Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 1 - 04

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di fianco per fare la preghiera del vespero, cui assistette ancora il
Sultano.
Appena terminata la preghiera essendo uscito dalla moschea, vidi presso
alla porta un mulo per il Sultano, intorno al quale stava un infinito
numero di domestici, e di ufficiali della corte. Precedevano due uomini
armati di picca, o di lancia che tenevano perpendicolarmente, ed aveva
press'a poco la lunghezza di quattordici piedi. Il corteggio era seguito
da circa settecento soldati negri, armati di fucile, strettamente
riuniti, senz'ordine nè rango, e circondati da molto popolo. Io, ed il
kaïd presimo posto in mezzo al passaggio presso ai due lancieri. A canto
a noi venivano i regali portati sulle spalle dai miei domestici, e dagli
uomini mandatimi dal kaïd.
Giunse bentosto anche il Sultano e montò sulla sua cavalcatura, e quando
giunse in mezzo al cerchio, il kaïd ed io ci facemmo innanzi: il sultano
fermò la sua mula, ed il kaïd mi presentò: io chinai la testa, ponendomi
la mano al petto, cui il sultano corrispose abbassando il capo, e mi
disse; Siate il ben venuto; indi si volse alla folla, ed avendola
invitata a salutarmi con queste parole: _Ditegli che sia il ben venuto_:
all'istante tutta la gente gridò: _ben venuto_. Il sultano spronò il suo
muletto, e recossi ad una batteria lontana due cento passi.
Colà portatomi col mio introduttore, rimasi presso alla porta, lasciando
che s'avanzasse il solo kaïd col donativo. Quando entrammo nelle
batterie si fece un profondo silenzio. Eranvi almeno venti persone, la
maggior parte usceri e grandi ufficiali.
Poco dopo fui chiamato dal kaïd e lo seguii nel terrapieno della
batteria che formava una specie di terrazzo che guardava al nord sul
mare, ed era armato da nove pezzi di cannone del maggior calibro.
Nell'angolo orientale eravi una casuccia di legno, alcuni piedi più alta
della batteria, onde dominare il parapetto, a cui si saliva per una
scala di otto gradi.
Il sultano trovavasi entro questa casuccia seduto sopra un piccolo
materasso guarnito di guanciali. Il kaïd, due grandi ufficiali, ed io,
lasciammo le nostre pantoffole alla porta onde avere i piedi nudi, come
vuole l'usanza. Due ufficiali mi presero in mezzo tenendo ognuno per un
braccio, ed il kaïd mi si pose alla sinistra e ci presentammo al sultano
facendo una riverenza o profondo inchino della metà del corpo colla mano
destra al petto.
Il sultano dopo aver replicate le sue espressioni di _benvenuto_, mi
fece sedere sulla scala; gli ufficiali si ritirarono, ed il kaïd rimase
in piedi. Allora il sultano mi disse umanamente, e con voce amichevole
«che era assai contento di vedermi» e replicò molte volte somiglianti
espressioni tenendosi la mano al petto, onde farmi conoscere i suoi
sentimenti non meno colla voce che coi gesti. Conobbi questo sovrano
assai propenso a mio favore, lo che mi sorprese assai perchè niente
aveva fatto per meritarmi la sua grazia.
