Vecchie storie d'amore - 1

ADOLFO ALBERTAZZI

VECCHIE STORIE D’AMORE

BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
_(Cesare e Giacomo Zanichelli)_
MDCCCXCV.
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Proprietà letteraria.

BOLOGNA, TIPI ZANICHELLI, 1895.
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_Le passioni umane non mutano: mutano i costumi e le attitudini
dello spirito nelle passioni e le sembianze dei fatti umani. A
questo intesi. Per questo divagai con fantasia indulgente in
quella che mi parve verità di costumi e della vita senza timore
di riuscire un novellista immorale._
_E mando il libro a chi, se n’udrà lode non di volgo, penserà
sorridendo: io volli che fosse scritto._
A. A.
Mantova, 15 febbraio 1895.


INDICE

I.
IL VALLETTO OSTINATO
IL LEARDO
LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO
II.
LA SALVAZIONE DI FRA’ GERUNZIO
_DIO LO VUOLE!_
DISPERAZIONE
III.
AGNESINA
LA FANTASIMA
UN’OPERA DI PIETÀ
PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO
LA DAMA FALLACE
IL POLSO
LE FONTI
I.
II.
III.
NOTA
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I.

«Con donne si dee contare di cose d’allegrezza e di cortesia e
d’amore....»

IL VALLETTO OSTINATO

Il castellano di Ripalta s’era allevato con amore un valletto di nome
Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare,
attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Né di quel bene del sire
pe ’l valletto ingelosiva madonna Ginevra, poiché la giovinezza di lei
fioriva sterile ed il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le
risparmiava i rimbrotti del marito.
Madonna viveva lieta; e l’amore del marito, le cacce e il conversare
colle sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria
del castello non meno che le faccende casalinghe cui essa accudiva
umilmente, con fanciullesca mutabilità. Cosí, come rideva quando le
galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano
dietro, si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che
gettava loro, rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o
adombrato, o se nell’arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo
strappo il rattoppo: mentre cuciva presso la finestra dalla quale
scorgeva l’ampio paesaggio a basso e d’intorno, ella cantava e i
villani, giú nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della
sua bella voce.
Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi,
quantunque fosse anche temuta perché gli occhi del sire vedevano tutto
con gli occhi di lei e perché ogni capriccio di lei diventava la volontà
del sire: solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando
fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto;
ond’ella finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere.
Ugo allora si divincolava e la guardava in un’occhiata.
Veramente molte cose erano permesse ad Ugo: poteva arrampicarsi su per
gli alberi dell’orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le piú strane
burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli
minacciava un pugno; poteva spiare, dietro una porta, l’ancella che si
stava spogliando; ché, accusato alla padrona, la padrona rideva, e
accusato al padrone, il padrone taceva.
Ma quand’ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume,
e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinché nessuno, neppure
madonna Ginevra, lo considerasse ancora un ragazzo. E Ugo sentiva egli
stesso mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d’altri svaghi,
d’altri luoghi, d’altri pensieri, mentre la vita e la natura che
fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli
suscitavano sensazioni nuove. E mentre la forza sensuale si sviluppava
in lui e per l’istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da
tutta la natura il segreto dell’amore umano, quel desiderio peranche
indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza.
Amava, già amava, e non sapeva chi amasse e non sapeva d’amare.
Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e
sotto la sferza del sole il mondo dormiva un sonno mortale) Ugo a un
tratto udí cantare lontana e dall’alto, simile ad un’allodola, madonna
Ginevra; e a un tratto l’imagine incerta del suo desiderio e de’ suoi
sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna
Ginevra!
La sera nel porgere, avanti cena, l’acqua alle mani della padrona, al
valletto tremavano le mani; ed egli se n’accorse, ma non chinò lo
sguardo perché egli amava da uomo; senza paura, amava, e senza vergogna.
Quante consolazioni nell’avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da
fantasticare! E secondando i ricordi delle storie, che gli avevano
raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame,
e invidiando a sé stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena
giovinezza, s’imaginava vincitore di tornei in cui madonna l’assisteva
sorridendo, o difensore e salvatore di madonna Ginevra in un notturno
assalto di nemici.
Per altro, quell’ardore e il compiacimento di quell’ardore patirono
presto il freddo dell’ignara incuranza di madonna, la quale aveva due
grand’occhi solo per vedere, non per osservare; e poiché egli non
