Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3 - 04

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Un pollo costa una piastra spagnuola, e gli erbaggi provengono da luoghi
assai lontani, non essendovi nelle vicinanze per mancanza di sorgenti nè
giardini nè orti. Non vi si beve che acqua di pioggia, ma assai buona
perchè conservata in ottime cisterne. Il pane non mi sembrò troppo
bianco. Vi si respira un'aria fragrante perchè in ogni angolo vi sono
venditori d'acqua da bevere i quali abbruciano continuamente incensi o
altri aromi. Lo stesso metodo si pratica nei caffè, nelle botteghe,
nelle case, ed in ogni luogo.
Contansi a Djedda circa cinquemila abitanti; e questa città può
riguardarsi come centro della circolazione del commercio interiore del
mar Rosso. I bastimenti di Moca vi portano il caffè e le derrate
dell'India e di tutto il Levante, ed in Djedda si ricaricano sopra altre
navi per Suez, Iemboa, e per tutti gli altri porti delle coste d'Arabia
e d'Affrica.
Se gli Arabi conoscessero meglio la navigazione, Moca potrebbe spedire
direttamente i suoi carichi a Suez senza accrescerne il prezzo col fare
scala a Diedda: ma ciò è quasi impossibile con bastimenti senza ponte,
mal costrutti, e mal capitanati.
Inoltre l'interesse degli Arabi deve opporsi a qualunque innovazione su
questo particolare, poichè adesso le derrate di transito lasciano nella
loro patria il prodotto degl'interessi, delle commissioni, de'
trasporti, delle gabelle ec.; il che tutto sarebbe perduto
perfezionandosi la navigazione: ed in questo caso Djedda cesserebbe di
essere uno scalo di tanta importanza. I negozianti di Djedda acquistano
a Moca, o a dir meglio i negozianti di Moca spediscono a Djedda le
mercanzie, che i negozianti del Cairo, per mezzo dei commissionati di
Suez, acquistano a Djedda. Trasportansi a Djedda per lo scalo di Suez
drappi ed altre manifatture d'Europa; ma queste non bastano per pagare i
prodotti dell'India, ed il caffè dell'Iemen. Vi si supplisce con piastre
Spagnuole, e grossi scudi di Germania, che sono a Djedda ricercatissimi,
perchè guadagnano assai nell'Iemen ed a Moca.
Parvemi che il negoziante incaricato de' miei affari a Djedda avesse un
commercio assai esteso; ma che scarseggiasse di numerario, perchè
difficilmente poteva averne quando gliene chiedeva.
Vidi molto lusso negli abiti e negli appartamenti delle persone agiate,
ma tra il basso popolo incontransi molte persone quasi affatto nude ed
estremamente miserabili.
La guarnigione è composta di dugento soldati Turchi o Arabi, che non
fanno il più piccolo servizio, riducendosi ogni loro incombenza a stare
seduti in un caffè giuocando agli scacchi, fumando, e prendendo caffè.
Non trovasi in Djedda verun cristiano Europeo; ed alcuni Cristiani Cofti
vivono confinati in una casa o caserma vicina allo sbarco.
Il principale personaggio, ed il più ricco negoziante chiamasi _Sïdi
Alarbi Djilani_; uomo di non comuni talenti, ed attaccato agl'Inglesi,
coi quali fa quasi tutto il suo commercio. In questo tempo gli abitanti
di Djedda erano crucciati coi Francesi, perchè nel precedente anno
questi ultimi eransi impadroniti di un ricco bastimento del Sultano
Sceriffo, e di altre navi Arabe; pure non chiedevano vendetta, nè
dichiaravano odio alla nazione Francese; anzi bramavano un
ravvicinamento, ma non sapevano come incominciarne le trattative. Io
suppongo che incominciassero ad amare realmente i Francesi dopo aver
veduta la loro condotta in Egitto.
