Vecchie storie d'amore - 5

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Ma Alvise non viveva lieto, né la promessa di lei, che «se è vero che di
là come di qua vi sia amore, e si ami, esso mio spirito in Cielo vi
godrà», gli arrecava bastevole conforto; e avrebbe voluto tornare a
discorrere con lei. Temeva ella nella dimanda ostinata un’insidia, e
disperando che l’amore di lor due rimanesse «giusto fedele e onesto»
com’era incominciato, minacciò Alvise di rifiutare le sue lettere:
«Conosciuta la vostra disonestà, mi sono spogliata di quell’amore ch’io
vi portava....»
A che, disperato, egli: «Poi che tanto vi piace che dal mondo mi toglia,
son contento di soddisfarvi. E perciò mi risolvo, con la prima
occasione, d’andar in luogo tanto lontano che secondo il desiderio
vostro finisca i miei giorni.»
E madonna Vittoria, pentita e impaurita, un giorno l’accolse in casa
furtivamente: fu quello il giorno della colpa. Da quel dí in avanti le
lettere di madonna Vittoria si susseguirono piene di amarezza, di
tristezza profonda, che derivava, piú tosto che dai rimorsi, dal
rimpianto pei lunghi piaceri cui libera avrebbe potuto gustare;
dall’amore stimolato, esasperato dalla bramosia sensuale; dal timore,
quasi dal presentimento che tra breve Alvise si sarebbe stancato di lei.
Dopo ciascuno dei gioiosi convegni, che consentiva l’assenza del marito,
ella piangeva:
«Come foste partito mi gettai nel letto, e con gli occhi del corpo
(benché co ’l pensiero a voi) m’addormentai: indi a poco svegliatami e
ritrovatami senza di voi, cominciai a pianger sí forte che s’io non mi
fossi nascosta sotto la piega del letto averei senza dubbio svegliato
ognuno di casa.... La maninconia m’è sí cresciuta che mi sento uscir
fuora l’anima....»
Di lui era compresa cosí intimamente che a ripensarne le parole ne
riudiva la voce e dalla voce ne riacquistava la sensazione intera: essa
si deliziava a martoriarsi finché si abbatteva in una mortale angoscia.
«Da quell’ultima ora che mi parlaste fino a questa si è cresciuta in me
la confusione, ch’io non so piú quello ch’io mi faccia. Le vostre
dolcissime parole mi sono rimase cosí vive nella memoria che, se talor
chiudo gli occhi, parmi di vedervi e di ragionar con voi; il che è
cagione che molte volte stendo le braccia per abbracciarvi, e mi ritrovo
ingannata. Onde destatami, vergognata di me stessa, sento tanta passione
che mi è forza di desiderar la morte per uscir una volta di pene....
Troppo grave tormento è l’aver desiderio di cosa amata piú che la
propria anima, e vedersene privo senza speranza di poter già mai per
lunghezza di tempo goderla!....»
Né conosceva ancora le pene della gelosia; ma quando il marito tornò e
cominciò a sospettare e già alcuno dei vicini e dei conoscenti mormorava
della loro tresca, dovettero contenersi e non vedersi che di rado. Quali
altre donne vedeva Alvise? Ove passava il giorno? A che feste si recava?
Messer Alvise pareva tuttavia appassionato; e per andare da madonna,
avvertito da segnali di richiamo, sfidava la vigilanza del marito e
degli altri, e giurava che tra le braccia di lei, nel tripudio dei sensi
e dell’animo, si sentiva davvero felice. Felice era essa pure in quei
momenti, anche perché si vendicava del marito il quale, mentre ella era
con Pasqualigo, «stava a piacere con altrui»; ma l’invidia e la viltà la
privarono pure di consolazioni sí fugaci. Lettere anonime persuasero il
conte che la moglie lo tradiva e tentarono persuadere madonna Vittoria
che era ingannata dall’amante: il Pasqualigo ebbe minaccie di morte
entro il termine di otto giorni se si ritrovasse ancora una sera con
Vittoria; e madonna soffriva d’una gelosia divenuta un incomportabile
tormento.
Invano egli tentò di assicurarla che solo per nascondere il vero amore
simulandone un altro corteggiava altra donna, giacché ella dubitava ogni
giorno piú e ripeteva di volere uccidersi; ella che già per amore di lui
non s’era curata né «di parenti, né di fratelli, né di padre, né di
figliuoli».
— «Ma ditemi — egli le scriveva per frenarla —: vi piacerebbe ch’io
trasportato dall’appetito e rotto ogni freno di ragione, venissi con
