed il mare in alto era agitatissimo, mentre al nostro
ancoraggio era affatto tranquillo.

_Mercoledì 25._
Malgrado il vento del nord che contrariava la nostra direzione, si mise
alla vela; il mare era grosso, ed il vento violentissimo. Il nostro
bastimento soffriva assai per causa del suo eccessivo carico. Si ruppe
l'antenna di un'altra nave, e noi fummo costretti di ritornare
all'ancoraggio d'Omelmusk. Colà ci raggiunsero avanti sera altri
bastimenti sortiti da Djedda, cosicchè formavamo una squadra di dieci
_daos_ senza contare altri più piccioli bastimenti.

_Venerdì 27._
Alle quattro e mezzo del mattino si spiegarono le vele con vento
contrario, ed alle due dopo mezzogiorno entrammo nel porto di _Araborg_.
Mi feci portare a terra, e raccolsi alcune conchiglie e piante marine.
_Araborg_ è provveduto di pochi giardini, e mi furono portati alcuni
cocomeri e cetriuoli.

_Sabato 28._
Si fece vela alle dieci ore, e poco dopo, mancato il vento, la nave
dovette farsi rimurchiare dalle scialuppe, come tutti gli altri daos.
Alle quattr'ore della sera ci ancorammo presso ad _Elsthat_.

_Domenica 29._
Viaggiammo lentamente al N. O. facendoci rimurchiare per mancanza di
vento sempre alla distanza di tre miglia, o poco più dalla costa in
mezzo ad infiniti scogli a fior d'acqua. Dopo mezzogiorno il vento
rinfrescò, e passato il tropico, si diede fondo in faccia ad Algiar alle
quattr'ore.
A mezzogiorno avemmo lo spettacolo straordinario d'un combattimento di
pesci. Il mare tranquillo presentava nello spazio di cento in cento
venti piedi di diametro un subitaneo bollimento, accompagnato da molta
schiuma e da un grande romore. Ciò durava un mezzo minuto, poi il mare
tornava tranquillo, ma un minuto dopo ricominciava la stessa scena. Al
di fuori intorno al cerchio osservasi durante questo bollimento un gran
numero di punti, lo che indicava le parziali zuffe, corpo a corpo, che
stendevansi e notabile distanza dal campo di battaglia. Il bastimento
rasentò il cerchio nell'istante dell'attacco, sgraziatamente nel punto
del mezzogiorno, mentre io stavo osservando il passaggio del sole. Posto
al bivio tra i due oggetti diedi la preferenza all'astronomia, e
perdetti l'occasione di osservare il genio guerriero delle genti
acquatiche. I miei compagni di viaggio mi dissero che avevano veduto
combattere un'immensa quantità di pesci della lunghezza d'un piede
all'incirca.
Mentre durava ancora la battaglia si vide accorrere da tutte le parti
anche lontanissime una infinità d'uccelli di mare affatto bianchi che
andavano svolazzando sopra il campo di battaglia quasi a fior d'acqua,
sperando, senza dubbio, di predare i pesci uccisi, e forse i piccoli
ancora vivi. La pugna era in tale stato quando noi eravamo già troppo
lontani per conoscerne l'esito.

_Lunedì 30 marzo._
Si levò l'ancora a mezza notte, ma durando tuttavia la calma i _daos_
erano di tratto in tratto rimurchiati dalle scialuppe. Alle dieci ore si
levò un vento di mezzogiorno, che ci portò ben tosto alla città di
Iemboa ove sbarcammo felicemente ad un'ora e tre quarti.
Desiderava di andare a Medina a visitare il sepolcro del Profeta,
malgrado l'assoluta proibizione dei _Wehhabiti_. La cosa era rischiosa
assai; ma non pertanto trovai molti pellegrini Turchi, ed alcuni Arabi
Mogrebini disposti ad esporsi meco ai pericoli del viaggio.