Ingannato dalla fama de' cavalli Arabi avevo da Suez rimandati i miei al
Cairo; ma ebbi cagione di esserne pentito, non trovandosi a Djedda che
pochi cavalli di proprietà de' più ricchi negozianti che non volevano
privarsene. Non vidi alcun mulo; ma bensì asini alti e ben fatti,
sebbene però non superiori a quelli d'Egitto. Sonovi moltissimi
cammelli, le sole bestie da soma che si adoperino in questo paese.
Le strade sono affollate, come nelle altre città musulmane di cani
vagabondi o smarriti. Sembrano naturalmente divisi in separate tribù o
famiglie. Quando un cane ha l'ardire o la disgrazia di passare in un
dipartimento o tribù straniera, vi cagiona un rumore infernale, ed il
temerario non si salva mai senza essere stato assai maltrattato. Nè
minore è il numero de' gatti somiglianti affatto a quelli d'Europa.
Sonovi alcune mosche, ma non moscherini, nè insetti di altra specie.
Djedda è priva affatto di carbone, e non vi si abbruciano che poche
legna, trasportatevi da luoghi lontanissimi, o gli avanzi dei vecchi
navigli ed inservibili. Le farine si tirano dall'Affrica.
Gli abitanti sembraronmi una mescolanza di sangue Arabo, Abissino o
negro, e di un poco d'Indiano. Osservai parecchj individui di fisonomia
assai prossima a quella de' Chinesi, che non diversifica molto
dall'indiana. È così famigliare l'usanza di tenere schiave abissine o
negre, che appena arrivato a Djedda, il mio mercadante mi propose prima
d'ogni altra cosa l'acquisto di una negra: offerta che io rifiutai
benchè non proibita dalla legge, perchè durante il mio pellegrinaggio mi
riguardava come in istato di penitenza.
Si ritiene che cento bastimenti all'incirca vengono impiegati nel
cabotaggio da Djedda a Suez, ed altrettanti da Djedda a Moca; ma
trovandosene sempre molti inservibili può ridursi il numero ad ottanta.
A quelli che perdonsi ogni anno sugli scogli del Mar Rosso sottentrano i
nuovi che si fabbricano a Suez, a Djedda, a Moca.
Djedda poco prima aveva più ricchezze che all'epoca del mio passaggio;
essendole riuscite dannose le guerre de' _Wehhabiti_, perchè per lungo
tempo gli abitanti furono costretti di fare notte e giorno il mestiere
del soldato. D'altra parte la guerra d'Europa paralizza il commercio del
Levante; le rivoluzioni dell'Egitto, e dell'Arabia impediscono le
comunicazioni commerciali della contrada, e quelle di Barbaria rendono
assai difficili i pellegrinaggi degli occidentali; tutte circostanze
contrarie alla felicità ed alla prosperità di Djedda.
Fuori delle mura della città dalla banda di terra avvi un gran quartiere
di baracche assai popolato di famiglie quasi tutte povere, onde non si
trovano che mercanti di commestibili, e di cose di poco valore.
Il circondario di Djedda è un vero deserto, ed il suo clima
incostantissimo. Da un giorno all'altro io vedeva l'igrometro balzare
dall'estrema siccità all'estrema umidità. Il vento settentrionale che
attraversa i deserti dell'Arabia vi arriva talmente secco che inaridisce
all'istante la pelle, e l'aria è sempre ingombra di polvere. Se
sottentra il vento di mezzogiorno, si prova subito l'opposto estremo.
L'aria, e tutto ciò che si tocca è zeppo di umidità; ed una subita
spossatezza s'impadronisce delle nostre membra. Pure si crede più
salutare il vento umido, che il secco[5].
[5] _Tale è pure l'opinione degli abitanti di alcune città
marittime d'Europa._
Il maggior calore da me osservato fu di 23° di _Reaumur_. Coi venti di
mezzogiorno vidi l'atmosfera carica di una specie di nebbia.