Mi chiese in seguito in quali paesi ero stato, quai linguaggi parlavo, e
se sapeva anche scriverli; quali scienze avevo studiato nelle scuole dei
cristiani, e quanto tempo mi ero trattenuto in Europa. Dopo avere
ringraziato il cielo d'avermi fatto uscire dai paesi infedeli, mi
testificò il suo rincrescimento perchè un uomo della mia qualità non si
fosse più presto recato a Marocco. Mi ringraziò d'avere preferito il suo
paese a quello d'Algeri, di Tunisi o di Tripoli, mi assicurò
replicatamente della sua protezione, e della sua amicizia. Mi chiese poi
se avevo stromenti per fare osservazioni scientifiche; e dietro la mia
risposta affermativa, mi disse che desiderava vederli, e che _potevo
portarli_.... Ebbe appena pronunciate queste parole, che il kaïd
s'avvicinò e prendendomi per mano voleva condurmi via: ma senza movermi
io feci osservare al sultano, che _bisognava aspettare fino
all'indomani, perchè avvicinandosi la sera non avevo tempo di
prepararli_. Il kaïd mi guardava attonito perchè a Marocco non è
permesso di contraddire alle voglie del sultano; il quale mi disse: «E
bene dunque portateli domani — a quale ora? Alle otto del mattino. — Io
non mancherò». Allora mi congedai dal sultano, e partii col kaïd.
Ero di poco ritornato a casa che vennero ad avvisarmi della visita
generale dei domestici del palazzo, cui doveasi in tale circostanza una
gratificazione. I miei domestici mi sbarazzarono da questa visita con
minor spesa ch'io non credevo.
Quando il sultano parlavami de' miei stromenti aveva fatto portare un
piccolo astrolabio di metallo di tre pollici di diametro, che serve per
regolare gli orologi, e le ore per la preghiera, e mi avea domandato se
ne avessi uno somigliante; al che rispondeva di no, soggiungendo che
_questo stromento era troppo inferiore a quelli di moderna invenzione_.
All'indomani andai al castello all'ora indicatami; trovai che il sultano
mi stava aspettando nello stesso luogo col suo primo fakih, o muftì ed
un altro suo favorito. Teneva avanti di se un servizio di tè.
Vedendomi entrare mi fece salire subito la scala, e sedere al suo lato:
indi preso il vaso, versò il tè in una tazza, ed avendovi posto del
latte, me la presentò colle sue proprie mani. In tanto egli chiese
carta, e calamajo, e gli fu portato un pezzo di cattiva carta, un
piccolo calamajo di corno con una penna di canna: scrisse in quattro
linee e mezzo una specie di preghiera che diede a leggere al suo fakih;
il quale gli fece osservare che aveva dimenticata una parola; ed il
sultano ripresa la penna vi aggiunse ciò che mancava. Avendo terminato
di prendere il tè S. M. Marocchina mi presentò la scrittura perchè la
leggessi, ed egli accompagnava la mia lettura indicandomi col dito sulla
carta ogni parola progressivamente e correggendo i difetti della mia
pronuncia come farebbe il maestro collo scolare. Terminata la lettura mi
pregò di custodire questa carta, che ancora conservo.
Si levò il vassellame del tè composto d'una zuccariera d'oro, d'un vaso
di tè, d'uno per il latte e di tre tazze di porcellana bianca ornata di
oro, il tutto posto sopra un gran piatto indorato.
Come porta l'uso del paese, egli aveva posto lo zuccaro nel vaso del tè;
metodo incomodo assai perchè obbliga a prendere la bevanda o troppo, o
poco addolcita.
Il sultano mi dava frequenti prove del suo affetto. Chiese di vedere i
miei strumenti, che osservò pezzo per pezzo con molta attenzione,
chiedendomi la spiegazione di ciò che non conosceva, o non sapeva quale
ne fosse l'uso. Mostrava di compiacersi assai di quanto gli rispondeva,
e desiderò che facessi in sua presenza una dimostrazione astronomica;
onde per appagarlo presi due altezze del sole con il circolo
moltiplicatore. Gli feci vedere varj libri di tavole e di logaritmi che
avevo portati meco per dimostrargli che gli strumenti non servono a
nulla, se non s'intendono que' libri, e molti altri. Mostrò d'essere
estremamente sorpreso alla vista di tante cifre, e quando gli offersi i
miei strumenti, risposemi, che io «dovevo conservarli perchè io solo ne
conosceva l'uso; e che avressimo avuto molti giorni, e molte notti per
contemplare con piacere il cielo». Da ciò compresi che pensava di
tenermi presso di se, avendomene fatti altri cenni. Soggiunse che
desiderava di vedere gli altri miei strumenti, che promisi di portare
all'indomani e mi congedai.