Siccome il mio capitano aveva la sua famiglia a l'Iemboa, ove tutta la
flottiglia doveva rimanere alcuni giorni, convenni con lui che sarei di
ritorno il giorno otto d'aprile. Feci tosto cercare i dromedarj onde
viaggiare più speditamente; ma a dispetto delle mie diligenze non mi fu
possibile di partire avanti la sera del successivo giorno. Non presi
meco che un piccolo baule con alcuni istromenti astronomici; facendomi
accompagnare soltanto da tre domestici.


CAPITOLO XL.
_Viaggio alla volta di Medina. — Djideïda. — Viene arrestato
dai Wehhabiti. — Dispiaceri che gliene derivano. — Viene
rimandato con una carovana d'impiegati del tempio di Medina. —
L'Iemboa._

Uscii da Iemboa il martedì 31 marzo alle cinque della sera, montato
sopra un dromedario, e seguito da tre domestici, da alcuni pellegrini
Turchi e Mogrebini, e da circa cinquanta dromedarj.
Si camminava all'E. un quarto S. E. lungo una pianura arenosa, sterile
ad intervalli, ed offrendo qua e là alcune traccie di vegetazione:
d'ordinario i dromedarj fanno più di una lega per ora; e noi li facevamo
di quando in quando trottare; ma io non era abbastanza robusto per
sostenere la violenza del loro moto: onde a mezza notte trovandomi
estremamente abbattuto sia per lo scuotimento dell'animale, che per
l'incomodità della sella tutta di legno e senza staffe, fui obbligato di
andare più lentamente. Alle quattr'ore del mattino camminava all'est ¼
est in mezzo a piccole montagne, le quali andavano serrandosi di mano in
mano che andavamo avanti. Si fece alto alle sei in una valle che io
supposi lontana 15 in 16 leghe da Iemboa.
Le montagne da cui eravamo circondati sono tutte di schisti diversi, e
non presentano la più debole traccia di vegetazione; ma nella valle
benchè senz'acqua raccolsi alcune bellissime pianticelle, e tra queste
una rarissima specie di _Solanum_ con fiori assai grandi. Io mi trovava
sempre indisposto, ed ebbi avanti l'aurora violenti eccitamenti al
vomito.
Il mercoledì primo aprile, ripresi il cammino all'est per una valle di
singolare figura. Le montagne poste a mezzodì sono tutte di arena
sciolta e bianchissime, quelle a settentrione compongonsi di roccie di
porfido, cornee, e schistose.
La valle non ha più di cento tese di larghezza. Vedendo montagne di
sabbia alte come quelle di pietra, non poteva a meno di non
meravigliarmi della forza che ammucchiò, e che tiene accumulata tanta
sabbia mobile, senza che i venti ne portino mai un solo atomo sulle
opposte montagne di settentrione; le quali contengono una bella
collezione di porfidi di pasta e colori diversi. Nelle rupi cornee
vedonsi belle gradazioni di verde, alcune delle quali sono veramente
singolari.
Da questa valle passai verso sera tra gruppi di nere montagne
vulcaniche, che presentavano pittoresche vedute di rottami e di
precipizj. Di là si cominciò a salire questa linea di montagne fino alle
dieci della sera, quando si prese a scendere per l'opposta china tutta
ingombra d'arbusti spinosi che ci riuscivano incomodissimi. Finalmente
alle cinque del mattino oppresso dalle fatiche e dal disagio giunsi a
Djideïda. I miei domestici mi levarono dal dromedario, e mi posero sopra
il mio materasso in mezzo alla piazza.
Esemplare veramente è l'esattezza dei condottieri dei dromedarj: ad ogni
ora canonica fermavano la carovana, e gridavano _Iova salàh, Iova
salàh_: cioè: _andiamo a pregare, andiamo a pregare_. Allora ognuno
smontava, facendo le sue abluzioni colla sabbia, e dopo avere recitata
la preghiera in comune, si rimontava per continuare il viaggio.
