Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 08
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ma di mente? Egli era in questo campo intellettuale che io aveva da
lottare, e non nella stupida e brutale prova dell'armi.
“Per miei padrini avevo scelto due giovinotti che in tali faccende
erano peritissimi. Non avevo amici, e costoro accettarono l'incarico,
solamente perchè fra certa gente è usanza che simile uffizio non si
rifiuti mai.
“Era di tarda sera, ed io stava nella mia stanzuccia solo, sprofondato
in quei cotali pensamenti ed affanni, quando essi vennero a dirmi
il risultamento della conferenza coi padrini dell'avversario e le
determinazioni prese d'accordo.
“Erano le seguenti: ci saremmo battuti alla pistola; la distanza
sarebbe stata di trenta passi, libero a ciascuno dei combattenti
d'avanzarsi di dieci; si avrebbero due pistole ciascuno; ad un segno
fatto potevamo camminare l'uno verso l'altro e sparare quando ci
talentasse; fatti i quattro colpi senza che sangue fosse versato,
potevasi ricominciare da capo. Le condizioni erano gravi, come gravi
erano state le scambiateci offese. Alfredo le aveva volute tali; ed io
dissi con sicuro sembiante che le mi piacevano.
— «Le conseguenze di questo scontro» dissemi poi uno dei padrini,
«possono essere serissime. Ci ha ella pensato, ed ha provvisto alle
cose sue?»
— «Io non ho nulla a cui provvedere,» risposi. «Sono solo sulla terra,
e non lascio persona che mi pianga,»
“Venne a serrarmi la gola un singhiozzo che ebbi molta pena a soffocare.
— «Questo duello ha destato molto l'attenzione di tutta la
cittadinanza,» riprese quel medesimo dei miei secondi: «e non potrà a
meno di eccitare i provvedimenti della giustizia. Quando ci fosse morte
d'uomo, sarebbe meglio al vincitore il fuggire. Si è Ella preparato a
codesto?»
“Io vi parlo schietto, come parlerei a Dio il dì del giudizio
universale. Non ho più rispetti umani, non ho più vanità personali, non
ho più interesse nè desiderio d'infingermi.
“A quel cenno che uno dei due molto facilmente sarebbe rimasto sul
campo, mi sentii raccapricciare. Volli fare un sorriso d'indifferenza
o di rassegnazione, e sono certo che non riuscii che ad una smorfia
affettata.
— «Non penso» diss'io «che a me toccherà lasciar il paese per questa
cagione. Se uno dei due avrà da tornar cadavere, ho il presentimento
che quello non sarà il mio avversario.»
— «L'esito di questa sorta di cose è sempre nelle mani del caso:»
disse quell'altro: «e forse non avevano affatto torto gli antichi che
chiamavano il duello giudizio di Dio!.... Non le nascondo che Alfredo
è buon tiratore; ma quante volte si è visto in simili scontri avere il
di sopra i più inesperti! Non bisogna andare sul terreno colla paura;
questo è il più essenziale. Stia dunque di buon animo, e ci aspetti qui
domattina, che all'ora convenuta verremo a prenderla.»
“Quindi s'avviarono. Io li accompagnai sino al pianerottolo, a
rischiarare loro il cammino. La fiamma della mia lucernetta oscillava
troppo più che non avrei voluto. Quando furono giunti alla scala, tesi
loro la mano, augurando la buona notte. Quegli che aveva parlato, e che
pareva aver posto maggiore interesse nella faccenda, sentì tremar nella
sua la mia destra; tornò indietro alcuni passi, e stringendomi forte la
mano che non aveva abbandonata e parlandomi sommesso, mi disse:
— «Coraggio! che diamine!.... Un uomo come lei, ha da mancare di
risoluzione?»
“Fu punto in me l'amor proprio, e riagì subitamente:
— «No;» risposi con ferma la voce e l'aspetto: «non dubiti. Avrò
coraggio; ne ho.»
“Ma quella fu davvero una tristissima notte. Mi parve lunga e breve;
l'avrei voluta eterna, e sollecitavo con impazienza le ore.... All'alba
sentii finalmente giungere e fermarsi in istrada la carrozza con cui
i miei padrini venivano a prendermi. Mi guardai allo specchio. Ero
pallido molto, cogli occhi infossati e le occhiaie livide; mi percossi
dispettosamente le guancie, e precipitoso scesi le scale.
— «Ha ella dormito?» mi chiese quello dei due che mi aveva incoraggiato
la sera innanzi.
“La vanità mi diede l'audacia di mentire.
— «Sì;» risposi: «parecchie ore.» — Non so s'egli mi credesse, ma lo
finse.
— «Meglio:» esclamò, facendomi salire nella carrozza.
“Questa partì di buon trotto e presto fummo fuori della città.
Cammin facendo i padrini venivano dandomi consigli e istruzioni sul
come dovevo contenermi; annuivo alle loro parole, ma non potevo ben
comprendere quel che dicevano: la testa mi suonava così che parevami
udir continuo un rumor cupo di voci lontane: non avevo del tutto la
coscienza di me medesimo e de' fatti miei; mi pareva che quello fosse
un sogno, che si trattasse di un altro, che io mi trovassi lì soltanto
per assistere spettatore indifferente ad una tragedia che non mi
riguardasse. Poi a un tratto saltava fuori, in mezzo alla confusione
della mia mente, questa tremenda interrogazione: — Fra un'ora sarò io
vivo?”
XIX.
“Giungemmo finalmente al luogo del convegno. Il mio avversario e i suoi
secondi già erano ad aspettarmi. Ci salutammo gravemente, e mentre i
padrini si accostavano a parlar tra loro, noi duellanti stemmo soli in
disparte, lontani l'uno dall'altro, guardandoci così alla sfuggita.
“Alfredo era un po' più pallido del solito nel volto; ma il suo
contegno aveva tanta fierezza, tanta disdegnosa indifferenza, che
me ne sentii umiliato, e feci ogni sforzo per imitarlo. Egli fumava
tranquillamente il suo sigaro, e mirava con lieto sguardo la bellezza
della mattinata splendida per un magnifico levar di sole. Eravamo nei
più bei giorni della state, e la natura non era mai sembrata tanto
maravigliosa ai miei occhi. Fra le frondi indorate dal sole cantavano
allegramente gli augelletti. Tutto era vita, tutto era giovinezza
intorno a noi.
“Il mio avversario era più bello, più fiero e superbo che non l'avessi
visto mai. Coll'eleganza e coll'avvenenza sembrava dominare tutti noi,
e me specialmente suo nemico, cui la sorte aveva voluto dare tanta
meschinità di corpo e di apparenze. Se un estraneo, senza nulla sapere
delle cagioni della nostra contesa, fosse capitato lì in quel punto,
io non dubito avrebbe detto, solamente esaminando i combattenti, che
Alfredo sarebbe stato il vincitore e che dalla parte di lui era la
ragione.
“I padrini ci appostarono alla distanza determinata, ci diedero
le pistole, e poichè si furono ritirati a destra e a sinistra, a
convenevole lontananza, uno di essi si levò il cappello e facendo un
atto solenne di saluto, pronunziò a voce chiara e vibrante:
— «Avanti signori!»
“Guardai Alfredo. Tutto vestito di scuro, la sua leggiadra testa
spiccava maggiormente pel pallore che gli copriva le guancie. Il veder
codesta pallidezza, un certo tremito che mi parve scorgere nella sua
mano e una velatura che gli appannava il brillar degli sguardi, non so
perchè, diedero a me sicurezza e sangue freddo. Poi sentivo sulla mia
persona lo sguardo di altre quattro persone, che rappresentavano tutta
la città, tutto il mondo per me.