Il susseguente giorno essendomi portato al castello, salii nella sua
camera, ove lo trovai coricato sopra un piccolissimo matterasso ed un
guanciale: stavan seduti innanzi a lui sopra un tappeto il suo gran
fakih e due suoi favoriti. Appena vedutomi alzossi da sedere, ordinando
di portare un materasso somigliante al suo, che fece collocare al suo
fianco, e mi ordinò di adagiarmivi.
Dopo i vicendevoli complimenti, feci introdurre una macchina elettrica,
ed una camera oscura che gli presentai siccome oggetti di semplice
curiosità non applicabili alle scienze. Avendo montate le due macchine
posi la camera oscura presso ad una finestra: il sultano levossi e vi
entrò due volte; lo ricopersi io stesso colla coltre durante tutto il
tempo che vi rimase, compiacendosi di osservare gli oggetti trasmessi
dalla macchina; lo che io risguardai come una grandissima prova di
confidenza. Si divertì in seguito a vedere scaricarsi la bottiglia
elettrica a diverse riprese. Ma ciò che maravigliosamente lo sorprese fu
l'esperienza del colpo elettrico, che mi fece replicare più volte,
mentre ci tenevamo tutti per la mano per formare la catena, e volle
essere a lungo istruito intorno a queste macchine, ed all'influenza
dell'elettricità.
Il precedente giorno avevo mandato al sultano un cannocchiale, che
allora glie lo richiesi per regolarlo secondo la sua vista; ciò che io
feci all'istante, marcando sul tubo il conveniente grado dietro
l'esperimento da lui fattone.
Io avevo lunghissimi mustacchi, onde il sultano mi domandò perchè non li
accorciassi come gli altri Mori. Ed avendogli rimostrato che in Levante
non si tagliavano; mi rispose; «va bene, ma questa non è l'usanza del
paese». Quindi avendo fatto recare un pajo di forbici, tagliò alquanto i
suoi, ed in appresso prendendo i miei m'indicò quanto doveva toglierne e
lasciarne: e forse il primo suo pensiero era quello di scorciarmeli egli
medesimo, ma perchè io nulla risposi, depose le forbici. Mi chiese poi
se io tenevo une strumento adattato a misurare il calore; e gli promisi
di mandargliene uno. Mi congedai facendo levare i miei strumenti, e lo
stesso giorno gl'inviai un termometro.
Verso sera mentre stavo con alcuni amici, un domestico del sultano mi
recò da parte sua un regalo. Avendogli ordinalo di avanzarsi, si
presentò chinandosi fino a terra, e pose innanzi a me un involto di tela
d'oro e d'argento. La curiosità di vedere il primo regalo che mi faceva
l'imperatore di Marocco mi fece aprire l'involto con molta premura, e vi
trovai...... due pani assai neri.
Non essendo preparato a cotal dono, non mi sovvenne in quel primo
istante di cercarne il significato; e rimasi un momento così sorpreso
che non sapeva che dirmi; ma coloro ch'eran meco s'affrettarono di
complimentarmi, dicendo, quanto siete fortunato! quale felicità è la
vostra! _Voi siete fratello del sultan_o; _il sultano è vostro
fratello_: mi rissovvenni allora, che tra gli Arabi il più sacro segno
di fraternità è di darsi a vicenda un pezzo di pane, e di mangiarne
ambedue; e per conseguenza i pani mandatimi dal Sultano erano il suo
segno di fraternità con me. Erano neri perchè il pane mangiato dal
sultano si fa cuocere entro fornelli portatili di ferro; ciò che dà loro
un colore oscuro al di fuori, ma internamente sono bianchi e buonissimi.
