Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 09
da morti non si dà più ombra, qualcuno infiorò di qualche elogio un
cenno alla mia memoria. Fui sotterrato nel cimitero del villaggio più
vicino, e sulla fossa una semplice pietra con il mio nome su scolpito.
“Volli vedere la mia tomba. Il cimitero è isolato, solitario, pieno
d'ombre e di melanconia. Le erbe altissime sussurrano stranamente sotto
al vento che le agita. Croci di legno sorgono qua e là, quasi tutte
corrose dal tempo; come la memoria dei morti che ci dormono sotto. E ci
si deve riposare in pace!
“Due settimane dopo non si parlava più di me; a quest'ora non c'è più
anima al mondo che si rammenti ch'io abbia esistito; io che, nelle
pazze fantasticaggini della gioventù, ho sognato la gloria!
“Per istrade fuori mano, senz'altra mèta certa che quella di
allontanarmi dal mio paese, venni girando qua e colà, finchè giunto a
questo rimoto villaggio, tanto mi piacquero la natura, il cielo e la
quiete di esso che determinai fissarvi la mia dimora.
“E da quasi trent'anni ci vivo, non dirò felice, ma senza più rimorsi,
senza odii e senza far male: non affrettando certo, ma non desiderando
neppure d'allontanare quel giorno supremo in cui, libera da questo
disgraziato involucro, l'anima mia voli nelle braccia misericordiose
dell'Eterno Amore.”
Qui, maestro Ambrogio si tacque; e stemmo ambedue silenziosi rivolgendo
in mente mille pensieri che il suo racconto aveva eccitato in me e
ridestato in lui.
Dopo un istante, fu egli a riprendere:
“Ora non cercate più altro da me. L'ultimo velo di mistero che copre
l'esser mio, mi è più sacro dell'onore, mi è più caro della vita.
Non tentate levarlo. Andate e obliatemi. Soltanto possiate far vostro
pro dell'insegnamento che contiene questa dolorosa storia delle mie
vicende!
“Non è nel vano rumore del mondo che consistono le degne soddisfazioni
dell'animo; non è sulla scena abbarbagliante dell'ambizione che
l'uomo divenga felice e si faccia migliore. La rinomanza non è che
misera vanità; il mondo inaridisce il cuore, intristisce l'anima, e
fa prosperare in essa quell'iniqua pianta parassita dello spirito
dell'uomo, la quale soffoca ogni buono istinto, e che si chiama
egoismo.
“Io sono vecchio, sono sfinito, e mi sento con soddisfazione non
lieve presso al termine d'ogni male. La verità l'ho amata sempre,
e non è ora che vorrei farle il menomo oltraggio. Ebbene, vi giuro
che più mi venni inoltrando negli anni, e più fui lieto del partito
preso. Non dico che molte volte l'ingegno in me non si ribellasse,
e non volesse dipingermi la mia come una viltà, come un mancamento
al proprio dovere. Ve lo dissi già che sostenni lotte tremende, che
soffrii, ma che vinsi. Se sapeste quanti, e forse splendidi, furono i
frutti di certe angosciosissime veglie! Ebbi il coraggio di distrugger
tutto. Nell'esercizio della virtù sconosciuta, nascosta, s'affina
l'anima umana. Alla soglia dell'eternità sarà più bella e gradita, non
quell'anima che sarà stata più gloriosa innanzi agli uomini, ma quella
che sarà stata più benemerita innanzi a Dio.”
Fece una pausa; poscia con voce più fioca e più sorda di quel che gli
fosse abituale, porgendomi la mano, soggiunse mestamente:
“Addio! Voi partirete fra pochi giorni; non è vero? È meglio che non ci
rivediamo più; che questo sia fra noi l'ultimo saluto. Io vi ho detto
tutto quello che avevo da dirvi. Conservatemi il segreto. Voglio morire
nelle ombre che mi avvolgono..... Ma quando udrete.... e sarà presto,
io spero.... che avrò abbandonata questa terra, se lo credete opportuno
e giovevole, raccontate pure altrui ciò che sapete de' casi miei.”
XXIII.
Due giorni dopo io partiva da quel paese, e con mastro Ambrogio non ci
vedemmo più: per due anni non ne ebbi altra novella.
L'altro dì il mio nobile amico dovette venire a Torino per qualche sua
faccenda, e fu a salutarmi.
“Mi fermo qui pochi giorni soltanto” mi disse “poi torno di gran
carriera alla mia montagna. Volete voi venire con me?”
“Ah! se lo potessi!” esclamai con un sospiro. “Ma noi siamo qui
condannati al lavoro di Sisifo.... Intanto datemi notizie di mastro
Ambrogio.”
Il volto del mio amico si fece mestamente grave.
“Quel povero Ambrogio!” disse. “Non c'è più. L'hanno sotterrato l'altra
mattina.”
Mi feci raccontare i particolari della sua morte. Non era stato malato
che pochi dì. Conosciuta tosto la gravità del suo male, egli aveva
mandato pel sacerdote, ed aveva edificato tutto il villaggio colla
santità della sua morte, come aveva fatto colla purità ed onestà della
sua vita. Sulla sua fossa hanno piantato una croce di legno, e gli
scolari vanno a spargervi fiori.
Così fu il suo desiderio compito. È morto sconosciuto, tranquillo,
amando e sperando. L'erba d'un cimitero di campagna ne coprirà le ossa
ignorate; ma io, che non l'oblierò mai, ho pensato valermi del suo
permesso, e schizzarne in questi fogli la misteriosa figura.
GALATEA
RACCONTO.
I.
Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno.
Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al
momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle
nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato
fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi
ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che
rattristava con freddi riflessi il paese e la sera.
Le foglie ingiallite si spiccavano dai castagni, e venivano giù adagino
adagino, quasi baloccandosi per l'aria. Di quando in quando un buffo
di vento sollevava i piccoli mucchi delle frondi cadute ed ammassate
qua e là dal caso o dal lavoro dell'uomo, e avvolgendo le foglie in
un turbinío, le cacciava innanzi a sè, come una nube, per lasciarle
ricadere lungo la strada in una striscia che ne segnava il cammino,
finchè non erano più che due o tre a rincorrersi pazzamente come
ragazzi ruzzanti.
I vaccari tornavano dalla pastura, la faccia e le mani arrossate
dalla brezza freddiccia, e si spingevano innanzi le pigre bestie
muggenti, accompagnando colle battiture e colle voci d'ammonizione e
minaccia alla loro cornuta schiera, una canzone a cadenze monotone e
strascicate, nella mestizia del tono in minore.
Dai fumaiuoli delle modeste abitazioni del villaggio, a rivelare
che le buone massaie preparavan la cena, usciva il grigio fumo che
disegnava capricciosamente i suoi ghirigori, sul fondo più oscuro
dell'atmosfera. Al di sopra e in mezzo di questa uniformemente bassa
ed umile popolazione di casuccie, coperte la maggior parte di paglia,
il campanile della parrocchia sollevava il suo capo, sormontato da una
gran croce di ferro e coronato di tegole verniciate a brillanti colori.
Il qual campanile, in quest'ora appunto, mandava le più gravi e solenni
note della sua maggior campana, per invito alla preghiera, in suffragio
d'un'anima, volata nel mondo degli spiriti.
All'udire quei rintocchi lenti e pieni di tanta mestizia, uscivano di
casa le madri di famiglia e le ragazze, accomodandosi in fretta sul
capo il fazzoletto stampato a colori; e, appoggiandosi sul bastone, gli
uomini ai quali la tarda età toglieva d'andare a quel lavoro quotidiano
ne' campi, da cui ora stavano per tornare i loro figliuoli e nipoti.
