Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3 - 03

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Se in così triste circostanze si fa tuttavia al Cairo un notabile
commercio, quale sarebbe in più felici tempi e sotto un provvido
governo...!


CAPITOLO XXXII.
_Viaggio a Suez. — Navigli Arabi. — Tragitto del mar Rosso. —
Pericolo della Nave. — Arrivo a Diedda. — Vertenza col
governatore. — Diedda._

Agli 11 di dicembre, essendo terminato il Ramadan, feci le necessarie
disposizioni per proseguire il viaggio della Mecca. Varj miei amici
scrissero ai loro corrispondenti di Suez, di Diedda, e della Mecca, per
prepararmi alloggio e protezione in tutti i luoghi in cui doveva
trattenermi; ed il lunedì 15 dicembre 1806 uscii dal Cairo accompagnato
da molti scheik. A non molta distanza dalla città presi congedo da
questi buoni amici, cui non poteva permettere d'avanzarsi più oltre nel
deserto, e due o tre ore dopo, feci alto ad _Ahsas_ lontano mezza lega
al Nord di Mafarieh[3].
[3] _Avendo _Ali Bey_ perduto il giornale del viaggio del Cairo
a Diedda, fu obbligato di rifarlo col soccorso di alcuni fogli
staccati; ed avendo poscia rifatta la stessa strada ritornando
dalla Mecca al Cairo, di poco danno ha potuto essere la perdita
delle particolarità rimarcate nella descrizione del primo._
Ad Ahsas attesi due giorni sotto la tenda la riunione d'una numerosa
carovana. In questo frattempo alcuni amici del Cairo sì musulmani che
cristiani vennero a trovarmi, e tra questi il console francese
accompagnato da molte persone, e da cinque Mamelucchi rinnegati Francesi
al servizio di _Mehemed Ali_. Interpellai costoro se fossero contenti
del presente loro stato, e seppi che dopo aver fatto parte dell'armata
francese, avevano preso il turbante, e che trovavansi vantaggiosamente
stabiliti in Egitto colle loro famiglie. Hanno una piastra spagnuola al
giorno, ed essendo quasi sempre in commissione ne' villaggi per
riscuotere le contribuzioni e per altri oggetti, ne ritraggono
considerabili vantaggi. Hanno inoltre bellissimi cavalli, e sono
riccamente equipaggiati.
Il segno della partenza fu dato il Giovedì 18 a mezzogiorno, e subito si
videro arrivare da tutte le bande lunghe file di cammelli che uscivano
dai rispettivi accampamenti per riunirsi agli altri, che tutti si posero
in cammino a traverso il deserto dirigendosi a levante.
Io non conduceva meco che quattordici cammelli, avendo lasciati in
Egitto la maggior parte de' miei effetti ed alcuni domestici. La
carovana conteneva cinquemila cammelli, e due in trecento cavalli, ed
era composta di musulmani d'ogni nazione che facevano il pellegrinaggio
della Mecca. I cammelli camminano in lunga fila, e con un passo eguale
come quello di un pendulo. Si passò parte della notte accampati in mezzo
al deserto.

_Venerdì 19 dicembre._
Siccome la carovana camminava lentamente, tenendo sempre la medesima
direzione io la sopravanzava, accompagnato da due domestici, i quali
tendevano un piccolo tappeto ed un cuscino presso la strada, e su questo
restava seduto più di tre quarti d'ora che richiedevansi pel passaggio
della carovana; ed allora rimontando a cavallo ripeteva la stessa
operazione tre o quattro volte al giorno, ingannando in tal modo il
tedio di quel lento viaggio.
Tutto questo deserto è composto di colline di arena affatto sciolta, e
priva di qualunque essere vegetabile o animale; non un insetto, non un
uccello. Scopresi a destra in molta distanza una diramazione del Djebèl
Mokkattàm, ossia montagna tagliata del Cairo, che si prolunga fin presso
a Suez.