Una sera che camminava alla testa della carovana sentendo farsi del
rumore al di dietro di me, volsi il capo, e vidi uno dei condottieri de'
dromedarj che con un grosso bastone in mano minacciava il mio maestro di
casa e voleva obbligarlo a retrocedere. Accorsi subito per informarmi
dell'affare. L'Arabo trasportato da un santo zelo, rispondeva sempre
_Ah, Sidi Ali Bey; che peccatore è mai questo! — che ha egli fatto? — È
un orribile peccatore._ Gli chiesi di nuovo: _ma che ha fatto? — Egli
non deve andar più avanti; egli non anderà a Medina; no, non lo
permetterò mai. Il mio domestico era affatto sbalordito. Io replicai:
ditemi dunque qual è il suo delitto? — Sì Sedi Ali, egli fuma tabacco,
questo grande scellerato; egli non anderà a Medina: io non lo permetterò
mai._ A stento ottenni di calmarlo, dicendogli che il mio domestico,
essendo uno Sceriffo marocchino, ignorava del tutto gli ordini di
_Abdoulwehhab_: e gli promisi a suo nome che non fumerebbe più. Volle
che lo giurasse, e che gittasse la sua pipa in terra col suo tabacco che
aveva. A tali condizioni gli permise di proseguire il viaggio.
_Djiedeïda_ è un soggiorno assai tristo in fondo di una valle con case
bassissime fatte di pietra a secco senza intonicatura, con alcune
botteghe in cui si tiene il mercato. Sonovi alcune piantagioni di palme,
ma la situazione è affatto malinconica. Il capo del popolo,
soprannominato _Scheih-el Belèd_, ed il kadì sono naturali del paese,
adesso sotto il dominio del sultano _Saaoud_, cui gli abitanti pagano la
decima de' loro frutti.
È nel deserto di Medina che cresce l'albero che dà il balsamo
impropriamente detto _della Mecca_. Siccome io non poteva trattenermi,
mi riservava di fare al ritorno le mie indagini intorno a quest'albero.
Non potendo più soffrire la marcia dei dromedarj, lasciai partire la
carovana, ripromettendomi di raggiugnerla ben tosto, e restai coricato
in mezzo alla piazza, ove mi addormentai, non avendo ritenuti presso di
me che i miei domestici. Quando mi risvegliai mi vidi circondato da un
gran numero di persone accumulate vicino a me che mi guardavano. Apersi
la mia spezieria che portava sempre meco, e posi delle filacce con
balsamo cattolico su tutte le loro ferite o scorticature delle gambe e
delle mani. Mangiai in appresso un cocomero squisito che mi rinfrescò a
meraviglia: pure non era in istato di muovermi. Intanto i miei domestici
facevano preparare quattro cammelli, ed una _schevria_ simile a quella
di cui mi era servito nel viaggio della Mecca; e la mattina dello stesso
giorno giovedì 2 aprile, montai in questa vettura scortato soltanto dai
miei tre domestici, e dal cammeliere, prendendo il cammino di Medina di
dove non era distante, per quanto mi fu detto, più di sedici leghe
all'est.
Due ore dopo usciti da Djidèïda, due _Wehhabiti_ sortono dalle montagne,
fermano i nostri cammelli, e mi domandano dove vado. A Medina, loro
rispondo. — Voi non potete continuare il vostro viaggio. Allora un capo
mi si presentò con due ufficiali anch'essi montati sopra cammelli, per
farmi nuove interrogazioni. Sospettando il capo ch'io fossi Turco,
minaccia di farmi saltare la testa: ma senza lasciarmi atterrire dalle
sue minaccie, io rispondo tranquillamente alle sue inchieste; e le mie
risposte sono attestate dai miei domestici. Benchè la mia immaginazione
mi richiamasse in questo istante la notizia che circolava a Djedda, che
tutti i Turchi partiti della Mecca erano stati scannati, non lasciai di
conservare la più perfetta calma. Mi viene ordinato di consegnar loro il
denaro, e gli presento quattro pezze spagnuole che aveva in tasca; ed
insistendo essi per averne ancora, dichiarai di non averne, ed offersi
loro di visitare il mio baule. Supponendo che io portassi denaro in
cintura come costumano i Levantini, non si acquietarono alle mie
negative; onde depongo il _bournous_, e comincio a spogliarmi per
soddisfarli. Essi mi fermano; ma vedendo il cordone dell'orologio, lo
tirano, e mi costringono a rilasciarlo loro. Dopo essersi appropriati il
_bournous_, e l'orologio, minaccianmi di nuovo; poi si ritirano
indicando al condottiere dei cammelli un luogo vicino, ove dovevamo
aspettare i loro ordini.