Le comari del villaggio, incontrandosi, si scambiavano intanto delle
parole come queste:
“Suona per la sepoltura della povera Marta.”
“Poveretta! Dio l'abbia in gloria! Andiamo a dire un _De Profundis_ per
quell'anima; benchè la ne abbia meno di bisogno che qualunque altra;
chè se ci fu mai cristiana che morisse nella grazia del Signore, la
Marta è stata quella di certo.”
“Sicuro! E se non va quella lì in paradiso, dritto dritto, non ci va
più nessuno.”
“E per lei, davvero che la morte si può dire una grazia! Ha finito di
tribolare.”
“Oh sì! che ha tribolato, e di molto!”
“Una grazia la morte! che cosa dite? Se la povera donna fosse stata
sola al mondo, avreste ragione. Ma pensate un poco a quella poveretta
di Maria che lascia dietro di sè!”
“Ah! gli è pur vero. Per codesta creatura così giovane e inesperta, la
è proprio una gran disgrazia.”
“Ed oltre a esser giovane, quasi ancora una bambina, è tanto semplice,
così innocente!....”
“E vi so dir io che la Marta si affliggeva di molto al pensiero di
lasciarla; e pregò di belle volte il Signore che le raddoppiasse anche
il male che soffriva, purchè le volesse prolungare di tanto la vita da
poter vedere provveduta quella poveretta, che è come un'agnellina senza
forza e senza malizia in mezzo alle tristizie del mondo.”
“Come sopporta ella questo colpo la Maria?”
“Che v'ho da dire? La pare smemorata. Sapete com'è quella semplicetta,
che non si sa mai se capisca o non capisca. Per me, io credo che non
sappia nemmeno che la sua nonna è morta, nè che cosa voglia significare
la parola morire.”
Intanto uomini e donne erano giunti ad una delle più umili capanne,
posta ad un de' capi della strada che attraversava quel povero
villaggio montanino. Era piccola, angusta, d'un solo piano, e poteva
dirsi davvero che la miseria ci stava di casa. La frotta delle
persone accorse colà vi susurrava a bassa voce, con un quasi timoroso
riguardo; ed era il profondo rispetto che ad ogni animo onesto impone
la sciagura. Nel già scuro ambiente di quella stanzaccia terrena che
formava la parte principale dell'abitazione, ardevano fiocamente alcuni
lumi accesi; su due sgabelli di rozzo legno stava posata una bara, e
sopra, gettatovi, un logoro tappeto nero. In quella umile dimora era
piombata, il giorno prima, la morte.
Ad un punto un vecchio dai canuti capelli, in abiti sacerdotali, il
parroco del villaggio, fece un cenno, e la mesta comitiva s'avviò.
Precedeva il sagrestano portando la croce, poi la confraternita a cui
apparteneva la defunta, una trentina di donne tutte incappate, quindi
il parroco in mezzo a due preti, e dietro la cassa della morta, portata
a spalle dal becchino e dal suo aiuto.
Il funebre corteggio era chiuso dalla massa incomposta e confusa delle
donne e dei vecchi, e in essa non vedevi persona che non avesse le
lagrime agli occhi e la preghiera sulle labbra.
Ma, subito dopo la bara, prima d'ogni altro, veniva la povera Maria.
Era una fanciulla di quattordici anni, troppo grande per la sua età,
magra, sfiancata, di volto scarno, di larghe occhiaie, in fondo a cui
brillavano d'un fuoco selvaggio certe pupille d'indescrivibil colore;
la pelle aveva abbronzata, i folti capelli arruffati sul capo come i
serpenti del Gorgone; vestita a casaccio d'una vestucciaccia che non
era fatta per dar grazia alle sue membra lunghe, ossee, dinoccolate.
Come aveva detto la donna che abbiamo udito discorrere poc'anzi,
non si poteva discerner bene se questa ragazza capisse o no. Da quei
suoi grandi occhioni, ora sereni come l'azzurro del cielo, ora scuri
come il mare in tempesta, ora privi di luce come la pupilla d'un
cadavere, ora scintillanti di riflessi dorati che parevan raggi di
sole, l'intelligenza non appariva che a lampi; la fronte era bensì
giustamente sviluppata, modellata a perfezione e adorna della maggiore
nobiltà di linee; ma il silenzio ostinato, in cui la giovanetta si
rinchiudeva, i pochi segni di sensibilità e le poche manifestazioni
di pensiero che in lei si scorgevano, erano cagione che la gente la
credesse poco meno che scema, e la facevano vivere mezzo segregata
dalla vita ordinaria e dal consorzio del mondo.
Non v'era che la nonna, la quale, o s'illudesse per soverchio amore,
o fosse più penetrativa degli altri, credeva avere scôrto dietro quel
riparo di ghiaccio un'anima affettuosa, notato sotto quella distrazione
di spirito un'intelligenza.
“La mia innocente,” soleva ella dire, “val meglio di molti e molti, che
la compatiscono come una scema.”
Quando la buona vecchia Marta era caduta malata di quella infermità,
che, tenutala un anno a patire nel letto, l'aveva ora tratta al
sepolcro, Maria, la quale soleva andare al pascolo sulla montagna e
vagolare tutto il giorno per i dirupi come una selvaggia, a raccoglier
fiori, di cui tornava la sera tutta adorna il capo e il seno; Maria
s'era seduta sullo sgabello a piè del letto della povera nonna, e non
vi era più stato verso di farnela muovere.
Ella stava là, coi gomiti delle sue lunghe braccia appoggiati alle
ginocchia, la faccia sorretta dalle mani, e gli occhi larghi, fissi di
continuo sulla inferma. Parlava poco o punto, stava immobile, lasciava
servir la nonna dalle comari, cui la carità mandava in soccorso
dell'ammalata, e non era che raramente, quando la si trovava proprio
sola colla Marta, che si chinava sul letto di lei e le dava caldi baci,
in cui palpitavano, per così dire, la tenerezza e l'affetto.
Un anno intero di codesta vita aveva nociuto di molto alla salute della
giovinetta. La era cresciuta anche troppo, ma diventata sempre più
sottile e macilenta; le sue guancie avevan preso un color terreo, e
negli occhi non apparivan più che rarissimi gli sprazzi di luce.
La vecchia nonna, prima di morire, aveva parlato lungamente al vecchio
parroco della meschinella e dell'avvenire che l'aspettava, e pregato
costui di scrivere a certi congiunti che unicamente le rimanevano,
lontani di parentela e di dimora, coi quali la moribonda, da tempo
remoto assai, non aveva mai più avuta alcuna attinenza.
Nell'ultimo istante, proprio nell'atto di spirar l'anima, con un ultimo
sguardo, Marta aveva ancora una volta raccomandata l'orfanella al buon
sacerdote, che su lei pronunziava la preghiera dell'agonia, e alla
miserella che rimaneva sola nel mondo si era rivolto l'estremo segno
d'intelligenza e d'affetto della morente.