_Sabato 20._
Si riprese il cammino in sul far del giorno; e giunto sulla sommità
d'una collina vidi in molta distanza la città di Suez. Allora tutti
quelli ch'erano a cavallo, e gli Arabi armati, sui cammelli o sui
dromedarj, si posero in sul davanti della carovana formando come una
linea di battaglia, e proseguirono la marcia così ordinati. Non molto
dopo scoprimmo un branco di gente a cavallo che sortiva da Suez per
venirci incontro. Già ci preparavamo a difenderci, quando si riconobbero
per soldati Arnauti, ed abitanti di Suez: la gioja sottentrò al timore,
e riunitisi insieme i due corpi si rinnovarono le allegrezze.
Noi marciavamo collo stess'ordine sopra una lunga linea, mentre alcuni
Arabi staccandosi qua e là a destra ed a sinistra, si sfidavano l'un
l'altro e divertivansi correndo, e tirando delle fucilate parallelamente
alla nostra linea, talchè sentivasi il fischio delle palle che ci
passavano assai dappresso; lo che riusciva sommamente piacevole alla
carovana. Ed a dir vero è uno straordinario colpo d'occhio il vedere
questi Arabi staccarsi dalla linea, correre a briglia sciolta, montati
sopra cavalli o dromedarj, colla lancia in resta in una direzione
parallela alla linea, e tanto vicini che la punta della lancia passava
lontana quattro dita dal naso dei nostri cavalli. Figurisi la specie di
movimento che dovevano dare ai loro cavalli per non toccare la linea che
andava avanzando: era duopo che i loro cavalli corressero con passo
obliquo e veloce come il lampo: che cavalli sono mai gli arabi!
Finalmente verso mezzogiorno in mezzo al romore delle fucilate ed ai
gridi di gioja la carovana entrò in Suez, ove io fui alloggiato nella
casa che mi era stata preparata alcuni giorni avanti.
Suez è una piccola città che cade in ruina, abitata da circa cinquecento
musulmani e trenta cristiani. Attesa la sua posizione all'estremità del
mar Rosso, da questo lato è la chiave del basso Egitto, tanto più che
non avvi alcun altro punto d'appoggio in tutta l'estensione del deserto.
Il suo porto è così cattivo che i bastimenti del mar Rosso, detti _Dao_,
non possono entrarvi che durante l'alta marea, e dopo avere sbarcato il
loro carico. Ma il vero porto di Suez trovasi al sud in distanza di
mezza lega sulla costa d'Affrica, ed è praticabile anche dalle grandi
fregate.
In faccia a Suez il mar Rosso non ha più di due miglia di larghezza in
tempo dell'alta marea, e circa due terzi di miglio nella bassa. Lo
sbarco è comodo assai; le strade della città di fondo arenoso sono
regolari, ma non selciate; e le case, e le moschee vanno quasi tutte in
ruina. Variabilissimo è il clima del paese. Il pubblico mercato è
sufficientemente provveduto di alcuni articoli: riceve i viveri per mare
delle due coste dell'Arabia e dell'Affrica; ed il monte Sinai
somministra buone frutta e buone verdure. Il pane è mal fabbricato, i
pesci e le carni scarseggiano, e talvolta queste mancano affatto. Il
