Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 07
feci padrone dell'anima mia, il mio esemplare, il mio idolo!.. Quanto
io lo abbia amato nessuno lo seppe, nè anch'egli..... Eppure io stesso
doveva.... io stesso!....”
Si coprì colle mani la faccia e stette lì muto alcuni minuti, ma
singhiozzava penosamente. Poscia si lasciò cadere abbandonatamente sur
una seggiola a me dappresso, e, mostrandomi il volto sconvolto da una
profonda e viva angoscia, riprese con voce debole e sommessa:
“Egli era bello, robusto, ardito ad ogni esercizio di corpo, ad ogni
audacia atto e valente. Pietà lo prese di questo scimmiotto che era
la vittima di tutti. Sotto la protezione della sua forza io conobbi un
po' di pace. Lo ricompensavo, facendo tutti i suoi compiti ed amandolo
come si amerebbe l'incarnazione del buono e del bello sulla terra. Ero
suo schiavo. M'avesse detto: «gettati da questa finestra,» vi giuro che
l'avrei fatto.
“Fuor del collegio i medesimi scherni e le medesime vergogne, meglio
coperte dalla vernice della cortesia ma non meno maligne e spietate;
e da queste non poteva più, come prima, difendermi quel tale che io
amava sempre con tutta la potenza dell'anima mia.... Non poteva, e più
ancora non voleva più.... Esso non mi aveva amato mai: era stata una
sprezzante compassione la sua. Quando nella debole creatura, ch'egli
aveva difeso, avvertì un'intelligenza superiore alla sua, mi odiò.
“Col giungere dell'adolescenza anche in me erano nate nuove e
indefinite aspirazioni: quelle tormentose e gradite aspirazioni
che inconsciamente spingono l'anima verso l'ideale e sollecitano e
addestrano alla grandezza l'ingegno predestinato. Ero stupito e confuso
di me medesimo, non mi riconoscevo più. Stimatomi io stesso fino allora
l'ultima fra le creature viventi, mi sentivo delle vampe superbissime
d'una eccelsa ambizione. Me ne vergognavo, nascondevo accuratamente nel
mio timido silenzio tali accessi di pazzia; avrei voluto dissimularli
anche a me stesso. Ma nei miei sogni pertinacemente tormentosi, mi
appariva la felicità seducente del sorriso, non solo della bellezza,
ma della gloria. Un giorno scoppiò in me l'ispirazione come un fulmine;
quasi per un lampo, mi vidi a un tratto illuminato l'esser mio e il mio
destino, e scoperto il segreto delle mie angosce mentali. Ero poeta!
“Poeta! Re della terra, re del pensiero! Favorito da Dio d'una favilla
uguale alla sua luce divina; sentendo nel proprio essere più vasta
l'orma del suo spirito creatore; capace di padroneggiare il mondo
dell'ideale, di apprendere il sovraintelligibile, di accostarsi al
miracolo della creazione! Essere infimo, debole, il più dispregiato
degli uomini e conoscersi degno della più splendida corona! Comprendete
voi quali intime esaltazioni e quali segreti affanni, quali inquiete
lusinghe e quali terribili accasciamenti mi si avvicendassero e
turbassero l'anima nella mia oscura giovinezza?...
“Oh i miei primi versi!... Erano l'esplosione d'un delirio d'amore,
erano il poema della gioia amorosa della vita, erano il misterioso
canto della natura tradotto in armonia di parole, in palpiti di
cuore umano. Che cosa non avrei dato per potere ad un tratto farli
suonare potenti all'orecchio del mondo, e comparire innanzi ai miei
concittadini cinto di quella splendida luce di poesia che mi sentivo
nell'intelletto e nel cuore? Eppure avevo vergogna di me e dell'opera
mia; e la nascondevo agli sguardi di tutti colla cura con cui si
nascondono le traccie d'un delitto. Se il mondo avesse mai risposto
colla beffa a quel vero sangue mio sgorgatomi dall'anima? Guai! Li
amavo tanto quei poveri versi!...
“Amavo!... Oh non amavo soltanto lo sfogo del mio cuore, non amavo
soltanto l'amico mio... Amavo una fanciulla fieramente leggiadra come
un superbo fiore di stufa signorile. Aveva ella tutto in suo favore:
potenza conquistatrice di bellezza, nobiltà di natali, ricchezza di
fortune, felicità d'ingegno. Era una seduzione il vederla, una malìa,
un incanto, un'ebbrezza l'avvicinarla, l'udirla, il riceverne la fiamma
dello sguardo. E l'amavo... io povero, io meschino, io di sì brutte
forme!
“Era per lei che godevo d'esser poeta; era innanzi a lei che volevo
presentarmi cinto dei raggi della gloria; era ai suoi piedi che ambivo
deporre la mia corona d'alloro non ancor conquistata.
“Avevo letto di quella tale principessa che baciò sulla bocca il gobbo
poeta addormentato, per le dolci cose che uscivano da quelle labbra;
sognavo che di me pure la sublime armonia del canto facesse obliare la
meschinità della persona.