All'indomani, dopo aver ricevuto le visite di alcuni cugini, o altri
parenti del Sultano, andai col kadi a visitare il fratello maggiore
dell'imperatore: egli chiamasi _Muley Abdsulem_, che ha la sventura
d'essere cieco. Il nostro intrattenimento che si prolungò quasi un'ora
fu tutto filantropico.
Il martedì undici ottobre il kaïd mi ordinò per parte del Sultano di
tenermi pronto a partire con lui il susseguente giorno alla volta di
Mequinez; prevenendomi di domandare tutto quanto poteva abbisognarmi.
Passai tosto a trovarlo nel castello per fargli sapere che io non potevo
partire così presto, avendo bisogno di rimanere a Tanger alcuni altri
giorni. Mi chiese quanto tempo mi abbisognava, ed avendogli risposto
dieci giorni, entrò dal Sultano, che me li accordò senza difficoltà.
Le stessa sera, accompagnato dal mio buon kadi, andai a render visita al
primo ministro _Sidi Mohamet Salaoui_ che mi ricevette seduto in su le
calcagna in un angolo della cameretta di legno, in cui avevo veduto il
Sultano; ma egli stava sul suolo senza pur avere una semplice stuoja, al
lume d'una miserabile lucerna di latta con quattro vetri, posta sul
suolo al suo fianco. Egli aveva poc'anzi ricevuto nella medesima maniera
il console generale di Francia che sortiva nell'atto ch'io entrai.
Sedemmo in terra presso di lui, trattenendoci un quarto d'ora in
complimenti.
Fui in appresso col kadi a visitare Muley Abdelmélek cugino germano del
Sultano, uomo rispettabilissimo che era generale della guardia.
Accampato sotto la tenda, stava co' suoi figliuoletti sdrajato sopra un
matterasso, ed aveva a lato il suo fakih. Appena entrati, il fakih si
alzò; Muley Abdelmélek si pose a sedere, e fece che noi pure sedessimo
presso di lui sopra un altro matterasso. La nostra conversazione che
durò quasi un'ora fu assai amichevole. Nel fare queste visite il kadi
servivasi della sua mula, ed io del mio cavallo, e la mia gente ci
accompagnava a piedi colle lanterne. Regalai tutte le persone visitate,
senza scordarmi di dar la mancia agli usceri ed ai domestici. Feci pure
qualche regalo ad alcuni grandi ufficiali e favoriti del Sultano.
Mercoledì 12, il Sultano partì di buon mattino alla volta di Mequinez.
In tal modo ebbe fine il mio ricevimento alla corte del sovrano di
Marocco.
Il Sultano _Muley Solimano_ mostra l'età di quarant'anni. È grande di
statura, e la sua carnagione è assai fresca. Il volto non bianco, ma non
soverchiamente bruno porta i segni della bontà; ha grandi e vivacissimi
occhi; semplicissimo è il suo vestire, per non dir di più, essendo
solito di portare un grossolano hhaïk; sono disinvolti i suoi movimenti;
parla con rapidità, agevolmente comprende ogni cosa. Egli è fakih, ossia
dottore della legge, e la sua istruzione è puramente ed interamente
musulmana.
Ogni lusso è sbandito dalla sua corte. Durante il soggiorno ch'egli fece
a Tanger rimase accampato sotto le tende poste all'ouest della città
senza alcun ordine. Le sue erano in mezzo ad un grandissimo spazio
vuoto, e circondato da un parapetto di tela dipinta in forma di
muraglia. Nella tenda di Muley Abdelmélek ch'era molto grande, non
vedevansi che due matterassi, un gran tappeto, un candelliere d'argento
con una gran torchia acceso. Intorno ad ogni tenda stavano attaccati i
cavalli ed i muli del padrone, ed in tutto il campo non vidi che due
cammelli. Malgrado la confusione ed il disordine di questo campo,
calcolai che poteva contenere all'incirca sei mille uomini.