Ridotti che fummo al luogo determinato, distrussi all'istante una
cassetta contenente gl'insetti che aveva raccolti in Arabia, e getto
lontano da me le piante ed i fossili trovati in questo tragitto
dall'Iemboa: inghiottisco una lettera del principe _Muley Abdsulem_, che
poteva compromettermi presso que' fanatici: consegno al mio maestro di
casa poche piastre che tenevo ancora nel baule, e rimango affatto
tranquillo. Lo stesso fanno i miei domestici rispetto al tabacco che
avevano.
Un momento dopo vengono a guardarci a vista due _Wehhabiti_; abbastanza
tardi per lasciarci sbarazzare da quanto poteva comprometterci: e sono
di parere, che la difficoltà di dividere in cinque persone i pochi
oggetti rapitimi, ci procurasse questo prezioso momento. Altre due ore
dopo arrivano altri _Wehhabiti_, dicendosi spediti dall'Emir onde
riscuotere da me 500 franchi per la mia libertà, e si ritirano dietro la
mia risposta di non aver denaro.
Poco appresso un nuovo _Wehhabita_ porta l'ordine di condurci altrove, e
partiamo con lui; e dietro una montagna vicina trovo.... la mia carovana
intiera egualmente arrestata. I miei compagni di viaggio pallidi,
tremanti, incerti della loro sorte, erano circondati da molte guardie.
Mi pongo a sedere accanto agli Arabi Mogrebini: i Turchi rimangono in
luogo separato. Intanto arriva un _Wehhabita_ coll'annuncio che ogni
pellegrino Turco o Mogrebino deve pagare 500 franchi. A tale domanda i
miei compagni di sventura gridano chiedendo grazia colle lagrime agli
occhi. Rispetto a me dissi tranquillamente, d'avere già risposto; ed
appoggiai le rimostranze di questi infelici.
Già il sole stava per tramontare, quando un _Wehhabita_ si presentò
dicendomi che l'Emiro aveva ridotta la contribuzione a 200 franchi:
nuove lagnanze, nuovi pianti per parte de' miei compagni, che
effettivamente non avevano di che supplirvi. In sulla sera ci conducono
in uno sfondato, ove ci dividono in due gruppi l'un dall'altro divisi.
Sopraggiungono nuovi _Wehhabiti_; i miei compagni erano atterriti, ed io
medesimo temeva d'essere in breve testimonio di una sanguinosa scena sui
nostri Turchi. Non temeva per riguardo mio perchè veniva riguardato come
un Arabo Mogrebino, ed i Turchi non potevano deporre il contrario; ma
non perciò era io meno afflitto per questi sventurati, che senza di me
non sarebbersi esposti a questo viaggio; ed intanto io non aveva veruna
influenza, verun mezzo per salvarli da una terribile catastrofe.
Dopo un'ora d'angoscie altri soldati ne ordinano di montare sui
dromedarj, dicendo che l'Emiro voleva esaminare isolatamente ciascun di
noi. Costretti di rifare la fatta strada nella più oscura notte che
immaginare si possa, attraversammo Djidèïda, ed a poca distanza ci
fecero far alto pel rimanente della notte. All'indomani mattina, venerdì
3 aprile, prima che levasse il sole continuammo a retrocedere, scortati
solamente da tre soldati Wehhabiti. Non si tardò a scoprire un campo di
belle tende. Supponeva di essere presentato all'Emiro, ma non tardai ad
accorgermi, ch'erano gl'impiegati, i domestici, e gli schiavi del tempio
di Medina che _Saaoud_ scacciava dall'Arabia. Giunti al campo, ci fu
ordinato di riempire ad una sorgente i nostri otri, e senza lasciarci
riposare ci obbligarono a riprendere il cammino.