“Così non poteva durare. Deliberai aprire il mio animo a quell'unico
amico che avessi.
“Alfredo mi sfuggiva, pareva quasi vergognarsi di me; sempre più
avvenente, audace, temuto da ogni competitore pel valor suo, desiderato
in tutti i salotti per la sua piacevolezza, primo in tutto ciò che
imprendesse e in ogni dove comparisse, cavalcatore esperto come nessun
altro meglio; Alfredo godeva nel mondo i più invidiabili successi.
“Suonava con arte e sentimento, componeva romanze, ballabili e melodie
che le signore eseguivano con diletto nelle serate invernali; scriveva
gaie leggerezze su pei giornali e molli versettini negli _Album_ delle
dame, che gli valevano una certa gloriola di letterato e il titolo
d'_uomo di spirito_, cui egli si confermava mercè una cara franchezza
e subitaneità di motti e di rimbeccate. Era uno di quegli ingegni che
riescono in ogni cosa a cui s'accingano, ma ai quali la deplorabile
facilità impedisce di nulla mai approfondire.
“Io gli svelai in una i miei due eccelsi amori: quello alla Musa e
quello alla mia donna. Gli dissi vivere oramai per quelli soltanto;
esser quelli la mia ultima ragione, la luce che m'illuminava il
pensiero, lo scopo di tutto.
“Sorrise, scherzò dapprima, di poi il mio ardore parve colpirlo, il mio
entusiasmo apprendersi anche a lui; tacque per un poco, divenne serio,
anche i suoi occhi lampeggiarono; sollevò la fronte e la scosse superbo
come per dire: «ancor io, e forse più, sono degno di tanto.» Mi recitò,
declamando alcune delle sue ballate; trovò freddi gli elogi ch'io glie
ne faceva. Tentò cambiar discorso; pareva inquieto e malvoglioso; ad un
tratto chiese di poter leggere i miei versi: tremando glie li affidai,
e se ne partì con essi.
“Stette più giorni senza farsi vedere. Avrei voluto andare in casa di
lui, e non osavo. Venne finalmente una sera da me. Dalla finestra, che
guardava verso l'occaso, appariva in fondo all'orizzonte una striscia
di nubi color sangue, stesa là dove il sole era da poco tramontato.
La luce crepuscolare da quelle nubi diffusa illuminava soltanto con
tinta giallastra la mia cameretta e la fronte di noi due che ci eravamo
appressati alla finestra. All'entrare d'Alfredo io aveva impallidito
come uomo che aspetta la sentenza del suo avvenire; e il cuore mi
palpitava forte forte nel petto. Ci tenevamo stretti per le mani; le
mie ardevano, le sue erano fredde come ghiaccio. Anch'egli mi parve un
po' commosso; esitava a parlare, di certo era alquanto turbato.”
XIV.
“Parlò poscia, ma non colla solita sua scioltezza. Aveva letto i
miei componimenti, ed aveva visto l'oggetto dell'amor mio. Di questo
discorse con entusiasmo; la giudicava la più bella figura di donna,
le cui sembianze rivelassero una natura eletta; abilmente, in mezzo
a un diluvio di parole, mi fece comprendere essere una follia in me
l'amarla, un'imperdonabile follia poi se con qualche speranza. Compresi
come, secondo lui, io fossi condannato all'infelicità, e sarei stato
ingiusto a pur lamentarmi del mio destino.
“Sentivo una gravezza, come cappa di piombo, scendermi e pesarmi
sull'anima. Imbiancavo a volta a volta ed arrossivo nel viso; mi veniva
difficile il respiro.
“Finalmente entrò a discorrere de' miei versi.
— «Me ne rallegro teco. Non c'è male. Alcune stranezze di un gusto non
perfetto; ma con qualche ritocco qua e là, con qualche correzione,
cambiando qualche verso, davvero che mi pare si possano ridurre una
cosa più che mediocre.»
“Io aveva chinato il capo e tacevo.
— «Anzi ho pensato ad una cosa:» soggiunse. «Mio caro, le nostre
produzioni letterarie, per giudicarle a dovere noi stessi, bisogna
vederle stampate. La stampa è come alle sceniche composizioni la luce
della ribalta; se tu acconsenti, voglio fare stampare i tuoi scritti.»
“Tacevo sempre.
“Alfredo riprese a dire, che aveva giusto sotto i torchi un volume di
sue poesie, che avrebbe a quelle aggiunte le mie, e così introdottele
nel mondo letterario sotto il patrocinio del suo nome, già conosciuto
e circondato di qualche riguardo.
“Tacevo, ma la mia mente lavorava in modo febbrile. I miei versi,
stampati in nitide pagine, con nuova ed efficace leggiadria, mi
turbinavano innanzi, atteggiandosi, per così dire, a mirabili forme,
esplicando una segreta armonia di dolcissimi suoni.
“Li vedevo apparire come luminosi agli occhi della gente, li udivo
cantare nell'orecchio ammirato degli uomini, sentivo ripetuto dagli
echi della terra con plauso, il mio povero nome.