Ebbi una notte la luna al mio zenit, ed un'altra dalla banda di
settentrione: era questo effetto della latitudine, trovandomi press'a
poco a due gradi al sud del tropico. Dopo il mio arrivo mi venivano
presentati ogni giorno piccoli vasi d'acqua del miracoloso pozzo Zemzem
della Mecca: io beveva, e pagava.
La vigilia della partenza alla volta della santa città essendo venuto a
trovarmi il capitano del bastimento, ruppe il mio igrometro.


CAPITOLO XXXIII.
_Continuazione del pellegrinaggio. — El Hhadda. — Arrivo alla
Mecca. — Ceremonia del pellegrinaggio alla Casa di Dio a Staffa
ed a Meroua. — Visita dell'interno della Kaaba, o Casa di Dio.
— Presentazione al Sultano Scheriffo. — Purificazione, o
lavacro della Kaaba. — Titolo d'onore acquistato d'Ali Bey. —
Arrivo dei Wehhabiti._

Trovandomi alquanto ristabilito in salute, benchè debole assai, partii
per la Mecca il 21 gennajo alle tre dopo mezzogiorno sopra una macchina
formata di travicelli, proveduta di un materasso in forma di piccolo
soffà, coperta di panni sostenuti con archi, e collocata sopra la
schiena di un cammello. Questa macchina chiamasi _schevria_, ed è
abbastanza comoda perchè uno può adagiarvisi come vuole: ma il movimento
del cammello che io non aveva prima provato, nello stato di attuale
debolezza mi riusciva incomodissimo.
I miei Arabi incominciarono a disputare tra di loro nelle strade della
città, facendovi altissime grida: e quando credeva terminata la lite, la
vidi ricominciata appena sortito di Djedda, in modo da sospendere il
cammino per un'ora e mezzo. Finalmente essendo succeduta alla burrasca
la calma, e già caricati i cammelli, ci avviammo alle cinque e mezzo
verso levante a traverso di una pianura deserta, terminata in fondo
all'orizzonte da gruppi staccati di piccole montagne che rompono
alquanto la monotonia del deserto.
Alle otto ore e mezzo della sera eravamo arrivati presso alle montagne,
che sono piccoli ammassi di pietre affatto prive di vegetazione.
La serenità del cielo, e la luna che passava sulle nostre teste facevano
la strada deliziosa, ed i miei Arabi cantavano e danzavano intorno a me.
Ma io non mi trovava troppo bene, non potendo più sopportare il moto del
cammello. A fronte di ciò stordito dal romore de' domestici, spossato
dalla fatica e dalla debolezza, mi addormentai per due ore.
Risvegliandomi sentii rinforzarsi la febbre, e mi venne un poco di
sangue della bocca.
Intanto i miei Arabi, essendosi anch'essi addormentati, uscirono di
strada. Dopo mezza notte accortisi d'essere su quella di Moca, piegarono
a N. E. fra montagne di mezzana altezza qua e là coperte di boschi,
finchè essendosi rimessi sulla direzione della Mecca, camminarono all'E.
fino alle sei ore del mattino di giovedì 22 gennajo, facendo alto in un
_dovar_ di baracche detto _el Hhadda_, ove trovasi un pozzo d'acqua
salmastra.
Io non posso dar conto esatto dello spazio percorso, ma suppongo che ci
trovassimo allora lontani circa otto leghe da Djedda. Le baracche di
questo _dovar_ sono tutte eguali, affatto rotonde, del diametro di sette
in otto piedi, con tetti conici alti da terra alla sommità circa sette
piedi. Sono formate da una linea di pali piantati in terra, e coperte di
foglie di palme, e di ramuscelli. Arrivando, ciascuno si prende una
baracca senza chiederne il permesso a chicchessia.
Il pozzo ha un piede e mezzo in ogni lato del quadrato, e dieci braccia
di profondità. Sta appeso alla sua apertura un secchio di cuoio con una
corda per servizio de' passeggieri. Esaminando l'interno del pozzo
vedesi, che il terreno fino a considerabile profondità è formato di
arena sciolta, poichè per impedirne lo smottamento fu palificato dalla
cima al fondo.