forza a levarvi di casa per torvi di mano di chi potrebbe tor la vita a
voi? O pure vi piacerebbe ch’io, spinto dal desiderio della salute e
contentezza vostra, uccidessi _lui_, onde mi convenisse poi d’esser
eternamente separato da voi, la qual dite che prima di me
morireste?....»
I pericoli infatti aumentavano con l’aumentare dei sospetti nel marito,
il quale proibiva alla moglie finanche di stare alla finestra, e fino a
un amico dava incarico di osservarla: a un certo Fortunio.
Costui già da tempo aveva saputo che un ritratto di Vittoria era in
possesso d’Alvise; piú d’una volta era stato su ’l punto di sorprendere
gli amanti; forse egli era stato l’autore delle lettere anonime e forse
quegli che aveva trafugato a madonna un pacchetto di lettere: di madonna
era lui pure acceso. Oltre Fortunio spiava Vittoria una ribalda, cognata
o suocera.
E il marito «tutto il dí gridava seco dicendole: io ti darò tanta mala
vita che ti farò anzi ora morire —»
Essa era incinta. Non le era permesso svago alcuno; e, «per essere priva
di ogni conversazione, e, si può dire, confinata in casa, le conveniva
pensar sempre di quella cosa che piú le era cara»; e cosí la violenza
dei desideri diveniva in lei uno spasimo, una frenesia.
«Ieri vi vidi in strada, e mi venne rabbia grandissima di baciarvi, onde
mi sentiva morire, e credo certo che se _lui_ non era in casa, io era
sforzata, rompendo ogni velo di onestà, di chiamarvi ad alta voce — In
somma, questa nostra vita è troppo aspra e mi pare quasi impossibile di
poterla vivere lungo tempo....
«Misera e disavventurata! A che termine sono giunta per amore, dal qual
non può o non dovrebbe nascere altro che buoni effetti e pur in me non
provo altro che passioni, tormenti e morte; e se pur io potessi finire —
sí come tante volte ho desiderato e ora vie piú che mai bramo per le
disperazioni che nascono in me dal non potervi abbracciare — sarei
contenta....»
«Bisogna frenare gli appetiti, e scacciare certi pensieri dannosi» —
esortava Alvise co ’l tono dell’amante che può riflettere dopo essere
stato soddisfatto.
I mesi, intanto, passavano; e madonna Vittoria sfogava appena per
lettere i lunghi e duri affanni:
«.... Questo crudel matto di mio marito non cessa di contrastar meco
tutto il dí.... Durante il parto.... io ho avuto disagio d’un uovo
fresco.... Ma non manco al bambino di cosa alcuna...., né posso pur
patire di dilungarmi punto dalla cuna per non lasciarlo piangere....»
Alle sofferenze di lei Alvise adduceva conforto di parole; e, una volta,
per parlarle si vestí da donzella e, accompagnato da una donna, si pose
in chiesa, alla predica, nella stessa panca di lei; ma poi, sospettato
uomo, fu costretto ad uscire: un’altra volta, mentre stava discorrendo
con Vittoria, essa fu sorpresa da uno di casa e acerbamente sgridata e
minacciata di morte. In tale guerra, con troppo brevi tregue, l’amore di
messere Alvise si raffreddava e nell’inquietudine e nei pericoli (egli
doveva guardarsi da’ sicari; e certo giorno ferí tre che l’assalirono
per via, e non azzardava ad andar fuori che accompagnato da tre
gentiluomini: madonna Vittoria temeva che il marito l’avelenasse) le
doglianze e i raffacci degli amanti divenivano piú acerbi e piú
frequenti.
Per lei Alvise «aveva dispregiati gli onori della sua repubblica; per
lei aveva messo a rischio l’onore offendendo, percuotendo e ferendo non
solo uomini e donne di basso stato, ma di sangue nobile e alto: l’amò
per tutta la vita attendendo il guiderdone della divina maestà!» E
Vittoria, di rincontro: «Le vostre crudeltà sono tante e tante che
meritano che ciascuno le fugga!»
Alla fine egli le scrisse che per non accontentare i suoi, i quali
volevano s’ammogliasse, partirebbe da Venezia: essa lo scongiurò che
rimanesse, magari s’ammogliasse, e lo minacciò: «Vi avvertisco bene che
vi potreste ancora chiamar pentito; e tenetevi a mente queste parole
perché si verificheranno». — Ed egli rimase, e n’ebbe premio di brevi
gioie.
Ma poi, d’improvviso, si decise ad andarsene. Ella fe’ giuramento di
morte o libertà dal suo amore; egli disse: — morrò ma parto —, e partí
davvero.