concorso dei convogli marittimi e delle carovane fanno circolare molto
danaro tra quegli attivi abitanti, che tutti, niuno eccettuato, sono
mercanti o facchini.
Le acque più vicine a Suez sono i pozzi di _El-Bir-Suez_ lontano una
lega ed un quarto sulla strada del Cairo, e le _El-Aayon-Moussa_, o
fontane di Mosè sono ancora più lontane; ma le prime sono salmastre, le
seconde puzzolenti. La sola acqua buona è quella che si porta dalle
montagne dell'est; e questa è carissima, ed in così piccola quantità,
che talvolta conviene incontrare dispute e battersi per un otre di
acqua. Il terreno che circonda Suez è così arido che non vi si vede un
albero, nè un filo d'erba.
I cristiani Greci di Suez vi hanno una chiesa ed un passo.
La città è circondata di cattive mura, di alcune trincee, e di poche
altre opere erette dai Francesi; ma tutti questi ripari non sono armati
che di due o tre pezzi di cannone di due libbre di palla. Un negro
schiavo d'un particolare del Cairo governava in allora Suez col titolo
di Agà, ed aveva sotto i suoi ordini una trentina di Arnauti. Il suo
kiàja, o luogotenente governatore disimpegnava pure le incombenze di
giudice civile. Tutti questi soldati ed i loro capi guadagnano assai con
i continui contrabbandi. In Suez non si esercita arte veruna fuorchè
quella di calafattiere.
Due soli giorni dimorai in questa città essendomi imbarcato il martedì
23 dicembre 1806 sopra un _Dao_ per passare sul mar Rosso a Diedda.
Il _Dao_ è il naviglio arabo di maggior portata che veleggi su questo
mare. Singolare affatto n'è la sua costruzione, l'altezza è un terzo al
più della lunghezza del corpo del naviglio, e questa lunghezza viene
inoltre accresciuta nella parte superiore da una lunga proiezione a
prora ed a poppa in sull'andamento delle antiche galee Trojane.
_Proporzioni del_ Dao _da me montato_
Piedi Parigini
Lunghezza del _Dao_ 43 —
Projezione della poppa 16 —
Projezione della prora 52 —
Maggior larghezza del corpo 21 —
Altezza del carcasso 16 —
L'albero misurato dal fondo
della cala 60 —
L'antenna 80 —
Larghezza media della camera 14 —
Sua lunghezza 14 —
Altezza 5 ¼
Le corde sono di corteccia di palma, e le vele di grosso cotone. Porta
tre vele di ricambio di diversa grandezza, e due piccole vele latine; ma
non se ne spiega mai più d'una grande o piccola a seconda del bisogno.
Il _Dao_ da me montato non aveva altro carico che alcuni gruppi
d'argento monetato, chiusi in sacchi suggellati dai negozianti di Suez o
del Cairo, diretti ai loro corrispondenti di Diedda. Aveva noleggiata la
camera per me solo; ed i miei domestici rimanevano nel corpo del
bastimento con altri cinquanta pellegrini all'incirca. Il capitano era
di Mokha, ed i quindici marinaj dell'equipaggio erano piccoli e neri
come scimie. Dopo essere rimasto tre giorni all'ancora si mise alla vela
in sull'avvicinarsi della sera del 26.