Le poche piante del circondario non hanno nè fiori nè frutta; e questo
luogo è precisamente una valle che va da levante a ponente in mezzo a
montagne di porfido d'un rosso più o meno oscuro.
Interessante parvemi il modo in cui in questo luogo si dà a mangiare ai
cammelli. Viene prima stesa sul suolo una stuoja, o un pezzo di tela in
forma circolare del diametro di cinque in sei piedi, sulla quale si pone
un mucchio d'erba spinosa minutamente tagliata: fatti questi
preparativi, si conduce un cammello che tranquillamente si adagia vicino
a questa tavola, poi un secondo, un terzo, un quarto, che adagiansi
nella stessa maniera a distanze eguali dalla tavola; allora cominciano a
mangiare con una politezza senza pari, e con bell'ordine, prendendo
ognuno l'erba a piccolissimi manipoli; e se taluno abbandona il proprio
luogo, il suo vicino lo riprende amichevolmente, e l'indiscreto rientra
in dovere; in una parola, la tavola dei cammelli è una fedele copia di
quella dei loro padroni.
Qui rinnovammo la cerimonia della purificazione, tal quale l'avevamo già
fatta ad Arabah, vale a dire l'abluzione generale ch'io feci con acqua
calda, e la preghiera recitata in istato di assoluta nudità, ec., come
sopra.
Gli abitanti del _dovar_ vendevano acqua dolce assai buona che
prendevano nelle vicine montagne dalla banda di mezzodì.
Partendo dal _dovar_ si venne a chiedermi, ed io diedi una
gratificazione per l'alloggio.
Alle tre ore dopo mezzogiorno si riprese la strada nella direzione di
levante. Non tardai a scoprire alcuni piccoli boschi; e verso sera si
passò in mezzo a montagne vulcaniche coperte di lava nera, e vidi gli
avanzi di alcune case rovinate dai _Wehhabiti_. Poi attraversando molte
collinette, alle undici e mezzo della sera ci trovammo in profonde e
strette gole, ove la strada tagliata a _zig-zag_ offre una eccellente
posizione militare. La sera di giovedì 23 gennajo 1807, 14 del mese
_doulkaada_ dell'anno 1221 dell'Egira, giunsi a mezza notte col favore
della Divina misericordia alle prime case della santa città della Mecca,
quindici mesi dopo sortito da Marocco.
Erano all'ingresso della città molti _Mogrebini_, o Arabi occidentali,
che mi aspettavano con piccoli vasi d'acqua del pozzo di _Zemzem_, che
mi offrirono per bere, pregandomi a non riceverne da altra persona, ed
assicurandomi di tenerne approvvigionata la mia casa: mi soggiunsero poi
all'orecchio di non bevere giammai di quella che mi offrirebbe il capo
del pozzo.
Molti particolari della città che pure mi aspettavano, disputavansi tra
di loro l'onore o il vantaggio di alloggiarmi, perchè gli alloggi sono
la principale speculazione degli abitanti sui pellegrini: ma le persone
che in tempo del mio soggiorno a Diedda eransi incaricate di provvedere
a tutti i miei bisogni, posero fine alle dispute, conducendomi in una
casa che m'era stata preparata accanto al tempio, e presso al palazzo
del Sultano Sceriffo.
I pellegrini devono entrare a piedi nella Mecca, ma in vista della mia
malattia restai sul cammello fino alla porta della casa.