Il kaïh accompagnò il Sultano fino alla prima stazione della sera; ed
allorchè ritornò a Tanger mi fece replicate istanze a chiedergli tutto
quanto poteva abbisognarmi. Lo pregai di farmi venir tende ed altri
oggetti necessarj ai miei progetti.


CAPITOLO VII.
_Uscita di Tanger. — Viaggio a Mequinez, ed a Fez._

Avendo tutto disposto per il mio viaggio, impiegai il giorno di martedì
25 ottobre a far sortire il mio equipaggio da Tanger. Si dispose il
campo a cento tese all'ouest dalle mura, ove aveva fatte riunire le mie
genti ed ogni mia cosa.
Dopo fatta la mia preghiera nella moschea, ed abbracciati i miei amici,
sortii di casa a cavallo alle cinque ore della sera, accompagnato dal
kadi, ch'era pure a cavallo, da tutti gli altri fakih e talbi della
città, ed alcuni domestici ne seguivano a piedi. Arrivai con questo
seguito fino al luogo del mio campo, ove mi lasciarono solo affinchè
potessi riposarmi.
Prima ch'io sortissi di casa un fakih mi prese l'indice della mano
diritta, e lo girò sopra una parete della camera, facendomi formare
certi caratteri misteriosi per ottenere buon viaggio e felice ritorno.
La notte era già fatta quando il kadi e gli altri fakih ritornarono alla
mia tenda. Presero meco il tè, e m'inbandirono una squisita cena.
Vennero pure a trovarmi i principali santi, e tutti ritiraronsi per
entrare in città, prima che si chiudessero le porte.
Il giorno fu bello; e la mattina il barometro segnava 28 pollici e due
linee e mezzo. La notte fu serena e tranquilla, e la luna risplendeva di
tutto il suo lume. Le mie genti eransi accampate sopra un'altura; la mia
tenda aveva alla sua base diciotto piedi di diametro, e tredici alla sua
sommità: aveva un doppio ordine di cortine ermeticamente chiuse,
illuminata da due fanali. Il termometro marcava alle nove ore della sera
15° 1′, e l'igrometro 85°.

_Mercoledì 26 ottobre._
La mattina si levò il campo, e quando stavo per montare a cavallo, il
kadi e tutti i fakih tornarono per l'ultima volta. Essi mi posero in
mezzo, e facemmo due preghiere all'Eterno perchè renda felice il mio
viaggio, e dopo i più teneri abbracciamenti, ci separammo colle lagrime
agli occhi: erano le sette ore e mezzo del mattino.
Appena rimasi solo caddi in un profondo pensiero.
Diffatti allevato com'ero io in varj paesi dell'Europa civilizzata, mi
trovava per la prima volta alla testa d'una carovana, viaggiando in un
paese selvaggio senz'altra garanzia per la mia individuale sicurezza,
che le mie proprie forze. Partendo dalla costa N. dell'Africa, ed
internandomi verso il mezzodì, dicevo a me medesimo: sarò io in ogni
luogo ben ricevuto?... quali vicende m'aspettano?... quale sarà l'esito
delle mie imprese?.... Sarò io la sventurata vittima di qualche
tiranno?.... Ah no! no senza dubbio.... Il sommo Dio che dall'alto del
suo trono vede la purità delle mie intenzioni, mi darà il suo appoggio.
Uscito da questo stato di turbamento, ne dedussi questa conseguenza:
poichè Dio colla sua mano onnipotente mi ha felicemente condotto fin qui
a traverso di tanti pericoli, mi condurrà colla medesima prosperità sino
al fine.
La mia carovana era composta di diecisette uomini, di trenta bestie, e
di quattro soldati di scorta. La tenda destinata alla mia sola persona,
aveva per mobili un letto, alcuni tappeti e guanciali, uno scrittojo, e
due casse contenenti i miei strumenti, i miei libri e le mie biancherie
per uso giornaliero. Tre altre tende erano occupate dal mio equipaggio,
dalla mia scorta e dalla mia cucina.