“Alfredo aveva voluto persuadermi della mia indegnità per la donna che
amavo. Una mai provata superbia gonfiava invece l'anima mia. Oh no, non
ero indegno di lei. Il genio che mi possedeva, era capace d'innalzare
il mio essere sino all'altezza di quell'angelo umanato. Le mie opere
l'avrebbero dimostrato; lo dimostreranno in fè di Dio, giuravo in
segreto a me stesso.
“L'amico mi chiese, non senza qualche inquietudine, se acconsentivo
alla sua proposta.
— «Sì,» risposi debolmente con una simulata indifferenza, abbandonando
nelle sue la mia mano diventata fredda ed inerte.
“Ma dentro me quale tumulto!
“Le mie prime poesie si stamparono poco dopo nel volume pubblicato da
Alfredo, e comparvero sotto il suo nome; erano pubblicate quali io glie
le aveva date, senza la correzione d'una virgola. Provai nel vederle
un misto di sentimenti contrari, indicibili. Mi parvero sublimi, mi
parvero ridicole; ne sentii ora orgoglio, ora vergogna; provai una
rabbia dolorosa nel vederle andare sotto nome d'un altro, una specie
d'acuta gelosia, e poi dissi a me stesso che così era anche meglio:
ritirato nella mia cameretta, pensai con satanica superbia che la mia
opera aveva gran pregio, ma che io era capace tuttavia d'assai più.
“Alfredo ebbe da quella pubblicazione molta rinomanza. Gli si disse
che aveva trovate vie nuove, che aveva rivelato un nuovo lato del
suo genio, manifestata una nuova potenza della sua poesia. Mi venne
intorno più amorevole che mai. Io non metteva insieme due parole,
senza tosto comunicarle a lui. Talvolta mi suggeriva alcune idee, mi
abbozzava qualche argomento; poi ammorzava alcun colore troppo acceso,
temperava taluna immagine troppo ardita della mia poesia; e quando poi
le composizioni erano al termine, le chiamava con tutta franchezza, fra
noi due, nostre, in pubblico sue, senza uno scrupolo.
“Mi adattavo a codesto suo modo ma, come potete pensare, non
soddisfatto.
“Un giorno, finalmente, la mia tolleranza mi parve una debolezza e una
viltà; il procedere d'Alfredo una pirateria a mio danno.
“Non vi ho ancor detto come praticassi nella casa della fanciulla
amata. Il padre di lei, pietoso alla mia povertà, avevami dato un umile
ufficio nella ragioneria dei suoi grandi capitali e delle sue vaste
tenute; ero poco più d'un servo in quello sfarzoso palazzo, ma vi ero
accolto con una specie di domestica fiducia.
“Un giorno, entrando nel salotto, trovai Albina intentissima alla
lettura con una profonda emozione da questa prodottale, le guancie
affocate, gli occhi per lagrime lucenti, il seno agitato. Dio del
cielo! Ella stava leggendo i miei versi.
“Albina fuggì, come per nascondermi la sua emozione. Io rimasi là,
piantato, invaso il cuore da un'improvvisa, ineffabile dolcezza. I miei
versi avevano parlato all'anima di lei!
“Ma ad un tratto una terribile idea mi ferì come la punta di uno
stile, il cervello e il cuore. I miei versi, per lei come per tutti al
mondo, non erano miei; ad altri ella attribuiva que' sentimenti, que'
pensieri, quella passione; ad altri ella attribuiva il merito di quel
suo commuoversi e del suo palpitare. E s'io le avessi detto ch'era mia
quell'ispirazione, mi avrebbe ella creduto?
“Una specie di furore subitamente m'invase. Volli che Alfredo mi
restituisse la rinomanza che a me aveva derubato; mi restituisse
soprattutto la simpatica commozione e forse l'ammirazione d'Albina.
Sentii a quel momento il primo impulso di odio che avessi ancora
provato mai, io che il mondo e la sorte avevano sì crudelmente
bistrattato sempre; e quest'odio lo sentivo per colui che primo aveva
mostrato aver di me alcun pietoso riguardo!
“Corsi da Alfredo, e tutto ancor concitato lo minacciai di svelare il
segreto della paternità dei suoi libri. Egli si fece bianco in volto,
e i suoi sguardi dapprima lampeggiarono di sdegno e di minaccia; poi
tosto si raumiliò, come non avevo mai visto alcuno umiliarsi, come non
lo credevo capace di fare, egli, con la sua fierezza.
“Mi disse che avrei distrutto ogni sua felicità, che avrei cagionata
la sua morte, perchè di certo egli si sarebbe ucciso a tanta vergogna;
mi pregò colle lagrime agli occhi: giurò che, io tacendo, avrebbe egli
fatto per me qualunque cosa che gli avessi chiesto, datomi anche la
vita.
“Quell'affetto, che da tanto tempo avevo in lui, risorse tutto in un
attimo e maggiore di prima. Mi gettai nelle sue braccia, piangendo
ancor io.
