Vecchie storie d'amore - 6

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il quale la dama era agguerrita: nel dibattito l’ira deformava la
bellezza della donna ed egli che aveva creduto d’ottenerla presto in
pace, quella sera, pativa come sentisse dileguarsi un sogno di felicità.
Perciò egli taceva. Ed ella, quantunque quel silenzio non la sbigottisse
molto, per lasciar trapelare un po’ di barlume agli occhi dell’amante,
proseguí.
— In quest’amore io aveva riposto il conforto d’affanni vecchi e nuovi:
ad esso confidavo l’avvenire: per il bene di esso, il mio e il vostro
bene, mi credevo costretta a nascondervi ciò che cercate di scoprire, a
celarvi ciò che cercate di sapere, quasi dubitaste di qualche mia azione
indegna. Voi ignorate le lagrime che mi costa il solo sospetto
dell’amore che vi voglio; e non mi vedete quando vi sospiro, non mi
udite quando vi chiamo a me, non mi sentite in voi come io sento voi in
me. Mi sono ingannata. Voi, voi mi avete ingannata turbando cosí per
gioco e per sfogo della vostra giovinezza la poca quiete che la sorte mi
lasciava. Ma se non m’avete compresa, non m’avete meritata, don Alfonso!
Addio dunque.
E stupita ora ch’egli non fiatasse, andò all’uscio per uscire: l’uscio
era chiuso a chiave. Si rivolse, di bianca divenuta livida.
Il cavaliere disse orgoglioso e solenne: — Voi siete in mia balia. Ma
don Alfonso della Torre vi difende proponendovi il suo nome, il suo
cuore, la sua nobiltà. — E le si accostò tendendole la mano. La dama non
sorrise: piú fiera, piú solenne di lui, rifatta bellissima da
quell’orgoglio superiore, ella disse: — Per difendermi basta il mio
nome, puro come il vostro, e la mia nobiltà, piú antica della vostra,
don Alfonso della Torre!
No: ella non aveva nessun’arma; tremava e, tanto il cuore le batteva,
ansimava quasi il respiro le mancasse. E vinse lei.
Ai suoi piedi il cavaliere domandava perdono con le piú umili e dolci
parole che la passione gli suggeriva e con gli occhi ansiosi cercava
nell’aspetto di lei il segno del perdono, come la speranza della sua
vita. Essa ascoltava rasserenandosi a poco a poco, e infine su quell’ira
domata, quell’orgoglio avvilito, quella fierezza abbattuta, essa sorrise
e sollevò lo schiavo a baciarla nella bocca.

V.

Domitilla non aveva a pena goduto del suo trionfo che si dié colpa
d’essere stata troppo debole ed arrendevole; e quantunque non dubitava
della parola di don Alfonso, temeva che egli appagato nel desiderio e
già pentito si disamorasse, o almeno non giudicasse grande quant’ella
voleva la grazia ottenuta quella notte. Essa l’amava; ma per dominarlo
le bisognava che l’ardore di lui fosse piú vivo del suo stesso ardore; e
per acuirne o riagitarne le brame e inretirlo piú strettamente, le
bisognava farle stentare la ripetizione e l’intero possesso della
voluttà.
Gli scrisse il giorno dopo: «Guardatevi, ché è in pericolo la vostra
vita.»
Don Alfonso, il quale non aveva paura di pericolo conosciuto e certo, a
quell’avviso cominciò quasi sgomento a imaginare ogni piú strano
affronto ed ogni danno che potesse fargli il nemico nascosto e
sconosciuto; e come da un pezzo sospettava fosse il Palmenghi il
carceriere della dama, cosí suppose che il Palmenghi, scoperto il
trascorso della dama, cercasse vendicarsi: non usciva se non armato e
seguíto da piú servi e comandava di vigilare presso la casa del vicino.
Di che questi s’avvide presto; né avendo ragioni proprie d’inimicizia
con il Della Torre, credette a un accordo fra i parenti di Domitilla,
che l’odiavano a morte, e don Alfonso; e si guardava anch’egli. I servi
dell’uno e dell’altro si guatavano in cagnesco. La rissa avvenne, e
quando già Domitilla, dimentica del suo biglietto, aveva ripreso a
scrivere all’amante e a confortarlo.
Un giorno don Alfonso veniva verso la porta del Palmenghi, sulla quale
due figure di bravi stavano in attitudine spavalda; e poiché egli fu
passato, quelli risero in faccia ai due fidi che gli erano di scorta.
Offesa ai servi, offesa al padrone: don Alfonso fe’ un cenno e i suoi
attaccarono gli altri.
Alle grida il Palmenghi uscí con la spada in pugno, e allora don Alfonso
s’avventò su di lui rapido, in un attimo, e lo colpí al cuore; poi in
due salti entrò nel suo palazzo e dalla pusterla del giardino corse alla
casa di Gabrio, che era poco lungi. E mentre l’amico l’aiutava a cambiar
vesti perché cambiasse aria, egli gli raccomandava di ottenergli il
perdono della dama, che credeva aver privata del fratello e che presto o
tardi, se gli perdonasse, farebbe sua moglie. Gli raccomandava di
indurla a scrivergli a Torino, dove sperava recarsi; di provvedere a che
giungessero a lei le sue lettere e di adoperarsi, quando fosse tempo, ad
ottenergli dal duca la grazia di quell’omicidio che aveva commesso quasi
involontariamente. Gabrio promise.
Don Alfonso all’imbrunire fuggí da Parma.

