Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 14

appiattata? Dio che vergogna! Quale confusione!
Frattanto le parole di Guido, che rivelavano tanto amore, la
conturbavano tutta e con una soddisfazione, di cui non avrebbe
immaginata l'uguale mai. Trovò lento a partirsi quell'importuno che
era venuto con Guido; e poi, quando colui fu uscito, ed ella si seppe
sola con lo scultore, una specie di paura, un malessere la invase, che
le fece desiderare qualcheduno sopraggiungesse. A questa inquietudine,
della quale non sapeva, nè cercava pure di darsi una ragione, ella
attribuì il rapido battito del suo cuore, fattosi così forte che fu
costretta a porvi su una mano, come per frenarlo. Mai non aveva provate
così acute emozioni; se ne stupiva, e un intimo senso, di cui non era
padrona, glie le faceva trovare, nella loro violenza, dolcissime.
“Ah! ancor io ho un cuore!” si disse ad un punto premendosi più forte
il petto con ambe le mani.
A traverso una commettitura del paravento, ella poteva scorgere per
intiero quello che succedesse nello studio, e l'occhio suo, più vivido
e animato dell'ordinario, vi lanciava uno sguardo di cupida curiosità.
Guido, le mani giunte, stava in muta adorazione innanzi al simulacro
di lei. Le chiome scure, gettate all'indietro, lasciavano scorgere
in tutta la sua bellezza, la vasta e intelligente di lui fronte. Gli
sguardi lampeggiavano; le labbra semichiuse in una specie di sorriso,
che avreste detto estatico, lasciavano passare grave quasi affannoso
il respiro. Nella sua figura, nel suo aspetto, nel suo contegno, egli
aveva forza insieme e grazia, l'imponenza della virilità congiunta a
tutta la tenerezza della passione.
Maria lo mirava con involontario, inavvertito commovimento. Il Guido di
quell'istante, essa non lo aveva visto mai. Le pareva una rivelazione.
Lo scultore sollevò le mani ancora serrate verso la statua, come si
fa da un devoto, pregando, e parlò con voce sì dolce, che la fanciulla
nascosta se la sentì penetrare nel cuore.
“Che occhio umano t'abbia da vedere fuori che il mio, o diletta,
no, no, non lo voglio. Tu sei mia — e solamente mia, tu creta da me
plasmata sull'immagine di quell'angelo adorato, — tu mi appartieni, e
ti possiedo senza contrasto, ignoratamente, e tutta!... Neppur essa mi
ti può togliere; neppure la sua ostile freddezza può contenderti a me.
Io t'ho formata, più che colle mani, coll'anima mia; tu sei la visione
della mia fantasia fatta realtà; tu sei la parte migliore del mio cuore
estrinsecata.... T'amo sai, t'amo; e a te lo posso dire, e in te non
vi ha come in lei cipiglio severo che mi gela sul labbro le parole, e
innanzi a te ho coraggio di tutta effondere la passione che m'arde.”
Salì sullo sgabello e vi si acconciò mezzo inginocchiato, mezzo seduto
innanzi alla statua.
“Oh sorridimi, diletta mia!... Oh guardami Maria!... Abbi tu almeno
pietà di me.... Non sai? Ella è più insensibile del marmo in cui vo'
tradurre le tue sembianze, ella ha sotto le sue carni meno cuore di
quello che abbia tu nel tuo corpo di creta; ella che nulla vide mai del
mio turbamento al suo cospetto, che nulla sentì mai di questa febbre
d'amore che m'arde per lei!... Sorridimi, sorridimi.... Ah no! non è
questo ancora il sorriso che ti vidi ne' miei sogni.”
Si drizzò di scatto e fu per portar la mano sul volto della statua; ma
si trattenne.
“No, no.... ch'io più non ti tocchi.... Non può più oltre l'arte
mia.... e desiderio d'uomo, per quanto intenso, non può compire
miracoli.”