Appena entrati, io ed i miei domestici facemmo un'abluzione generale,
indi fui condotto in processione al tempio con tutta la mia gente. La
persona incaricata di guidarmi recitava camminando varie preghiere ad
alta voce; e noi le ripetevamo tutt'insieme collo stesso tuono di voce
parola per parola. Io era tuttavia così debole che doveva farmi
sostenere da due domestici. Giunsi in tal modo al tempio facendo un giro
per la principale strada onde entrarvi pel _Beb-el Selèm_, ossia porta
della salute; lo che tien luogo di felice auspicio. Dopo essermi levati
i sandali passai per questa avventurata porta posta presso all'angolo
settentrionale del tempio. Già avevamo attraversato il portico o la
galleria; già stavamo per mettere il piede nel grande cortile, in cui è
posta la casa di Dio, quando la guida arrestò i nostri passi, e tenendo
il dito rivolto alla _Kaaba_, mi disse con enfasi: _Schous, schous
el-Beït-Allah el Haram_; «osservate, osservate la casa di Dio, la
proibita». Il numeroso seguito che mi circondava, il portico di colonne
a perdita di vista, l'immenso cortile del tempio, la casa di Dio coperta
della sua tela nera dall'alto fino al basso e circondata di lampade, il
silenzio della notte, e la guida che parlava come un ispirato;
tutt'insieme formava un imponente quadro che mai non si cancellerà dalla
mia memoria.
Entrammo nella corte per un sentiero diagonale alto un piede, che mette
dall'angolo del nord alla _Kaaba_, che è quasi nel centro del tempio.
Prima di giugnervi ci fecero passare sotto un arco isolato come una
specie d'arco trionfale, detto _Beb-el Selema_, come la porta per cui
eravamo entrati. Giunti innanzi alla Casa di Dio, facemmo una breve
preghiera, si baciò la pietra nera portata dall'Angelo _Gabriele_, e
nominata _Stàjera el Ason'ad_, ossia pietra celeste: avendo alla testa
la nostra guida, schierati nello stesso modo con cui eravamo venuti, e
recitando le preghiere in comune, facemmo il primo giro intorno alla
Casa di Dio.
La _Kaaba_ è una torre quadrata posta quasi in mezzo al tempio, coperta
d'una immensa tela nera che non lascia di scoperto che lo zoccolo
dell'edificio, lo spazio in cui sta murata la pietra nera all'altezza
d'un uomo sull'angolo dell'est, ed un altro eguale spazio nell'angolo
del sud occupato da un marmo comune. Dalla banda del N. O. sollevasi un
parapetto all'altezza d'appoggio, che forma quasi un mezzo cerchio
separato dall'edificio, e nominato _El-Stajar Ismail_, vale a dire
_pietre d'Ismaele_.
Ecco il circostanziato racconto delle successive cerimonie di questo
atto religioso, quali le feci io stesso in quest'epoca. Consistono
queste in sette giri intorno alla _Kaaba_. Si comincia ogni giro dalla
_pietra nera_ dell'angolo dell'est seguendo la fronte principale della
_Kaaba_ ov'è la porta, e di là girando all'ouest ed al sud al di fuori
delle pietre d'_Ismaele_, e giunti all'angolo del sud si stende il
braccio destro, e dopo aver passata la mano sopra il marmo angolare
(avendo grandissima attenzione che l'inferior parte dell'abito non
tocchi lo zoccolo scoperto), si passa la mano sul volto e sulla barba,
dicendo: _In nome di Dio: Dio grandissimo, sia data lode a Dio_. Si
prosegue la marcia verso N. E., dicendo: _Oh grande Iddio! siate con me:
datemi il bene in questo mondo; e datemi il bene nell'altro_; ritornato
poscia all'angolo dell'est in faccia alla _pietra nera_, si alzano le
mani come in principio della preghiera canonica, gridando: _in nome di
Dio_; _Dio grandissimo_; ed abbassate le mani si soggiugne, _sia data
lode a Dio_; dopo ciò si bacia la pietra; e così termina il primo giro.
Il secondo giro è affatto simile al primo; ma sono diverse le preghiere
dall'angolo della _pietra nera_ fino a quello del sud. La legge
tradizionale vuole che si facciano gli ultimi giri con passo frequente,
ma atteso lo stato di debolezza in cui mi trovava feci tutti i giri
posatamente.