— «Amami soltanto, Alfredo,» gli dissi: «e di tutto mi avrai
compensato.»
“Giurai di tacere per sempre.”
XV.
“Era mio proposito accingermi con nuova lena al lavoro, e riguadagnare
in breve il tempo per la mia fama perduto: ma luttuosi avvenimenti me
ne impedirono.
“Il padre d'Albina ebbe subiti e irreparabili rovesci di fortuna.
Come sempre accade nel mondo, tutti coloro che a lui avventurato erano
amici compiacenti e cortigiani, lo abbandonarono. Io gli venni innanzi
umilmente, quasi tremando, e dissi:
— «Sono povero, e buono a poco o nulla; ma tutto quello che ho e quello
che valgo, pongo in poter vostro. Disponete di me.»
“Quell'uomo, superbissimo fino allora dei suoi natali e delle sue
ricchezze, che altro non aveva avuto mai per me che una compassione
altezzosa, parve stupito ed ammirato del mio tratto. Aveva coraggio
e volontà tenace; era di quelli che, prima di abbandonarsi in balía
della corrente che li travolge, s'attaccano a qualunque ramo, per
debole ch'esso sia, fosse pur anche spinoso da insanguinarvisi le
mani. Accettò la mia offerta, le pochissime mie sostanze sparvero in
un attimo in quel baratro che la sventura aveva scavato sotto i piedi
a quella famiglia; e lavoravo tutte le ore del giorno per essa! Il
padrone, diventato burbero, atrabiliare, mi comandava in modo aspro
come si fa ad un servitore negligente; Albina mi ringraziò una volta
con sublime semplicità, stringendomi la mano, gli occhi gonfi di
lagrime. Che avrei io potuto desiderare di più?
“Bene o male, di questa guisa ero diventato quasi uno della famiglia
e n'andavo superbo. Vedevo Albina tutti i giorni, stavo delle ore a
guardarla, pallida e severa nella sua mestizia; m'inebbriavo spesso
della ineffabile gioia d'udire la sua voce. N'ero quasi felice. _Dear_,
il cagnolino di lei, mi faceva le feste più amorevoli del mondo.
“Ma il padre d'Albina non potè vincere in niun modo la troppo avversa
fortuna. A un punto, perduta ogni speranza, egli perdette ogni
coraggio, ogni forza di spirito e di corpo. Morì di lì a quattro mesi.
Io mi diedi tutto e sempre più all'arido lavoro degli affari, per
sopperire ai bisogni di quella disgraziata famiglia.
“Addio poesia, addio lettere, addio arte, addio sogni di gloria!
M'imbestialivo nelle cifre da mane a sera, nè mi lamentavo, nè
desideravo di meglio. Albina era tanto bella, anche nel suo dolore!...
“Passò circa un anno. L'amavo sempre più. Ad un punto m'accorsi che
un cambiamento non lieve erasi fatto in Albina. Le guancie eranle
divenute più rosee, più brillanti ed espressivi gli occhi, più dal
sorriso animate le labbra. Una certa misteriosa fiamma appariva di
quando in quando sul suo volto; aveva subite contrarietà e improvvise
tristezze avvicendate a giocondità, di cui non sapevo rendermi ragione.
Pareva avere alcuna cosa da dissimulare. Si piaceva molto a restar
sola; sovente la coglievo immersa in profondi pensieri; molte volte
era d'un'amabilità maggiore ancora del solito. Attribuivo codesta
mutabilità allo svolgersi della sua fiorente giovinezza soltanto.
“Ma l'amor mio oramai era tale, che non potevo più rimaner in silenzio.
Il mio cervello era in un esaltamento che non lasciava più luogo alla
ragione. Un giorno ella fu meco più amorevole dell'usato; il sangue
mi s'infiammò nelle vene mandandomi vampe di calore alla testa. Pareva
ella volesse aprirmi il cuor suo, e la piena del mio traboccava verso
di lei. Incoraggiato da' suoi modi, dalle sue parole, mi rivelai....
“Me disgraziato! Come potei avere tanto temerario ardimento?
“Ella impallidì; si trasse vivamente in là, mutò subito maniere ed
aspetto; si premè con una mano il cuore, e quando io a quella vista
mi tacqui sovraccolto da un tremito improvviso, ella gettò un grido e
fuggì.
“La mia sentenza era pronunciata. Caddi in ginocchio in quel punto dove
ella era poc'anzi, e sentii il cuore rompermisi dall'affanno. Avevo di
me stesso vergogna. Poter credere di essere amato! Io? Oh ella doveva
ridere di me. Non avevo ottenuto che di sciogliere quel poco legame che
mi avvinceva a lei, e che era pure il mio solo bene. Come avrei potuto
ancora venirle per casa? come rivederla?
“Quello non era ancora il maggior dolore che mi dovesse toccare; ed era
già sì grande! Ricevei quel medesimo giorno una lettera d'Albina.”
XVI.