_Sabato 27._
Avendo navigato tutta la notte e tutto il giorno del 27, si gettò
l'ancora alle quattro della sera in un porto della costa d'Arabia
chiamato _El-Hamman-Piràoun_, ossia bagni di _Faraone_. Dietro le mie
osservazioni la longitudine di questo luogo è di 30° 43′ 25″
dell'osservatorio di Parigi alla punta del Capo _Almarhha_.

_Domenica 28._
All'entrare della notte si gettò l'ancora in vicinanza della città di
Tor sulla costa d'Arabia.

_Lunedì 29._
La mattina il nostro _Dao_ entrò nel porto di Tor, ove restò all'ancora
tutto il giorno. Le mie osservazioni mi diedero la longitudine di 31°
12′ 55″.

_Martedì 30._
Si tenne il mare tutto il giorno, e passammo innanzi al Capo
_Ras-Aboumohhammed_ sulla costa medesima.

_Mercoledì 31 dicembre 1806._
Dopo aver navigato tutta la notte per attraversare il braccio di mare
che si avanza entro l'Arabia, chiamato _Bahàr el-Akkaba_, il nostro
capitano fece gettar l'ancora avanti sera in un piccolo porto chiuso,
posto in una delle isole _Naàman_, ossia degli struzzi.

_Giovedì 1.º gennajo 1807._
Si veleggiò tutto il giorno, e verso sera si diede fondo sulla costa
d'Arabia.

_Venerdì 2._
La stessa manovra del precedente giorno.
La navigazione del mar Rosso è spaventosa. Si viaggia quasi sempre in
mezzo a scogli ed a rupi a fior d'acqua; di modo che per dirigere il
bastimento conviene tener sempre quattro o cinque uomini sulla prora che
osservino attentamente la strada, ed avvisino colle loro grida il
timoniere di piegare a dritta o a sinistra: ma se essi s'ingannano, se
scoprono lo scoglio troppo tardi, se il timoniere che non vede gli
scogli non se ne scosta abbastanza, o scostandosi troppo porti il
naviglio sopra uno scoglio vicino non osservato, se intende a rovescio
il grido, come suole talvolta accadere, se nel breve intervallo della
scoperta dello scoglio sott'acqua e dell'avanzarsi del bastimento al
luogo del pericolo, il vento o la corrente si oppongono al cambiamento
di direzione: quanti istanti si cammina tra la vita e la morte in così
pericolose acque! Perciò contansi tutti gli anni molti naufragj su
questo mare, che sembra vendicarsi dell'audacia dei naviganti: ma che è
mai il timore della morte contro l'allettamento del guadagno? I navigli
Arabi che portano i preziosi prodotti dell'India, della Persia, e delle
Arabie solcano continuamente questo mare avido di vittime.
Per mettere alcun riparo a tanti inconvenienti i _Dao_ hanno al disotto
una falsa carena, che quando si tocca ammorza alquanto il colpo, e salva
il naviglio, se la scossa non è troppo violenta. D'altra parte l'immensa
vela di cotone quasi grossa un dito, la sua cattiva forma che richiede
la stessa manovra d'una vela latina, dovendosi per cambiar rombo
staccare la vela che allora volteggia come un immenso stendardo, e dà
scossa terribili; le corde grossolane di corteccia che ubbidiscono a
stento: tutti questi inconvenienti rendono la manovra così pesante e
tarda, che io stesso sono sorpreso come i naufragj non siano molto più
frequenti. In un naviglio quindici uomini d'equipaggio non bastavano
ogni volta per manovrare la vela, e rendevasi necessario l'ajuto de'
passeggieri.

_Sabbato 3._
Passammo in mezzo al gruppo delle molte isole _Hamara_, e si gettò
l'ancora presso una di loro.

_Domenica 4._
Si diede fondo in sul far della notte presso un'isola in mezzo agli
scogli.