Quanto a lei, — a Maria, — pareva che il suo spirito fosse ben
lontano da quella scena di morte, da quel luogo, da quel doloroso
momento. Immobile al suo solito posto, ella continuò a rimirare la
morta, come aveva sino allora rimirata l'inferma; e per quanto le si
dicesse o facesse, nessuno era riuscito a levarla di là. Con apparente
indifferenza guardò tutti i preparativi che vennero fatti per portare
all'ultima dimora il corpo di quell'unico essere che l'avesse amata;
e solamente di quando in quando una contrazione nervosa veniva a
sconvolgere i lineamenti dell'infelice, senza che pure una lagrima
spuntasse su quegli occhi asciutti e riarsi. Quando vide la nonna
messa entro la bara e udì battere i chiodi del coperchio sopra di lei,
Maria s'alzò tremante, e la contrazione della sua faccia fu orribile,
accompagnata da un grido di spasimo; ma non altro; ricadde accasciata,
muta, impassibile, e parve non sentire più nulla.
Ora, essa veniva dietro la bara a passo lento, dritta la persona,
l'occhio fisso su quel drappo nero che la precedeva, come se potesse
vedervi di sotto il viso della morta; e di tutto quanto avveniva
intorno a sè pareva affatto ignara.
Si giunse al cimitero. La fossa, già scavata, era là, pronta ad
ingoiare quegli ultimi resti. Maria venne fino all'orlo di quella
buca, vi si chinò sopra, come desiosa di vedere che cosa vi fosse
nello scuro fondo di essa. La cassa vi fu pianamente calata, e intanto
si mormoravano intorno le estreme preghiere. Tutti piangevano; ma la
fanciulla era immota, tranquilla e come insensibile. Però quando si
gettò nella fossa la prima palata di terra, e questa si udì risuonare
cupamente sul coperchio della cassa, Maria mandò ancora quel grido di
spasimo, e si slanciò innanzi colle braccia protese, come se volesse
precipitarsi in quella tremenda apertura, ed abbracciarsi alla morta,
e farsi seppellire con essa. Le donne le furono attorno a trattenerla.
Sentendosi afferrare, ella si fermò, guardò attonita chi l'aveva
trattenuta, e calmatasi di subito, si liberò dalla stretta di quelle
pietose; poi, incrociate le braccia al seno, stette senza pur far
parola.
Tutto era finito, ed ella stava ancora là in quel medesimo
atteggiamento. Le donne incominciarono con dolci parole a dirle di
venir via, pietosamente confortandola: Maria non le guardava neppure.
Una fra le altre, più insistente, non ottenne di meglio che uno
sguardo senza espressione ed uno scrollar di testa; allora la donna,
con tutta amorevolezza, aveva preso pel braccio la giovanetta e voluto
trascinarla con sè; ma ella se n'era disciolta con sì impetuosa mossa,
e con tanto sdegno le aveva detto «lasciatemi!» che la donna erasi
allontanata quasi impaurita.
Il parroco che aveva accompagnato sino colà il cadavere della povera
morta, fece segno lasciassero stare quell'afflitta, che egli stesso
sarebbesi preso cura di lei. Le donne partirono. Maria, quando le ebbe
vedute tutte allontanarsi, e si credette sola, si buttò con impeto
quasi disperato in ginocchio, e chinandosi a toccare col capo, a baciar
colle labbra gementi quella terra frescamente smossa, sotto cui giaceva
la nonna, ruppe in dolorosissimi singhiozzi, che le facevano tremare
tutta la persona, e pareva dovessero farle scoppiare il cuore.
La luce del giorno era quasi del tutto sparita, e come in mezzo ad una
nebbia grigiastra, in quella tenebra invadente pigliavano fantastiche
forme a contorni indecisi i cipressi, le croci penzolanti, i modesti
tumuli di quel campo sacro alla morte.
Il parroco, che s'era ritirato un poco, lasciò prorompere quel primo
sfogo di dolore, sino allora contenuto, della giovinetta; e poscia,
venutole presso, pose dolcemente una mano sulla spalla di lei, che
tutta si riscosse.
“Chi è?” domandò Maria, voltandosi con atto vivissimo; e poichè si
trovò dinanzi quel buon vecchio prete, al quale aveva sempre visto la
nonna parlare con tanta riverenza, chiese rispettosamente:
“Che cosa vuole, sor Prevosto?”
“Vieni:” disse il parroco, facendole cenno di alzarsi.
Ella obbedì docilmente, ma domandò:
“Dove?”
“A casa.”
Maria scosse mestamente la testa.
“Non ho più casa,” disse con una semplicità e un'indifferenza che
commovevano più che le smanie della disperazione. “La mia casa è dove
sta la nonna; la nonna è qui, mi lasci stare con lei.”
“Ti ricordi come ti dicesse la nonna che a me bisognava obbedire?”
“Sì, che me ne ricordo.”
“Dunque da' retta: io ti dico di venir meco. E se non ti piace star
sola in casa, ti lascierò stanotte la Margherita a farti compagnia.”
“Oh no, no!” interruppe la fanciulla.
Poi, sorreggendosi colla mano il mento, guardò fiso nuovamente la tomba
in atto di meditazione.
“Dicono che i morti tornano.... Mi pare che debba esser vero.... Io lo
credo.... Che direbbe la nonna se vedesse un'altra nella sua casa?...
Non ho punto paura, io, a star sola.”
“Sia, come vuoi; ma intanto vieni. Tu vedi che la notte è già scura, e
la brezza si fa troppo più fredda che a te non convenga con quei poveri
pannucci che hai addosso.”
Maria infatti diede in uno scossone di brivido.
“Sì, l'aria è fredda,” diss'ella. “E la povera nonna, non avrà ella
freddo qui?”
“Ella non ha più nessun bisogno nè malore; ella ora è un angiolo di
Dio, che prega per te. Vieni!”
La prese amorevolmente pel braccio e la trasse con sè. Ella cedette
e seguì la sua guida, ma il capo e gli occhi erano volti verso quel
mucchio di terra che segnava la fossa recente. Uscirono così dal
cimitero. In quel punto un ragazzetto arrivava correndo.
“Sor Prevosto,” gridò egli: “è arrivata or ora una carrozza, e dentrovi
una signora mezzo ammalata, e un signore coi baffetti neri, che sono
andati all'osteria del _Gallo rosso_, e hanno cercato di Marta che è
morta, e di Maria, e anco di lei, sor Prevosto: e quando hanno udito
quel che era e quel che non era, volevano venir qui senz'altro; ma
poi la signora non se ne sentì; e quel dai baffetti volle che la si
mettesse a letto, ed a me che ero per colà mi diede otto soldi, perchè
le venissi a dire, a lei sor Prevosto, che sono giunti coloro a cui
ella ha scritto; ed io son corso....”
“Va bene,” disse il parroco; poi vóltosi a Maria: “Sono i tuoi parenti,
a cui la nonna mi aveva detto di apprendere la disgrazia che ti ha
colto; è la tua nuova famiglia che t'aspetta.”
E le fece affrettare il passo verso l'osteria del villaggio.
II.
Mentre infatti il modesto corteo accompagnava all'ultima dimora il
cadavere della vecchia Marta, una carrozza da viaggio, lentamente
tirata da due cavallacci da nolo, s'arrampicava su per la lunga salita
che conduce all'entrata del paesello, al quale, di quel tempo, ancora
non aveva fatto capo (nè la cosa è diversa oggidì) alcun tronco di
strada ferrata.
In quella carrozza stavano due persone: una donna e un uomo. Questi
era nel pieno fiorire d'una giovinezza di cinque lustri; la donna
mostrava di essere dai quaranta ai cinquant'anni. Avevano tale
rassomiglianza nei tratti del viso e più nel carattere della fisonomia,
nell'espressione della figura e dello sguardo, nella voce e nelle
mosse, che chiunque non li avesse pur conosciuti mai, al primo vederli,
dicevali madre e figliuolo.