II.

La lontananza parve spegnere affatto l’antica fiamma nel cuore di
messere Alvise; ma bastò ch’egli ritornasse a Venezia perché la vista di
madonna Vittoria gli ravvivasse nell’anima, dalle poche faville che
v’erano rimaste, tutto il fuoco d’un tempo. Se non che trovò madonna
Vittoria cambiata al bene e molto sicura contro le tentazioni nella sua
virtú.
«Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere
l’anima insieme co ’l corpo...., ho pregato Iddio che rompa il fisso
pensiero che di voi avea.... e fui esaudita....»
Egli non credette. Ed essa:
.... «Io conosco il vostro amore verso me fuori di ogni mio merito
ardentissimo, e confesso d’aver ricevuto da voi tanta quantità di
cortesia, che quando anche spendessi mille volte la vita per voi non
pagherei la minor di quelle; ma perché io mi sono deliberata di voler
rimettere tutte queste vanità corporali, rivolger l’animo a Dio e
riconoscerlo per mio Signore vivendo vita cristiana, confessandomi e
comunicandomi ai tempi ordinari, vi prego che non vogliate romper questo
mio proponimento co ’l molestarmi ogni ora con vostre lettere....»
Egli non le credeva ancora, e sollecitato dal rifiuto voleva
riaccenderla e ridestarne i sensi evocando i ricordi con tutti gli
artifici del suo miglior stile di poeta:
«Deh, anima mia, riduciamoci a memoria il piacere che da’ nostri cuori
fu sentito quando eravamo insieme. Ricordiamoci del raddoppiar de’ baci
nelle partenze, delle voci da caldi, spessi e non lunghi sospiri
interrotte; del pender collo a collo, e dei giuramenti, e delle promesse
fatte di viver sempre nell’oggetto amato. Sovvengaci del vegghiar notti
intere, né si partano già mai da i nostri cuori le lagrime calde e amare
che talora e per allegrezza e per timore erano sparse da gli occhi
nostri e poscia raccolte dalle labbra amate....»
Invano: non pentimento, non rimorsi l’avevano cambiata cosí, ma la colpa
di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure
una lettera; e non s’era cambiata cosí, come diceva: ella aveva un
amante. Un giorno Alvise non seppe, vide che nell’altana ove si
biondeggiava i capelli al sole, ella accoglieva Fortunio. Fortunio lo
scrittore delle lettere anonime! Fortunio il delatore!
Essa negò! Ma Fortunio per vanagloria e paura a un tempo disse al
Pasqualigo: — è vero —; e lei stessa, madonna Vittoria, l’aveva tratto a
lei. Madonna Vittoria dovè confessare, e confessò senza vergogna, con
audacia, con impudenza:
«Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch’io rimasi tra tanto
duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine disperata,
veggendo che non vi curavate né anche di consolarmi con una semplice
carta, caddi in tanta gelosia, ch’ebbi ad impazzire e mi risolsi,
vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorte di malia per
liberarmi di tante angoscie. Ma ragionato sopra di ciò con una mia
amica, fui consigliata a lasciare quello e a fare elezione d’altro
amante, e tante belle ragioni mi furono dette da lei e tanto instabile e
crudele mi foste dipinto, che facile cosa fu il farmi accostare alla sua
opinione. Risoluta adunque di vendicarmi per questa via e di liberarmi
insieme da tante noie, attesi l’occasione, la quale non sí tosto mi
venne ch’io l’abbracciai nel modo ch’avete inteso da quel crudele, che
piú tosto dovea patir morte che confessarvi le cose passate tra lui e
me.... Ma pazienza! La mia fortuna ha voluto ch’io spenga affatto l’amor
vostro e sí m’accenda di lui che non abbia mai requie....»
Pazienza! Ed essa perdonava a quel perfido: l’amava, e nell’amore nuovo
e nell’abiezione non avrebbe avuto piú un pensiero, una parola, uno
sguardo per Alvise Pasqualigo!
Alvise non sopportò l’abbandono deciso ed assoluto della donna che aveva
amato troppo e troppo a lungo; non volle rassegnarsi alla vendetta di
madonna Vittoria; non si riebbe, e la gelosia travolse nel fango l’anima
sua e la dignità d’un uomo. Nessun innamorato fu mai un mendico cosí
sordido come Alvise Pasqualigo, il quale scriveva di tali lettere:
«Se voi vedeste com’io sto, forse che m’avreste compassione, se ben
pochissimo mi amate. Di grazia, trovate modo ch’io possa darvi alcuna
lettera, che so ben io che avete molte comodità. E se è possibile, sí
come io son certo, fate ch’almeno per una volta sola io venga a voi (non
dico ad abbracciarvi, ché troppo indegno mi giudicate e troppo vile mi
tenete), ma ch’io venga a baciar la terra dove voi tenete i piedi...»
Madonna Vittoria, senz’altro, gli rimandava i ricchi doni, le sue
lettere, il suo ritratto.
Ed egli:
«O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato
quello che non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocché
foste stata conosciuta per quella che sete? Voi meritavate pure ch’io