“S'io ho da cadere, pensai, almeno ch'io cada senza che alcuno
abbia diritto di accusare la mia memoria del torto che la società
maggiormente disprezza, e non perdona mai: la paura.
“Ma vedete stranezza! Nel guardare Alfredo, io dimenticava il presente,
per non ricordarmi che del passato; vedevo il collegio, i primi anni
della giovinezza; e sentivo un tumulto di affetti invadermi l'animo e
una subita tenerezza commovermi al punto che di subito pensai gettare
le pistole e correre a braccia aperte verso di lui, esclamando:
— «Tu sei il mio diletto, tu sei il mio fratello. È egli possibile che
io attenti alla tua vita?»
“Il veder me parve eccitare invece ben altri sentimenti ad Alfredo;
poichè i suoi occhi fissandosi ne' miei, perdettero quella nebbia che
li offuscava e brillarono d'una luce piena d'odio mortale.
“Il mio avversario si avanzò vivamente tre quattro passi, tenendo tesa
una pistola colla mira a me rivolta, poi si fermò. Io non mi mossi;
ed avevo le braccia abbandonate lungo la persona, stando là come
smemorato, incerto ancora di quello che avessi da fare. Alfredo parve
esitare un istante: non furono che pochi secondi, ma a me parvero un
tempo smisurato.
“Mi ucciderà! pensavo. A momenti sarà finita per me.... finita per
sempre!.... Morto? Morto io? Dio, Dio, puoi tu permetterlo?.... Ah!
la morte è tremenda!.... Ciascuno ha pur diritto alla vita.... Io l'ho
bene, come qualunque altro, questo sacrosanto diritto.... Dio, Dio, mi
ti raccomando!
“Tutto questo, ratto, simultaneo, vertiginoso; mi passò perfino pel
capo l'idea di scappare; ma sentii nello stesso tempo che non l'avrei
nemmeno potuto.
“A un tratto un guizzo di fuoco scattò da quell'arma che si circondò
di fumo; rimbombò un colpo, e io sentii presso l'orecchio sinistro
il fischio della palla. Diedi una scossa, il sangue mi fece un tuffo
e parve di botto precipitarmisi tutto al cuore, poscia risalire
tumultuosamente al cervello: ma, nel montarvici, conduceva seco tal
ira, molto presso a cambiarsi in furore.
“I padrini si mossero come per avvicinarmisi; feci loro segno
ristessero.
“Alfredo gettò via la pistola vuota e ratto scambiò dalla mano sinistra
alla destra quella che aveva ancor carica. Ero stranamente calmo a
quel punto; ma ogni sentimento benevolo era svanito dal mio cuore.
Cominciavo a sentire alcuna cosa che rassomigliava all'attrattiva
della lotta. Alzai la destra armata, come per toglier la mira; il mio
avversario si volse subitamente di fianco; ma, cambiando pensiero,
lasciai ricadere il braccio. Allora Alfredo prese ad avanzarsi di nuovo
verso di me; ma questa volta cauto e lento, non presentandomi mai che
la minor possibile superficie del suo profilo, la pistola tesa innanzi
a sè, mirandomi più basso a mezzo il petto.
“Una strana irritazione s'impadroniva di me nel vedere codesta
prolungata minaccia. Fui per gridare facesse presto; pensai sparargli
contro a un tratto le mie due pistole, come si farebbe ad una fiera che
camminasse verso di noi; fui per lanciarmigli addosso a strappargli
quell'arma. Perchè non facessi nulla di tutto ciò non saprei dirvene
la ragione; certo non fu il ragionamento che me ne trattenne; ma mentre
la mente in quell'istante mi si travagliava in un'attività febbrile, il
corpo era in preda ad un'atonia generale che lo rendeva incapace d'ogni
movimento.
“Quando ebbe percorso tutto il tratto concessogli, Alfredo si fermò e
fece fuoco la seconda volta. La palla mi sfiorò il braccio sinistro,
lacerandomi l'abito e cagionandomi una contusione, che in quel momento
non avvertii neppure.
“Ero salvo! Una specie di gioia feroce si sollevò nell'animo mio, e
nello stesso tempo una rabbia più feroce ancora contro colui che mi
stava a fronte. Dell'antico Alfredo, dell'amico, del compagno, non
vidi più nulla; non vidi più innanzi a me che l'uomo il quale mi aveva
rapito la fama, che mi aveva rapito la donna che amavo, che mi aveva
coperto di contumelie, che aveva tentato adesso adesso alla mia vita,
che mi aveva fatto passare quei crudi eterni momenti d'angoscia; non
vidi più in lui che un nemico odiatissimo.”
XX.
“Alfredo all'infelice esito de' suoi colpi, fece un gesto di dispetto,
gettò via rabbiosamente la seconda pistola e si volse a guardare qua e
là con irrequietezza, quasi spaventato, come per chiedere che cosa gli
rimanesse da fare, per cercare qual via gli si aprisse di scampo. Fu
un baleno. Presto si ricompose, e serrando al petto le braccia, levò
superbamente la fronte verso di me, in atto di fiera aspettazione e di
sfida.
“Io camminai risolutamente verso di lui tutto quel tratto che potevo
percorrere, e quando mi trovai alla distanza di soli dieci passi dalla
sua faccia pallida ma sicura, alzai tutte e due le mani e puntando le
pistole nella direzione del mio avversario, senza mirare altrimenti, le
sparai ambedue d'un colpo.
“Udii un gran grido; e dietro la nube del fumo prodotto dalla
esplosione delle mie armi, vidi barcollare e precipitare a terra
Alfredo.
“I testimoni si slanciarono verso di lui. Io lasciai cadere di mano le
pistole, e mi spinsi innanzi stimolato da un'avida, feroce curiosità;
ma ben tosto, alla vista della fronte insanguinata d'Alfredo, mi
ritrassi inorridito.
“Dietro me, come in risposta a quello del trafitto, suonò un grido
acutissimo, dolorosissimo. Mi volsi. Una donna scarmigliata accorreva
disperatamente.
“Era Albina!
“Il nostro duello aveva destato cotanto l'attenzione della città tutta,
che era stato impossibile l'impedire non ne venisse voce all'orecchio
di lei. Informatasene qua e colà coll'ansia maggiore, turbato forse il
cuore da funesti presentimenti, l'infelice donna era riuscita a sapere
dai servi il luogo e l'ora dello scontro, e, spinta dal suo fatale
destino, arrivava sul terreno, giusto al momento in cui il suo diletto
cadeva al suolo, cadavere.
“Sì, cadavere! Alfredo era morto, e per mia mano! Questa orrenda verità
non tardò ad apparirmi in tutta la sua crudezza, e distrusse tosto
quell'esaltazione di sdegno e d'odio che mi aveva fatto, un momento
prima, volontario assassino.
“Sentii le roventi unghie del rimorso lacerarmi il cuore; ebbi orrore
di me, e mi parve la natura medesima inorridisse al mio cospetto;
credei udirmi suonare all'orecchio, tremenda, la maledizione lanciata
su Caino. Rimasi stupidito, guardando quel cadavere sanguinoso
sull'erba, senza rendermi ben conto della realtà, come se tormentato
dall'incubo d'un sogno penoso, supplicando mentalmente da Dio la grazia
impossibile che non fosse vero quello che era avvenuto, prendendo a
sperare con dissennata lusinga che tutto quanto s'agitava sotto ai miei
occhi non fosse che una illusione da dileguarsi ad un punto.
“L'angoscia disperata d'Albina, che si abbandonava con tanto spasimo
sul corpo dell'uomo da lei supremamente amato, invocando essa stessa
la morte, accresceva in me il pentimento e la coscienza dell'orribile
delitto. Apparivo un mostro a me stesso; e mi dicevo accusatore e
condannatore più severo e inesorabile d'ogni umano tribunale, che avevo
ad una stolta vanità della mia persona sacrificato la preziosa vita
d'un uomo, a cui avevo pure giurato riconoscenza ed affetto eterno.