Nella donna l'età inoltrata e una pallidezza morbosa delle sembianze,
la quale rivelava in lei una malattia guarita da poco e una salute
ordinariamente cagionevole, non avevano distrutto tuttavia la traccia
d'una beltà, che doveva essere stata in giovinezza fra le prime e
più seducenti. Le chiome abbondevolissime e d'un nero corvino, in
mezzo al quale spiccavano come fili d'argento i primi capelli canuti
che correvano in quella massa ondulata di seta, le si spartivano
graziosamente sopra una fronte della forma più pura, cui le rughe
appena cominciavano a segnare di leggerissime linee. Dello stesso bruno
gli occhi, dolcissimi e mitissimi nel guardare, pieni di quella luce
di benevolenza che basta a renderci simpatica una persona; e a tale
sguardo corrispondeva il sorriso tutto bontà e amorevolezza, ilare,
se così può dirsi, anche nella mestizia, pacato e sereno. Dal soave
luccicare degli occhi, e dal piegar delle labbra, si vedeva che quella
persona aveva molto sofferto nella vita e tutto con rassegnazione e con
coraggio sopportato.
Ed invero ella aveva molto sofferto!
Anna, tal era il suo nome, nacque in quel villaggio, a cui s'avvicina
a così lento passo la carrozza che la porta; ed era nipote da parte di
padre della povera estinta.
La madre di Anna non era affatto una contadina; ma, figliuola del
maestro del villaggio, uomo d'ingegno e di cuore, aveva ricevuto
dal padre un'educazione intellettuale forse superiore al suo stato.
Con sua figlia il povero maestro compiacevasi di vivere ancora di
quando in quando nel mondo del pensiero, e tornava a gustare le gioie
dell'intelletto, a provare le emozioni che sono destate dalle bellezze
della poesia e dell'arte. Questo tesoro d'educazione, la figliuola
del maestro ebbe per sua principal cura trasmetterlo a sua vòlta alla
ragazza nata da lei, quando fu tanto felice da averne una; di che
avvenne che Anna, crescendo, bellissima e d'animo squisito, acquistasse
eziandio tali qualità di spirito che nessuno avrebbe creduto mai più
trovare nella povera figliuola d'un rozzo flebotomo (che questo era il
mestiere del padre) in uno dei più alpestri e rimoti villaggi.
Nè il padre in vero ci aveva merito o colpa, che vogliate chiamarla,
poichè, facendola un po' da chirurgo, un po' da medico, un po' anche
da veterinario, era tutto il giorno in giro per la campagna, tutte le
sere all'osteria, e lasciava che le faccende di casa fossero regolate
affatto come piacesse alla moglie, di cui riconosceva, ancorchè non lo
confessasse, tutta la superiorità.
Ma per la povera Anna doveva ben presto cominciare una serie di gravi
sventure. E la prima e delle maggiori fu ch'ella appena in sui quindici
anni perdette la madre: proprio quando la sua gioventù, più vivace ed
irrequieta che in altre, per lo sviluppo precoce dell'intelligenza avea
bisogno maggiore del senno e dell'amorevole autorità materna.
Poco tempo dopo un pittore capitava per caso in quel villaggio, e
allettato dalla stupenda bellezza di quei siti alpestri, stabiliva
farvi dimora per alquanti mesi. Ma poichè ebbe veduto quell'occhio di
sole, come si suol dire, che era l'Anna, gli parve che non si sarebbe
più mosso di lì per tutto l'oro del mondo, e che dove lucevano quei
neri diamanti di occhi, lì avesse a dirsi senz'altro che stava di casa
la felicità.
Forse da principio non fu che un leggiero invaghimento, un capriccio
di giovane e d'artista, del quale credette egli medesimo facil cosa il
liberarsi, come credeva pur facile la vittoria sul cuore inesperto e
probabilmente fragile d'una contadinella. Cercò di avvicinare la bella
Annina, con ogni accorgimento d'amante la perseguitò, fece nascere
sempre più frequenti le occasioni di vederla, di parlarle, e riuscì
così bene, che, conosciuti tutti i pregi e le virtù che adornavano
quell'anima e quell'intelligenza, la sua meraviglia fu grande, e il
capriccio divenne vero amore e prontamente grandissimo.
Era egli un bel giovane, parlava bene, e possedeva il merito che in
questa fatta di casi è il maggiore: amava ardentemente e davvero;
s'intende che la fanciulla non potè fare a meno di corrispondergli.
Ma l'onestà si frapponeva a quei due ardori, e seppe imporre un freno
insuperabile all'audacia dell'uno e rassicurare completamente la
timidezza dell'altra. Eppure nessun impaccio vi era ai loro colloqui,
perchè il padre di lei, per ragione del suo mestiere, era tutto il dì
fuori di casa.
Ma se il bravo sor flebotomo non s'era ancora accorto di nulla, ben se
n'erano accorte le comari del villaggio, e ognuno capisce come quelle
buone femmine non potessero tralasciare una sì bella occasione di
far commenti e di mormorare. Aggiungete che in quei remoti villaggi,
dove le comunicazioni sono poche e rade, dove la vita è patriarcale e
la popolazione forma quasi una sola famiglia, ognuno che non sia del
paese è un forestiero, vale a dire poco meno che un nemico da tenersi
lontano, da guardarsi con sospetto, e da detestarsi a chius'occhi. Un
artista poi! Non capivano punto che cosa fosse in realtà; ma nella
loro testaccia quadra i vecchi, soliti a radunarsi sotto i rami del
grand'olmo in piazza, se ne facevano un superstizioso concetto come
d'un gettatore di malìe o press'a poco, e quando lo vedevano colla sua
cartella sotto il braccio, col suo cavalletto portatile andar girando
per la campagna e sedersi qua e colà a tracciar giù linee e metter
colori, poco mancava facessero il segno della croce, e crollavano
dubbiosamente la testa: i ragazzacci, da parte loro, in quelle
tremende occasioni, avevano già protestato più d'una volta con qualche
sassatella.
Di più i giovani del paese, accortisi che il forestiero amava la bella
Anna, della quale erano tutti più meno accesi, e che a codesto amore
la bella del villaggio non era punto avversa, pensate se diventarono
gelosi della zazzera, dei baffi e del pizzo alla medio-evo e della
casacca di velluto nero del pittore! A loro vòlta tutte le ragazze, a
cui Anna, senza volerlo, rubava tutti i dami, non aspettavano di meglio
che un'ombra di pretesto per addentare la buona riputazione di lei.
E quindi, in conseguenza di tutto ciò, la storia degli abboccamenti
del pittore colla figliuola del flebotomo, ampliata, interpretata
malignamente, correva per le bocche di tutti.
Dei parenti della fanciulla, fu la prima a commuoversi la zia Marta,
la quale, in fatto di costumi, era così esigente in altrui, come
inappuntabile essa medesima, e si credette in debito di provvedere e
riparare a siffatto scandalo. E la buona donna aveva ragione; ma in
ciò ebbe torto, che, invece di parlare alla ragazza ed appurar ben bene
come stessero le cose, tentando d'indurla coi consigli a più prudenti
propositi, andò direttamente dal fratello, perchè colla sua autorità
paterna facesse cessare senza indugio la tresca.
Per mala ventura, nel momento in cui la sorella venne a raccontargli
la cosa, il padre di Anna, che era devotissimo seguace di Bacco, si
trovava precisamente più che a mezzo ubriaco. Impetuoso com'egli era
inoltre di carattere, ed assolutissimo nei suoi voleri, chiamò a sè la
cenno alla mia memoria. Fui sotterrato nel cimitero del villaggio più
vicino, e sulla fossa una semplice pietra con il mio nome su scolpito.