VI.

Quando tra amici ch’ebbero comuni sentimenti, abitudini, piaceri e
desideri si frammette la donna amata da uno di lor due, è imposto anche
un limite alla loro antica comunanza: oltre tale limite è la donna, di
cui non si può discorrere o si deve discorrere poco e con riguardo; è il
possesso, conosciuto solo in apparenza, che non si può scrutare,
toccare, valutare. E troppo di frequente, per una voglia suscitata da
invidia e gelosia insieme, accade che l’amico pensi dinanzi alla donna
dell’amico: — M’ha detto che l’ama e che gli appartiene anima e corpo;
non altro. Quali parole gli mormorano quelle labbra, intimamente? quali
sorrisi gli porge quella bocca? quali baci? Agli occhi di lui che
lusinghe, che promesse hanno quegli occhi? e quali carezze e abbandoni
molli e resistenze incitatrici e segrete voluttà trova egli tra le sue
braccia? Piú: che forza o che arte misteriosa congiunge essa alla
bellezza per carpirne il cuore e trarlo seco, avvinto, nel cammino della
sua vita? — Chi studia di rispondersi tenta di tradire l’amicizia.
L’ufficio di confortatore riuscí penoso, da prima, a Gabrio Gabrii,
perché la madre del Palmenghi, vecchia rimbambita, o lo scambiava co ’l
figliolo, o gli chiedeva: — Dicono che l’hanno ammazzato. E vero? —; e
perché la dama di don Alfonso piangeva, con lui, dolorosamente.
Domitilla in fatti soffriva, non già accusandosi della tragedia
avvenuta, per caso, dopo i suoi inganni, ma pensando che aveva perduto a
un tempo stesso due amanti: quello che essa amava e quello che la
proteggeva.
Nondimeno Gabrio ebbe pazienza, e Domitilla era cosí leggiadra che lo
scoprirne la vera storia non distolse il gentiluomo dall’usare con lei i
modi piú cortesi e le parole piú affettuose. D’altra parte, la dama
ammirava in Gabrio tanta dolcezza d’animo e piacevolezza di costumi; e
trovando nei discorsi di lui da ammirare anche sé medesima, non sempre
senza intenzione gli spiegava co’ suoi vezzi il perché l’amico Don
Alfonso s’era invischiato e perduto nel suo amore. Chi non avrebbe
perduta la testa come don Alfonso?
Ma: — Lontano dagli occhi, lontano dal cuore — sospirava Domitilla; e il
Gabrii rispondeva che mancatogli oramai ogni speranza di tornare a
Parma, il povero amico cercava forse dimenticarsi delle persone fide,
che non si dimenticavano di lui.
Frattanto don Alfonso, il quale mandava lettere e non riceveva piú
notizia di nessuno, dubitava che qualche sciagura fosse intervenuta a
Gabrio, temeva che Gabrio tacesse per tacergli qualche sventura della
dama, supponeva fino d’essere stato abbandonato dall’amante e
dall’amico. E nel ricordo, irremovibile dal suo pensiero, l’amaro e nero
ricordo di quel fatto pe ’l quale viveva nell’esilio, sorgeva insistente
e tormentoso in atto di dolore e di maledizione la bella donna ch’egli
amava, ch’egli invocava, desto e nei sogni, sempre; né ardiva
figurarsela, pure nell’avvenire, innamorata d’altri.
La verità don Alfonso l’apprese tardi. Incontrò un giorno certo
gentiluomo della sua città che era venuto in missione per il duca
Odoardo alla corte di Torino, e gli domandò nuova dell’amico Gabrio.
Rispose il gentiluomo:
— Ha sposata la dama che si diceva sorella del Palmenghi.
— Vittoria! — gridò don Alfonso, cui parve ricevere d’un coltello nel
cuore.
— Vittoria facile per i suoi amanti — disse l’altro sorridendo del motto
—; ma essa ha nome Domitilla.
Don Alfonso n’aveva imparato abbastanza, e dissimulando quel che pativa
dentro, volle sapere di piú: chiese piú cose, e infine che cagione si
fosse data in Parma alla sua rissa co ’l Palmenghi. — Che l’uno di voi
era geloso dell’altro, o che Domitilla spinse l’uno a liberarla
dell’altro. Ma un terzo ha goduto.
Cadutagli la benda dagli occhi, don Alfonso credé scorgere anche oltre
la verità vera. L’amore della dama per lui era dunque stato uno svago,
un sollazzo cominciato colla bugia del nome ambiguo che quella, cosí per
gioco, aveva assunto, e proseguito per una tragedia fino al tradimento:
già prima d’avvolgere lui in quegli inganni ella forse amava Gabrio!
Forse questa era stata la pena segreta che un tempo aveva sorpresa in
lei! La rivedeva, adesso, come nel giorno che gli aveva detto d’amarlo,
lagrimosa, e come nella sera della dedizione, vittoriosa e vinta; la
vedeva, lei che gli aveva accesa nelle vene la febbre della voluttà,
fremere ora di voluttà tra le braccia di Gabrio, obliosa, sorridente,
perfida.
Cercò imagini diverse: Gabrio che cadeva ferito sanguinando e Domitilla
che gemeva nella solitudine d’un chiostro; e meditò la vendetta, la
preparò con brama feroce, la pregustò con gioia feroce.
Il conte e la contessa Gabrii tornavano una sera dalla loro villa a
Parma, quando, a una svolta della strada, un uomo tese il braccio armato
di pistola verso il cocchio.
— Gesummaria! — fece a pena il conte, ricevendo il colpo.
Chi aveva tradito l’amicizia s’era meritato di morire; chi aveva tradito
l’amore meritava di vivere, sola, nel rimpianto e coi rimorsi.