Scese dallo sgabello e si pose a passeggiare per la stanza, la fronte
china. A Maria s'accrebbe l'ansia. Dopo un istante, Guido tornò a
fermarsi innanzi alla statua.
“E dire che a lei non oserò mai parlare come parlo a te! ch'ella
ignorerà forse per sempre ciò che accade in quest'anima!... Se lo
sapesse, s'io le svelassi la mia fiamma, chi sa ch'ella non avesse da
esserne commossa! Se le dicessi come tutto l'esser mio anela verso
di lei; come e dì e notte, e veglie e sonno, e cuore e cervello, e
pensiero e sensi, tutto in me è pieno di lei, della sua immagine, d'uno
spasimante desiderio, d'un incessante delirio per essa! Come ogni suo
atto è per me una seduzione, come il vederla è una necessità della
mia vita, come degl'impeti di passione m'assalgono nel contemplarne la
bellezza da gettarmi in terra a baciar l'orma dei piedi suoi!...
“Oh destare quell'anima assopita in tanta avvenenza di forme,
suscitarne la potenza d'amore, farla palpitare sotto il mio amplesso
e fruirne i primi, i celesti, i casti trasporti, e fare sbocciare
dalla fanciulla la donna, fare scoppiare dalla superba indifferenza
il palpito espansivo, il voluttuoso abbandono dell'amore! Sarebbe il
paradiso sulla terra. Darei per possederlo il mio sangue, tutta la vita
che mi rimane....
“Tu non sospetti nemmeno, o Maria, che cuor d'uomo possa accogliere
e sopportare tali tremendi spasimi, che sono inesplicabili e potenti
come la morte, che sono un nulla e che contengono l'universo. T'amo con
tutta la potenza dell'anima. T'amo, come non ho amato mai, neppure il
tanto seducente fantasma della gloria. Per me, e gloria e felicità e
amore e tutto si comprende in un tuo sorriso.... T'amo, e tu sei più
insensibile che questa fredda creta, e tu frapponi fra il mio cuore e
il tuo una barriera di ghiaccio.... Oh quanto mi fai soffrire, tu non
lo sai!”
Cadde in ginocchio innanzi all'opera sua, e un singhiozzo gli ruppe dal
petto.
“E non ho speranza! Quella tua indifferente venustà mi sembra sì
alta, sì olimpica, che mai, mai non potrò giungere sino ad essa....
Questo sorriso ch'io t'ho dato e che qui, solitario, vagheggio è una
menzogna con cui m'illudo, lo so bene: tu, Maria, mai non mi amerai,
come mai non potrà intendere le mie parole e sentire la mia passione
questa grossolana materia in cui ho informato la tua immagine.... Ah!
s'io fossi Prometeo e potessi rapire al fuoco del cielo una scintilla,
onde animare, non fosse che per un istante, quest'opera mia! Potess'io
coll'intensità del mio desiderio compire il miracolo di Pigmalione
e dar vita un'ora soltanto alla mia Galatea.... un'ora d'amore, di
delirio, e poi morire!”
Si strinse con ambe le mani la testa, come chi sente la ragione
sfuggirgli, e chinò il volto a terra tutto disfatto, e piangendo
inconsciamente silenziose lagrime.
A un tratto udì vicino a sè un fruscio di vesti, un passo leggero, un
lieve respiro affannoso. Il sangue gli si rimescolò, e in sussulto egli
levò il capo e drizzò la persona. Il suo desiderio si era effettuato;
il miracolo agognato si era compiuto. In Galatea era entrata l'anima:
innanzi a lui stava Maria, la sua statua in carne viva, arrossita,
sorridente, le labbra tremanti, una divina fiamma d'amore negli occhi.

XIII.
Guido mandò un'esclamazione dal profondo dell'anima in un commovimento
che non si può spiegare a parole; e senza aver forza di far pure
un atto, rimase lì, tremando, a contemplare con occhi innamorati
quell'apparizione, come si contemplano da un ascetico le celesti
visioni che abbellano i suoi mistici delirii.