Si viaggiò verso il S. ¼ S. E. fino alle undici ore del mattino che si
piegò al S. O. Ad un'ora dopo mezzogiorno si prese la direzione del S. ¼
S. O. fino alle ore tre e mezzo che si fece alto. Quel giorno viaggiando
si passò in vicinanza di cinque _dovar_[8], due de' quali formati di
case fabbricate di fango e di pietre, e gli altri tre di semplici tende.
Il nostro campo si pose in distanza di cento tese da un dovar di più di
sessanta tende divise in quattro gruppi, val a dire in quattro famiglie.
Le tende sono fatte di pelo di cammello, e gli sgraziati che vi dimorano
non hanno altra abilità che quella di condurre e di aver cura delle
gregge. In quel giorno la monotonia abituale del luogo era interrotta
dalla ceremonia d'un maritaggio festeggiato col romore del tamburro,
delle picche, e di pochi colpi di fucile: non s'udivano le strida delle
donne perchè quivi vanno scoperte, e vivono in società cogli uomini. Io
non saprei a cosa attribuire questa prevaricazione della santa legge del
profeta, che proibisce tale costumanza. Mi riferirono pure i miei
domestici d'averne vedute alcune mal vestite e quasi nude.
[8] _Gruppo di casuccie mal fabbricate, o di tende più o meno
grandi che servono d'abitazione ad una o più famiglie d'Arabi
Beduini._ (Nota dell'Editore)
Il suolo composto di una buona terra vegetale è coperto da una
eccellente verdura per i bestiami, ma inutile per le api e per i
botanici perchè quasi affatto priva di fiori. Io non potei raccogliere
che tre o quattro piante pel mio erbolajo.
Il paese vien circondato di colline da ogni banda: da quella dell'E.
vedesi la catena delle montagne di Tetovàn, che si prolunga nella
direzione N. S.; ma quivi s'avvanzano all'ouest in guisa che non sono
più di due leghe lontane dalla costa occidentale dell'Africa.
All'un'ora e mezzo dopo mezzogiorno attraversammo una ramificazione di
queste montagne, che prolungasi fino al mare. Vidi cammin facendo alcuni
pezzi di granito di color rosso incarnato con pochissimo feldspato.
Dalla sommità di queste montagne scoprivasi perfettamente il Capo
Spartel al N. O., ed una immensa estensione della costa. Vedemmo pure ad
una grandissima distanza due gruppi di vascelli di linea che sembravano
essere quaranta all'incirca[9].
[9] _Erano le flotte che diedero la battaglia di Trafalgar._
(Nota dell'Estensore.)
Scendendo al S. della montagna trovasi una vasta e bella pianura, lungo
la quale s'aggira il fiume _Meschavaalaschef_ abbondante di acque
quantunque diviso in due rami, che passammo a guazzo.
Il cielo era questo giorno alquanto coperto; l'aria rinfrescata da un
vento del mattino si fece assai forte dopo il mezzogiorno, in modo
d'esserci incomoda perchè accampati sopra un'altura.
Scontravansi varie sorgenti, ed una ne avevamo presso al campo
d'un'eccellente acqua.
Alle otto della sera il termometro e l'igrometro esposti all'aria aperta
segnavano, il primo 14° e l'altro 85°. Il vento N. E. era fortissimo.
Lungo la strada vidi molte mandre, unica ricchezza di quegli abitanti;
ma tutto il terreno era incolto.

_Giovedì 27._
Sì riprese il cammino a sett'ore ed un quarto nella direzione di S. E.,
e due ore dopo si piegò a S. O. fino alle dieci e tre quarti, quando
trovandomi sopra un'altura scoprii il Capo Spartel quasi esattamente al
N., alla distanza di sei leghe. Vedevasi il mare lontano due leghe e
mezzo all'O.; avevamo all'E. la catena delle montagne che dopo tre leghe
piega al S. Proseguendo a camminare tra il S. ed il S. ¼ S. O. si
perdette di vista il mare, ma non le montagne, che mantennero la stessa
apparente distanza sulla nostra sinistra fino alle quattro della sera
quando feci alzar le tende.