“Volli vedere la mia tomba. Il cimitero è isolato, solitario, pieno
d'ombre e di melanconia. Le erbe altissime sussurrano stranamente sotto
al vento che le agita. Croci di legno sorgono qua e là, quasi tutte
corrose dal tempo; come la memoria dei morti che ci dormono sotto. E ci
si deve riposare in pace!
“Due settimane dopo non si parlava più di me; a quest'ora non c'è più
anima al mondo che si rammenti ch'io abbia esistito; io che, nelle
pazze fantasticaggini della gioventù, ho sognato la gloria!
“Per istrade fuori mano, senz'altra mèta certa che quella di
allontanarmi dal mio paese, venni girando qua e colà, finchè giunto a
questo rimoto villaggio, tanto mi piacquero la natura, il cielo e la
quiete di esso che determinai fissarvi la mia dimora.
“E da quasi trent'anni ci vivo, non dirò felice, ma senza più rimorsi,
senza odii e senza far male: non affrettando certo, ma non desiderando
neppure d'allontanare quel giorno supremo in cui, libera da questo
disgraziato involucro, l'anima mia voli nelle braccia misericordiose
dell'Eterno Amore.”
Qui, maestro Ambrogio si tacque; e stemmo ambedue silenziosi rivolgendo
in mente mille pensieri che il suo racconto aveva eccitato in me e
ridestato in lui.
Dopo un istante, fu egli a riprendere:
“Ora non cercate più altro da me. L'ultimo velo di mistero che copre
l'esser mio, mi è più sacro dell'onore, mi è più caro della vita.
Non tentate levarlo. Andate e obliatemi. Soltanto possiate far vostro
pro dell'insegnamento che contiene questa dolorosa storia delle mie
vicende!
“Non è nel vano rumore del mondo che consistono le degne soddisfazioni
dell'animo; non è sulla scena abbarbagliante dell'ambizione che
l'uomo divenga felice e si faccia migliore. La rinomanza non è che
misera vanità; il mondo inaridisce il cuore, intristisce l'anima, e
fa prosperare in essa quell'iniqua pianta parassita dello spirito
dell'uomo, la quale soffoca ogni buono istinto, e che si chiama
egoismo.
“Io sono vecchio, sono sfinito, e mi sento con soddisfazione non
lieve presso al termine d'ogni male. La verità l'ho amata sempre,
e non è ora che vorrei farle il menomo oltraggio. Ebbene, vi giuro
che più mi venni inoltrando negli anni, e più fui lieto del partito
preso. Non dico che molte volte l'ingegno in me non si ribellasse,
e non volesse dipingermi la mia come una viltà, come un mancamento
al proprio dovere. Ve lo dissi già che sostenni lotte tremende, che
soffrii, ma che vinsi. Se sapeste quanti, e forse splendidi, furono i
frutti di certe angosciosissime veglie! Ebbi il coraggio di distrugger
tutto. Nell'esercizio della virtù sconosciuta, nascosta, s'affina
l'anima umana. Alla soglia dell'eternità sarà più bella e gradita, non
quell'anima che sarà stata più gloriosa innanzi agli uomini, ma quella
che sarà stata più benemerita innanzi a Dio.”
Fece una pausa; poscia con voce più fioca e più sorda di quel che gli
fosse abituale, porgendomi la mano, soggiunse mestamente:
“Addio! Voi partirete fra pochi giorni; non è vero? È meglio che non ci
rivediamo più; che questo sia fra noi l'ultimo saluto. Io vi ho detto
tutto quello che avevo da dirvi. Conservatemi il segreto. Voglio morire
nelle ombre che mi avvolgono..... Ma quando udrete.... e sarà presto,
io spero.... che avrò abbandonata questa terra, se lo credete opportuno
e giovevole, raccontate pure altrui ciò che sapete de' casi miei.”
XXIII.
Due giorni dopo io partiva da quel paese, e con mastro Ambrogio non ci
vedemmo più: per due anni non ne ebbi altra novella.
L'altro dì il mio nobile amico dovette venire a Torino per qualche sua
faccenda, e fu a salutarmi.
“Mi fermo qui pochi giorni soltanto” mi disse “poi torno di gran
carriera alla mia montagna. Volete voi venire con me?”
“Ah! se lo potessi!” esclamai con un sospiro. “Ma noi siamo qui
condannati al lavoro di Sisifo.... Intanto datemi notizie di mastro
Ambrogio.”
Il volto del mio amico si fece mestamente grave.
“Quel povero Ambrogio!” disse. “Non c'è più. L'hanno sotterrato l'altra
mattina.”
Mi feci raccontare i particolari della sua morte. Non era stato malato
che pochi dì. Conosciuta tosto la gravità del suo male, egli aveva
mandato pel sacerdote, ed aveva edificato tutto il villaggio colla
santità della sua morte, come aveva fatto colla purità ed onestà della
sua vita. Sulla sua fossa hanno piantato una croce di legno, e gli
scolari vanno a spargervi fiori.
Così fu il suo desiderio compito. È morto sconosciuto, tranquillo,
amando e sperando. L'erba d'un cimitero di campagna ne coprirà le ossa
ignorate; ma io, che non l'oblierò mai, ho pensato valermi del suo
permesso, e schizzarne in questi fogli la misteriosa figura.
GALATEA
RACCONTO.
I.
Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno.
Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al
momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle
nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato
fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi
ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che
rattristava con freddi riflessi il paese e la sera.
Le foglie ingiallite si spiccavano dai castagni, e venivano giù adagino
adagino, quasi baloccandosi per l'aria. Di quando in quando un buffo
di vento sollevava i piccoli mucchi delle frondi cadute ed ammassate
qua e là dal caso o dal lavoro dell'uomo, e avvolgendo le foglie in
un turbinío, le cacciava innanzi a sè, come una nube, per lasciarle
ricadere lungo la strada in una striscia che ne segnava il cammino,
finchè non erano più che due o tre a rincorrersi pazzamente come
ragazzi ruzzanti.
I vaccari tornavano dalla pastura, la faccia e le mani arrossate
dalla brezza freddiccia, e si spingevano innanzi le pigre bestie
muggenti, accompagnando colle battiture e colle voci d'ammonizione e
minaccia alla loro cornuta schiera, una canzone a cadenze monotone e
strascicate, nella mestizia del tono in minore.
Dai fumaiuoli delle modeste abitazioni del villaggio, a rivelare
che le buone massaie preparavan la cena, usciva il grigio fumo che
disegnava capricciosamente i suoi ghirigori, sul fondo più oscuro
dell'atmosfera. Al di sopra e in mezzo di questa uniformemente bassa
ed umile popolazione di casuccie, coperte la maggior parte di paglia,
il campanile della parrocchia sollevava il suo capo, sormontato da una
gran croce di ferro e coronato di tegole verniciate a brillanti colori.
Il qual campanile, in quest'ora appunto, mandava le più gravi e solenni
note della sua maggior campana, per invito alla preghiera, in suffragio
d'un'anima, volata nel mondo degli spiriti.
All'udire quei rintocchi lenti e pieni di tanta mestizia, uscivano di
casa le madri di famiglia e le ragazze, accomodandosi in fretta sul
capo il fazzoletto stampato a colori; e, appoggiandosi sul bastone, gli
uomini ai quali la tarda età toglieva d'andare a quel lavoro quotidiano
ne' campi, da cui ora stavano per tornare i loro figliuoli e nipoti.