scoprissi il vostro adulterio a vostro marito....; ma io non voglio che
la fragilità del vostro petto e l’errore di donna poco savia mi faccia
far atto indegno di me. Anzi tanta discortesia che m’avete usata voglio
ricompensar con doppia gratitudine procurando fino co ’l proprio sangue
di coprir la vostra vergogna.... Voglio che conosciate l’amor mio
vedendo ch’io non posso patire di vedervi patire danno o vergogna
alcuna: anzi per accrescer il vostro contento e acciò che voi possiate
godervi il vostro amante, voglio esser cagione che vostro marito vada a
star fuori qualche giorno. Vi avvertisco bene e vi prego ad operar piú
cautamente di quello che fate, perché non vi è alcuno in quelle contrade
che non sappia il modo che tenete per raccoglier i vostri amanti nelle
braccia....»
Proprio cosí: egli «voleva essere il mediatore a’ suoi diletti e
procurar comodi alle sue dolcezze, contentandosi, in premio del suo
lungo affaticare, che il bene che gli toglieva la sua crudeltà
privandolo di lei, gli fosse concesso dal vedere che per suo mezzo
godeva felice....»; contentandosi «di essere amato da fratello, pur che
talora gli fosse concesso di vederla e di ragionarle con quell’amore che
sogliono i fratelli famigliarmente....»
Per prudenza essa permise questo, e un giorno che voleva andare
nell’altana passando di tetto in tetto egli fu preso a sassate come un
ladro: come un mortale nemico era odiato da madonna.
«Voi, secondo ch’io bramo, vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi
mostrate sí colma d’orgoglio che men noia mi apporterebbe il non
vedervi. S’io vi saluto, voi vi volgete ad altra parte; s’io vi parlo,
sorda e muta vi mostrate; ond’io posso dire, e in verità, d’essere
odiato a morte....»
Peggio: era burlato.
«La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d’Argo acciò ch’io
vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch’altro non posso,
che voi m’inganniate, ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò già
mai. Se gli avete cari fate che mi lascino stare e che si contentino di
godervi....»
Troppo a basso era caduto: un impeto d’ira contro l’amante, se non
contro la donna, se non contro sé stesso, non avrebbe potuto scuoterlo e
sollevarlo? No: una volta a vedere madonna Vittoria alla finestra con
faccia ridente e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor
geloso» e attaccata questione, ferí il drudo, ma scongiurò Vittoria che
gli perdonasse!
Il qual fatto atterrí la donna e l’indusse a posporre il nuovo amore al
terrore dello scandalo e dell’infamia. Rispose:
«Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni vostra voglia, né
amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che l’amore; ma poi che le
cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete perdono, io ve ne
faccio grazia....»
L’invitò a sé: «Anima mia, vi prego che veniate a me quanto prima potete
perché io mi sento morire per desiderio di vedervi....»
E, per convincerlo, gli mandò fino copia della lettera con cui diceva
addio a Fortunio e in cui Alvise poté leggere di queste cose:
— «Ho ricevuto ieri una vostra lettera, né tale io credeva vederla.
Pazienza! La mia mala fortuna sempre m’aggiunge angoscie agli affanni
che mi tormentano acciò sempre misera e infelice io viva.... Appena
posso credere alla vostra mano e agli occhi miei perché troppo sicura
viveva del vostro amore. Ora, mancatami ogni speranza né trovando alcun
rimedio a’ casi miei, voglio farvi conoscere quanto vi ho amato; del che
buonissimo testimonio vi potrà essere l’aver veduto che io ho consentito
alle vostre voglie; cosa ch’io non volsi già mai concedere ad altri....
Voi potreste rispondermi che non mi pregaste ad amarvi e che voi, mosso
dai miei lamenti, per non mi dispiacere avete voluto compiacermi e che
non amore o qualità vostre m’indussero ad amarvi con tanto affetto, ma
solo un istinto naturale di femminil cuore, che solo appetisce ciò che
le vien conteso, mi sforzò a questa servitú.... Io vi replico che
m’abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorger
in voi....»
E finiva: — «Mentre avrò vita vi averò nel mio pensiero....»
Allora, solo allora il Pasqualigo sentí tutta la depravazione di madonna
Vittoria e l’abiezione sua e gli parve di capire tutta la falsità di lei
che, come aveva mentito con lui prima e con l’altro dopo, adesso mentiva
di nuovo seco: non rifletté che s’ella era cosí corrotta la prima colpa
ricadeva in lui; non ricordò che per amor suo madonna aveva pianto, e
con un pretesto spezzò l’ignobile legame. La disse Messalina e Pasife e
agli oltraggi aggiunse l’accusa ch’ella avesse incaricato un sicario
d’ammazzarlo.
Egli era salvo. E con le sue pubblicò le lettere di lei.