Il terreno è somigliante a quello percorso nel precedente giorno. Il
paese viene formato da vaste pianure qua e là sparse di colline, e
coperte d'una verzura, che le uguaglierebbe ai prati dell'Inghilterra se
fossero coltivate. La vista di prati così belli affatto abbandonati
toccavano vivamente il mio cuore, pensando che nell'Asia e nell'Europa
gli uomini circoscritti entro piccoli spazj, periscono in parte, o
strascinano una miserabil vita: laddove qui nissuno gode dei benefizj
della natura!
Trovai lungo la strada molte sorgenti non discoste le une dalle altre, e
di un'acqua assai buona; ed inoltre due piccoli fiumi. Vidi parecchi
dovar di tende ai due lati della strada, ed alcuni pochi arabi che
aravano coi buoi; mentre da ogni banda osservavansi numerose mandre di
pecore, di capre e principalmente di animali bovini.
Le piante di questa contrada non diversificano da quelle che avevo di
già raccolte, ad eccezione soltanto di molte palme, _palma agrestis
latifolia_, e di varie felci.
Il tempo ch'era stato assai freddo al mattino a cagione d'un gagliardo
vento N. E., si fece caldissimo dopo le dieci ore in cui, calmato il
vento, e fattosi il cielo sereno, rimanevo esposto ai cocenti raggi del
sole, che mi percuotevano violentemente il capo, quantunque difeso dal
turbante, e dal capuccio del _bonruons_: onde non so comprendere in qual
maniera possano i cristiani, che viaggiano in Affrica con cappelli tanto
leggieri, resistere ai colpi di così ardente sole.
Gli abitanti d'un dovar vicino al mio campo mi donarono del latte e
dell'orzo. La notte non poteva essere migliore, essendosi mantenuta
sempre serena e placida.
Avendo prese quattro altezze del sole, trovai col cronometro la
longitudine del 23 di tempo O. da Tanger, lo che s'avvicinava assaissimo
alla mia stima geodesica: come dall'osservazione del passaggio della
luna al meridiano trovai la latitudine N. — 35° 11′ 44″.
Alle nove ore e 20 minuti della sera il termometro nella mia tenda
aperta segnava 13° e l'igrometro 64°.
Il luogo in cui eravamo accampati è consacrato ad un pubblico mercato
che vi si tiene ogni martedì quantunque non sia che una campagna aperta
senza il menomo distintivo. Il vicino Dovar chiamasi _Daraïzàna_ ed è
abitato dalla tribù _Sahhèl_. Gli abitanti mi dissero che _Laraisch_
ossia _Larache_ è posta all'O. ed assai vicina al luogo in cui mi
trovavo: se ciò è vero la sua latitudine sarebbe troppo alta nelle carte
di Chénier e di Arrowsmith.

_Venerdì 28._
Alle sett'ore ed un quarto c'incamminammo al S. O. a traverso una
macchia di quercie larga un quarto di lega, chiamata la macchia di
_Daraïzàna_. Alle nove attraversammo il fiume _Wademhàzen_, e
proseguendo la strada nella direzione di S. S. E. scopersi a dieci ore
una cappella ed alcune case di campagna, che mi fu detto essere assai
vicine a Larache, ed erano da noi lontane circa quattro leghe al N. O.
Piegando allora al S. S. O. arrivammo poco dopo il mezzodì ad
_Alcassar-kibir_.
Il paese è formato di bellissime praterie chiuse all'ouest da piccole
colline, ed all'est da una catena di monti che s'innalza a tre leghe di
distanza. Un'appendice di queste montagne sembrava staccarsi all'ouest
per prolungarsi fino al mare ad una lega al sud da Alcassar. Si
attraversarono quattro burroni non molto profondi.