“Ah! pregate Iddio che tenga da voi lontana la sventura e la colpa di
macchiarvi le mani nel sangue d'uno dei vostri simili. Shakespeare,
per bocca di Macbeth, dice che l'uccisore d'un uomo uccide il proprio
sonno; e ciò è tremendamente vero. Egli uccide insieme la propria
quiete, la propria anima, se non ha cuore di scellerato; sia pure
attenuato dalle circostanze il suo delitto, avesse pure dal suo lato la
giustizia della causa, lo spettro sanguinolento della vittima, qual'ei
la vide raccapricciando nelle ultime convulsioni dell'agonia, gli
apparirà inesorato nelle sue notti maledette.
“Mentre nel mio interno mi assalivano così subite e potenti le torture
del rimorso, di fuori ero sì impietrito che apparivo insensibile. Ai
testimoni di quella orribile scena sembrai peggio che crudele.
“Albina levò un istante gli occhi, e, traverso al velo delle cocenti
lagrime che le ardevano le pupille, mi vide.... Il suo movimento di
ripulsione e d'orrore fu tale che io mi sentii vacillare. Meno grave,
meno dolorosa mi sarebbe stata la più iniqua maledizione lanciatami
dalle sue labbra, anzichè la muta ferocia dello sguardo onde mi saettò.
“I miei padrini si posero fra lei e me; e il principale dei due,
pigliandomi per un braccio, mi disse severamente:
— «Qui non c'è più nulla da fare per noi. Allontaniamoci.»
“Mi lasciai condur via senza dir parola. Allontanato appena di pochi
passi, mi rivolsi a dare un'ultima occhiata a quello spettacolo
tremendo. I padrini d'Alfredo avevano abbandonato il morto, per
soccorrere Albina, cui l'eccesso del dolore aveva tratta fuor di sè.
— «Ella parta:» mi dissero i miei secondi: «noi gli è meglio che
andiamo ad aiutare quelli là nei pietosi uffizi che rimangono a
compiersi.»
“Tornarono indietro. Io mi allontanai solo, a capo chino, la
desolazione nell'animo, inorridito di me stesso, increscioso della
vita, desiderando di poter cambiare la mia con la sorte del mio
avversario, essere io il cadavere, su cui piangesse tali lacrime una
donna amorosa, e si volgesse il comune compianto.”
XXI.
“Non rientrai in città. Presi la prima strada che mi si parò davanti,
e mossi per quella a passo or lento, or concitato, inconscio di me
medesimo, incerto dove io fossi, non sapendo neppure di vivere.
“Mille pensieri si agitavano confusamente nella mia testa, e fra tutti
uno solo, chiaro, spiccato, parea incidermi nel cervello in lettere di
fuoco la parola: ASSASSINO!
“L'anima, del resto, era come intorpidita e le impressioni ne
risultavano vaghe ed incerte, da paragonarsi ad un rumore lontano, cui
ode, ma non distingue bene l'orecchio. Però, di quando in quando, il
dolore ed il rimorso mi davano una nuova stretta, viva e ogni volta
sempre maggiore.
“Andavo, andavo, senza direzione, voglioso di solitudine, bisognoso
di moto, null'altro cercando che di fuggire l'aspetto dell'uomo.
Parevami che stancando il corpo, avrei domato altresì quel turbamento
dell'anima, ognor più fiero.
“Talvolta mi provavo ad affrontare audacemente il mio soffrire.
“Ebbene, sì, mi dicevo, ho ucciso un uomo: ma egli aveva ben voluto
uccider me! Tra lui e me non c'era altra via: o morir lui, o morir io.
Nel caso mio chi non avrebbe agito come me?
“Ma non tardava la coscienza a ribellarsi a questi sofismi. Mi si
drizzava dinanzi l'immagine sanguinosa d'Alfredo, ed allora tutta la
mia audacia svaniva; udivo risuonarmi nell'anima le grida tremende
di lui che moriva, d'Albina che lo vedeva cadere, e un'intima voce mi
diceva disperatamente nell'anima:
— «Meglio tu fossi morto!»
“Esser morto! A un tratto quest'idea s'impadronì di me, e mi pòrse
alcuna sembianza di calma, e mi fece l'effetto, come in ciel nuvoloso
uno di quelli squarci per cui si scorge l'azzurro, come un cenno della
sorte che mi mostrasse, in una regione al di là della tempestosa in cui
mi agitavo, un riparo e un riposo.
“Morto, non sarei stato odiato più, non mi avrebbe più perseguitato la
rabbia degli uomini, mi avrebbe obliato il mondo, _forse_ non sarei
più tormentato da questi spasimi, dall'incertezza dell'avvenire, dal
tumultuare delle passioni, dalla febbre fallace delle speranze, dalla
crudeltà dei disinganni.
“Caddi a terra in ginocchio, e levando le mani e lo sguardo al cielo,
con tutto il trasporto di quella fede che avevo avuta nella mia
infanzia, supplicai da Dio, proprio con tutta l'anima, che lì, subito,
mi facesse morire.
“Ahimè! La era una viltà anche quella. Era la paura di affrontare gli
odii e le condanne del mondo; era la paura di vivere in compagnia del
mio rimorso.
“Quando tornai a casa, era notte scura. Trovai che m'attendeva uno
de' miei secondi, quello che s'era più interessato per me. Mi venne
incontro sollecito, e mi disse vivamente:
— «Ho da parlarle. Entriamo presto in casa.»
“Il duello aveva levato assai rumore in città. Una viva irritazione
si era desta contro di me. Mi accusavano di poca delicatezza e di
troppa ferocia. I fogli della giornata imprecavano al mio nome. La
giustizia non avrebbe mancato di procedere; l'autorità di polizia era
forse per prendere a mio danno uno di quei provvedimenti arbitrarii che
l'assolutismo consentiva allora al governo del mio paese.
“L'idea del carcere mi spaventò.
— «Che mi resta da fare?» domandai con affanno.
— «Fuggire, e tosto:» rispose il padrino.
“Era un lasciar quella vita, venutami oramai insoffribile, era romperla
col mio passato, e ricominciare in altre condizioni un'esistenza
novella. Quest'idea mi arrise.
— «Sì, fuggirò;» esclamai.
— «Subito:» insistè il mio interlocutore: «altrimenti non sarà più
tempo.»
“Una vera smania allora m'assalse d'esser fuori da quelle mura. Feci un
fardelletto di alcune poche mie robe; presi il denaro che avevo, e mi
allontanai di buon passo da quella casa, poi dalla città.
“Il giovane che era venuto ad avvertirmi, volle accompagnarmi un tratto
di strada.
“M'avviai verso le montagne che s'innalzano non molto lontano dalla
mia città natale. Credevo esser colà più sicuro, e non desideravo
d'incontrare figura d'uomo nel mio cammino.
“Alla distanza di circa due chilometri, il pietoso giovane tolse
commiato. Mi chiese dove avevo intenzione di recarmi, ed io gli risposi
non saperlo; ad ogni modo gli promisi glie l'avrei scritto, e lo
ringraziai molto.
“Quando dopo l'ultima stretta di mano, quel mio concittadino si dipartì
da me, io lo seguii collo sguardo per un po' di tempo; e vistolo
sparire fra gli alberi sentii in me stesso che ogni vincolo era rotto
fra me e quella gente e quel mondo.”
XXII.
“Era una stupenda notte, e il più bel chiaro di luna che si possa veder
mai. Mi mossi con passo quasi di corsa su per la salita alla montagna.