“In quella lettera ella mi narrava come, fin da quando era ancor
giovinetta, avesse dato il suo cuore ad un uomo; i dolori e le sventure
sopravvenute non avere quell'affetto cancellato, e ora che l'occasione
era nata in cui aveva potuto con quell'uomo accontarsi, tratti da
scambievole amore, essersi giurata eterna fede. Volessi compatirla;
seguitassi ad amarla come fratello: non le amareggiassi la felicità del
suo corrisposto affetto col pensiero ch'io soffriva per lei....
“Ah! dovevo rinserrare nel cuore la cruda angoscia e comparirle dinanzi
sorridente, lieto testimonio della felicità d'un altro!
“Non vi dirò che rodimento fosse il mio. Immaginatevi quanti più acuti
tormenti possa cuore umano provare in uno spasimo uguale a quello
dell'agonia!
“I miei primi propositi furono propositi di sangue. Nella mia mite
natura l'angoscia trovò pur tanta ferocia da farmi provare una voluttà
nel pensiero d'uccidere quell'uomo che possedeva un tanto bene a me
negato, d'uccidere anche lei!....
“Ma questo violento parosismo di furore in me non poteva durare.
M'accasciai sotto la sciagura che mi percuoteva, piansi disperatamente;
e quando ebbi tutte versate le mie lagrime, mi levai con animo risoluto
e corsi da Albina. La volevo ad ogni costo felice, lei; a costo anche
d'ogni mio bene.
“Avete avuto torto, le dissi, a non confidarmi tutto. Ora trattatemi
davvero da fratello, e io benedirò alla vostra felicità.
“Udite quel che Albina mi rispondesse.
— «Sono due anni, mi veniva alle mani un libro di poesia; appena letti
pochi versi, la mia attenzione fu tutta raccolta in quella lettura.
Quei versi parlavano all'anima mia un nuovo linguaggio che tutta la
padroneggiava. Erano l'espressione del più nobil cuore e del più nobile
ingegno: erano la voce del più sublime affetto. Lessi avidamente,
commossa, palpitante. Mi ricordo che voi entraste in quel punto;
ed io confusa, turbata, vergognosa, indispettita d'essere colta in
quell'emozione, fuggii.»
“Io gettai un grido a quelle parole, e la guardai con occhio smarrito;
ella continuò:
— «L'autore di quelle sì leggiadre poetiche creazioni mi apparve l'uomo
più degno d'amore che fosse al mondo; l'amai sino da quell'istante.
Quando l'ebbi veduto di poi, Alfredo m'apparve superiore ancora a
quell'immagine che io m'era di lui formata.»
“Pensate qual io rimanessi! Alfredo adunque, non solo la fama mi
aveva derubata, ma l'amore di lei! Obliai in quel momento che io
aveva giurato di tacer sempre, obliai tutto: mi gettai ai suoi piedi,
proruppi coll'impeto d'un pazzo: — Ma quei versi erano miei; ma era
mia quell'anima che parlava alla tua, mio quel genio che ammirasti, mio
l'amore che hai sentito fremere in quell'armonia di parole.... —
“Ella dapprima non comprese; mi credè assalito da un accesso di dolore
che mi levasse di senno: si curvò pietosamente su di me, volle farmi
alzare, mi sussurrò qualche benigna parola; ma giurando, ripetendo,
insistendo io, alfine comprese quel che volevo significare; allora
non parlò più, si allontanò e mi saettò uno sguardo di indicibile
disprezzo.
— «Sciagurato! diss'ella con accento non dissimile da quello sguardo:
la vostra è peggio che imprudenza, è un'infamia.»
“E mi lasciò, allontanandosi con passo affrettato.
“Oh essere fulminato dal disprezzo della donna che si ama, senza
meritarlo! I feroci impulsi mi si ridestarono nell'anima. Forsennato,
corsi da Alfredo, lo minacciai, lo supplicai, levai la mano armata su
di lui; egli, robusto, disarmò il mio debole pugno e mi atterrò con
dispettoso disdegno.... Che più? fui vinto in tutto. Fui proclamato
un tristo, un calunniatore, scacciato dalla casa di lei, bandito dagli
amici di lui, creduto da tutti un pazzo, un cattivo uomo.”
XVII.
“Fui ammalato gravemente, e quasi due mesi gemetti in un ospedale;
uscito di là, m'aspettava la miseria. Quante giornate senza pane!
quante notti senza sonno, e nessuna speranza di gioia mai per tutta la
vita!
“Mi rimisi al lavoro. Ottenni alcuni trionfi, e questi mi procurarono
nuovi nemici: una polemica rabbiosa e crudele che mi era stuzzicata
contro da Alfredo, mi perseguitò senza tregua; intristito, risposi
offesa ad offesa, invettiva ad invettiva, oltraggio ad oltraggio.
“Erano trascorsi due anni: Albina, io non l'aveva più vista mai;
l'avevo sfuggita con cura; nulla temevo di più che trovarmi a fronte di
lei.