Il terreno non diversifica da quelli esaminati ne' giorni antecedenti,
fuorchè sembra alquanto più arenoso. Si passò in vicinanza di tre o
quattro dovar composti di tende e di baracche, il più grande de' quali
non ne aveva più di venti. Feci mettere il campo in distanza di circa
sessanta tese da Alcassar. Essendo venerdì entrai in città per fare la
mia preghiera nella moschea, che trovai piccola, e di cattivo aspetto;
ma la sua principale facciata interna vedesi adorna di alcuni disegni
arabeschi.
Alcassar è più grande di Tanger. Le case sono fatte di mattoni, ed i
tetti colle capriate a schiena d'asino, sono coperte di tegole come in
Europa. Vi si trovano molte botteghe di mori e molte officine in cui
lavorano gli ebrei. Questa città, quantunque ricca, mi parve trista e
monotona. Vidi varie persone signorilmente vestite: qui tutte le donne
portano le calze, e sortono come a Tanger sempre coperte con un velo.
Il cielo in questo giorno fu sempre oscuro, ed insoffribile il caldo
soffocante dell'atmosfera nebbiosa. Il governatore d'Alcassar mi fece
portare alle otto ore della sera un'abbondante cena, ed accrebbe di sei
soldati la mia scorta. Un altro ragguardevole personaggio mi mandò una
seconda cena. Il tempo coperto non mi permise di fare veruna
osservazione astronomica. Alle otto ore e mezzo il mio termometro
all'aria aperta segnava 16° 3, e l'igrometro 40°. Poco dopo incominciò
la pioggia; ma l'idrometro indicava che l'aria non era presso alla terra
carica d'umidità. Pure una terribile borrasca imperversò tutta la notte.

_Sabbato 29._
Non fu possibile di partire avanti le dieci; alcuni muli caddero in quel
terreno argilloso ed ancora molle. Attraversai varj orti, ed in seguito
si varcò il fiume _Luccos_ che scorre al sud d'Alcassar, e non già al
nord, come erroneamente lo indicano tutte le carte. Venni assicurato che
questo fiume si getta in mare presso a Larache, nel quale supposto
convien dire che piega assai verso il nord nord ouest. Nel luogo in cui
io lo varcai a non molta distanza da Alcassar scorre ad ouest ¼ nord
est; ed in tal luogo è povero d'acque, comecchè per altro si sappia che
le sue escrescenze sono terribili.
Continuammo il cammino ora in una, ora in altra direzione, ma
generalmente al sud sud est; ed al sud dalle due ore dopo mezzodì fino
alle cinque, allorchè si fece alto.
Dopo avere attraversato il fiume si trovò il paese continuamente
montuoso, e la vista era sempre circoscritta dalle sommità vicine. Ad
un'ora dopo mezzogiorno scendemmo in una bella pianura di circa una lega
di diametro, sparsa di alcuni _dovar_, e fiancheggiata di montagne,
lungo le quali si camminò fino a sera.
Il terreno era di quando in quando arenoso, ma per lo più composto d'una
terra argillosa tutta ingombra di cardi secchi assai bianchi, che
presentavano l'immagine d'un paese coperto di nevi. Osservai altresì
alcuni tratti sparsi di sassi calcarei rotolati dalle acque.
In questo giorno si videro passare sopra di noi, ma ad una sterminata
altezza nella direzione nord est immense schiere di uccelli, di cui, per
la soverchia distanza, non si potè conoscerne la specie. Una di queste
schiere di circa quattro mille individui, aveva l'apparenza d'un'armata
ordinata in battaglia.
Il cielo fu coperto di nubi, ed alle tre ore pioveva leggermente. La
notte fu simile al giorno; e mi tolse il piacere di occuparmi di qualche
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