fallava piú, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva
neppur piú ragione d’immergergli le dita tra i capelli.
Sino a quando la dama avrebbe ignorate le sue pene?
Co ’l volgere dei mesi l’affetto di lui s’andò come condensando a modi
piú virili, di guisa che la sua fantasia ubbidendo ai richiami e cedendo
agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della
gioventú, l’abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali
e le gioie della colpa: a poco a poco egli perdette la baldanza, il
coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne
scoprisse il segreto e l’intenzione. — Passarono dei mesi; passò un
anno. Ma quanto piú gli diminuiva la speranza, tanto piú cresceva in lui
la bramosia di essere presto soddisfatto.
Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua
bella fioritura. E come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto
certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva
negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! — Il
desiderio sensuale, non piú vago e dimesso ma deciso e tempestoso,
affaticava l’animo del valletto non piú riposato nei primi propositi; e
il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno
insufficiente e un’attesa intollerabile. Già si sentiva morire d’amore;
avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione
pietosa e sconsolata.
Un mattino, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in
nuove vesti, il sire di Ripalta partí per un torneo. Quantunque era
quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio,
tuttavia appena il sire fu scomparso al basso del colle tra le macchie,
egli, nell’imminenza della sua felicità se l’assistesse la fortuna, o
del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a
lui il coraggio d’ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura.
Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio.
Ma come comincerò?»
E il sole cadeva ch’egli non aveva ancora trovato il modo acconcio per
incominciare. Ma quando, a sera, s’accorse che la padrona era entrata
nelle sue stanze, non piú dubitando salí, s’introdusse guardingo, spinse
francamente quella porta.
Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po’ discinta, sedeva su la
cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e
componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: —
Vieni, vieni. Che vuoi? Ad Ugo, rinfrancato, venne súbito in mente la
dimanda che s’era proposto di far dopo e raccolto che ebbe il fiato
bastevole a non restare a mezzo: — Madonna — chiese —, se chierico o
cavaliere, borghese o valletto, non importa chi, amasse da gran tempo
una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e
non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio o stolto?
La dimanda piacque a madonna, lieta nonostante l’assenza del marito, e
per burlarsi del ragazzo gli rispose: — Sarebbe stolto. Anche un
valletto, purché fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi
ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n’avrebbe almeno
almeno compassione.
Ugo con tutta l’anima bevve le parole buone ed esclamò: — Madonna
Ginevra, ecco colui! Colui sono io! Quanto ho patito per voi! Aiutatemi,
madonna!
La dama non rise; non credé che il ragazzo volesse burlarsi egli di lei
perché gli scorse la passione in faccia, e indispettita d’essersi
lasciata cogliere e offesa dall’audacia del valletto, gli gridò: — Ah,
ma tu sei matto! Che vai cicalando con le tue fole? Che so io de’ tuoi
amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa t’ho risposto? Vattene,
vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!
Stordito, gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse; pure, nel
tumulto della mente, ebbe forza di cercare in un’idea la suprema
invocazione alla pietà della dama, l’affermazione estrema del suo amore
e una minaccia quasi di vendetta all’acerbità di lei, e disse: — Voi mi
sgridate cosí e la colpa è vostra, che m’avete ferito cosí. Perché non
mi uccidete? In fe’ di Dio, io non mangerò piú finché non mi avrete
accontentato; — e con un’angoscia che pareva lo strozzasse uscí di là.
Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che cosa gli è venuto in mente a
quel ragazzo?»; e, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripeté: «Che
cosa gli è venuto in mente?»; poi si distese sotto le lenzuola e, come
il marito era lontano, s’addormentò senz’altro pensiero, co ’l riso su
le labbra.
Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello,
per non piangere si dimenò a lungo per il letto e non riuscí a chiudere
occhio prima d’essersi convinto che la prova la quale si era imposta era
degna d’un cavaliere innamorato, se era prova che gli metteva in
pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica e quasi
pena a riandare il fatto della sera innanzi; capí d’aver commessa
un’imprudenza; credé fino d’aver commesso un grosso errore, fino
un’azione puerile; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che guisa
comparire al cospetto di madonna? E l’amore gli dié ragione; gli
rinfocolò la fantasia; gli fece parere eroica la deliberazione presa. Né
si levò da letto; e quando furono a cercarlo disse: — Ho un gran peso