_Lunedì 5._
Giorno terribile. Dopo la mezza notte si levò una furiosa burrasca. Il
vento rinfrescò talmente che alle due ore del mattino i colpi d'uragano
succedevansi incessantemente con maggior violenza, onde in pochi minuti
le gomene delle quattro ancore furono spezzate.
Il naviglio in preda al furore del vento e delle onde fu spinto sopra
uno scoglio, contro il quale incominciava a dare colpi terribili.
L'equipaggio credendosi perduto gettava grida disperate. Tra questi
clamori io distingueva la voce d'un uomo che singhiozzava e piangeva
come un fanciullo; ed avendo chiesto chi fosse, mi fu risposto essere il
capitano. Feci, ma inutilmente, cercare il piloto; onde vedendo la cosa
disperata perchè il naviglio, abbandonato alla sua ventura, continuava a
dar colpi orribili, non volli aspettare che si aprisse contro gli
scogli: grido ai miei domestici: _la scialuppa_; ed essi se ne rendono
all'istante padroni. Allora tutti vi si vogliono precipitare; mi si dà
la mano, e salto nella scialuppa sopra la testa de' passeggieri, ed
ordino che si allontani dal naviglio: ma un uomo che aveva il padre a
bordo la riteneva con una corda del bastimento che aveva in mano,
gridando _Abouya! Abouya!_ _oh mio padre! oh mio padre!_ Io rispettai un
momento questo slancio d'amore filiale; ma vedendo un gruppo di gente
disposta a saltare nella scialuppa, grido a questo buon figliuolo di
lasciar la corda; ma ostinandosi a chiamare il padre, glie la faccio
abbandonare con un pugno datogli sulla mano, e nell'istante medesimo la
scialuppa vien portata dugento tese lontana dal _Dao_. Questa scena non
durò un minuto; brevi momenti, ma spaventosi.... Invece della dolce luce
della luna che doveva rischiarare il nostro cammino, un denso velo di
nere nuvole ci teneva in una profonda oscurità. Eravamo quasi nudi: i
colpi di mare riempivano tratto tratto la scialuppa di acqua, e ad
intervalli cadeva l'acqua a torrenti. Nasce una disputa; gli uni
vogliono andare alla dritta; gli altri a sinistra, quasi fosse possibile
di conoscere in mezzo alle tenebre la nostra direzione. La disputa
facendosi più calda, io la feci cessare impadronendomi del timone, e
loro dicendo con voce risoluta: _io ne so più degli altri, e prendo il
timone della scialuppa; guai a chi tentasse di riprendermelo._
Aveva avanti sera assai bene osservata la posizione della terra, ma non
sapeva qual direzione mi prendessi. In mezzo alle tenebre non potendo
orizzontarmi, cercava, per quanto lo poteva, di conservare la mia
posizione rispetto al bastimento che io vedeva ancora. Per colmo di
sventura mi trovava attaccato da frequenti vomiti di bile: pure non
abbandonai il timone.
Ordinai di remare, ma i miei compagni non sapevano remare: assegno ad
ognuno il suo posto, e dopo aver distribuiti i remi, ne insegno loro la
manovra, e mi faccio a cantare sull'andamento de' marinai del mar Rosso
per dar loro la misura, onde il movimento fosse uniforme. Quale
spettacolo! Io mi trovava quasi nudo esposto ai colpi del mare, alla
pioggia, alla grandine, colle mani attaccate al timone senza saper ove
andare, molestato da violenti accessi di vomito, eppure obbligato di
cantare per regolare la manovra. Talvolta la scialuppa, nostra ultima
speranza, urtava nello scoglio, e ci faceva gelare il sangue. Finalmente
dopo una lunga ora di così tormentosa angoscia, le nuvole si allargarono