Mentre si andavano riempiendo gli otri, il domestico che guidava il mio
cammello per la cavezza, preso da subito terrore, si mise a correre,
traendosi dietro il cammello, per porsi meco sotto la protezione della
carovana degl'impiegati del tempio, ma accorso uno de' _Wehhabiti_,
levandogli di mano la cavezza, lo gettò a terra dopo avergli dato un
calcio, e mi ricondusse alla carovana senza dirmi una parola.
Ci fecero passare per _Hamira_, piccola borgata somigliante a Djidèïda,
ma in più amena situazione, circondata da giardini e da bellissime
palme, nel centro di una gran valle, ed in vicinanza della bella
sorgente ov'eransi riempiuti gli otri; sorgente considerabile che
somministra una eccellente acqua, sebbene alquanto calda. Non tardarono
poi a farci uscire di strada, e salendo le montagne ci fecero scendere
dalle nostre cavalcature. Nuove discussioni pel pagamento della
contribuzione prolungaronsi fino alle tre ore dopo mezzogiorno. I
_Wehhabiti_ visitarono tutti i nostri effetti, ed in fine fecero pagare
20 franchi ad ogni turco; presero un _hhaik_, ed un sacco di biscotto ai
Mogrebini; impadronironsi di tre piastre spagnuole ch'io aveva scordate
nella mia cartella, ed il _caftan_ che apparteneva al mio maestro di
casa. Volevano 15 franchi da ogni conduttore di cammelli: il mio vi si
rifiutava, e partito per parlare all'Emiro; più non lo rividi. Allora ne
dissero essere assoluto ordine di _Saaoud_, che i pellegrini non vadano
a Medina, e ne riunirono subito alla carovana degl'impiegati del tempio,
che in questo frattempo passava in fondo ad una valle scortata da altri
soldati. In tal modo terminò, sto per dire felicemente, questo
disaggradevole contrattempo, quantunque mi sia rimasto lo sconforto di
non aver potuto fare un interessante viaggio, e di aver perduto
l'orologio che serviva alle mie osservazioni astronomiche.
A mezzo giorno mentre disputavasi intorno alla contribuzione, quantunque
non si vedesse alcuna nuvola, udironsi cinque o sei colpi di tuono.
Rispetto alla condotta tenuta dai _Wehhabiti_, deve riflettersi che noi
non ignoravamo l'espressa proibizione d'andar a visitare il sepolcro del
profeta a Medina. Avevamo dunque scientemente violata la legge, ed io mi
era esposto a tentare l'avventura, sperando che il caso potrebbe
favorirmi. Dunque i _Wehhabiti_ arrestandoci non fecero che dare
esecuzione all'ordine generale precedentemente stabilito. La
contribuzione esatta non era che un'ammenda della nostra trasgressione.
La maniera di esigerla fu veramente alquanto dura; ma deve condonarsi ad
uomini così poco inciviliti. Mi presero l'orologio ed il _bournous_; ma
perchè lasciaronmi gli altri effetti?.... Questi Arabi benchè
_Wehhabiti_ e sudditi di _Saaoud_ sono abitanti di un paese di fresco
soggiogato, e per conseguenza diversi assai dalla brillante gioventù
Wehhabita del Levante ch'io aveva veduta alla Mecca; perciò quando mi
presero l'orologio, ed il _bournous_, gli condonai di buon grado questo
avanzo di antichi vizj del loro paese; e resi grazie alla riforma
d'_Abdoulwehhab_ per avermi lasciati gli altri effetti, e gli strumenti
astronomici. Le minacce ed i cattivi trattamenti verso i Turchi non sono
che una conseguenza del loro risentimento e del loro odio contro questa
nazione, il di cui solo nome basta per renderli furibondi.
Questo sgraziato viaggio mi diede non pertanto una qualche idea del
deserto di Medina, ed una vicina conoscenza della posizione geografica
di questa città, fissandola a 2 gradi e 40 minuti all'est dell'Iemboa.