qua — e segnava lo stomaco —; non posso piú mangiare.
Il giorno dopo madonna chiese del valletto. — Non ingola nulla —
risposero; né egli cedette ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo
dí una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che
faceva voglia, e un’altra un ovo ancora caldo, ma egli chiudeva gli
occhi e rifiutava; e anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli
porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d’uva primiticcia con
acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina, tra altri
ancora rossi ed in agresto. Egli lo divorò un momento con gli occhi,
resistette e lo respinse.
Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non
cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre egli ordinava alcune cose
per la stanza, quasi fra sé, disse:
— Tornerà il sire; ma non staremo allegri.
— Perché? — chiese con simulata indifferenza la padrona.
Rispose l’altro: — Ugo morirà: non gli va giú un granello d’uva.
Madonna Ginevra arrossí; si levò, e si recò alla cameruccia del
valletto.
Stava il valletto con le pálpebre abbassate perché nel languore
dell’inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso
stanco e smorto smorto. Trasalí ai passi leggeri di madonna,
riconoscendola.
— Valletto Ugo, dormi? — ella chiese dolcemente. Egli disse: — Per Dio,
madonna, abbiate mercede di me!
A che essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: — Da me non avrai
mai grazia nella maniera che domandi. Questa è la tua ricompensa al bene
che ti vuole il sire? È questo l’amore che gli porti? Tornerà....
— Oh se tornasse! — sospirò Ugo, insensato piú che ardito.
E la dama: — Tornerà e s’arrabbierà, e ti romperà le ossa!
— Ma non mangerò — conchiuse Ugo.
La dama uscí co ’l proposito di dire ogni cosa al marito a pena fosse
giunto; se non che, mentre cuciva, cominciò a temere che egli la
rimproverasse d’avere tentata per capriccio e accarezzata in qualche
modo la folle passione del valletto: e a nascondergli la verità non la
rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e
con premure? Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi, quand’ecco s’udí il
corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano
arrivava in compagnia di piú ospiti.
«Chi sa — rifletté madonna Ginevra — che a vedere il padrone non lo domi
la vergogna? Indurrò il sire a impaurirlo.» E quando nel tinello, dove
su la tavola, imbandita co ’l piú ricco vasellame, fumavano le vivande,
il sire chiamò Ugo, la moglie disse a lui: — È a letto da tre giorni, e
non vuole piú toccar cibo. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.
Il marito volle andare a vederlo, ed essa lo seguí.
— Che hai? — domandò il sire entrando.
Ugo rispose: — Un peso qua, alla bocca dello stomaco; e non mi va giú
niente.
— Non è vero! — ribatté súbito la dama. — Non è vero! Per il male che ha
potrebbe mangiare. — Poi rivolta ad Ugo disse: — Ora io dirò al sire
perché digiuni da tre giorni. Mangerai?
— Voi potrete ben dire. Io non mangerò — rispose quegli che raccoglieva
gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque
quella risposta cosí franca e cui dava sospetto l’aria misteriosa della
moglie, già incolpava la moglie d’alcun torto verso Ugo. Ma Ginevra
aggiunse:
— Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi
spogliavo... —; onde il sire capí come il torto era proprio del ragazzo
e — Perché? — le domandò impaziente. E la dama in vece tornò a chiedere
al valletto: — Mangerai?
Il valletto, che era risoluto di morire, negò co ’l capo, sospirando. —
Io mi spogliavo — proseguí la dama — e lui venne da me, tutto strano, a
domandarmi Imaginate!
— Insomma! — fece il sire.
— Mangerai? — ripeté la dama per l’ultima volta; e per l’ultima volta —
No! — ripeté forte Ugo che teneva fissi gli occhi negli occhi di
madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva:
— Mi richiese...; — ma il marito senza piú badarle, come nella reticenza
comprendesse quanto imaginava, con collera scosse il braccio del
valletto e gli gridò bieco: — Che cosa le chiedesti?
Ugo tacque. Da’ suoi occhi traspariva una volontà virile che l’amore
rendeva ineluttabile: disperato amore, piú forte della morte; e madonna
Ginevra ammirando tale fermezza minacciosa insieme e supplichevole e
temendo a un punto stesso per sé e pe ’l valletto l’ira del marito che
minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà,
dall’ammirazione e forse dall’amore (quel ragazzo era un bel giovane)
concepí un’idea provvida e sagace.
— Mi chiese — rispose ella — il vostro falcone pellegrino, che non
dareste né a conte, né a principe, né ad amico; e, per averlo, s’è
impuntato a digiunare.
Alle parole della donna il credulo marito contenne l’ira; anzi rise e
disse: — Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia.
Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. — Ed uscí.
Ma la donna prima d’andarsene si fece piú presso ad Ugo, che la speranza
aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:
— Già che il sire ti vuol contento, anch’io ti vorrò contento. — E
meglio che con le parole promise sorridendo con uno sguardo lungo e
tenero come una carezza.
Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.