La natura era piena di misteriosi sussurri; mille insetti mandavano
lievi suoni indefinibili; stormivano le foglie al venticello notturno,
bisbigliavano con più alto rumore i ruscelli, cantava mestamente
amoroso l'usignuolo, e su tutto ciò regnava una calma, una pace che
avreste detto un silenzio. La quiete esteriore influiva sul tumulto
della mia mente, e lo veniva temperando. Quel desiderio di tranquillità
ignorata cresceva, cresceva in me al contatto di sì profondo riposo
della natura.
“Giunto, dopo parecchie ore di cammino, sopra un culmine, sostai e mi
volsi a guardare indietro. Nella pianura appariva la città, splendente
da lontano co' suoi mille lampioni, come una massa rossigna di fuoco in
mezzo alla campagna, mitemente circonfusa dell'azzurrigno chiaror della
luna.
“Là erano l'agitazione e i tormenti dell'umanità; nella vasta
solitudine dove mi trovavo, la solennità dell'infinito, la sublimità
della natura, più immediata l'opera di Dio, l'oblio e la pace. Mi
pareva d'essermi accostato al seno della gran madre creatrice, e di
ricevere da questa nuova lena e conforto.
“Se io volessi dirvi tutti i pensieri che allora attraversarono la mia
mente, troppo lungo sarebbe, e non lo potrei nemmanco, tanti furono
e sì varii, come quelli che abbracciarono tutto il mio passato e
l'avvenire, e tutte le più ardue questioni della vita e del destino
dell'uomo, e tutto il creato.
“Ero affaticato, debole, sfinito. La notte tepidamente serena
m'invitava al riposo. Mi adagiai al riparo di alcuni alberi, la
fronte volta allo scintillare delle tremolanti stelle, che pareva mi
piovessero una calma soave entro le vene, e un benessere non isperato
mi corse tutte le membra. Passando ancora di fantasia in fantasia, poco
a poco mi addormentai.
“Mi svegliò il primo raggio del sole che spuntava all'orizzonte. Lo
spettacolo dell'aurora mi parve quel dì più sublime di quanto avessi
giudicato mai. Già io sentivo di essere un altr'uomo. M'inginocchiai
in faccia a quel sole che sorgeva nella sua imponenza a manifestare la
grandezza del Creatore, ed adorai.
— «Deh!» pregai dall'intimo dell'anima, «Ch'io viva oscurissimo ed
obliato, ma buono, ma virtuoso, ma non in balía del male.»
“Non chiesi più la morte: domandai la virtù e la pace. Ero guarito.
“Sorsi con una nuova risoluzione, con nuovo coraggio ed una nuova
speranza; e ripresi il cammino. Avevo deciso spogliarmi del mio nome,
delle mie ambizioni, d'ogni folle anelare alla gloria. Rifiutai in quel
momento, e per sempre, il serto del poeta.
“Trovai da rifocillarmi nel tugurio di alcuni contadini e da
provvedermi il nutrimento per tutta la giornata; e senza sapere dove
avrei diretto i miei passi, dove avrei preso stanza dipoi, continuai a
salire pei più scoscesi dirupi.
“Avevo camminato forse un'ora, senza mai incontrare traccia d'uomo,
quando udii innanzi a me, poco lontano, suonare ed echeggiare per le
valli un'esplosione come d'arma da fuoco. Ristetti atterrito, e il mio
primo pensiero fu di fuggire; ma mi rattenni. Pensai che alcuna funesta
avventura poteva aver avuto luogo e una qualche vittima abbisognava
forse di soccorso. Mi affrettai verso quella parte.
“Un cento passi più innanzi, dove la costa della montagna,
incurvandosi, formava una specie di anfiteatro, che pareva fatto
apposta per guardare la magnifica vista della sottostante pianura,
in un verde praticello smaltato di fiori, giaceva bocconi un uomo,
stringendo due pistole tuttavia fumanti.
“Era quello uno dei luoghi più ameni ch'io avessi veduto mai. Le coste
della valletta tutte coperte di faggi: più in alto sulle cime, dritti
come granatieri schierati a battaglia, i severi cipressi; purissimo
il cielo; il sole, che investiva co' suoi raggi gli albereti della
convalle, vi spargeva le tinte più ricche e più piacevoli all'occhio
del riguardante. Pareva una decorazione preparata per un idillio, per
una scena d'amore, non per una luttuosa tragedia.
“Mi accostai al giacente. Egli s'era sparate le armi in viso, e
vidi che orrendamente n'era rimasto malconcio, da non potersene più
riconoscere i tratti. Tepido ancora era il suo corpo; ma da questo
l'anima partitasi per sempre.
“Ristetti a pensare come dovessi regolarmi. Presso di sè il morto
aveva il suo cappello, e dentro questo vidi una carta ripiegata e
sopravi, a tener fermo cappello e carta, un sasso. Esitato appena un
pochino, presi quella carta e la spiegai: erano poche parole, scritte
in inglese, e le lessi con avida curiosità.
“Dicevasi in sostanza, chi s'imbattesse mai in quel cadavere, non
credesse a un assassinio, sibbene a un suicidio, com'era difatti.
Stanco della vita e odiatore degli uomini, straniero a quelle contrade,
voleva l'infelice morire senza essere conosciuto, senza ipocriti
compianti; non dire perciò il suo nome; non si cercasse neppure dei
fatti suoi, che egli se ne veniva da lontano, e aveva voluto che
nessuna traccia rimanesse di lui.
“Io sedetti vicino a quel cadavere; lessi e rilessi più volte quello
scritto e meditai a lungo.
“Ancor io detestavo la vita; anch'io avevo sentito l'animo invaso
dall'odio per gli uomini, e avevo pensato di cercar rifugio tra
le braccia della morte. Ma, per fortuna, il Signore non mi aveva
abbandonato, e nel colmo della disperazione mi aveva pure concesso la
grazia d'un benigno pensiero che mi aveva richiamato alla ragione ed
alla conoscenza dei doveri dell'uomo sulla terra....
“A un tratto un'idea bizzarra, ma potente, mi nacque e s'impadronì di
tutta la mia volontà.
“Io voleva finirla una volta per sempre con quella vita di vanità, di
odii e di colpe; volevo morire a quel mondo futile e corrotto, ipocrita
e scettico, stolido e prepotente, al quale dovevo ogni mio danno e il
decadimento dell'anima mia. Se, a romperla definitivamente, fra esso e
me avessi gettato in mezzo quel cadavere? Se a quello sconosciuto che
voleva rimanere affatto ignorato, avessi dato il mio nome? Se tutto
il mio passato facessi davvero seppellire nella fossa, colla salma di
quell'infelice?
“Le fattezze del volto, guaste dall'esplosione, la statura presso
a poco uguale, permettevano lo scambio. Strappai un foglio dal mio
taccuino e vi scrissi su un ultimo addio alla vita, perdonando a tutti
quelli che mi avevano fatto del male, chiedendo perdono a tutti cui
avessi offeso. Sottoscrissi col mio nome, posai il foglio nel cappello
del morto, e vi posi la pietra sopra. Il suicida non aveva in tasca
nè carte, nè altro: vi misi alcuni oggetti di mia spettanza e qualche
lettera a me diretta. Poscia inginocchiatomi, pregai con fervore per
quel morto e per me. Dopo ciò ritornai alla casa dei contadini, dove
m'ero rifocillato poco prima.
“Dissi loro del morto da me trovato; essi subito accorsero là; ne fu
avvertita la giustizia, si fecero le pratiche che sogliono farsi in
casi simili, e fu posto in sodo che io mi era suicidato.
“Ebbi la debolezza di voler vedere che cosa dicessero i giornali della
mia morte.