alquanto, ed un raggio di luce avendomi dato modo di orizzontarmi, e
fatta rinascere nel mio cuore la speranza, gridai: _siamo salvi_. Allora
drizzai la scialuppa verso la costa dell'Arabia, quantunque non fosse
ancora visibile; e dopo tre ore d'immense fatiche, ci trovammo presso
terra allo spuntar del giorno.
Sbarcammo tutti quasi nudi o in camicia: eravamo quindici. Il nostro
primo atto fu quello di abbracciarci a vicenda, felicitandoci della
nostra salvezza; i miei compagni sopra tutto non potevano saziarsi di
attestarmi la loro sorpresa per così buona riuscita; chiedevanmi come
aveva potuto sapere malgrado tanta oscurità, che la terra era là..., e
per uno spontaneo movimento di riconoscenza, spogliaronsi di parte delle
loro vesti per ricoprirmi; e per tal modo mi trovai ben tosto vestito,
grottescamente è vero, ma riparato dal vento che soffiava freddissimo.
Ci rimaneva a sapere a qual terra eravamo approdati. Mandai a
riconoscerla quattro uomini; ed il loro rapporto mi persuase essere
scesi in un'isola deserta, che altro non era che un piano di arena
mobile senz'acqua, senza rupe, e senza vegetazione. Ben si vedeva la
gran terra poche leghe lontana, ma come avventurarsi ancora nella
scialuppa sopra un mare sempre burrascoso? e se la burrasca durasse
alcuni giorni come potevamo durarla senza mangiare e senza bere? Il
cielo che s'andava rischiarando, mi permise di vedere il nostro
bastimento all'orizzonte accompagnato da un altro _Dao_. Quale non fu la
nostra gioja nel rivederlo quando credevasi già perduto.... Di dove
veniva mai l'altro bastimento?
Il tempo tornò ad imperversare: la pioggia cadeva a torrenti, ed un
vento gelato ne toglieva quasi il sentimento. Ci tenevamo strettamente
serrati gli uni contro gli altri, ed il solo cappotto che avevamo fu
steso sopra le nostre teste; difendendoci in tal modo dalla pioggia e
dal vento, e riscaldandoci alquanto. Verso mezzo giorno il tempo si
calmò un poco, e la scialuppa dell'altro bastimento che andava in
traccia di noi vivi o morti, si avanzò abbastanza per conoscere i segni
che andavamo facendo con una camicia in cima di un remo. Bentosto si
avvicinò; ed i marinai ci assicurarono che il _Dao_ erasi salvato senza
aver sofferte considerabili avarie, perchè era fortissimo, ed era quasi
senza carico. Perchè aveva perdute tutte le ancore fu fortunatamente
soccorso dall'altro, che arrivandogli sopra accidentalmente nell'istante
del maggior pericolo, gli somministrò un'ancora e corde.
Ci rimbarcammo sopra le due scialuppe, e tornammo al bastimento. Qual
tenera scena fu quella del nostro amico a bordo! Tutti lieti di vedermi
salvo gettavanmisi ai piedi piangendo d'allegrezza, mi abbracciavano, e
non sapevano come significarmi la loro gioja, perchè ci avevano creduti
inghiottiti dalle onde, come noi credevamo il bastimento spezzato contro
lo scoglio. Il mio cuore non potè resistere a così tenera scena; e
profondamente commosso da questa spontanea testimonianza del loro
affetto, mi trovai gli occhi umidi di pianto.
Nel terribile istante in cui abbandonai il bastimento, un uomo volendo
saltare nella scialuppa era caduto in mare; e questa fu la sola vittima
della tempesta. Si rimase questo e l'altro giorno all'ancora, per dar
tempo di rimettere tutto in ordine nel bastimento, onde partire
all'indomani.