Alla fine del settimo dopo avere baciata la _pietra nera_ viene recitata
in comune una breve preghiera stando in piedi in faccia al muro della
Kaaba tra la porta e la _pietra nera_. Si passa dopo in una specie di
corridojo, detto _Makam Ibrahim_, o luogo d'Abramo, che sta tra la Kaaba
e l'arco isolato, e colà si recita una preghiera ordinaria. In seguito
si va al pozzo _Zemzem_, dal quale si attingono molti vasi d'acqua, e se
ne beve quanta si può berne. Finalmente si esce dal tempio per
_el-Beb-Sàffa_, porta di Saffa, di dove si sale sopra una piccola strada
che gli è in faccia, e che forma la collina di Saffa, _Diébel Saffa_. In
fondo alla strada terminata da un portico di tre archi, su cui si sale
per alcuni gradini, avvi il luogo sacro detto _Sáffa_. Quando il
pellegrino vi è salito, volge la fronte verso la porta del tempio, e
recita stando in piedi una breve preghiera.
Allora si va in processione verso la strada principale, e si attraversa
una parte del _Dièbel-Méroua_, o collina di Meroua, recitando
continuamente preghiere: in fondo alla strada che è tagliata da un'alta
muraglia, si sale per pochi gradini, col corpo rivolto al tempio, benchè
le case intermedie non permettano di vederlo, e si pronuncia sempre in
piedi una piccola preghiera. Si fa un secondo viaggio verso _Saffa_, un
terzo verso _Méroua_; e così di tempo in tempo fino alla settima volta
recitando preghiere ad alta voce, e facendo le piccole preghiere ne' due
luoghi sacri; lo che forma il settimo viaggio tra le due colline.
Avendo terminato il mio settimo viaggio a Meroua, vidi alcuni barbieri
stazionati in questo luogo per radere la testa ai pellegrini: lo che
eseguiscono con somma leggerezza, e recitando preghiere ad alta voce che
il pellegrino ripete parola per parola. Questa operazione termina le
prime cerimonie del pellegrinaggio alla Mecca.
È noto che quasi tutti i Musulmani si lasciano crescere in mezzo alla
testa una ciocca di capelli; ma perchè il riformatore _Abdoul-wehhab_
dichiarò che la conservazione di questa ciocca è un peccato, e che i
_Wehhabiti_, dominano nel paese, tutti si radono interamente la testa.
Fui dunque anch'io forzato di lasciar cadere la mia lunga ciocca sotto
le mani dell'inesorabile barbiere.
Già si avvicinava il giorno quando si terminava di soddisfare a questi
primi doveri: allora mi si disse, che poteva ritirarmi per prendere un
poco di riposo; ma perchè non era lontana l'ora della preghiera del
mattino, scelsi di tornare al tempio, malgrado la mia debolezza e la
sostenuta fatica, ed andai a casa solamente alle sei ore.
Al mezzodì dello stesso giorno tornai al tempio per la preghiera
pubblica del venerdì, dopo aver fatta un'altra volta i sette giri della
_Kaaba_, recitata una preghiera particolare, e bevuto largamente
dell'acqua dello _Zemzem_.
All'indomani sabato 24 gennajo 1807, 15 del mese Doulkaada l'anno 1221
dell'Egira, si aprì la porta della _Kaaba_; ciò che si fa soltanto tre
volte all'anno in tre diversi giorni. La prima volta affinchè tutti gli
uomini che sono alla Mecca possano fare le loro preghiere nell'interno;
la seconda, che ha luogo il giorno dopo, per le donne; e la terza,
passati altri cinque giorni, è destinata a lavare e purificare la casa
di Dio. Per questa ragione i pellegrini che non si trattengono alla
Mecca che otto o dieci giorni all'epoca del pellegrinaggio di Aàrafat,
partono senz'aver veduto l'interno del tempio.
La porta della _Kaaba_ è nella faccia del N. E. a breve distanza dalla
_pietra nera_, ed è alta circa sei piedi sopra il livello del gran
cortile del tempio. Per entrarvi vien collocata al di fuori una bella
scala di legno portata da sei ruote di bronzo.