Riuniti alla carovana si camminò all'ouest. Speravo di rimpiazzare le
piante che aveva dovuto abbandonare; si tenne la medesima strada, ma
quando la carovana fece alto alle quattr'ore del mattino, mi vidi in
mezzo ad una valle affatto sterile, ove non osservai che una dozzina di
piante di niuna importanza. A mezzo giorno il termometro marcava
all'ombra 28 gradi di _Reaumur_. Trovavasi in questa carovana il nuovo
Kadì venuto da Costantinopoli, e destinato per Medina, col quale aveva
contratta domestichezza alla Mecca. Feci pure conoscenza del tesoriere e
primarj impiegati del tempio di Medina. Questi mi dissero che i
_Wehhabiti_ avevano distrutti gli ornamenti del sepolcro del Profeta;
che avevano chiuse e suggellate le porte del tempio, e che Saaoud erasi
appropriati tutti gl'immensi tesori accumulati in tanti secoli. Il
_tefterdar_ (tesoriere) mi assicurò che il valore delle sole perle, e
delle altre pietre preziose superava ogni stima.
La carovana aveva un salvacondotto di _Saaoud_, con cui ordinava di
rispettarla, lo che non impedì che fosse forzata ad abbandonare la
strada tostochè si trovò fuori della santa città, e che le fosse imposta
un'eccessiva contribuzione. Seppi pure che la carovana de' turchi della
Mecca era stata interamente spogliata nel suo passaggio di Medina, non
avendole nemmeno lasciati i viveri: talchè non si sa come costoro
abbiano potuto sopravvivere in questi deserti alla sete ed alla fame.
Il giorno quattro d'aprile scopersi alle quattr'ore il mare, e l'Iemboa
in sullo spontare del giorno susseguente, dopo avere viaggiato tutta la
notte. Recatomi subito a bordo trovai la mia gente assai inquieta
intorno alla mia sorte per le sinistre notizie che si erano sparse. Così
finì questo viaggio, nel quale dopo aver corso grandissimo pericolo, si
ebbe la fortuna di uscirne felicemente.
L'_Jenboa-en-Nahùl_, ossia _delle Palme_, trovasi una giornata lontana
all'E. ¼ N. E. dell'_Iemboa-el-Bàhar_, ossia del _Mare_. Questa città
situata in mezzo alla montagna è ben provveduta di acqua, di bei
giardini, e di una notabile quantità di palme, da cui ebbe il nome. Gli
abitanti sono tutti sceriffi o discendenti del Profeta, e grandi
guerrieri. L'Iemboa del mare è posta in una vasta pianura, che conserva
evidenti traccie d'essere stata in tempi non molto lontani abbandonata
dal mare. L'alta marea entra ancora nel primo circondario esteriore
della mura, ed inonda una parte della città. Il suo porto è buono,
potendovisi ancorare le grandi fregate, ma gli scogli ne ingombrano
l'ingresso. La città è circondata da vastissime mura affatto irregolari
del diametro approssimativo di 350 tese dall'est al nord, e di circa
duecento dal nord al sud. La sua popolazione è di circa tremila
abitanti. Le case sono basse, e i tetti piani.
Benchè l'Iemboa-el-Bahar sia sotto il dominio del sultano Sceriffo della
Mecca, che vi spedisce un governatore col nome d'_Ouisir_, riconosce
ancora la sovranità del sultano _Saaoud_, che vi tiene un kadì; ma non
gli si paga veruna contribuzione. Non è già perchè amino la riforma
d'_Abdoulwehhab_, che gli abitanti dell'Iemboa abbiano preso il nome di
_Wehhabiti_; ma perchè ne temono i seguaci, ch'essi odiano cordialmente.
Perciò sono sempre armati per impedire ch'entrino le truppe wehhabite
nel loro paese; e sono sempre disposti a respingerle colla forza. Fumano
pubblicamente per le strade, quantunque ciò si riguardi come un grave
peccato dai _Wehhabiti_.