Maria, animata da una nuova vita che splendeva ne' suoi sguardi,
nel suo sorriso, nel rossore delle sue guance, come fiamma accesa
entro purissimo alabastro, scossa pur finalmente dal tocco di quella
scintilla che lo scultore aveva con tanta intensità di desiderio
invocata dal cielo, mossa da una nuova, incognita forza che le
padroneggiava e spirito e volontà e cuore; Maria s'accostò all'amante
tutto rapito, e con carissimo abbandono curvatasi su di lui,
inginocchiato come stava tuttavia, depose un lieve bacio sull'ampia
fronte che ardeva.
Per lui fu come se a quel punto gli si spalancassero le porte del
paradiso. Sentì una dolcezza ineffabile scorrergli per tutte le vene e
far capo con acuto diletto al cuore, una nebbia gli passò innanzi agli
occhi; gli parve che sotto quella suprema delizia il suo essere avesse
a disfarsi ed egli fosse per dolcissimamente morire.
“Maria! Maria!” balbettò con voce soffocata, senza poter aggiunger
altro.
E la fanciulla che in quel nuovissimo tumulto dell'anima non
riconosceva più sè stessa e quasi era inconscia de' fatti suoi e
parlava ed agiva come sotto un influsso superiore a cui non potesse
resistere; la fanciulla, ripetendo quel bacio soave, pronunziava
con voce sommessa, che carezzava le orecchie di Guido come una dolce
melodia portata sull'ali d'una tepente aura d'aprile:
“T'amo, Guido, sì t'amo, ancor io!”
Per un istante l'artista non credette a sè stesso; dal suo petto
ansante, dalle sue labbra tremule non potè uscire che un grido, ma un
supremo grido di gioia; poscia, inginocchiato com'era, afferrò le mani
della fanciulla e con un fremito d'emozione ineffabile, disse:
“Tu mi ami! Oh ripetimi questa magica parola che mi cambia in un
paradiso la miseria della vita! Io ti amo, Maria, sconfinatamente,
santamente, eternamente! come non ho amato mai, come non ho creduto mai
neppure che uomo potesse amare sulla terra....
“Quante volte ho desiderato gettarmi così, come ora sono, ai piedi
tuoi, a quei leggiadri tuoi piedi che sì lievemente ti fanno sorvolar
sulla terra, e dirti che t'amo e morire! Quante volte ho sospirato su
queste tue esili bianche manine appoggiare un istante il mio volto,
premere le mie labbra e lasciar sovr'esse l'ultimo soffio coll'ultimo
bacio!... Amami, o Maria. La felicità è un corrisposto amore. Oh
dimmelo ancora che tu mi ami! Questa tua parola ha traversato la mia
esistenza come un lampo illuminandomi un Eden vagheggiato: deh! non
fare che come un baleno pure passi e si dilegui! Ho bisogno di sentirla
ancora.... e sempre!... Non si può credere così facilmente a tanta
ventura. O cielo! Ma è ella probabile! Ed è per me, proprio per me?
Per questo cuore che qui palpita? Dimmelo, dimmelo ancora.... Io l'ho
meritata questa gioia dopo tutto quel che ho sofferto; io ben lo merito
per l'immenso amore che ti porto.”
“Guido!” mormorò dolcemente Maria, ma con infinita tenerezza
nell'accento.
Ed egli viepiù accalorato da quella voce:
“Nessuno t'amerà mai, nessuno ti può amare come io ti amo. Senti questo
palpito irrefrenabile che mi rompe il petto; lì c'è la passione di
tutta la vita d'un uomo.”