IL POLSO

Sec. XVIII.
Difficile dire se il conte La Fratta amasse piú sé medesimo o la
marchesa Arnisio; ma giacché per acquistarsi dal mondo la lode di
cavaliere perfetto nella stima di lei e per secondare gli stimoli del
cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente
costanza una dama cosí mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava
troppo sé stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava
l’Arnisio.
A dire il vero a sua scusa ella esercitava tuttavia su lui l’attrattiva
dell’ignoto e del nuovo, la virtú quasi d’un fascino arcano, quantunque,
a dire il vero, egli in un anno n’avesse conosciute molte singolarità e
usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e
quando fosse meglio accondiscendere a quello che le piacesse affermare;
già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di
sprezzante pietà e d’ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già
comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il
ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand’ella aveva l’emicrania
— ed era spesso —, l’esperienza e la consuetudine avevano sancita una
specie di prammatica ai modi e ai discorsi d’entrambi; e a lui toccava
parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante e a
lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sí,
sempre sí.
Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva:
se la marchesa avesse il cuore o non l’avesse. "L’ha o non l’ha?" egli
si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno piú nella ricerca
dell’ignoto n’era piú avvinto dal fascino e ogni giorno piú s’innamorava
della dama e di sé medesimo perché con sua gloria resisteva a servirla.
Finalmente l’Arnisio agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle
arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi cominciò
ad accarezzarlo di certe occhiate cosí lunghe e sentimentali ch’egli
credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il
cuore l’aveva. Né il cuore della marchesa doveva battere per altri che
per lui, il quale da un anno la serviva con cura paziente e con
indulgente costanza: non per altri. Ond’ecco La Fratta a studiare di
quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto
della marchesa Arnisio, perché ella non aveva con lui quelle espansioni
compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o
spontanei di gelosia che tutte le donne amando o fingendo d’amare
sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò cosí i suoi occhi e il
suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che,
ahimè!, troppo credette d’apprendervi.
Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di
donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse
cagione non solo dall’indole sua bizzarra, ma da un intimo, segreto
travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei
spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta dicevan forse il
suo spirito smarrito dietro un’inafferrabile bene, finché con uno sforzo
mal nascosto di volontà non le riuscisse di riaversi o mentire, e allora
abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa;
l’assiduo disturbo dell’emicrania, invece che la simulazione d’un
malanno alla moda poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello;
gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre
creduto, modi di civetteria sagace, ma piú tosto non rattenuti impeti di
sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e
sentimentali, neanche potevano essere tardi e magri compensi alle
fatiche della sua servitú, ma tutt’al piú erano segni di compassione per
lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l’ho, oh se l’ho!; ma
non per voi, povero conte!» Or bene: il conte La Fratta non disse alla
marchesa Arnisio come Publio a Barce:
Se piú felice oggetto
Occupa il tuo pensiero,
Taci, non dirmi il vero,
Lasciami nell’error.
È pena che avvelena
Un barbaro sospetto;
Ma una certezza è pena
Che opprime affatto un cor;
no: i due amori, l’uno della dama e l’altro di sé, che premevano l’animo
del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad
accertare la verità; l’uno, perché chi è innamorato talora dubita a
torto; l’altro, perché, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a
tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di _cavaliere di
spirito_.
Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d’un patito che
con zelante servitú e con dabbenaggine inconscia riparasse l’amore
ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque,
la marchesa amava qualcuno di quelli che le farfaleggiavano intorno, il
quale, come minore di lui, ella non potesse assumere a servirla senza
scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro
di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa; e come anche non
pregata essa l’avrebbe lasciato nel dubbio, ed egli non voleva restarci,
egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna
era l’Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva
il predominio di sé medesima; né mai, appuntando i suoi sospetti su
questo o su quello che a lei fosse dintorno, il conte riusciva a
sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di
smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto,
fosco, quasi spaventevole, e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a
diventare ridicolo.
Ond’eccolo a richiedere di consiglio l’abate Fantelli: un abate di umore
giocondo e di mente arguta, e caro a tutte le dame di cui conosceva le
corde piú sensibili al tocco delle sue allusioni e de’ suoi frizzi, né
men caro agli amici, cui giovava d’esperienza e di senno.
L’abate consigliò: — Tastale il polso.
E La Fratta non comprendendo, quegli aggiunse: — Né i palpiti del cuore
né i battiti del polso si possono frenare. Allorché ricorderai alla
marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà piú forte e non
potrai sentirlo, ma il suo polso batterà piú in fretta e tu potrai
sentirlo.
Al conte questa parve un’invenzione mirabile; e l’abate continuò: — Non
si falla. Però ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.
— Son cavaliere — rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.
Essa, all’entrare del conte, era abbandonata su ’l canapè con la testa
reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi: ai passi lievi
dell’amico non si mosse, e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua
destra rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.
— L’emicrania, eh? — domandò La Fratta.
— Sí — rispose ella in tono flebile; e La Fratta sospirò triste pur
godendo d’un’emicrania almeno quel giorno opportuna a’ suoi fini.
— Chi l’avrebbe detto ierisera? — proseguí egli, non per rammentare il
tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Nondimeno
ebbe prudenza e chiese ancora:
— Desiderate un po’ di melissa?
— Sí — ripeté la marchesa, perché di prammatica quel giorno era il sí:
trasse un breve sorso dalla boccettina che l’amico le accostò alle
labbra, e respinse tosto la mano dell’amico.
Ma — Che sguardo febbrile! — disse questi prima ch’ella riabbassasse le
pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei
su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.
Toc... toc... toc...: nelle arterie, che rigavano d’una trama azzurrina
la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando
all’avambraccio in misura placida ed uguale.
— Chi l’avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino).
Corgnani giurava di perdere a tarocchi perché lo costringevate a
guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d’avervi ravvisata
a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi
proclamò che niuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il
_paspié_. E ristando, per prudenza: — No — disse — non avete febbre —.
Pure, come piú d’una volta aveva profittato dell’emicrania per tenere a
lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e
riandando le vicende della sera innanzi, trascorsa con lei alla
conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi,
con abile arte poté nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il
polso palpitava sempre uguale e placido.
«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La
Fratta a sé stesso. «Quello non può essere; proviamo quest’altro.»
E proseguí nell’esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto
sinché ebbe camminata invano la via che si era proposta. Oramai
retrocedeva; s’ingarbugliava in nuove ipotesi; s’imbrogliava in nuovi
dubbi; infine s’appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:
— Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l’Arboldi: sdilinquiscono
tutt’e due, il duchino e vostro marito.
Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse: gli era parso; ma non
era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si
commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente. Per altro la
marchesa era sí strana....
— Io credo — riprese egli — che l’Arboldi non preferirà quel bamboccio a
un cavaliere qual è vostro marito. — Non c’era piú dubbio! La marchesa
amava il duca, amava — strana donna! — il frutto acerbo; e il polso che
aveva confessato era lí pronto a ripetere la confessione. Per prima
vendetta il conte voleva discorrere e burlarsi del duchino affinché,
magari, la capricciosa dama arrabbiasse o, magari, piangesse, svenisse.
Ma il sangue nell’arteria rifluí placido ed uguale, e solo allora
trasecolando La Fratta ebbe un’idea, un lampo, quasi un fulmine: — il
marito?!....
Già: a parlare del marito e dell’Arboldi il polso precipitava,
martellava, scottava. Come scottato, il conte abbandonò il braccio della
dama e balzò in piedi: stupito, stordito non sapeva piú che si dicesse.
Diceva:
— Ma dunque, se l’abate Fantelli.... No: non è possibile! — E quando si
fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserí:
— Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, è vero?
— Sí — rispose la dama; ma poteva essere il sí di prammatica.
— Siete innamorata di vostro marito: è vero?
La Fratta s’aspettava una risata dinegatrice, ma la dama, la quale,
meravigliata anch’essa, era per gridare — Chi ve l’ha detto? —, ebbe
tant’ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e
sentí tant’odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.
— È vero? — incalzava l’altro —: di vostro marito?
— Sí! — E questo non fu il solito sí; fu un sí aspro, secco,
trafiggente. L’altro continuò:
— E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitú solo in ubbidienza
della moda?
— Sí!
—.... ed io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?
— Sí!
La Fratta divenne rosso; ma era cavaliere, e si contenne.
— Dunque — conchiuse — non vi annoierò piú, signora marchesa! Solo
permettetemi l’ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo non
riferite questo nostro colloquio all’abate Fantelli. — E per un supremo
sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e
loquace: la marchesa ritrasse la destra; ond’egli, senza inchinarsi,
uscí dalla camera.
Ma quando la portiera fu ricaduta dietro di lui, la dama, alzatasi vispa
e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un
lungo sospiro di soddisfazione esclamò: — Finalmente!
Indi si chiese: «Perché non dir tutto all’abate Fantelli?»
Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse
ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto — stabilí —; e che
egli rida e il mondo rida! Anzi!»
Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo ella dava
al marito una prova d’amore sublime fino al sacrificio, sí che
sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe piú
repugnato — ella n’era certa — alle altre prove e piú seducenti prove
dell’amor suo.
Frattanto il cavaliere di ritorno dalla dura battaglia contemplava la
gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de’ suoi
affetti che dolorava ferito: l’affetto di sé medesimo; giacché l’altro
pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando
alla dama di tacere aveva obliato la natura di lei e che s’ella parlasse
— e parlerebbe — il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale —
cosí era strana — nulla poteva sorprendere; ed egli considerava fra sé
il capriccio di lei; si stupiva di non essersene accorto prima; si
rassegnava a comprendere quel capriccio meno enorme di quanto aveva
giudicato prima.
Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile
da secoli, con dei modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la
moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n’era accesa a
dispetto del mondo e del cavaliere servente?
E l’orgoglio del conte dolorava; e l’altro affetto, che ancora non era
spento del tutto, sussultava d’un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio
che la derisione del mondo, la derisione della marchesa quand’ella
innamorasse e seducesse suo marito!
E il battuto, fugato, disperato La Fratta concepí il disegno di salvare
il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della
marchesa.
Ond’éccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per strada e al
saluto di lui non fece né parola né cenno; di che l’Arnisio gli chiese
la causa e della risposta fu sí poco contento da ammonire La Fratta che
non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poiché la taccia
di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte
trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama
del conte segnò di rosso la destra dell’avversario.
Pronto questi strinse colla pezzòla di battista il taglio che non era
profondo, e poi domandò senz’ira:
— Ora mi direte perché un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar
briga con un cavaliere come sono io.
— Per provarvi — rispose La Fratta alla dimanda che s’aspettava — per
provarvi che se da oggi in avanti non servirò piú vostra moglie e non
entrerò mai piú nella vostra casa, la colpa è vostra.
Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capí meno di prima e
ribatté:
— Spiegatevi!
E il conte:
— Vostra moglie è sdegnata meco e infastidita della mia servitú perché
io, e non voi, ho scoperto ch’essa è innamorata di voi.
Allora l’Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla
rivelazione del polso; fors’anche con uguale timore volse il pensiero al
riso del mondo, ed egli chiese con tono e impeto d’incredulità e di
sorpresa:
— In che modo avete saputo ciò? E ne siete sicuro?
— Il modo — rispose dignitosamente La Fratta — è un segreto dell’abate
Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro che solo per ciò un cavaliere come
son io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi.
A tali parole il marchese sorrise e porgendo la mano ferita all’amico
— Conte La Fratta — esclamò contento —, io vi ringrazio!