“Un giorno passeggiavo solitario, come sempre, in un viale fuor di
città, a quell'ora deserto. Avevo il capo chino, e, ingolfato nei miei
pensieri, non vedevo nulla di quanto mi circondasse, quasi non sapevo
più nemmeno dov'io mi fossi.
“A un tratto ecco gettarmisi tra le gambe, festosamente abbaiando, un
cagnolino. Sussultai; era _Dear_, il canino d'Albina. Oh come mi sentii
battere il cuore! Come mi parve d'amarla quella povera bestiolina che
avevo affatto dimenticata! Essa però non avevami dimenticato, no; mi
aveva tosto riconosciuto, e mi salutava con affetto, e mi faceva più
vive che mai le sue solite dimostrazioni di gioia e di benevolenza.
Mi curvai verso il cagnolino per rispondere alle sue carezze; volevo
prenderlo tra le braccia e baciarlo.
“Ma ad un tratto un pensiero mi agghiacciò il sangue nelle vene.
Con chi era essa, quella bestiuola? Alzai gli occhi; mi vidi innanzi
Albina, che s'accostava a richiamare il suo cane, e guardare chi fosse
quell'uomo a cui _Dear_ faceva tante feste. Avrei voluto che in quel
momento la terra mi si aprisse sotto i piedi. Ah! in qual modo mi
guardò Albina! Lo sguardo di sdegno con cui m'aveva saettato, quando
avevo voluto svelarle che i versi d'Alfredo erano miei; quello sguardo
era mite e benevolo in paragone.... Dio la perdoni! Ella con quel
suo sguardo uccise l'anima mia. C'era tanto disprezzo, tanto odio,
tanto orrore, che io allibii. Non una parola, non una voce nè l'uno
nè l'altra. Ella volse disdegnosamente altrove il passo, chiamando con
voce secca ed imperiosa il suo cane. Io lasciai cadermi abbandonate le
braccia lungo la persona in uno stato di prostrazione dolorosa.
“_Dear_, tutto stupito del nostro contegno, stette in mezzo a
guardarci. Ella tornò a chiamarlo imperiosamente.
“L'intelligente bestiola corse a lei, le salterellò intorno un poco;
poi tornò verso di me, e ripetè le sue festose dimostrazioni. Egli solo
s'era conservato per me quel di prima; egli solo non aveva cambiato in
odio ed in disprezzo quel poco affetto che m'aveva donato.
“Lo accarezzai, lo presi in braccio, lo baciai, e rimettendolo in
terra, perchè potesse raggiungere la sua padrona che si allontanava con
passo sollecito, gli dissi: — Va', e possa tu almanco non obliarmi, se
d'ogni altro che amai, devo pregare, come una fortuna, l'oblio. —
XVIII.
“Non c'era più alcun ritegno fra noi: Alfredo ed io ci trovavamo a
fronte come nemici mortali, e il mondo crudele, aizzandoci alla lotta,
godeva nel vederci scambiare dolorosi colpi al nostro cuore.
“Una mia nuova pubblicazione diede pretesto a un mordacissimo articolo
di critica, in cui le ingiurie e le accuse, con accorte insinuazioni,
erano lanciate a piene mani su di me; sotto a quello scritto c'era il
nome d'Alfredo. Se ne fece un gran chiasso in tutta la città; tutti
s'aspettavano ch'io avrei provocato a duello il mio offensore: nol
feci.
— «È un vile:» si disse di me in tutti i salotti, in cui fioriva
prospera e petulante la mormorazione.
“Tutte le simpatie erano pel mio avversario, e diventarono ancora
maggiori.
— «Da bravo!» gli si diceva da ogni parte; «quello è un rettile che non
sa mordere che colla penna. Bisogna schiacciarlo, e nessuno meglio di
voi lo può fare.»
“Io pur sempre condannai il duello che stimo un'assurdità o ridicola
o assassina. L'esistenza d'un uomo mi è sempre parsa cosa troppo
importante per avventurarla in una vendetta dell'oltraggio, nella quale
la sorte il più spesso, od una scellerata perizia d'uccidere, dànno
torto alla ragione e ragione al torto.
“Mi tacqui. Una seconda diatriba più niquitosa, più audace, più
calunniosa della prima, col nome d'Alfredo ancor essa, venne a far
ridere tutta la città alle mie spalle.
“Uguale alla perfidia si disse in me la codardia. Una rabbia
irrefrenabile allora mi prese. Intinsi la penna nel fiele, nel veleno,
e risposi con la più fiera invettiva, senza misura, senza riguardi,
tutto rivelando di quanto era avvenuto fra Alfredo e me.
“Fu uno scandalo inaudito. Il mondo mi disse un calunniatore, e Alfredo
mi mandò a sfidare.
“Volevo rifiutare il combattimento. Mi si fece comprendere che, dopo un
fatto simile, sarei senza redenzione perduto nel concetto universale.
Ebbi paura dell'ignominia; accettai.