E drizzatosi della persona, si levava verso di lei, spasimando,
anelando, spirando voluttà ed amore dagli occhi. La fanciulla
affascinata, commossa a quell'ardenza che tutta la investiva, a quel
palpito di cuore che sentiva corrispondere al suo, a quel suo palpito
che mai non aveva ancora provato prima; la fanciulla si chinava da
parte sua verso quel capo di sì potente bellezza, raggiante essa pure
nel volto di desiderio e di passione.
Ma ad un tratto ella si riscosse, mandò un grido, respinse l'amante,
si sciolse dalle braccia di lui che l'avevano avvinta. Egli vide a due
passi da sè, quale aveva tentato riprodurla coll'opera della sua mano,
la vergine leggiadra, la luce dell'intelligenza e dell'affetto nello
sguardo, dritta in nobil mossa, cinta di virtuosa dignità, pallida
pallida e colle labbra scolorite che le tremavano.
Le si rivolse colle mani giunte:
“Maria!...”
“Non più!” diss'ella con voce tutta ancora commossa. “Non più una
parola, ti prego.”
Egli sorse e volle avvicinarsele.
“Lasciami,” gridò ella vivamente, “lasciami, ho bisogno d'esser sola.”
E ratta sparì dietro la tenda che pendeva dall'uscio dove faceva capo
la scala del quartiere superiore.
Guido rimase là piantato a guardar quella tenda che era ricaduta
dietro i passi di Maria, come chi guarda il luogo per cui è sparita una
carissima visione, quasi credendo d'aver sognato.
Maria corse a rinchiudersi nella sua cameretta.

XIV.
Maria si sentiva come sbalordita e non vedeva nulla intorno a sè; il
cuore le batteva, le batteva; la fronte le abbruciava: non riconosceva
più sè stessa.
Andò alla finestra con moto macchinale e l'aprì per cercare nell'aria
di fuori un refrigerio all'ardore della sua faccia. Correvano i primi
giorni della primavera. La brezza era di quelle che ti appaion fresche
alla prima impressione, ma pure hanno in sè un tepore, il quale, quasi
latente, s'insinua nelle nostre vene e fa scorrere il sangue più rapido
e lo spinge con tumulto al cervello e al cuore; quell'auretta di aprile
che suscita la vita nelle piante, i canti amorosi negli augelli, il
rinnuovamento in tutta la natura.
Maria la sentì intorno alle sue tempie, codesta auretta, e un lieve
gradito brivido la invase. Essa le ricordava l'anelito appassionato di
Guido che erale passato sulla fronte.
Innanzi aveva la casa in cui abitava quel giovane che l'aveva chiesta
in isposa e che era partito disperato pel rifiuto di lei. Perchè la
vista di quell'infelice non le aveva nulla destato nel cuore? Egli
aveva pure amorosi e supplichevoli e adoratori gli sguardi! Mostrava
pure il suo aspetto quanto sentisse e quanto soffrisse per essa! E
perchè non ne aveva ella provato che assai sterile compassione? Quel
giovane avrebbe saputo, avrebbe potuto dirle quelle calde parole, con
quell'irresistibile accento che l'avevano vinta in bocca di Guido? Oh
no, certo! Niuno al mondo le sembrava potesse parlare come Guido le
aveva parlato poc'anzi.... Ed ecco penetrare nel suo pensiero con cara
violenza l'immagine dello scultore tutto fuoco nello sguardo, tutto
passione nell'accento.
Ella strinse le mani, e con involontario prorompere esclamò:
“Com'era bello!”
Poi subito arrossì e si vergognò di sè medesima e un altro pensiero le
occupò la mente.
“Oh amare e non essere amati: dev'essere un gran tormento!”
E il suo sguardo ricadde più pietoso sulle finestre chiuse
dell'appartamento di prospetto.
Successe allora una confusione nel suo cervello, dal quale parve
fuggisse ogni pensiero; sembrò che l'intorpidimento di prima volesse
riprendere possesso dell'anima e dell'intelligenza di lei.
Nella strada andava, veniva, si agitava la folla dei passeggeri.