IL LEARDO

I.

Nella notte, tra ’l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli
amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in
lieve suono di parole, come di sospiri.
Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al
margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l’avaro signore del
Farneto, non consentiva l’amore della figlia con quel povero cavaliere
che era Raimondo di Santelmo; e all’albeggiare Raimondo inforcava il suo
fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti
finché egli spariva per il bosco.
La boscaglia in quell’ora si svegliava e l’indefinita letizia della vita
universale al far del giorno invadeva l’animo del cavaliere co ’l canto
degli uccelli, l’odore delle erbe e degli alberi, la frescura dell’aria:
sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere,
chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti;
voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie
della natura universa al sole ed all’amore.
Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell’amata, mal
certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s’avvivavano
nell’imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei
risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la
letizia dell’ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano,
ne sognava l’intero possesso con ingannevole gaudio. — Oh le morbide
guance di rosa e le carni gigliate e fresche!
Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un’ambascia
grave gli pesava su l’animo, e quanto piú disperava di un lieto fine al
suo amore tanto piú ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire
Giovanna cosí, di furto, la notte. E mentre cercava tra le fronde spesse
la vista delle stelle, scorgeva delle ombre nere che passavano tra i
rami dei cerri e delle querce: delle streghe, che l’accompagnavano con
mala intenzione, male augurando, sommessamente, al suo povero amore;
sommessamente.
Egli rideva forte, e gli avessero pure additato, le streghe, la
chiocciola d’oro dai pulcini tutti d’oro, la quale, al dire della gente,
si trovava dentro il bosco, ch’egli avrebbe ben saputo rapirgliela, al
demonio!
Poi con desiderio intenso e disperato di Giovanna affrettava il leardo
per un sentiero che era segnato dalle sole orme del leardo e che lo
guidava al suo amore piú presto e di nascosto.

II.

Giovanna del Farneto tanto desiderava per marito Raimondo di Santelmo
quanto questi desiderava lei per moglie; e se Raimondo si doleva della
sua sorte e minacciava di penetrare nel castello, essa, per gran paura
che le fosse ucciso (giorno e notte vigilavano le guardie a custodia del
ponte: fonda e larga era la fossa, alta la cinta e ferrate le finestre)
gli si prometteva ancora e gli si raccomandava di fidare in lei. Poi una
notte lo consigliò cosí:
— Mio padre non vuol maritarmi a voi perché non siete ricco; vorrebbe se
quel vostro zio di Monveglio vi donasse delle sue terre: andate dunque
dallo zio a pregarlo che finga donarvi delle sue terre, e noi, sposati
che saremo, gliele renderemo secondo patto giurato e stipulato. —
Piacque il consiglio al cavaliere, il quale, il dí appresso, cavalcò
alla volta di Monveglio.
Vi giunse che era tardi, e trovò lo zio molto lieto, come uno che ha
cenato bene e cenando ha bevuto vino buono, di quello che rischiara la
mente, ravviva lo spirito e intenerisce il core.
— Che volete, mio bel nipote? — domandò. E intesa la richiesta, rispose
súbito: — Sí sí, faremo questo patto; e parlerò io a ser Lapo del
Farneto, che m’è vecchio amico. — Poi strizzando gli occhi: — Ma di’ —
chiese —, è molto bella la figliola di ser Lapo?
Raimondo rispose: — Innamorai di lei per udita, e quando la vidi non me
ne pentii. Voi la vedrete.