_Mercoledì 6._
Dopo avere navigato tutto il giorno, passata l'isola di _Diebel-Hazen_,
ci ponemmo all'ancora sulla costa d'Arabia in sul cominciare della sera.

_Giovedì 7._
Si entrò avanti notte nel porto di _Jemboa_, città abbastanza
considerabile, e dopo Diedda la più importante della costa arabica.

_Venerdì 8._
Il capitano volle trattenersi quel giorno a Jemboa per fare acquisto di
ancore e di altri oggetti che gli mancavano, e per far raddobbare il
bastimento.

_Sabato 9._
Questo giorno si passò il tropico, e si gettò l'ancora ad _Algiar_. Feci
colà alcune curiose osservazioni, che in seguito ho perdute.

_10, 11 e 12._
Si navigò di giorno, e si stette all'ancora la notte sulle coste
dell'Arabia, ma le note da me prese si perdettero. Incominciai allora a
sentire un leggiero ma continuato dolore al basso ventre, ed una
notabile infiammazione nella parte inferiore: lo che mi fece credere di
avere una rottura. Era senza dubbio cagionata dallo sforzo violento
ch'io feci saltando nella scialuppa la notte della burrasca. Ciò mi
rattristò assai, perchè temeva di rendermi incapace d'ogni fatica, ed
anche di montare a cavallo nell'istante in cui aveva maggior bisogno di
tutte le mie forze. E come era questi un accidente che non avevo
preveduto, e di cui non ne aveva nelle mie note mediche fatta menzione,
non sapeva come medicarmi. Guidato dal semplice raziocinio feci uso
delle fasce, e mi posi a giacere nella più favorevole posizione.
Giugnemmo uno di questi giorni verso le dieci ore del mattino ad
_Aràboh_, che trovasi al confine settentrionale di _Beled-elaharam_, o
terra santa; il bastimento incagliò da prora nella sabbia, onde
facilitare ai pellegrini la pratica delle prime cerimonie del
pellegrinaggio detto _Jahàrmo_. Per soddisfare a questo preliminare,
conviene buttarsi in mare, bagnarsi, fare un lavacro generale con acqua
dolce e sabbia, in seguito recitare le preghiere affatto nudo,
avvolgersi i lombi, e fino alle ginocchia con una salvietta senza
cucitura che chiamasi l'_Ihràm_, camminare alcuni passi verso la Mecca
pronunciando la seguente invocazione:
_Li Bèïk; Allàhummma li Bèïk._
_Li Bèïk; la Scharika laka li Bèïk._
_Inna Alhàmda, oua maamàta làka,_
_Ouèl Moulkou, la schaùka lèïk._
Poi formansi colle mani alcuni monticelli di sabbia, e si rimonta a
bordo così coperti ripetendo le stesse preghiere nel rimanente del
viaggio.
Trovandomi ammalato non mi gettai in mare, ma feci la mia abluzione
colla sabbia; i miei domestici mi formarono una cintura con drappi del
letto e dei _hhaïc_ per tenermi riparato dal vento mentre faceva
l'abluzione, le preghiere, le invocazioni, ed i monticelli di sabbia,
siccome prescrive il rito, senza mancare alla circostanza che esige, che
tutto ciò si faccia a cielo scoperto. Tornai a bordo com'era venuto,
appoggiato alle loro braccia.
Da qualunque parte il pellegrino arrivi al _Bèled-el-Hayam_ è obbligato
di fare le stesse cerimonie, risguardate qual preludio indispensabile
del pellegrinaggio; diversificano per altro esse alcun poco ne' quattro
riti ortodossi della legge.
Da quest'istante non si può più radersi il capo finchè non siansi fatti
i sette giri alla casa di Dio, che siasi baciata la pietra nera, bevuta
l'acqua del pozzo sacro, detto _Zemzem_, e fatti i sette viaggi tra le
sacre colline di _Saafa_ e di Mèroua.