Le comari del villaggio, incontrandosi, si scambiavano intanto delle
parole come queste:
“Suona per la sepoltura della povera Marta.”
“Poveretta! Dio l'abbia in gloria! Andiamo a dire un _De Profundis_ per
quell'anima; benchè la ne abbia meno di bisogno che qualunque altra;
chè se ci fu mai cristiana che morisse nella grazia del Signore, la
Marta è stata quella di certo.”
“Sicuro! E se non va quella lì in paradiso, dritto dritto, non ci va
più nessuno.”
“E per lei, davvero che la morte si può dire una grazia! Ha finito di
tribolare.”
“Oh sì! che ha tribolato, e di molto!”
“Una grazia la morte! che cosa dite? Se la povera donna fosse stata
sola al mondo, avreste ragione. Ma pensate un poco a quella poveretta
di Maria che lascia dietro di sè!”
“Ah! gli è pur vero. Per codesta creatura così giovane e inesperta, la
è proprio una gran disgrazia.”
“Ed oltre a esser giovane, quasi ancora una bambina, è tanto semplice,
così innocente!....”
“E vi so dir io che la Marta si affliggeva di molto al pensiero di
lasciarla; e pregò di belle volte il Signore che le raddoppiasse anche
il male che soffriva, purchè le volesse prolungare di tanto la vita da
poter vedere provveduta quella poveretta, che è come un'agnellina senza
forza e senza malizia in mezzo alle tristizie del mondo.”
“Come sopporta ella questo colpo la Maria?”
“Che v'ho da dire? La pare smemorata. Sapete com'è quella semplicetta,
che non si sa mai se capisca o non capisca. Per me, io credo che non
sappia nemmeno che la sua nonna è morta, nè che cosa voglia significare
la parola morire.”
Intanto uomini e donne erano giunti ad una delle più umili capanne,
posta ad un de' capi della strada che attraversava quel povero
villaggio montanino. Era piccola, angusta, d'un solo piano, e poteva
dirsi davvero che la miseria ci stava di casa. La frotta delle
persone accorse colà vi susurrava a bassa voce, con un quasi timoroso
riguardo; ed era il profondo rispetto che ad ogni animo onesto impone
la sciagura. Nel già scuro ambiente di quella stanzaccia terrena che
formava la parte principale dell'abitazione, ardevano fiocamente alcuni
lumi accesi; su due sgabelli di rozzo legno stava posata una bara, e
sopra, gettatovi, un logoro tappeto nero. In quella umile dimora era
piombata, il giorno prima, la morte.
Ad un punto un vecchio dai canuti capelli, in abiti sacerdotali, il
parroco del villaggio, fece un cenno, e la mesta comitiva s'avviò.
Precedeva il sagrestano portando la croce, poi la confraternita a cui
apparteneva la defunta, una trentina di donne tutte incappate, quindi
il parroco in mezzo a due preti, e dietro la cassa della morta, portata
a spalle dal becchino e dal suo aiuto.
Il funebre corteggio era chiuso dalla massa incomposta e confusa delle
donne e dei vecchi, e in essa non vedevi persona che non avesse le
lagrime agli occhi e la preghiera sulle labbra.
Ma, subito dopo la bara, prima d'ogni altro, veniva la povera Maria.
Era una fanciulla di quattordici anni, troppo grande per la sua età,
magra, sfiancata, di volto scarno, di larghe occhiaie, in fondo a cui
brillavano d'un fuoco selvaggio certe pupille d'indescrivibil colore;
la pelle aveva abbronzata, i folti capelli arruffati sul capo come i
serpenti del Gorgone; vestita a casaccio d'una vestucciaccia che non
era fatta per dar grazia alle sue membra lunghe, ossee, dinoccolate.
Come aveva detto la donna che abbiamo udito discorrere poc'anzi,
non si poteva discerner bene se questa ragazza capisse o no. Da quei
suoi grandi occhioni, ora sereni come l'azzurro del cielo, ora scuri
come il mare in tempesta, ora privi di luce come la pupilla d'un
cadavere, ora scintillanti di riflessi dorati che parevan raggi di
sole, l'intelligenza non appariva che a lampi; la fronte era bensì
giustamente sviluppata, modellata a perfezione e adorna della maggiore
nobiltà di linee; ma il silenzio ostinato, in cui la giovanetta si
rinchiudeva, i pochi segni di sensibilità e le poche manifestazioni
di pensiero che in lei si scorgevano, erano cagione che la gente la
credesse poco meno che scema, e la facevano vivere mezzo segregata
dalla vita ordinaria e dal consorzio del mondo.
Non v'era che la nonna, la quale, o s'illudesse per soverchio amore,
o fosse più penetrativa degli altri, credeva avere scôrto dietro quel
riparo di ghiaccio un'anima affettuosa, notato sotto quella distrazione
di spirito un'intelligenza.
“La mia innocente,” soleva ella dire, “val meglio di molti e molti, che
la compatiscono come una scema.”
Quando la buona vecchia Marta era caduta malata di quella infermità,
che, tenutala un anno a patire nel letto, l'aveva ora tratta al
sepolcro, Maria, la quale soleva andare al pascolo sulla montagna e
vagolare tutto il giorno per i dirupi come una selvaggia, a raccoglier
fiori, di cui tornava la sera tutta adorna il capo e il seno; Maria
s'era seduta sullo sgabello a piè del letto della povera nonna, e non
vi era più stato verso di farnela muovere.
Ella stava là, coi gomiti delle sue lunghe braccia appoggiati alle
ginocchia, la faccia sorretta dalle mani, e gli occhi larghi, fissi di
continuo sulla inferma. Parlava poco o punto, stava immobile, lasciava
servir la nonna dalle comari, cui la carità mandava in soccorso
dell'ammalata, e non era che raramente, quando la si trovava proprio
sola colla Marta, che si chinava sul letto di lei e le dava caldi baci,
in cui palpitavano, per così dire, la tenerezza e l'affetto.
Un anno intero di codesta vita aveva nociuto di molto alla salute della
giovinetta. La era cresciuta anche troppo, ma diventata sempre più
sottile e macilenta; le sue guancie avevan preso un color terreo, e
negli occhi non apparivan più che rarissimi gli sprazzi di luce.
La vecchia nonna, prima di morire, aveva parlato lungamente al vecchio
parroco della meschinella e dell'avvenire che l'aspettava, e pregato
costui di scrivere a certi congiunti che unicamente le rimanevano,
lontani di parentela e di dimora, coi quali la moribonda, da tempo
remoto assai, non aveva mai più avuta alcuna attinenza.
Nell'ultimo istante, proprio nell'atto di spirar l'anima, con un ultimo
sguardo, Marta aveva ancora una volta raccomandata l'orfanella al buon
sacerdote, che su lei pronunziava la preghiera dell'agonia, e alla
miserella che rimaneva sola nel mondo si era rivolto l'estremo segno
d'intelligenza e d'affetto della morente.
Quanto a lei, — a Maria, — pareva che il suo spirito fosse ben
lontano da quella scena di morte, da quel luogo, da quel doloroso
momento. Immobile al suo solito posto, ella continuò a rimirare la
morta, come aveva sino allora rimirata l'inferma; e per quanto le si
dicesse o facesse, nessuno era riuscito a levarla di là. Con apparente
indifferenza guardò tutti i preparativi che vennero fatti per portare
all'ultima dimora il corpo di quell'unico essere che l'avesse amata;
e solamente di quando in quando una contrazione nervosa veniva a
sconvolgere i lineamenti dell'infelice, senza che pure una lagrima
spuntasse su quegli occhi asciutti e riarsi. Quando vide la nonna
messa entro la bara e udì battere i chiodi del coperchio sopra di lei,
Maria s'alzò tremante, e la contrazione della sua faccia fu orribile,
accompagnata da un grido di spasimo; ma non altro; ricadde accasciata,
muta, impassibile, e parve non sentire più nulla.