“Cessarono le contumelie, ma non cessò l'indifferenza ostile: siccome
lottare, e non nella stupida e brutale prova dell'armi.
“Per miei padrini avevo scelto due giovinotti che in tali faccende
erano peritissimi. Non avevo amici, e costoro accettarono l'incarico,
solamente perchè fra certa gente è usanza che simile uffizio non si
rifiuti mai.
“Era di tarda sera, ed io stava nella mia stanzuccia solo, sprofondato
in quei cotali pensamenti ed affanni, quando essi vennero a dirmi
il risultamento della conferenza coi padrini dell'avversario e le
determinazioni prese d'accordo.
“Erano le seguenti: ci saremmo battuti alla pistola; la distanza
sarebbe stata di trenta passi, libero a ciascuno dei combattenti
d'avanzarsi di dieci; si avrebbero due pistole ciascuno; ad un segno
fatto potevamo camminare l'uno verso l'altro e sparare quando ci
talentasse; fatti i quattro colpi senza che sangue fosse versato,
potevasi ricominciare da capo. Le condizioni erano gravi, come gravi
erano state le scambiateci offese. Alfredo le aveva volute tali; ed io
dissi con sicuro sembiante che le mi piacevano.
— «Le conseguenze di questo scontro» dissemi poi uno dei padrini,
«possono essere serissime. Ci ha ella pensato, ed ha provvisto alle
cose sue?»
— «Io non ho nulla a cui provvedere,» risposi. «Sono solo sulla terra,
e non lascio persona che mi pianga,»
“Venne a serrarmi la gola un singhiozzo che ebbi molta pena a soffocare.
— «Questo duello ha destato molto l'attenzione di tutta la
cittadinanza,» riprese quel medesimo dei miei secondi: «e non potrà a
meno di eccitare i provvedimenti della giustizia. Quando ci fosse morte
d'uomo, sarebbe meglio al vincitore il fuggire. Si è Ella preparato a
codesto?»
“Io vi parlo schietto, come parlerei a Dio il dì del giudizio
universale. Non ho più rispetti umani, non ho più vanità personali, non
ho più interesse nè desiderio d'infingermi.
“A quel cenno che uno dei due molto facilmente sarebbe rimasto sul
campo, mi sentii raccapricciare. Volli fare un sorriso d'indifferenza
o di rassegnazione, e sono certo che non riuscii che ad una smorfia
affettata.
— «Non penso» diss'io «che a me toccherà lasciar il paese per questa
cagione. Se uno dei due avrà da tornar cadavere, ho il presentimento
che quello non sarà il mio avversario.»
— «L'esito di questa sorta di cose è sempre nelle mani del caso:»
disse quell'altro: «e forse non avevano affatto torto gli antichi che
chiamavano il duello giudizio di Dio!.... Non le nascondo che Alfredo
è buon tiratore; ma quante volte si è visto in simili scontri avere il
di sopra i più inesperti! Non bisogna andare sul terreno colla paura;
questo è il più essenziale. Stia dunque di buon animo, e ci aspetti qui
domattina, che all'ora convenuta verremo a prenderla.»
“Quindi s'avviarono. Io li accompagnai sino al pianerottolo, a
rischiarare loro il cammino. La fiamma della mia lucernetta oscillava
troppo più che non avrei voluto. Quando furono giunti alla scala, tesi
loro la mano, augurando la buona notte. Quegli che aveva parlato, e che
pareva aver posto maggiore interesse nella faccenda, sentì tremar nella
sua la mia destra; tornò indietro alcuni passi, e stringendomi forte la
mano che non aveva abbandonata e parlandomi sommesso, mi disse:
— «Coraggio! che diamine!.... Un uomo come lei, ha da mancare di
risoluzione?»
“Fu punto in me l'amor proprio, e riagì subitamente:
— «No;» risposi con ferma la voce e l'aspetto: «non dubiti. Avrò
coraggio; ne ho.»
“Ma quella fu davvero una tristissima notte. Mi parve lunga e breve;
l'avrei voluta eterna, e sollecitavo con impazienza le ore.... All'alba
sentii finalmente giungere e fermarsi in istrada la carrozza con cui
i miei padrini venivano a prendermi. Mi guardai allo specchio. Ero
pallido molto, cogli occhi infossati e le occhiaie livide; mi percossi
dispettosamente le guancie, e precipitoso scesi le scale.
— «Ha ella dormito?» mi chiese quello dei due che mi aveva incoraggiato
la sera innanzi.
“La vanità mi diede l'audacia di mentire.
— «Sì;» risposi: «parecchie ore.» — Non so s'egli mi credesse, ma lo
finse.
— «Meglio:» esclamò, facendomi salire nella carrozza.
“Questa partì di buon trotto e presto fummo fuori della città.
Cammin facendo i padrini venivano dandomi consigli e istruzioni sul
come dovevo contenermi; annuivo alle loro parole, ma non potevo ben
comprendere quel che dicevano: la testa mi suonava così che parevami
udir continuo un rumor cupo di voci lontane: non avevo del tutto la
coscienza di me medesimo e de' fatti miei; mi pareva che quello fosse
un sogno, che si trattasse di un altro, che io mi trovassi lì soltanto
per assistere spettatore indifferente ad una tragedia che non mi
riguardasse. Poi a un tratto saltava fuori, in mezzo alla confusione
della mia mente, questa tremenda interrogazione: — Fra un'ora sarò io
vivo?”
XIX.
“Giungemmo finalmente al luogo del convegno. Il mio avversario e i suoi
secondi già erano ad aspettarmi. Ci salutammo gravemente, e mentre i
padrini si accostavano a parlar tra loro, noi duellanti stemmo soli in
disparte, lontani l'uno dall'altro, guardandoci così alla sfuggita.
“Alfredo era un po' più pallido del solito nel volto; ma il suo
contegno aveva tanta fierezza, tanta disdegnosa indifferenza, che
me ne sentii umiliato, e feci ogni sforzo per imitarlo. Egli fumava
tranquillamente il suo sigaro, e mirava con lieto sguardo la bellezza
della mattinata splendida per un magnifico levar di sole. Eravamo nei
più bei giorni della state, e la natura non era mai sembrata tanto
maravigliosa ai miei occhi. Fra le frondi indorate dal sole cantavano
allegramente gli augelletti. Tutto era vita, tutto era giovinezza
intorno a noi.
“Il mio avversario era più bello, più fiero e superbo che non l'avessi
visto mai. Coll'eleganza e coll'avvenenza sembrava dominare tutti noi,
e me specialmente suo nemico, cui la sorte aveva voluto dare tanta
meschinità di corpo e di apparenze. Se un estraneo, senza nulla sapere
delle cagioni della nostra contesa, fosse capitato lì in quel punto,
io non dubito avrebbe detto, solamente esaminando i combattenti, che
Alfredo sarebbe stato il vincitore e che dalla parte di lui era la
ragione.
“I padrini ci appostarono alla distanza determinata, ci diedero
le pistole, e poichè si furono ritirati a destra e a sinistra, a
convenevole lontananza, uno di essi si levò il cappello e facendo un
atto solenne di saluto, pronunziò a voce chiara e vibrante:
— «Avanti signori!»
“Guardai Alfredo. Tutto vestito di scuro, la sua leggiadra testa
spiccava maggiormente pel pallore che gli copriva le guancie. Il veder
codesta pallidezza, un certo tremito che mi parve scorgere nella sua
mano e una velatura che gli appannava il brillar degli sguardi, non so
perchè, diedero a me sicurezza e sangue freddo. Poi sentivo sulla mia
persona lo sguardo di altre quattro persone, che rappresentavano tutta
la città, tutto il mondo per me.