“Non avevo mai preso in mano un'arma. Non m'ero mai esposto, nè la
sorte mai mi aveva ancora messo innanzi ad un pericolo di vita. Se
avessi coraggio o no, non sapevo io stesso. Ero solo al mondo, non
rallegrato pur da un affetto; e la mia morte non avrebbe costato a
nessuno un dolore, a nessuno pure una lagrima. In certi momenti di
quelle ore fatali che precedettero lo scontro, quel mio triste stato
mi dava una disperazione che mi avrebbe lanciato con ardore verso la
tomba, come verso il riposo.
— Che fo io sulla terra? — mi dicevo. — Gli uomini valgono tutti meno
di me: lo sento e lo so, e tutti mi stimano da meno di loro; e la vita
non ha per me attrattive di sorta. Non v'è da rimpiangere nè questa
nè quelli. Moriamo; e si mostri almeno a questa nemica e codarda razza
che mi spregia, come sia facile il coraggio del morire cui essa esalta
cotanto, perchè così raro nell'egoismo vigliacco che la domina.... E
forse innanzi alla mia tomba precoce, ammutirà il livore. —
“In altri momenti, invece, un grande abbattimento mi occupava, che
poteva dirsi paura. La mia giovinezza dimandava di vivere. Perchè
sacrificarmi ai pregiudizi di quel mondo crudele che mi aveva respinto
da sè, che non aveva avuto che spine da darmi? La vita era l'unico bene
ch'io m'avessi, e glie l'avrei offerta in olocausto? Avevo l'avvenire
per me; avevo quell'ingegno che sentivo superiore; ed avrei tutto
gettato in omaggio alle assurde opinioni d'una società, alla quale
ricambiavo in doppia misura quel disprezzo ch'essa aveva per me? Di
corpo ero più debole che tutti gli avversari miei, forse anche d'animo;
io lo abbia amato nessuno lo seppe, nè anch'egli..... Eppure io stesso
doveva.... io stesso!....”
Si coprì colle mani la faccia e stette lì muto alcuni minuti, ma
singhiozzava penosamente. Poscia si lasciò cadere abbandonatamente sur
una seggiola a me dappresso, e, mostrandomi il volto sconvolto da una
profonda e viva angoscia, riprese con voce debole e sommessa:
“Egli era bello, robusto, ardito ad ogni esercizio di corpo, ad ogni
audacia atto e valente. Pietà lo prese di questo scimmiotto che era
la vittima di tutti. Sotto la protezione della sua forza io conobbi un
po' di pace. Lo ricompensavo, facendo tutti i suoi compiti ed amandolo
come si amerebbe l'incarnazione del buono e del bello sulla terra. Ero
suo schiavo. M'avesse detto: «gettati da questa finestra,» vi giuro che
l'avrei fatto.
“Fuor del collegio i medesimi scherni e le medesime vergogne, meglio
coperte dalla vernice della cortesia ma non meno maligne e spietate;
e da queste non poteva più, come prima, difendermi quel tale che io
amava sempre con tutta la potenza dell'anima mia.... Non poteva, e più
ancora non voleva più.... Esso non mi aveva amato mai: era stata una
sprezzante compassione la sua. Quando nella debole creatura, ch'egli
aveva difeso, avvertì un'intelligenza superiore alla sua, mi odiò.
“Col giungere dell'adolescenza anche in me erano nate nuove e
indefinite aspirazioni: quelle tormentose e gradite aspirazioni
che inconsciamente spingono l'anima verso l'ideale e sollecitano e
addestrano alla grandezza l'ingegno predestinato. Ero stupito e confuso
di me medesimo, non mi riconoscevo più. Stimatomi io stesso fino allora
l'ultima fra le creature viventi, mi sentivo delle vampe superbissime
d'una eccelsa ambizione. Me ne vergognavo, nascondevo accuratamente nel
mio timido silenzio tali accessi di pazzia; avrei voluto dissimularli
anche a me stesso. Ma nei miei sogni pertinacemente tormentosi, mi
appariva la felicità seducente del sorriso, non solo della bellezza,
ma della gloria. Un giorno scoppiò in me l'ispirazione come un fulmine;
quasi per un lampo, mi vidi a un tratto illuminato l'esser mio e il mio
destino, e scoperto il segreto delle mie angosce mentali. Ero poeta!
“Poeta! Re della terra, re del pensiero! Favorito da Dio d'una favilla
uguale alla sua luce divina; sentendo nel proprio essere più vasta
l'orma del suo spirito creatore; capace di padroneggiare il mondo
dell'ideale, di apprendere il sovraintelligibile, di accostarsi al
miracolo della creazione! Essere infimo, debole, il più dispregiato
degli uomini e conoscersi degno della più splendida corona! Comprendete
voi quali intime esaltazioni e quali segreti affanni, quali inquiete
lusinghe e quali terribili accasciamenti mi si avvicendassero e
turbassero l'anima nella mia oscura giovinezza?...