LE FONTI

I.

1. _Fabliau de Guillaume au faucon._
2. _Fabliau du Vair Palefroi_ e una favola di Fedro — La seconda parte è
d’invenzione.
3. Masuccio Salernitano.

II.

1. _Prato Spirituale dei Santi Padri_, cap.o XI: «.... nel monasterio di
Pentula era un frate a sé medesimo molto intento e continente; ed
essendo impugnato dallo spirito della fornicazione, non potendo questa
battaglia sostenere, uscí dal monasterio e andò in Gerico per satisfare
alla sua concupiscenza; e súbito che e’ fu entrato nella cella della
meretrice fu tutto leproso....»
2. _Gesta Romanorum_ (_De constantia fidelis animae_): «.... post
gallicantum de lecto surrexit, intime firmamentum vidit, in quo clare
dominum nostrum I. C. inter stellas respexit et dicentem: .... tempus
est ut pro meo amore.... studeas viriliter contra inimicos meos
pugnare....» etc. Ma d’invenzione sono il secondo e il terzo capitolo.
3. _Vite dei Santi Padri_: «Una vergine ancella di G. C., la quale stava
insieme con due altre vergini, et eravi stata ben sette anni, da un
cantatore fu tanto sollecitata e visitata che cadde con lui in
peccato.... E venne in tanto odio di lui e di sé che, quasi
vergognandosi di vivere, incominciò sí dura et aspra penitenzia che poco
meno che non s’uccise.»

III.

1. _Novellino: Qui conta una novella d’amore._
2. _Fabliau: Le chevalier qui recouvra l’amour de sa dame._
3. _Fabliau: Roman de un chevalier et de sa dame et de un clerk._ — I
lascivi novellieri erotici del ’400 sono alcuni volgarissimi; altri
(ricordate il Piccolomini) sentimentali. Riuscii a rendere questa
disuguaglianza del sentire in una novella sola?
4. La corruzione della passione erotica nel secolo XVI quali novellieri
resero meglio di queste _Lettere Amorose_ di Alvise Pasqualigo (Venezia,
1569)? [Vedi A. A. _Romanzieri e Romanzi del cinq. e del seic._] Ne’
riferimenti ho mutato solo la grafia.
5. _Novelle degli Accademici Incogniti_ (30ª, di F. Carmeni).
6. _Gesta Romanorum_: «Legitur, ut dicit Macrobius, quod erat quidam
miles qui habuit uxorem suam suspectam....» Chiede, il soldato,
consiglio al prete; il quale «manum dominae accepit et pulsum suum
tetigit; deinde sermonem de eo fecit, cum quo erat scandalizata et
vehemens suspicio: statim pre gaudio pulsus incepit velociter moveri et
calefieri.... Clericus, cum percepisset hoc, incepit sermonem de viro
suo habere, et pulsus statim ab omni motu et calore cessabat.»
Fu scritta, quest’ultima, nel marzo del 1894.


NOTA

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