“S'io ho da cadere, pensai, almeno ch'io cada senza che alcuno
abbia diritto di accusare la mia memoria del torto che la società
maggiormente disprezza, e non perdona mai: la paura.
“Ma vedete stranezza! Nel guardare Alfredo, io dimenticava il presente,
per non ricordarmi che del passato; vedevo il collegio, i primi anni
della giovinezza; e sentivo un tumulto di affetti invadermi l'animo e
una subita tenerezza commovermi al punto che di subito pensai gettare
le pistole e correre a braccia aperte verso di lui, esclamando:
— «Tu sei il mio diletto, tu sei il mio fratello. È egli possibile che
io attenti alla tua vita?»
“Il veder me parve eccitare invece ben altri sentimenti ad Alfredo;
poichè i suoi occhi fissandosi ne' miei, perdettero quella nebbia che
li offuscava e brillarono d'una luce piena d'odio mortale.
“Il mio avversario si avanzò vivamente tre quattro passi, tenendo tesa
una pistola colla mira a me rivolta, poi si fermò. Io non mi mossi;
ed avevo le braccia abbandonate lungo la persona, stando là come
smemorato, incerto ancora di quello che avessi da fare. Alfredo parve
esitare un istante: non furono che pochi secondi, ma a me parvero un
tempo smisurato.
“Mi ucciderà! pensavo. A momenti sarà finita per me.... finita per
sempre!.... Morto? Morto io? Dio, Dio, puoi tu permetterlo?.... Ah!
la morte è tremenda!.... Ciascuno ha pur diritto alla vita.... Io l'ho
bene, come qualunque altro, questo sacrosanto diritto.... Dio, Dio, mi
ti raccomando!
“Tutto questo, ratto, simultaneo, vertiginoso; mi passò perfino pel
capo l'idea di scappare; ma sentii nello stesso tempo che non l'avrei
nemmeno potuto.
“A un tratto un guizzo di fuoco scattò da quell'arma che si circondò
di fumo; rimbombò un colpo, e io sentii presso l'orecchio sinistro
il fischio della palla. Diedi una scossa, il sangue mi fece un tuffo
e parve di botto precipitarmisi tutto al cuore, poscia risalire
tumultuosamente al cervello: ma, nel montarvici, conduceva seco tal
ira, molto presso a cambiarsi in furore.
“I padrini si mossero come per avvicinarmisi; feci loro segno
ristessero.
“Alfredo gettò via la pistola vuota e ratto scambiò dalla mano sinistra
alla destra quella che aveva ancor carica. Ero stranamente calmo a
quel punto; ma ogni sentimento benevolo era svanito dal mio cuore.
Cominciavo a sentire alcuna cosa che rassomigliava all'attrattiva
della lotta. Alzai la destra armata, come per toglier la mira; il mio
avversario si volse subitamente di fianco; ma, cambiando pensiero,
lasciai ricadere il braccio. Allora Alfredo prese ad avanzarsi di nuovo
verso di me; ma questa volta cauto e lento, non presentandomi mai che
la minor possibile superficie del suo profilo, la pistola tesa innanzi
a sè, mirandomi più basso a mezzo il petto.
“Una strana irritazione s'impadroniva di me nel vedere codesta
prolungata minaccia. Fui per gridare facesse presto; pensai sparargli
contro a un tratto le mie due pistole, come si farebbe ad una fiera che
camminasse verso di noi; fui per lanciarmigli addosso a strappargli
quell'arma. Perchè non facessi nulla di tutto ciò non saprei dirvene
la ragione; certo non fu il ragionamento che me ne trattenne; ma mentre
la mente in quell'istante mi si travagliava in un'attività febbrile, il
corpo era in preda ad un'atonia generale che lo rendeva incapace d'ogni
movimento.
“Quando ebbe percorso tutto il tratto concessogli, Alfredo si fermò e
fece fuoco la seconda volta. La palla mi sfiorò il braccio sinistro,
lacerandomi l'abito e cagionandomi una contusione, che in quel momento
non avvertii neppure.
“Ero salvo! Una specie di gioia feroce si sollevò nell'animo mio, e
nello stesso tempo una rabbia più feroce ancora contro colui che mi
stava a fronte. Dell'antico Alfredo, dell'amico, del compagno, non
vidi più nulla; non vidi più innanzi a me che l'uomo il quale mi aveva
rapito la fama, che mi aveva rapito la donna che amavo, che mi aveva
coperto di contumelie, che aveva tentato adesso adesso alla mia vita,
che mi aveva fatto passare quei crudi eterni momenti d'angoscia; non
vidi più in lui che un nemico odiatissimo.”
XX.
“Alfredo all'infelice esito de' suoi colpi, fece un gesto di dispetto,
gettò via rabbiosamente la seconda pistola e si volse a guardare qua e
là con irrequietezza, quasi spaventato, come per chiedere che cosa gli
rimanesse da fare, per cercare qual via gli si aprisse di scampo. Fu
un baleno. Presto si ricompose, e serrando al petto le braccia, levò
superbamente la fronte verso di me, in atto di fiera aspettazione e di
sfida.
“Io camminai risolutamente verso di lui tutto quel tratto che potevo
percorrere, e quando mi trovai alla distanza di soli dieci passi dalla
sua faccia pallida ma sicura, alzai tutte e due le mani e puntando le
pistole nella direzione del mio avversario, senza mirare altrimenti, le
sparai ambedue d'un colpo.
“Udii un gran grido; e dietro la nube del fumo prodotto dalla
esplosione delle mie armi, vidi barcollare e precipitare a terra
Alfredo.
“I testimoni si slanciarono verso di lui. Io lasciai cadere di mano le
pistole, e mi spinsi innanzi stimolato da un'avida, feroce curiosità;
ma ben tosto, alla vista della fronte insanguinata d'Alfredo, mi
ritrassi inorridito.
“Dietro me, come in risposta a quello del trafitto, suonò un grido
acutissimo, dolorosissimo. Mi volsi. Una donna scarmigliata accorreva
disperatamente.
“Era Albina!
“Il nostro duello aveva destato cotanto l'attenzione della città tutta,
che era stato impossibile l'impedire non ne venisse voce all'orecchio
di lei. Informatasene qua e colà coll'ansia maggiore, turbato forse il
cuore da funesti presentimenti, l'infelice donna era riuscita a sapere
dai servi il luogo e l'ora dello scontro, e, spinta dal suo fatale
destino, arrivava sul terreno, giusto al momento in cui il suo diletto
cadeva al suolo, cadavere.
“Sì, cadavere! Alfredo era morto, e per mia mano! Questa orrenda verità
non tardò ad apparirmi in tutta la sua crudezza, e distrusse tosto
quell'esaltazione di sdegno e d'odio che mi aveva fatto, un momento
prima, volontario assassino.
“Sentii le roventi unghie del rimorso lacerarmi il cuore; ebbi orrore
di me, e mi parve la natura medesima inorridisse al mio cospetto;
credei udirmi suonare all'orecchio, tremenda, la maledizione lanciata
su Caino. Rimasi stupidito, guardando quel cadavere sanguinoso
sull'erba, senza rendermi ben conto della realtà, come se tormentato
dall'incubo d'un sogno penoso, supplicando mentalmente da Dio la grazia
impossibile che non fosse vero quello che era avvenuto, prendendo a
sperare con dissennata lusinga che tutto quanto s'agitava sotto ai miei
occhi non fosse che una illusione da dileguarsi ad un punto.
“L'angoscia disperata d'Albina, che si abbandonava con tanto spasimo
sul corpo dell'uomo da lei supremamente amato, invocando essa stessa
la morte, accresceva in me il pentimento e la coscienza dell'orribile
delitto. Apparivo un mostro a me stesso; e mi dicevo accusatore e
condannatore più severo e inesorabile d'ogni umano tribunale, che avevo
ad una stolta vanità della mia persona sacrificato la preziosa vita
d'un uomo, a cui avevo pure giurato riconoscenza ed affetto eterno.