LA DAMA FALLACE

Sec. XVII.

I.

Mentre il duca Odoardo Farnese, i Francesi e il duca di Savoia
assediavano Valenza, don Alfonso della Torre, il quale era tra gli
ufficiali d’Odoardo, ricevette la notizia che suo zio il marchese di
Cortemaggiore era morto lasciando a lui, come a giovane savio ed a
nipote affettuoso, ogni suo avere; ond’egli, da nipote affettuoso,
dimostrò un ineffabile dolore, e da giovane savio deliberò tra sé di
godere al piú presto di quella fortuna inattesa. Infatti appena i
collegati ebbero tolto, per disperato, l’assedio, egli corse a Parma, ed
ivi diede tosto troppe prove di prepotenza e di grandezza: capestrerie,
fastosi sollazzi, amori, brighe, soprusi. Né continuò poco cosí; ma
quando il duca fu uscito dai travagli della guerra e riprese il retto
governo dello stato, chiamò a sé, un giorno, il giovane e turbolento
cavaliere e gli propose il dilemma o d’ubbidire alle sue leggi per
restare in Parma, o d’andarsene da Parma per non ubbidire alle sue
leggi.
A ciò don Alfonso avrebbe dovuto rispondere co ’l sussiego che gli
conveniva: — Altezza, io possiedo anche un feudo fuori delle vostre
terre —; eppure, trattenuto da certa sua riflessione, egli chinò il capo
e tacque.
Di che meravigliandosi e dolendosi quasi di un’umiliazione sua il conte
Gabrio Gabrii, che gli era intimo amico, gli disse Don Alfonso: — Oggi
capirai che se io metterò il giudizio a posto non sarà tutto merito di
Sua Altezza.
E nel pomeriggio, condotto l’amico al giardino della sua casa, da un
punto dal quale si scorgeva chi era nel giardino attiguo disse a bassa
voce: — Guarda!
Una dama leggendo un libro passeggiava all’ombra; e come fu condotta dal
sentiero presso il muricciolo di confine, levò gli occhi e al profondo
saluto che le fece don Alfonso risalutò, senza ristare, con garbo
signorile. Una dama bellissima. Il Gabrii sorrise, attese ch’ella si
fosse allontanata ed esclamò:
— Varrebbe la pena di mettere la testa a posto; ma io credo che tu,
questa volta, la perderai del tutto!

II.