In questo giorno fui condotto al tempio, e perchè la gente vi era
affollata, mi fecero sedere in una specie di ricinto ove sta la guardia
della _Kaaba_ in faccia alla _pietra nera_. Questa guardia è composta di
eunuchi negri. Essendosi scemata alquanto la gente, alcune guardie e la
mia guida mi condussero nella casa di Dio; e si presero essi la cura di
farmi mettere il piè destro sul primo gradino della scala. Entrato nella
_Kaaba_ fui direttamente condotto nell'angolo che guarda al sud, ove
stando in piedi col corpo, e col volto possibilmente appoggiati contro
la muraglia, recitai ad alta voce una preghiera; e quindi feci la
preghiera ordinaria in faccia all'angolo del sud. Passai subito
all'angolo che guarda all'O., e quindi all'angolo del N. facendo in
ambedue ciò che fatto aveva nell'angolo del S. Di là essendo venuto
all'angolo dell'E., ove non feci che una breve preghiera in piedi,
baciai la chiave d'argento della _Kaaba_, che un fanciullo dello
Sceriffo seduto sopra un soffà teneva a quest'oggetto in mano. Uscii
scortato dai Negri che a forza di pugni mi facevano far largo. Appena
fui fuori della _Kaaba_ baciai la _pietra nera_, e feci di nuovo i sette
giri della casa di Dio; entrai poscia entro una piccola fossa a piè
della _Kaaba_, ed accanto alla porta, ove recitai la preghiera consueta,
e dopo aver bevuta l'acqua del pozzo _Zemzem_ ritornai al mio alloggio.
Al mezzo giorno ebbi avviso di tenermi preparato ad essere presentato al
sultano Sceriffo.
Il _Nikeb-el-Ascharaf_, o capo degli Sceriffi, venne a prendermi, e mi
condusse al palazzo. Egli mi precedette, ed io rimasi alla porta
aspettando l'ordine d'entrare. Un istante dopo il capo del pozzo di
_Zemzem_, _ch'era di già mio amico_, scese per cercarmi. Montammo la
scala, a metà della quale evvi una porta che ne chiude il passaggio. Il
mio conduttore picchiò a questa porta, che fu aperta da due domestici, e
noi continuammo a salire: attraversammo in seguito un corritojo oscuro,
e dopo aver lasciate le pappuzze in questo luogo, entrammo in una bella
sala, ov'era il sultano Sceriffo, detto Sceriffo _Ghàleb_, seduto presso
ad una finestra, e circondato da sei personaggi che stavano in piedi.
Poichè l'ebbi salutato mi fece le seguenti interrogazioni.
S. Parlate voi l'arabo[6]?
[6] _Lo Sceriffo mi credeva Turco._
A. Sì, Sire.
S. Ed il turco?
A. No, Sire.
S. L'arabo solamente?
A. Sì, Sire.
S. Parlate voi le lingue dei Cristiani?
A. Alcune.
S. Qual è il vostro paese?
A. Aleppo.
S. Siete voi uscito assai giovane della vostra patria?
A. Sì, Sire.
S. Ove foste durante la vostra assenza?
Gli raccontai la mia storia. Allora lo Sceriffo disse a quello che gli
stava a sinistra: _parla assai bene l'arabo; il suo accento è veramente
arabo_; e volgendomi di nuovo la parola, dissemi alzando la voce,
_avvicinatevi_. Mi appressai un poco, ed egli ripetè, _avvicinatevi_; ed
allora mi avanzai fino a lui. _Sedetevi_, mi disse, ed essendomi
affrettato di ubbidirlo, fece pure sedere il personaggio che gli stava a
sinistra.
Voi avrete senza dubbio notizie del paese de' cristiani, ripigliò lo
Sceriffo: ditemi le ultime che aveste. Gli feci un breve quadro dello
stato attuale d'Europa. Mi domandò: sapete voi leggere e scrivere il
francese? Un poco, Sire. — _Soltanto un poco, o bene?_ Un poco, e non
più, Sire. _Quali sono le lingue che parlate e scrivete meglio?_
L'italiano e lo spagnuolo. Così continuammo a conversare più di un'ora.