Lo donne portano una grande camicia e mutande di tela turchina, con un
grande velo o mantello nero in capo, un anello che loro attraversa la
cartilagine del naso, anelli nelle dita, braccialetti e pendenti di
orecchie. Sono libere in modo, ch'io ne vidi molte affatto scoperte.
Il loro colore è bronzino come quello degli uomini, e tutte quelle ch'io
vidi sono sgraziate e deformi.
In tempo della mia dimora all'Iemboa si celebrò un pajo di nozze, ma non
ne udii che il rumore. Una cinquantina di donne passò tre notti cantando
ed accompagnandosi colle nacchere fin dopo mezza notte; e nell'ultima
all'istante in cui la sposa passava in dominio dello sposo,
incominciarono ad alzare acutissime grida con misura e ad intervalli;
battevano in pari tempo palma a palma, di modo che rassomigliavano
piuttosto ad una squadra di furie, che ad una unione di donne. Questa
scena durò una mezz'ora, e così terminò la festa.
Tutti i contorni dell'Iemboa offrono l'aspetto di un orrido deserto; e
non vi si trova che pochissime piante; ma le coste del mare mi diedero
molte belle conchiglie.
Buone osservazioni mi diedero per longitudine orientale della città 35°
12′ 15″ dell'osservatorio di Parigi, e la latitudine settentrionale di
25° 7′ 6″.


CAPITOLO XLI.
_Tragitto per andare a Suez. — Incaglio della nave. — Isola
Omelmelek. — Continuazione del viaggio. — Accidenti diversi. —
Sbarco d'Ali Bey a Gadiyahia. — Prosiegue il viaggio per
terra._

Tutti i _Daos_ che trovavansi nel porto dell'Iemboa riuniti a quelli che
venivano da Djedda, ed a molti altri piccoli bastimenti carichi di
caffè, misero alla vela il giorno 15 aprile a cinque ore e mezzo del
mattino per passare a Suez. Il mio capitano comandava i _Daos_
dell'Iemboa; ed un altro era alla testa di quelli di Djedda.
In tre giorni arrivammo nella rada detta _el-maado_, di dove vedeva al
S. O. l'isoletta dell'_Okàdi_, ove mi salvai dopo il naufragio del mio
tragitto per venire alla Mecca.

_Domenica 19 aprile._
Sembra che la sorte non abbia voluto ch'io facessi verun viaggio
marittimo senza qualche accidente. Alle quattro e mezzo del mattino la
nostra flottiglia fece vela con un leggier vento che portava al nord, ed
alle sei ore il mio _dao_ incagliò sopra uno scoglio a fior d'acqua: la
scossa fu terribile, e riportò una grande apertura all'estremità della
chiglia dalla banda di prua, per cui entrava l'acqua in abbondanza. Come
dipingere la confusione ed il turbamento dell'equipaggio in così fatale
momento...! Io mi affretto di guadagnare la scialuppa seguito da due
domestici e da pochi pellegrini portando meco le carte, ed i miei
strumenti. Presenti a tanto disastro, tutti gli altri bastimenti
ammainano le vele, e mandano le loro scialuppe in soccorso del _dao_
naufragato.
Il nostro primo pensiero, tosto che fummo in sicuro, fu di presentarci
per essere ricevuti in un altro bastimento. Il capitano cui prima mi
rivolsi rifiutò di ricevermi. Ebbi lo stesso rifiuto da un secondo; e mi
fu detto che in tali circostanze, sventuratamente troppo frequenti su
questo mare, è stabilito di non ricevere a bordo alcun uomo, nè alcuna
parte del carico del bastimento naufragato finchè il capitano non dia il
segno di farlo, perchè la cosa interessa il suo onore. Fummo perciò
costretti d'aspettare nella scialuppa la nostra sorte.
Convinto dell'impossibilità di fermare la quantità d'acqua ch'entrava
nella stiva, il capitano diede il convenuto segnale, e tosto fummo
ricevuti a bordo di un altro bastimento. Una parte del carico fu posto
sopra le scialuppe per essere diviso sugli altri _Dao_; e così
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