“Ah! pregate Iddio che tenga da voi lontana la sventura e la colpa di
macchiarvi le mani nel sangue d'uno dei vostri simili. Shakespeare,
per bocca di Macbeth, dice che l'uccisore d'un uomo uccide il proprio
sonno; e ciò è tremendamente vero. Egli uccide insieme la propria
quiete, la propria anima, se non ha cuore di scellerato; sia pure
attenuato dalle circostanze il suo delitto, avesse pure dal suo lato la
giustizia della causa, lo spettro sanguinolento della vittima, qual'ei
la vide raccapricciando nelle ultime convulsioni dell'agonia, gli
apparirà inesorato nelle sue notti maledette.
“Mentre nel mio interno mi assalivano così subite e potenti le torture
del rimorso, di fuori ero sì impietrito che apparivo insensibile. Ai
testimoni di quella orribile scena sembrai peggio che crudele.
“Albina levò un istante gli occhi, e, traverso al velo delle cocenti
lagrime che le ardevano le pupille, mi vide.... Il suo movimento di
ripulsione e d'orrore fu tale che io mi sentii vacillare. Meno grave,
meno dolorosa mi sarebbe stata la più iniqua maledizione lanciatami
dalle sue labbra, anzichè la muta ferocia dello sguardo onde mi saettò.
“I miei padrini si posero fra lei e me; e il principale dei due,
pigliandomi per un braccio, mi disse severamente:
— «Qui non c'è più nulla da fare per noi. Allontaniamoci.»
“Mi lasciai condur via senza dir parola. Allontanato appena di pochi
passi, mi rivolsi a dare un'ultima occhiata a quello spettacolo
tremendo. I padrini d'Alfredo avevano abbandonato il morto, per
soccorrere Albina, cui l'eccesso del dolore aveva tratta fuor di sè.
— «Ella parta:» mi dissero i miei secondi: «noi gli è meglio che
andiamo ad aiutare quelli là nei pietosi uffizi che rimangono a
compiersi.»
“Tornarono indietro. Io mi allontanai solo, a capo chino, la
desolazione nell'animo, inorridito di me stesso, increscioso della
vita, desiderando di poter cambiare la mia con la sorte del mio
avversario, essere io il cadavere, su cui piangesse tali lacrime una
donna amorosa, e si volgesse il comune compianto.”
XXI.
“Non rientrai in città. Presi la prima strada che mi si parò davanti,
e mossi per quella a passo or lento, or concitato, inconscio di me
medesimo, incerto dove io fossi, non sapendo neppure di vivere.
“Mille pensieri si agitavano confusamente nella mia testa, e fra tutti
uno solo, chiaro, spiccato, parea incidermi nel cervello in lettere di
fuoco la parola: ASSASSINO!
“L'anima, del resto, era come intorpidita e le impressioni ne
risultavano vaghe ed incerte, da paragonarsi ad un rumore lontano, cui
ode, ma non distingue bene l'orecchio. Però, di quando in quando, il
dolore ed il rimorso mi davano una nuova stretta, viva e ogni volta
sempre maggiore.
“Andavo, andavo, senza direzione, voglioso di solitudine, bisognoso
di moto, null'altro cercando che di fuggire l'aspetto dell'uomo.
Parevami che stancando il corpo, avrei domato altresì quel turbamento
dell'anima, ognor più fiero.
“Talvolta mi provavo ad affrontare audacemente il mio soffrire.
“Ebbene, sì, mi dicevo, ho ucciso un uomo: ma egli aveva ben voluto
uccider me! Tra lui e me non c'era altra via: o morir lui, o morir io.
Nel caso mio chi non avrebbe agito come me?
“Ma non tardava la coscienza a ribellarsi a questi sofismi. Mi si
drizzava dinanzi l'immagine sanguinosa d'Alfredo, ed allora tutta la
mia audacia svaniva; udivo risuonarmi nell'anima le grida tremende
di lui che moriva, d'Albina che lo vedeva cadere, e un'intima voce mi
diceva disperatamente nell'anima:
— «Meglio tu fossi morto!»
“Esser morto! A un tratto quest'idea s'impadronì di me, e mi pòrse
alcuna sembianza di calma, e mi fece l'effetto, come in ciel nuvoloso
uno di quelli squarci per cui si scorge l'azzurro, come un cenno della
sorte che mi mostrasse, in una regione al di là della tempestosa in cui
mi agitavo, un riparo e un riposo.
“Morto, non sarei stato odiato più, non mi avrebbe più perseguitato la
rabbia degli uomini, mi avrebbe obliato il mondo, _forse_ non sarei
più tormentato da questi spasimi, dall'incertezza dell'avvenire, dal
tumultuare delle passioni, dalla febbre fallace delle speranze, dalla
crudeltà dei disinganni.
“Caddi a terra in ginocchio, e levando le mani e lo sguardo al cielo,
con tutto il trasporto di quella fede che avevo avuta nella mia
infanzia, supplicai da Dio, proprio con tutta l'anima, che lì, subito,
mi facesse morire.
“Ahimè! La era una viltà anche quella. Era la paura di affrontare gli
odii e le condanne del mondo; era la paura di vivere in compagnia del
mio rimorso.
“Quando tornai a casa, era notte scura. Trovai che m'attendeva uno
de' miei secondi, quello che s'era più interessato per me. Mi venne
incontro sollecito, e mi disse vivamente:
— «Ho da parlarle. Entriamo presto in casa.»
“Il duello aveva levato assai rumore in città. Una viva irritazione
si era desta contro di me. Mi accusavano di poca delicatezza e di
troppa ferocia. I fogli della giornata imprecavano al mio nome. La
giustizia non avrebbe mancato di procedere; l'autorità di polizia era
forse per prendere a mio danno uno di quei provvedimenti arbitrarii che
l'assolutismo consentiva allora al governo del mio paese.
“L'idea del carcere mi spaventò.
— «Che mi resta da fare?» domandai con affanno.
— «Fuggire, e tosto:» rispose il padrino.
“Era un lasciar quella vita, venutami oramai insoffribile, era romperla
col mio passato, e ricominciare in altre condizioni un'esistenza
novella. Quest'idea mi arrise.
— «Sì, fuggirò;» esclamai.
— «Subito:» insistè il mio interlocutore: «altrimenti non sarà più
tempo.»
“Una vera smania allora m'assalse d'esser fuori da quelle mura. Feci un
fardelletto di alcune poche mie robe; presi il denaro che avevo, e mi
allontanai di buon passo da quella casa, poi dalla città.
“Il giovane che era venuto ad avvertirmi, volle accompagnarmi un tratto
di strada.
“M'avviai verso le montagne che s'innalzano non molto lontano dalla
mia città natale. Credevo esser colà più sicuro, e non desideravo
d'incontrare figura d'uomo nel mio cammino.
“Alla distanza di circa due chilometri, il pietoso giovane tolse
commiato. Mi chiese dove avevo intenzione di recarmi, ed io gli risposi
non saperlo; ad ogni modo gli promisi glie l'avrei scritto, e lo
ringraziai molto.
“Quando dopo l'ultima stretta di mano, quel mio concittadino si dipartì
da me, io lo seguii collo sguardo per un po' di tempo; e vistolo
sparire fra gli alberi sentii in me stesso che ogni vincolo era rotto
fra me e quella gente e quel mondo.”
XXII.
“Era una stupenda notte, e il più bel chiaro di luna che si possa veder
mai. Mi mossi con passo quasi di corsa su per la salita alla montagna.