Poco lontano, dalla parte opposta della strada, era un giardino al
di sopra del cui muro sorgevano le cime degli alberi nelle quali
cominciava a sorridere il gaio verzigno di qualche fronda. Su quei
rami scossi dalla brezza d'aprile, saltellavano, si rincorrevano,
cinguettavano, esultavano lieti della vita e dell'ora del tempo in
un allegro pispiglio, i passeri linguacciuti e petulanti. Da quel
giardino, commisto a quel tepore primaverile dell'auretta, veniva sino
alla fronte, alle guancie, alle nari, alle labbra di Maria il profumo
dell'erbe e dei fiori novelli. Il cinguettío degli uccelletti, il
ronzío della folla nella strada, il fruscío dell'aura negli alberi,
tutto s'univa con un'armonia segreta e indefinibile che la fanciulla
non comprendeva, ma assorbiva, per così dire, con inesplicabile voglia
e desio.
A un punto giunse alle orecchie di lei la voce fresca d'una donna che
cantava un'affettuosa canzone. Maria sollevò il capo a guardare in alto
donde scendevano le allegre note.
Era ad una finestra del quarto piano. Una giovinetta, forse dell'età
medesima di Maria, vi stava lavorando. L'atteggiamento n'era
graziosissimo ed avvenente. Sul volto, chinato al lavoro, vedevasi
la floridezza della salute e della gioventù e l'ilarità d'un cuor
contento. La canzone ch'ella veniva cantando era d'amore.
A un tratto la cantatrice s'interruppe mandando un piccol grido e
volgendo bruscamente la testa verso l'interno della stanza, come se
qualcheduno vi fosse entrato allor allora. Un vivo rossore si diffuse
sulle sue guancie e il lavoro le cadde di mano. Tosto comparì alla
finestra accanto a lei la maschia figura d'un giovane operaio. Si
pigliarono le mani e se le strinsero: si guardavano come se intorno a
loro non esistesse il mondo; si sorridevano, si parlavano vivamente a
voce sommessa.
Maria era tutta turbata. Levò lo sguardo al cielo; le parve più bello
che mai l'azzurro del sereno; il sole che splendeva allegramente le
tornò come un sorriso di felicità dell'intera natura: tutto il mondo le
apparve sotto un nuovo aspetto.
“Sono amata!” mormorò con infinita dolcezza, quasi compiacendosi della
dilettosa armonia che sentiva riposta in queste parole. “Sono amata!”
Le venne in mente d'improvviso tutto il suo passato.
Si vide bambina ancora al villaggio natìo; vide la figura della nonna
che la guardava con occhio amoroso; vide le coste erbose della sua
montagna, dove godeva sdraiarsi all'ombra delle roccie muscose, mentre
intorno le pascolavano le capre. Si ricordò delle ore che passava colà
immobile, guardando l'acqua del torrente che scorreva, ascoltando la
gran voce della natura, cui non capiva.
Era meditazione, era pensiero quel suo allora? No; era un sopore, era
un intorpidimento. Ora ella era bene la medesima di quel tempo, ma pure
quanto diversa!...
Più tardi, per le amorevoli cure della buona cugina, erasi desto
dapprima il suo intelletto; aveva capito ed appreso; ma il cuore
aveva continuato a sonnecchiare; fino a quel dì non aveva pur sentito,
fuorchè leggermente, il bisogno d'una nuova vita, non aveva creduto
mai, nè pur pensato, che potrebbe amare.
E tanto più amar Guido!