La dama posò il romanzo. Nella sua mente piena di quell’avida lettura le
viragini e i cavalieri continuarono a scambiare colpi di spada e prove
eroiche e i príncipi a perseguire le donzelle traverso strane e confuse
vicende di battaglie, di rapimenti e di naufragi; ma nel suo cuore, dai
discorsi piú galanti e dalle pagine piú sentimentali, era penetrata una
tentazione sottile, un’eccitazione dolce ad un amore tuttavia
sconosciuto.
Fanciulla quasi l’avevano data in moglie a un cavaliere milanese,
tanghero e geloso; a pena vedova i congiunti del marito, per carpirle
una parte dell’eredità, l’avevano rinchiusa a forza in un convento, e da
poi che era fuggita dal convento in casa della vecchia dama che le
voleva il bene d’una madre, il Palmenghi figlio della dama, per non
essere compromesso e per sottrarla all’ira dei congiunti, la costringeva
a una vita peggio che di chiostro. O piú tosto, invaghitosi di lei, il
Palmenghi aspettava agio di sposarla?
Da Scilla in Cariddi!; e altro confortatore della sua giovinezza sognava
Domitilla (questo il suo nome): ella sognava una grande passione che le
consentisse il dominio dell’amante in guisa d’aver poi uno schiavo in
suo marito; e il Palmenghi era un geloso carceriere quando ancora non le
aveva proposto di sposarla!
Sospirando, Domitilla riprese il libro. Ma il suo pensiero oramai
ripugnava dalla lettura e seguiva imagini sue, un’imagine che da alcuni
giorni cercava il suo cuore e l’accarezzava per entrarvi; e don Alfonso
della Torre, il giovine e bello e perfetto cavaliere di cappa e spada,
le sorrideva con un inchino profondo di saluto. Ella non aveva il dubbio
di non piacere a don Alfonso della Torre: anzi s’era avveduta che la
corteggiava; ma, quando pure le riuscisse innamorarlo, riuscirebbe al
piú, a divenirgli moglie? Divenirgli moglie! E la sua fantasia correva,
correva. Egli era ricco e superbo; onde una gloria l’avvincerlo e una
fortuna il possederlo. Se non che lo dicevano anche intemperante,
violento, infido colle donne, e non le conveniva disgustare il Palmenghi
per avventarsi a una speranza incerta e a un pericoloso tentativo.
Rifletté, poi levandosi risoluta e sicura: — A innamorarlo — pensò —
basta la bellezza; lo avvilupperò con l’arte e con l’inganno e avrò lo
schiavo!
E si guardava nello specchio della sala: era bellissima.

III.

La dama che ogni giorno passeggiava nel giardino del Palmenghi, rispose
cortese alle prime dimande di don Alfonso, ma guatandosi attorno quasi
paurosa che ci fossero altri ad ascoltarla; disse che aveva nome
Vittoria, che era sorella del Palmenghi e vedova da poco tempo di un
gentiluomo milanese: non piú; ma negli occhi e nel viso essa aveva
l’ombra e l’impronta d’un dolore sempre presente al suo spirito, e dalla
circonspezione con cui ella si conteneva, s’arguiva che qualcuno
l’invigilava. Qual colpa di lei o d’altri la teneva vittima di quella
tirannia occulta? qual cura l’affliggeva turbandone la meravigliosa e
fresca bellezza? Don Alfonso non poté sapere di piú, ma se il giovanile
desiderio di un’avventura galante l’aveva condotto nel giardino le prime
volte, nel solito luogo, all’ora solita, ve lo trasse di poi il
desiderio acre e virile di far dispetto a qualcuno e di affrontare un
pericolo; e quindi ve lo trasse, con tutta la forza e con tutti i lacci,
l’amore.
E quell’accensione lenta, nuova per lui, divampò cosí nel suo cuore che
non ebbe piú requie: e il suo animo rimase conquiso, occupato, umiliato
da quella donna la cui bellezza s’elevava e raffinava con lo strano
contorno della pietà e del mistero. Egli fece e le ripetè molte
proteste, ma la dama o taceva inquieta o rideva mestamente; ed un giorno
in cui egli insistette per ottenere una parola, una parola sola, ella
disse: — Io non ci penso a rimaritarmi.
Don Alfonso non le chiedeva questo o non le chiedeva tanto. Allora la
dama lo guardò fissa per leggergli il pensiero negli occhi; poi
soggiunse: — Che cosa domandereste a una dama nobile ed onesta? — Una
parola! soltanto una parola! — La dama gli sorrise.
In fine, un altro giorno, ella si dolse perché le bisognava interrompere
la consuetudine di quei piacevoli colloqui.
— Impossibile! — esclamò don Alfonso. — Voglio vedervi, udirvi! Chi può
impedirmelo?
— Io — essa rispose —; se no, voi, don Alfonso, mi recherete danno.
Né alle domande di lui aggiunse spiegazione alcuna, ma si mosse come per
andarsene. Allora egli si contenne, la supplicò e promise d’essere
prudente; e la dama quasi per premiarlo gli concesse di scriverle e di
nascondere le lettere in un crepaccio della cinta: ivi, potendo, gli
lascerebbe le risposte. Tacquero; e dalle loro pupille le anime loro si
guardarono tremule e accese, interrogando.
— Voi m’amate! — disse don Alfonso.
— Sí — disse la dama; e ne’ suoi occhi luccicarono le lagrime.