III.

Mentre ser Lapo del Farneto numerava delle monete lucenti, che
sembravano esser state battute allora allora, e accarezzandole cogli
occhi le ammucchiava su la tavola, uno scudiero avvertí la scolta che il
signore di Monveglio veniva a trovare il castellano. All’annuncio messer
Lapo si alzò puntando le mani sui bracciali del seggiolone, e con quanta
fretta gli era consentita dalle deboli forze e dai malanni che gli
intorpidivano le membra ripose il tesoro nella cassapanca e diede
l’ordine: — Ben venga il vecchio amico!
I due, in rivedersi dopo tanti anni, dissimularono entrambi la sorpresa
di un sentimento maligno: d’invidia il signore di Farneto perché egli,
scarno, smorto e male in gambe, scorse rubesto, rubizzo e grasso quello
di Monveglio; di gioia questi per confronto del suo stato con quello
dell’amico. Ma Lapo chiamò la figliola, bramoso che l’altro gli
invidiasse almeno un bene ch’egli non aveva; e il signore di Monveglio,
vedendo la bella giovane, con gli occhi gaudenti ne scoprí le carni
gigliate e fresche; sentí di essa una súbita concupiscenza; dimenticò il
nipote e quindi lo ricordò, ma per tradirlo.
— Voi avete una fortuna, che non ho io — disse a ser Lapo quando
Giovanna fu uscita. — Che mi valgono i quattrini a me? — Indi chiese: —
La maritate?
Arcigno in viso, con tonò aspro, ser Lapo rispose: — Essa è bella, savia
e d’alto lignaggio: a chi volete che la dia? — E si dolse del tempo
presente, quando non era piú cavaliere degno di sua figlia. — Ma io —
aggiunse l’avaro —, non voglio dotarla prima di morire.
Allora parlò il signore di Monveglio, e parlò in guisa che l’altro lo
comprese disposto a prendere una moglie senza dote. — Ma non sono piú
giovane — lamentava il signore di Monveglio.
— Mia figlia è savia — ribatté ser Lapo. E fu conchiuso il parentado.
Durante la cena i vecchi amici discorsero della loro giovinezza, ilare e
rubicondo l’uno, l’altro sempre scuro e sempre astioso. Neppure a
ripensare la letizia della sua giovinezza ser Lapo poteva ridere, quasi
una colpa o sciagura della virilità amareggiandogli la vecchiaia piena
d’acciacchi lo rimordesse fino d’essere stato giovane. Pure dimandava
anch’egli — Vi ricordate? —, e narrava bei fatti anch’egli: i due vecchi
narravano fatti di liberalità e di cortesia e biasimavano il tempo
presente. Ma di quei due uno era traditore e l’avaro, l’altro, era di
tale coscienza che non rideva mai.
Questi, dopo la cena, chiamò la figliola e — Sei sposa — le disse; e
accennando all’amico: — Messere è il tuo sposo —; e quegli stringendo la
mano della giovane timida e confusa non sentí quant’era fredda.

IV.