_Mercoledì 15._
Si gettò felicemente l'ancora nella rada di Diedda, meta di questo
tragitto di mare.
Spedii subito a terra uno de' miei domestici con lettere pel negoziante
_Sidi Mehemed Nas_, incaricato de' miei affari.
Poco dopo mezzogiorno vennero a prendermi con un battello, che mi portò
a terra ove sbarcai alle tre ore circa. Fui ben accolto in un
appartamento ammobigliato con tutto il lusso orientale, e fui
all'istante ristorato con un ottimo pranzo.
Verso il tramontare del sole il _Dao_ entrò in porto: ed all'indomani
mattina avanti di sbarcare i miei domestici, ed i miei effetti, andai ad
alloggiare in una casa che occupai io solo colle mie genti.
Continuava a trovarmi indisposto e debole a segno di non potermi più
movere. Ne' primi quattro giorni dopo sbarcato fui travagliato dalla
febbre, malgrado la quale il venerdì non mancai di andare alla Moschea,
ov'ebbi un leggiero disgusto.
All'indomani del mio arrivo il governatore o _Visir_, che è un negro
schiavo del Sultano sceriffo della Mecca, mi aveva fatto dire, che
sapeva aver io alcune selle, e che desiderava di vederle. Non era
difficile ad intendere che sotto questa inchiesta si voleva averne
almeno una in dono; ma non avendo da costui ricevuto alcun contrassegno
di distinzione, e non avendo di lui bisogno nè timore, ordinai al mio
scudiere di portargli le cinque selle che aveva meco, _ma soltanto per
fargliele vedere_.
Avendole il governatore osservate, si lasciò in presenza del mio
domestico uscir di bocca alcune inconsiderate espressioni: questi mostrò
di non intendere, ed a seconda dei miei ordini riportò le cinque selle.
Conviene dire che questo procedere offendesse l'orgoglio del
governatore, che per vendicarsene cercò di darmi qualche pubblico
dispiacere.
In qualunque luogo mi condussero i miei viaggi io era avvezzo per fare
alla moschea la mia preghiera del venerdì, di mandare avanti alcuni
domestici a prepararmi un tappeto presso all'Imam, custodendolo fino al
mio arrivo. Vi prendeva allora posto, e per quanto grande fosse la
folla, il mio tappeto fu sempre rispettato.
Avendomi anche in questo venerdì preceduti i miei domestici alla
moschea, collocarono il tappeto secondo la pratica, ed io vi feci la mia
prima preghiera. Arrivò ben tosto il governatore coi suoi ufficiali
negri come lui, ed alcuni soldati che fecero ritirare coloro ch'erano
presso di me, e posero il tappeto del governatore in modo che copriva in
parte il mio, ma non ebbero il coraggio di dirmi nulla.
Il governatore si pose sul suo tappeto, ed il suo primo ufficiale dopo
essere rimasto un momento titubante ardì perfino di battermi dolcemente
la spalla, e di farmi segno onde mi ritirassi, ciò ch'eseguii subito per
non dar motivo di scandalo; ed egli si pose sul mio tappeto a fare la
preghiera.
Tutti erano impazienti di vedere il fine di questa scena, e cosa
risolvessi. Io sceriffo, figlio di _Osman-Bey-el-Abbassi_, avrei potuto
sopportare l'insulto d'uno schiavo!... Ma egli aveva la forza in mano, e
cercava di provocarmi, onde, nel caso che io non mi fossi saputo
contenere, abusare con apparente giustizia della sua autorità; mi
appigliai quindi ad un altro espediente.
Appena terminata la preghiera, prima che niuno si alzasse, dissi con
voce ferma ai miei domestici _«Levate questo tappeto; portatelo
all'Imam, e ditegli che glielo dono per servizio della moschea. Io non
potrei mai più far la mia preghiera sopra questo tappeto, levatelo»_. I
miei domestici lo levarono bruscamente, e lo consegnarono all'Imam, che
fu assai contento di questo dono. Tutti applaudirono, ed il governatore
ed i suoi ufficiali rimasero come di sasso. Lasciai alcune elemosine
alla moschea ed ai poveri; ed accompagnato da molte persone tornai a
casa per mettermi a letto, essendo tormentato dalla febbre.
Questi ufficiali negri fanno pompa di un lusso orientale il più
raffinato, portando ricchissimi _sciali_ di cachemire, bellissime tele
dell'India, armi magnifiche, squisiti profumi.
Malgrado il cattivo stato di mia salute feci pure alcune osservazioni
astronomiche, che mi diedero la longitudine per distanze lunari di 36°
32′ 37″ E. dell'osservatorio di Parigi[4]; la latitudine per i passaggi
del sole 21° 33′ 14″ N.; e la declinazione magnetica 10° 4′ 53″ O.
[4] _Veggasi il capitolo XXXVIII._
Djedda è una gentile città con belle strade regolari, e con piacevoli
case a due o tre piani, tutte fatte di pietra, non però con troppa
solidità, avendo molte e grandissime finestre, ed il tetto piano. Vi
sono cinque moschee che non meritano la minima attenzione.
La città è circondata da vaghe mura con torri irregolari, ed in distanza
di dieci passi da una fossa affatto inutile, perchè senza alcuna opera
che la sostenga. In vece di un ponte levatojo in faccia alla porta della
città si è riempiuta la fossa di terra.
I pubblici mercati sono ben provveduti, ma le derrate sono assai care.
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