Ella si ricordò la prima impressione che in lei aveva fatto quel gran
cugino sconosciuto, che le era capitato al villaggio in una giornata
così infausta della sua vita. La ne aveva avuto paura dapprima, poi per
lungo tempo soggezione. Rammentò quella specie di disdegno che Guido
aveva provato in seguito per essa, quando s'era stancato nell'opera
di istruirla; e si ricordò come, anche allora, essa ne avesse sentito
vergogna e dispetto, che aveva accuratamente nascosti. Le tornavano in
mente quegli istanti in cui, per un impulso segreto che non aveva mai
cercato di spiegarsi, sin da giovanissima ella rimaneva sovraccolta
ad ammirare la bellezza e l'espressione dei lineamenti di Anna, e
nel mirarli provava un'intima dolcezza, e si disse ciò che non si
era detto mai: chè quella era pure la bellezza di Guido, tanta era la
rassomiglianza fra madre e figliuolo! Poscia riandava l'epoca in cui
Guido era partito, e tutti le tornavano a mente, parola per parola, i
colloqui in cui Anna aveva esaltato il suo figliuolo con tanto calore,
e si stupiva, come ora, non avendoci pensato più, pure le ritornassero
così presenti alla memoria.
Guido poscia era ritornato. Ella rammentò la meraviglia e l'ammirazione
con cui egli l'aveva rivista, e sorrise a quel sovvenire. Le tornarono
alla mente tutte le occasioni per cui tratto tratto s'era venuto
manifestando il nascosto amore di Guido, e s'accorse che senza volerlo
li aveva notati e raccolti; a un punto esclamò, attonita, commossa,
quasi lieta e atterrita ad un tempo:
“Ma, mio Dio! io l'ho sempre dunque amato, senza volerlo, senza
saperlo?... L'amore per lui era in me nascosto, inavvertito, e ora la
sua parola fu la scintilla che lo ha suscitato.... Oh sì l'amo e ne
sono amata.... Saremo felici.”
Cadde seduta, le mani, colle dita intrecciate, abbandonate sulle
ginocchia, un sorriso di beatitudine sulle labbra, lo sguardo fiso
innanzi a sè, come a contemplare una visione celeste. Innanzi alla sua
fantasia, difatti, si svolgeva intessuta di seta, trapunta delle più
splendide gemme, ricamata d'oro dall'amore, la tela del loro avvenire.
Guido, da parte sua, era rimasto là in mezzo al suo studio, dritto,
smemorato, guardando la porta per cui erasi partita Maria, non potendo
credere a sè stesso, domandandosi se quello era un sogno, temendo esser
vittima d'una troppo gradita illusione.
“Ella era qui” esclamava, “era qui Maria! E io sentii il suo cuore
battere sul mio, il suo alito sulle mie guancie, e la sua voce dirmi
che mi ama... O cielo! è possibile?”
Passò anch'egli un'ora di dolci e sublimi meditazioni d'amore, poscia
salì palpitando la scala a chiocciola, ansioso, determinato di trovar
Maria a ogni patto. Aveva assoluto bisogno di rivederla aveva bisogno
che essa gli riconfermasse la felicità fattagli apparire.
Maria lo udì avvicinarsi e gli mosse incontro serena, un po' pallida
per l'emozione, sorridente come la statua da lui plasmata. Porse con
atto solenne la destra allo scultore e gli disse con grave accento:
“Avevo mestieri di raccogliermi e di pensare. Non ad un subito
turbamento e ad un improvviso delirio volevo dovere il nostro destino,
ma alla convinzione d'un vero affetto. Ora sono tua per sempre. Vieni,
andiamo a gettarci ai piedi di tua madre.”
Anna li vide entrare nella sua stanza, tenendosi per mano, come due
sposi che camminano verso l'altare.
Quando tutto le ebbero narrato, la madre di Guido allargò le braccia e
ambedue li strinse al cuore con affetto veramente materno.

Guido ha ridotta in marmo la statua di Maria ma l'ha rivestita d'un
lungo paludamento. Ora questa stupenda opera dell'amore, nella sua
marmorea bellezza, sta, come un idolo nel santuario, nello studio
dell'artista, e quando alcuno meravigliato a tanta venustà, ne
interroga lo scultore; egli risponde con un caro orgoglio:
— Questa è la statua della donna che amo..... la quale ora è mia
moglie. —

FINE.