Corse la fama che la bella Giovanna del Farneto andava in moglie al
vecchio sire di Monveglio; e la gente compiangendo la donzella ne
ignorava tutta la sventura, ignorava che il suo dolore era quale il
segreto dolore di Raimondo di Santelmo.
Le nozze s’annunciavano magnifiche. A un’abbazia a mezza strada tra
Monveglio ed il Farneto, alla quale d’ogni parte dovevano convenire i
parentadi degli sposi, si sarebbe celebrato il matrimonio una mattina
presto; e messer Lapo, che non poteva girare e cavalcare, avrebbe attesi
gli sposi nel castello al convito delle nozze.
Magnifiche le nozze; ma neppure la solenne circostanza fece liberale
messer Lapo, e per non spendere nei cavalli che recassero le parenti e i
servi di scorta alla figliuola, egli mandò attorno qua e là a domandarne
in prestito. Di che avuta notizia Raimondo di Santelmo desiderò che il
suo buon leardo, già ignaro testimone del suo amore lungo e sfortunato,
fosse testimone a Giovanna anche del dolore e della fede sua
richiamandole il ricordo di lui per ogni passo del cammino doloroso; e
inviò un valletto a chiedere di grazia a messer Lapo che disponesse a
palafreno della sposa il suo cavallo. — È quieto — disse il valletto — e
la porterà soavemente.
Messer Lapo acconsentí. E la mattina delle nozze, quando avanti giorno
le fantesche vestivano la povera Giovanna e gli scudieri allestivano gli
altri cavalli per la compagnia, e in tutto il castello era un
affaccendarsi rumoroso e gaio, il leardo fu condotto da Santelmo. Al
lume dei torchi, per la finestra della sua stanza, messer Lapo vide
partire la compagnia, e guardò a lungo la figliola, la quale gli parve
bella e bene adorna; ma non porse attenzione a come fosse bello e bene
adorno anche il leardo che la portava ambiante, dolcemente.
La cavalcata procedeva triste. I primi raggi del sole si spegnevano in
una nuvolaglia biancastra e nell’aria plumbea non si moveva una foglia
di tutto quel bosco entro cui la strada penetrava perdendosi nel fondo
fitto; non un uccello cantava allegro; e la sposa sentiva cosí enorme il
peso della sua sventura che non aveva forza di piangere e le mancava il
respiro. La cavalcata procedeva triste. Nel cielo, sopra, la nuvolaglia
si addensava a poco a poco e dinanzi l’aria si rabbuiava sempre piú,
quasi annottasse: però alcuno della scorta, interrogato il tempo,
proponeva di tornare indietro.
— Siamo a mezzo viaggio: avanti! — dissero gli altri. E la sposa,
smarrita nel suo dolore enorme la considerazione delle cose, non vedeva
e non udiva; non udiva che ripercuotersi nel cuore il passo uguale del
leardo: Raimondo! Raimondo! Raimondo!
Già un rombo sordo passava per le nuvole imminenti: cavalieri e dame
incitarono destrieri e palafreni e con paura tentavano di ridere. —
Povera sposa! L’acquazzone la coglieva per la strada! — Infatti
l’intemperie cominciò a risolversi in gocce grosse e rade e poi in
un’acqua dirotta, crosciante, fragorosa. Nel fondo livido i lampi
guizzavano e s’inseguivano tra gli alberi che al bagliore parevano
mostri sbigottiti, e il tuono, dentro quel cielo e dentro quel bosco era
il rotolare d’un traino infernale.
Finalmente con strepito di schianto repentino un fulmine stridette e
scoppiò da presso ed il leardo spaventato prese la corsa d’una furia:
corse cosí, non piú veduto, un lungo tratto della strada; poi, non piú
veduto, balzò dalla strada oltre un rio e dietro un sentieruolo
obbliquo; e la sposa, avvinghiata alla criniera, cieca di terrore
sembrava tendesse lo sguardo ad un abisso nel quale s’aspettasse di
precipitare.
Quanto camminò il leardo traverso la boscaglia? D’improvviso Giovanna
riacquistando la vista delle cose si scorse fuori del bosco, sotto il
cielo terso e luminoso e davanti a un piccolo castello bianco e solatio.
Il leardo nitrí. Dal castello uno scudiero guardò e riconobbe il leardo;
guardò il sire del luogo, Raimondo di Santelmo, e riconobbe Giovanna; e
poiché fu abbassato il ponte lestamente, Giovanna cadde dal cavallo
nelle braccia di Raimondo.
Ma lo scudiero aveva a pena dato da mangiare al cavallo madido di
pioggia e di sudore che il sire venne nella stalla e comandò: — Salta in
groppa e corri dal proposto di Sestale: che per nessuna cosa al mondo
manchi di essere qua prima di notte.
Né era ancora notte quando, mentre le genti del Farneto e di Monveglio
ricercavano tuttavia pe ’l bosco la donzella, il signore del Farneto e
il signore di Monveglio appresero che madonna Giovanna, in cospetto di
Dio e del prete di Sestale, era divenuta moglie a Raimondo di Santelmo.
«Mi sta bene» disse quel di Monveglio; ma l’altro bestemmiò Iddio e la
sorte e la figliola. E piú tardi, imparando il fatto del leardo,
«Maledetto quel cavallo! — gridò con rabbia —. Per lui ho rinnegata la
figliola e lascierò al diavolo la mia roba.»
Ser Lapo, la notte, nei sogni torbidi osservava un cavallo furioso con