La natura era piena di misteriosi sussurri; mille insetti mandavano
lievi suoni indefinibili; stormivano le foglie al venticello notturno,
bisbigliavano con più alto rumore i ruscelli, cantava mestamente
amoroso l'usignuolo, e su tutto ciò regnava una calma, una pace che
avreste detto un silenzio. La quiete esteriore influiva sul tumulto
della mia mente, e lo veniva temperando. Quel desiderio di tranquillità
ignorata cresceva, cresceva in me al contatto di sì profondo riposo
della natura.
“Giunto, dopo parecchie ore di cammino, sopra un culmine, sostai e mi
volsi a guardare indietro. Nella pianura appariva la città, splendente
da lontano co' suoi mille lampioni, come una massa rossigna di fuoco in
mezzo alla campagna, mitemente circonfusa dell'azzurrigno chiaror della
luna.
“Là erano l'agitazione e i tormenti dell'umanità; nella vasta
solitudine dove mi trovavo, la solennità dell'infinito, la sublimità
della natura, più immediata l'opera di Dio, l'oblio e la pace. Mi
pareva d'essermi accostato al seno della gran madre creatrice, e di
ricevere da questa nuova lena e conforto.
“Se io volessi dirvi tutti i pensieri che allora attraversarono la mia
mente, troppo lungo sarebbe, e non lo potrei nemmanco, tanti furono
e sì varii, come quelli che abbracciarono tutto il mio passato e
l'avvenire, e tutte le più ardue questioni della vita e del destino
dell'uomo, e tutto il creato.
“Ero affaticato, debole, sfinito. La notte tepidamente serena
m'invitava al riposo. Mi adagiai al riparo di alcuni alberi, la
fronte volta allo scintillare delle tremolanti stelle, che pareva mi
piovessero una calma soave entro le vene, e un benessere non isperato
mi corse tutte le membra. Passando ancora di fantasia in fantasia, poco
a poco mi addormentai.
“Mi svegliò il primo raggio del sole che spuntava all'orizzonte. Lo
spettacolo dell'aurora mi parve quel dì più sublime di quanto avessi
giudicato mai. Già io sentivo di essere un altr'uomo. M'inginocchiai
in faccia a quel sole che sorgeva nella sua imponenza a manifestare la
grandezza del Creatore, ed adorai.
— «Deh!» pregai dall'intimo dell'anima, «Ch'io viva oscurissimo ed
obliato, ma buono, ma virtuoso, ma non in balía del male.»
“Non chiesi più la morte: domandai la virtù e la pace. Ero guarito.
“Sorsi con una nuova risoluzione, con nuovo coraggio ed una nuova
speranza; e ripresi il cammino. Avevo deciso spogliarmi del mio nome,
delle mie ambizioni, d'ogni folle anelare alla gloria. Rifiutai in quel
momento, e per sempre, il serto del poeta.
“Trovai da rifocillarmi nel tugurio di alcuni contadini e da
provvedermi il nutrimento per tutta la giornata; e senza sapere dove
avrei diretto i miei passi, dove avrei preso stanza dipoi, continuai a
salire pei più scoscesi dirupi.
“Avevo camminato forse un'ora, senza mai incontrare traccia d'uomo,
quando udii innanzi a me, poco lontano, suonare ed echeggiare per le
valli un'esplosione come d'arma da fuoco. Ristetti atterrito, e il mio
primo pensiero fu di fuggire; ma mi rattenni. Pensai che alcuna funesta
avventura poteva aver avuto luogo e una qualche vittima abbisognava
forse di soccorso. Mi affrettai verso quella parte.
“Un cento passi più innanzi, dove la costa della montagna,
incurvandosi, formava una specie di anfiteatro, che pareva fatto
apposta per guardare la magnifica vista della sottostante pianura,
in un verde praticello smaltato di fiori, giaceva bocconi un uomo,
stringendo due pistole tuttavia fumanti.
“Era quello uno dei luoghi più ameni ch'io avessi veduto mai. Le coste
della valletta tutte coperte di faggi: più in alto sulle cime, dritti
come granatieri schierati a battaglia, i severi cipressi; purissimo
il cielo; il sole, che investiva co' suoi raggi gli albereti della
convalle, vi spargeva le tinte più ricche e più piacevoli all'occhio
del riguardante. Pareva una decorazione preparata per un idillio, per
una scena d'amore, non per una luttuosa tragedia.
“Mi accostai al giacente. Egli s'era sparate le armi in viso, e
vidi che orrendamente n'era rimasto malconcio, da non potersene più
riconoscere i tratti. Tepido ancora era il suo corpo; ma da questo
l'anima partitasi per sempre.
“Ristetti a pensare come dovessi regolarmi. Presso di sè il morto
aveva il suo cappello, e dentro questo vidi una carta ripiegata e
sopravi, a tener fermo cappello e carta, un sasso. Esitato appena un
pochino, presi quella carta e la spiegai: erano poche parole, scritte
in inglese, e le lessi con avida curiosità.
“Dicevasi in sostanza, chi s'imbattesse mai in quel cadavere, non
credesse a un assassinio, sibbene a un suicidio, com'era difatti.
Stanco della vita e odiatore degli uomini, straniero a quelle contrade,
voleva l'infelice morire senza essere conosciuto, senza ipocriti
compianti; non dire perciò il suo nome; non si cercasse neppure dei
fatti suoi, che egli se ne veniva da lontano, e aveva voluto che
nessuna traccia rimanesse di lui.
“Io sedetti vicino a quel cadavere; lessi e rilessi più volte quello
scritto e meditai a lungo.
“Ancor io detestavo la vita; anch'io avevo sentito l'animo invaso
dall'odio per gli uomini, e avevo pensato di cercar rifugio tra
le braccia della morte. Ma, per fortuna, il Signore non mi aveva
abbandonato, e nel colmo della disperazione mi aveva pure concesso la
grazia d'un benigno pensiero che mi aveva richiamato alla ragione ed
alla conoscenza dei doveri dell'uomo sulla terra....
“A un tratto un'idea bizzarra, ma potente, mi nacque e s'impadronì di
tutta la mia volontà.
“Io voleva finirla una volta per sempre con quella vita di vanità, di
odii e di colpe; volevo morire a quel mondo futile e corrotto, ipocrita
e scettico, stolido e prepotente, al quale dovevo ogni mio danno e il
decadimento dell'anima mia. Se, a romperla definitivamente, fra esso e
me avessi gettato in mezzo quel cadavere? Se a quello sconosciuto che
voleva rimanere affatto ignorato, avessi dato il mio nome? Se tutto
il mio passato facessi davvero seppellire nella fossa, colla salma di
quell'infelice?
“Le fattezze del volto, guaste dall'esplosione, la statura presso
a poco uguale, permettevano lo scambio. Strappai un foglio dal mio
taccuino e vi scrissi su un ultimo addio alla vita, perdonando a tutti
quelli che mi avevano fatto del male, chiedendo perdono a tutti cui
avessi offeso. Sottoscrissi col mio nome, posai il foglio nel cappello
del morto, e vi posi la pietra sopra. Il suicida non aveva in tasca
nè carte, nè altro: vi misi alcuni oggetti di mia spettanza e qualche
lettera a me diretta. Poscia inginocchiatomi, pregai con fervore per
quel morto e per me. Dopo ciò ritornai alla casa dei contadini, dove
m'ero rifocillato poco prima.
“Dissi loro del morto da me trovato; essi subito accorsero là; ne fu
avvertita la giustizia, si fecero le pratiche che sogliono farsi in
casi simili, e fu posto in sodo che io mi era suicidato.
“Ebbi la debolezza di voler vedere che cosa dicessero i giornali della
mia morte.
“Cessarono le contumelie, ma non cessò l'indifferenza ostile: siccome
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