In appresso dopo avergli presentato il mio regalo, ed il firmano del
Capitano pascià, mi ritirai accompagnato dal capo dello _Zemzem_, che mi
condusse fino a casa.
Prima di passar oltre voglio dare contezza di questo importante
personaggio, ch'erasi fatto mio amico. Era questi un giovane di ventidue
in ventiquattr'anni, di una bellissima figura, occhi vivaci, ben
vestito, assai gentile, d'un'aria dolce e seducente, e fornito di tutte
le esteriori qualità che rendono amabile una persona. Depositario della
intera confidenza dello Sceriffo, occupa il più importante impiego. È
l'avvelenatore in titolo.... Rassicurati, lettore; nè questo nome ti
faccia tremare per me. Quest'uomo pericoloso mi era noto anche avanti.
Dopo la prima volta che fui al _Zemzem_, egli mi faceva assiduamente la
corte; aveva già da lui ricevuto un magnifico pranzo; ogni giorno
mandavami due bottiglie d'acqua del pozzo miracoloso: spiava i momenti
in cui mi recava al tempio, e si affrettava di venire a presentarmi coi
più dilicati modi una tazza colma d'acqua miracolosa, che io beveva
senza timore fino all'ultima goccia. Questo scellerato tiene gli stessi
modi verso tutti i Pascià, e personaggi d'importanza, che recansi alla
Mecca. Dietro il più leggiero sospetto, e per capriccio, lo Sceriffo
ordina, e lo sventurato straniero ha ben tosto cessato di esistere.
Siccome sarebbe un'empietà il rifiutare l'acqua sacra presentata dal
Capo del pozzo, quest'uomo con tal mezzo è padrone della vita di tutti i
pellegrini; ed ha già sacrificato molte vittime. Da tempo immemorabile i
sultani Sceriffi della Mecca tengono un avvelenatore alla loro corte; ed
è cosa notabile che non si curino di tenere celato l'arcano, poichè si
conosce in Egitto ed a Costantinopoli a segno, che il Divano ha più
volte mandati alla Mecca Pascià, ed altri personaggi per isbarazzarsene
in tal maniera. Ecco la ragione per cui i Mogrebini, e gli Arabi
d'occidente erano solleciti di prevenirmi di stare in guardia al mio
arrivo in questa città. I miei domestici non sapevano soffrire il
traditore, ed io gli dava i meno equivoci segni di confidenza,
affrontava le sue acque, ed i suoi pranzi con una serenità
imperturbabile; e soltanto ebbi la precauzione di tener sempre in tasca
tre prese di _zinco vitriolato_, vomitivo assai più efficace del tartaro
emetico, e che opera all'istante, onde usarne tostochè avessi il più
piccolo indizio di tradimento.
Parvemi che lo Sceriffo fosse dell'età di trenta in quarant'anni: la sua
carnagione è alquanto bruna; ha grandi e begli occhi, e barba regolare;
è grasso, e non pertanto assai vivace. Il suo abito consiste in un
_benisch_, _caftan_ esteriore, un _caftan_ interiore con uno sciallo di
cachemiro, ed un cachemiro, ed altro sciallo della stessa qualità per
turbante. Aveva dietro di lui un gran cuscino, un altro a lato, ed un
terzo più piccolo avanti, sul quale si appoggiava frequentemente. Nella
sala non vidi altri arredi nè ornamenti fuorchè un gran tappeto che
copriva tutto il suolo. In tempo della mia visita il sultano Sceriffo
fumava una pipa persiana, o _nerguilè_, ch'era posta in una altra
camera, e la di cui canna di cuojo per mezzo d'un foro fatto nel muro
terminavasi alla sua bocca. Il riformatore _Abdoulwehhàb_ avendo
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