IV.

Certo che essa l’amava, senza piú titubare don Alfonso intese al fine
del suo amore; e le ripulse della dama non lo frenavano, non
l’intimidivano gli ostacoli; ed essa gli scriveva invano: «Vorrei, ma
non posso».
Egli un giorno, stanco, le scrisse cosí: — O la sera sarebbe venuta da
lui, nel giardino, ad udire quel che aveva a dirle, od egli, alla prima
buona circostanza, la porterebbe via a forza.
Domitilla, com’ebbe letto il biglietto, sorrise all’idea d’essere rapita
di notte in una carrozza trascinata da due veloci cavalli e scortata da
ceffi spaventosi; ma la ragione la distrasse dalle fantasie romanzesche,
e poiché l’amante si ribellava, comandava, minacciava, il meglio era non
badargli — se pure, a tirar troppo, la corda non si fosse rotta. No,
meglio era andare da lui — se pure al convegno, per debolezza sua, non
fosse seguíto ciò che sarebbe seguíto al rapimento. — _Parcere subiectis
et debellare superbos!_ Domitilla, la sera tardi, s’attenne alle norme
che l’amante le aveva scritte; e don Alfonso, ricevutala da una scala
nel giardino, non stentò a persuaderla che entrasse nella sua casa. —
«Soggiogare il ribelle e, dopo, nel perdono, acconsentirgli» aveva
determinato a sé stessa Domitilla; ed entrando disse in tono ostile,
súbito:
— Per voi io comprometto, questa sera, il mio onore. Del vostro amore
quali prove avete date voi a me?
— Io vi amo — rispose don Alfonso.
La dama senza badargli continuava: — Voi m’avete fatta una proposta
indegna, l’insensata minaccia d’impossessarvi di me con la violenza! Ma
io non vi temo; v’ascolto. Che volete?
Già alle prime parole di lei cosí avversa nell’aspetto e nella voce il
cavaliere aveva perduta la riflessione del disegno che s’era preparato
in mente; e alle ultime lo turbò il dubbio che la dama nascondesse
un’arma; onde, umile, le chiese:
— Vittoria, che cosa debbo fare io per voi?
— Nulla, se non potete soffrire e non sapete dominarvi!
Allora egli si lamentò di lei: egli soffriva da troppo tempo, egli
soffriva di quell’amore che gli pareva tenebroso ed aspro quasi un
delitto o una condanna; e da lei non aveva conforto se non di poche
parole vane; non aveva speranza e confidenza alcuna. — Desiderate che io
soffra. E avete detto che mi amate!
— Io vi amo — ripeté essa; e ai lamenti contrappose gli aforismi appresi
nei romanzi. — Non è amante degno chi non rinunci la propria volontà a
quella dell’amata; né v’ha amore buono che non sia combattuto dalla
sorte; né è passione nobile e pietosa in chi non sia pronto ad ogni
sacrificio, al sacrificio della vita stessa.
Il rimprovero offese don Alfonso. Esclamò: — La mia vita non è vostra?
Ogni mio pensiero, da quando vi ho veduta, ogni mio desiderio non è in
voi? Non vorrei io liberarvi ad ogni costo della tirannia che
v’affligge? Un cerchio di ferro vi stringe e vi soffoca: vorrei
spezzarlo, e v’avvolgete nel mistero e mi fuggite; vorrei consolarvi o
dividere nel vostro segreto i vostri affanni, e mi fuggite! Che amore è
il vostro?
— Un amore onesto, paziente, generoso!
Don Alfonso tacque con uno sforzo palese per contenere il diniego contro
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