Ora, essa veniva dietro la bara a passo lento, dritta la persona,
l'occhio fisso su quel drappo nero che la precedeva, come se potesse
vedervi di sotto il viso della morta; e di tutto quanto avveniva
intorno a sè pareva affatto ignara.
Si giunse al cimitero. La fossa, già scavata, era là, pronta ad
ingoiare quegli ultimi resti. Maria venne fino all'orlo di quella
buca, vi si chinò sopra, come desiosa di vedere che cosa vi fosse
nello scuro fondo di essa. La cassa vi fu pianamente calata, e intanto
si mormoravano intorno le estreme preghiere. Tutti piangevano; ma la
fanciulla era immota, tranquilla e come insensibile. Però quando si
gettò nella fossa la prima palata di terra, e questa si udì risuonare
cupamente sul coperchio della cassa, Maria mandò ancora quel grido di
spasimo, e si slanciò innanzi colle braccia protese, come se volesse
precipitarsi in quella tremenda apertura, ed abbracciarsi alla morta,
e farsi seppellire con essa. Le donne le furono attorno a trattenerla.
Sentendosi afferrare, ella si fermò, guardò attonita chi l'aveva
trattenuta, e calmatasi di subito, si liberò dalla stretta di quelle
pietose; poi, incrociate le braccia al seno, stette senza pur far
parola.
Tutto era finito, ed ella stava ancora là in quel medesimo
atteggiamento. Le donne incominciarono con dolci parole a dirle di
venir via, pietosamente confortandola: Maria non le guardava neppure.
Una fra le altre, più insistente, non ottenne di meglio che uno
sguardo senza espressione ed uno scrollar di testa; allora la donna,
con tutta amorevolezza, aveva preso pel braccio la giovanetta e voluto
trascinarla con sè; ma ella se n'era disciolta con sì impetuosa mossa,
e con tanto sdegno le aveva detto «lasciatemi!» che la donna erasi
allontanata quasi impaurita.
Il parroco che aveva accompagnato sino colà il cadavere della povera
morta, fece segno lasciassero stare quell'afflitta, che egli stesso
sarebbesi preso cura di lei. Le donne partirono. Maria, quando le ebbe
vedute tutte allontanarsi, e si credette sola, si buttò con impeto
quasi disperato in ginocchio, e chinandosi a toccare col capo, a baciar
colle labbra gementi quella terra frescamente smossa, sotto cui giaceva
la nonna, ruppe in dolorosissimi singhiozzi, che le facevano tremare
tutta la persona, e pareva dovessero farle scoppiare il cuore.
La luce del giorno era quasi del tutto sparita, e come in mezzo ad una
nebbia grigiastra, in quella tenebra invadente pigliavano fantastiche
forme a contorni indecisi i cipressi, le croci penzolanti, i modesti
tumuli di quel campo sacro alla morte.
Il parroco, che s'era ritirato un poco, lasciò prorompere quel primo
sfogo di dolore, sino allora contenuto, della giovinetta; e poscia,
venutole presso, pose dolcemente una mano sulla spalla di lei, che
tutta si riscosse.
“Chi è?” domandò Maria, voltandosi con atto vivissimo; e poichè si
trovò dinanzi quel buon vecchio prete, al quale aveva sempre visto la
nonna parlare con tanta riverenza, chiese rispettosamente:
“Che cosa vuole, sor Prevosto?”
“Vieni:” disse il parroco, facendole cenno di alzarsi.
Ella obbedì docilmente, ma domandò:
“Dove?”
“A casa.”
Maria scosse mestamente la testa.
“Non ho più casa,” disse con una semplicità e un'indifferenza che
commovevano più che le smanie della disperazione. “La mia casa è dove
sta la nonna; la nonna è qui, mi lasci stare con lei.”
“Ti ricordi come ti dicesse la nonna che a me bisognava obbedire?”
“Sì, che me ne ricordo.”
“Dunque da' retta: io ti dico di venir meco. E se non ti piace star
sola in casa, ti lascierò stanotte la Margherita a farti compagnia.”
“Oh no, no!” interruppe la fanciulla.
Poi, sorreggendosi colla mano il mento, guardò fiso nuovamente la tomba
in atto di meditazione.
“Dicono che i morti tornano.... Mi pare che debba esser vero.... Io lo
credo.... Che direbbe la nonna se vedesse un'altra nella sua casa?...
Non ho punto paura, io, a star sola.”
“Sia, come vuoi; ma intanto vieni. Tu vedi che la notte è già scura, e
la brezza si fa troppo più fredda che a te non convenga con quei poveri
pannucci che hai addosso.”
Maria infatti diede in uno scossone di brivido.
“Sì, l'aria è fredda,” diss'ella. “E la povera nonna, non avrà ella
freddo qui?”
“Ella non ha più nessun bisogno nè malore; ella ora è un angiolo di
Dio, che prega per te. Vieni!”
La prese amorevolmente pel braccio e la trasse con sè. Ella cedette
e seguì la sua guida, ma il capo e gli occhi erano volti verso quel
mucchio di terra che segnava la fossa recente. Uscirono così dal
cimitero. In quel punto un ragazzetto arrivava correndo.
“Sor Prevosto,” gridò egli: “è arrivata or ora una carrozza, e dentrovi
una signora mezzo ammalata, e un signore coi baffetti neri, che sono
andati all'osteria del _Gallo rosso_, e hanno cercato di Marta che è
morta, e di Maria, e anco di lei, sor Prevosto: e quando hanno udito
quel che era e quel che non era, volevano venir qui senz'altro; ma
poi la signora non se ne sentì; e quel dai baffetti volle che la si
mettesse a letto, ed a me che ero per colà mi diede otto soldi, perchè
le venissi a dire, a lei sor Prevosto, che sono giunti coloro a cui
ella ha scritto; ed io son corso....”
“Va bene,” disse il parroco; poi vóltosi a Maria: “Sono i tuoi parenti,
a cui la nonna mi aveva detto di apprendere la disgrazia che ti ha
colto; è la tua nuova famiglia che t'aspetta.”
E le fece affrettare il passo verso l'osteria del villaggio.
II.
Mentre infatti il modesto corteo accompagnava all'ultima dimora il
cadavere della vecchia Marta, una carrozza da viaggio, lentamente
tirata da due cavallacci da nolo, s'arrampicava su per la lunga salita
che conduce all'entrata del paesello, al quale, di quel tempo, ancora
non aveva fatto capo (nè la cosa è diversa oggidì) alcun tronco di
strada ferrata.
In quella carrozza stavano due persone: una donna e un uomo. Questi
era nel pieno fiorire d'una giovinezza di cinque lustri; la donna
mostrava di essere dai quaranta ai cinquant'anni. Avevano tale
rassomiglianza nei tratti del viso e più nel carattere della fisonomia,
nell'espressione della figura e dello sguardo, nella voce e nelle
mosse, che chiunque non li avesse pur conosciuti mai, al primo vederli,
dicevali madre e figliuolo.
Nella donna l'età inoltrata e una pallidezza morbosa delle sembianze,
la quale rivelava in lei una malattia guarita da poco e una salute
ordinariamente cagionevole, non avevano distrutto tuttavia la traccia
d'una beltà, che doveva essere stata in giovinezza fra le prime e
più seducenti. Le chiome abbondevolissime e d'un nero corvino, in
mezzo al quale spiccavano come fili d'argento i primi capelli canuti
che correvano in quella massa ondulata di seta, le si spartivano
graziosamente sopra una fronte della forma più pura, cui le rughe
appena cominciavano a segnare di leggerissime linee. Dello stesso bruno
gli occhi, dolcissimi e mitissimi nel guardare, pieni di quella luce
di benevolenza che basta a renderci simpatica una persona; e a tale
sguardo corrispondeva il sorriso tutto bontà e amorevolezza, ilare,
se così può dirsi, anche nella mestizia, pacato e sereno. Dal soave
luccicare degli occhi, e dal piegar delle labbra, si vedeva che quella
persona aveva molto sofferto nella vita e tutto con rassegnazione e con
coraggio sopportato.
Ed invero ella aveva molto sofferto!
Anna, tal era il suo nome, nacque in quel villaggio, a cui s'avvicina
a così lento passo la carrozza che la porta; ed era nipote da parte di
padre della povera estinta.
La madre di Anna non era affatto una contadina; ma, figliuola del
maestro del villaggio, uomo d'ingegno e di cuore, aveva ricevuto
dal padre un'educazione intellettuale forse superiore al suo stato.
Con sua figlia il povero maestro compiacevasi di vivere ancora di
quando in quando nel mondo del pensiero, e tornava a gustare le gioie
dell'intelletto, a provare le emozioni che sono destate dalle bellezze
della poesia e dell'arte. Questo tesoro d'educazione, la figliuola
del maestro ebbe per sua principal cura trasmetterlo a sua vòlta alla
ragazza nata da lei, quando fu tanto felice da averne una; di che
avvenne che Anna, crescendo, bellissima e d'animo squisito, acquistasse
eziandio tali qualità di spirito che nessuno avrebbe creduto mai più
trovare nella povera figliuola d'un rozzo flebotomo (che questo era il
mestiere del padre) in uno dei più alpestri e rimoti villaggi.
Nè il padre in vero ci aveva merito o colpa, che vogliate chiamarla,
poichè, facendola un po' da chirurgo, un po' da medico, un po' anche
da veterinario, era tutto il giorno in giro per la campagna, tutte le
sere all'osteria, e lasciava che le faccende di casa fossero regolate
affatto come piacesse alla moglie, di cui riconosceva, ancorchè non lo
confessasse, tutta la superiorità.
Ma per la povera Anna doveva ben presto cominciare una serie di gravi
sventure. E la prima e delle maggiori fu ch'ella appena in sui quindici
anni perdette la madre: proprio quando la sua gioventù, più vivace ed
irrequieta che in altre, per lo sviluppo precoce dell'intelligenza avea
bisogno maggiore del senno e dell'amorevole autorità materna.
Poco tempo dopo un pittore capitava per caso in quel villaggio, e
allettato dalla stupenda bellezza di quei siti alpestri, stabiliva
farvi dimora per alquanti mesi. Ma poichè ebbe veduto quell'occhio di
sole, come si suol dire, che era l'Anna, gli parve che non si sarebbe
più mosso di lì per tutto l'oro del mondo, e che dove lucevano quei
neri diamanti di occhi, lì avesse a dirsi senz'altro che stava di casa
la felicità.
Forse da principio non fu che un leggiero invaghimento, un capriccio
di giovane e d'artista, del quale credette egli medesimo facil cosa il
liberarsi, come credeva pur facile la vittoria sul cuore inesperto e
probabilmente fragile d'una contadinella. Cercò di avvicinare la bella
Annina, con ogni accorgimento d'amante la perseguitò, fece nascere
sempre più frequenti le occasioni di vederla, di parlarle, e riuscì
così bene, che, conosciuti tutti i pregi e le virtù che adornavano
quell'anima e quell'intelligenza, la sua meraviglia fu grande, e il
capriccio divenne vero amore e prontamente grandissimo.
Era egli un bel giovane, parlava bene, e possedeva il merito che in
questa fatta di casi è il maggiore: amava ardentemente e davvero;
s'intende che la fanciulla non potè fare a meno di corrispondergli.
Ma l'onestà si frapponeva a quei due ardori, e seppe imporre un freno
insuperabile all'audacia dell'uno e rassicurare completamente la
timidezza dell'altra. Eppure nessun impaccio vi era ai loro colloqui,
perchè il padre di lei, per ragione del suo mestiere, era tutto il dì
fuori di casa.
Ma se il bravo sor flebotomo non s'era ancora accorto di nulla, ben se
n'erano accorte le comari del villaggio, e ognuno capisce come quelle
buone femmine non potessero tralasciare una sì bella occasione di
far commenti e di mormorare. Aggiungete che in quei remoti villaggi,
dove le comunicazioni sono poche e rade, dove la vita è patriarcale e
la popolazione forma quasi una sola famiglia, ognuno che non sia del
paese è un forestiero, vale a dire poco meno che un nemico da tenersi
lontano, da guardarsi con sospetto, e da detestarsi a chius'occhi. Un
artista poi! Non capivano punto che cosa fosse in realtà; ma nella
loro testaccia quadra i vecchi, soliti a radunarsi sotto i rami del
grand'olmo in piazza, se ne facevano un superstizioso concetto come
d'un gettatore di malìe o press'a poco, e quando lo vedevano colla sua
cartella sotto il braccio, col suo cavalletto portatile andar girando
per la campagna e sedersi qua e colà a tracciar giù linee e metter
colori, poco mancava facessero il segno della croce, e crollavano
dubbiosamente la testa: i ragazzacci, da parte loro, in quelle
tremende occasioni, avevano già protestato più d'una volta con qualche
sassatella.
Di più i giovani del paese, accortisi che il forestiero amava la bella
Anna, della quale erano tutti più meno accesi, e che a codesto amore
la bella del villaggio non era punto avversa, pensate se diventarono
gelosi della zazzera, dei baffi e del pizzo alla medio-evo e della
casacca di velluto nero del pittore! A loro vòlta tutte le ragazze, a
cui Anna, senza volerlo, rubava tutti i dami, non aspettavano di meglio
che un'ombra di pretesto per addentare la buona riputazione di lei.
E quindi, in conseguenza di tutto ciò, la storia degli abboccamenti
del pittore colla figliuola del flebotomo, ampliata, interpretata
malignamente, correva per le bocche di tutti.
Dei parenti della fanciulla, fu la prima a commuoversi la zia Marta,
la quale, in fatto di costumi, era così esigente in altrui, come
inappuntabile essa medesima, e si credette in debito di provvedere e
riparare a siffatto scandalo. E la buona donna aveva ragione; ma in
ciò ebbe torto, che, invece di parlare alla ragazza ed appurar ben bene
come stessero le cose, tentando d'indurla coi consigli a più prudenti
propositi, andò direttamente dal fratello, perchè colla sua autorità
paterna facesse cessare senza indugio la tresca.
Per mala ventura, nel momento in cui la sorella venne a raccontargli
la cosa, il padre di Anna, che era devotissimo seguace di Bacco, si
trovava precisamente più che a mezzo ubriaco. Impetuoso com'egli era
inoltre di carattere, ed assolutissimo nei suoi voleri, chiamò a sè la
- Parts
- Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 01
- Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 02
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