“Oh i miei primi versi!... Erano l'esplosione d'un delirio d'amore,
erano il poema della gioia amorosa della vita, erano il misterioso
canto della natura tradotto in armonia di parole, in palpiti di
cuore umano. Che cosa non avrei dato per potere ad un tratto farli
suonare potenti all'orecchio del mondo, e comparire innanzi ai miei
concittadini cinto di quella splendida luce di poesia che mi sentivo
nell'intelletto e nel cuore? Eppure avevo vergogna di me e dell'opera
mia; e la nascondevo agli sguardi di tutti colla cura con cui si
nascondono le traccie d'un delitto. Se il mondo avesse mai risposto
colla beffa a quel vero sangue mio sgorgatomi dall'anima? Guai! Li
amavo tanto quei poveri versi!...
“Amavo!... Oh non amavo soltanto lo sfogo del mio cuore, non amavo
soltanto l'amico mio... Amavo una fanciulla fieramente leggiadra come
un superbo fiore di stufa signorile. Aveva ella tutto in suo favore:
potenza conquistatrice di bellezza, nobiltà di natali, ricchezza di
fortune, felicità d'ingegno. Era una seduzione il vederla, una malìa,
un incanto, un'ebbrezza l'avvicinarla, l'udirla, il riceverne la fiamma
dello sguardo. E l'amavo... io povero, io meschino, io di sì brutte
forme!
“Era per lei che godevo d'esser poeta; era innanzi a lei che volevo
presentarmi cinto dei raggi della gloria; era ai suoi piedi che ambivo
deporre la mia corona d'alloro non ancor conquistata.
“Avevo letto di quella tale principessa che baciò sulla bocca il gobbo
poeta addormentato, per le dolci cose che uscivano da quelle labbra;
sognavo che di me pure la sublime armonia del canto facesse obliare la
meschinità della persona.
“Così non poteva durare. Deliberai aprire il mio animo a quell'unico
amico che avessi.
“Alfredo mi sfuggiva, pareva quasi vergognarsi di me; sempre più
avvenente, audace, temuto da ogni competitore pel valor suo, desiderato
in tutti i salotti per la sua piacevolezza, primo in tutto ciò che
imprendesse e in ogni dove comparisse, cavalcatore esperto come nessun
altro meglio; Alfredo godeva nel mondo i più invidiabili successi.
“Suonava con arte e sentimento, componeva romanze, ballabili e melodie
che le signore eseguivano con diletto nelle serate invernali; scriveva
gaie leggerezze su pei giornali e molli versettini negli _Album_ delle
dame, che gli valevano una certa gloriola di letterato e il titolo
d'_uomo di spirito_, cui egli si confermava mercè una cara franchezza
e subitaneità di motti e di rimbeccate. Era uno di quegli ingegni che
riescono in ogni cosa a cui s'accingano, ma ai quali la deplorabile
facilità impedisce di nulla mai approfondire.
“Io gli svelai in una i miei due eccelsi amori: quello alla Musa e
quello alla mia donna. Gli dissi vivere oramai per quelli soltanto;
esser quelli la mia ultima ragione, la luce che m'illuminava il
pensiero, lo scopo di tutto.
“Sorrise, scherzò dapprima, di poi il mio ardore parve colpirlo, il mio
entusiasmo apprendersi anche a lui; tacque per un poco, divenne serio,
anche i suoi occhi lampeggiarono; sollevò la fronte e la scosse superbo
come per dire: «ancor io, e forse più, sono degno di tanto.» Mi recitò,
declamando alcune delle sue ballate; trovò freddi gli elogi ch'io glie
ne faceva. Tentò cambiar discorso; pareva inquieto e malvoglioso; ad un
tratto chiese di poter leggere i miei versi: tremando glie li affidai,
e se ne partì con essi.
“Stette più giorni senza farsi vedere. Avrei voluto andare in casa di
lui, e non osavo. Venne finalmente una sera da me. Dalla finestra, che
guardava verso l'occaso, appariva in fondo all'orizzonte una striscia
di nubi color sangue, stesa là dove il sole era da poco tramontato.
La luce crepuscolare da quelle nubi diffusa illuminava soltanto con
tinta giallastra la mia cameretta e la fronte di noi due che ci eravamo
appressati alla finestra. All'entrare d'Alfredo io aveva impallidito
come uomo che aspetta la sentenza del suo avvenire; e il cuore mi
palpitava forte forte nel petto. Ci tenevamo stretti per le mani; le
mie ardevano, le sue erano fredde come ghiaccio. Anch'egli mi parve un
po' commosso; esitava a parlare, di certo era alquanto turbato.”
XIV.
“Parlò poscia, ma non colla solita sua scioltezza. Aveva letto i
miei componimenti, ed aveva visto l'oggetto dell'amor mio. Di questo
discorse con entusiasmo; la giudicava la più bella figura di donna,
le cui sembianze rivelassero una natura eletta; abilmente, in mezzo
a un diluvio di parole, mi fece comprendere essere una follia in me
l'amarla, un'imperdonabile follia poi se con qualche speranza. Compresi
come, secondo lui, io fossi condannato all'infelicità, e sarei stato
ingiusto a pur lamentarmi del mio destino.
“Sentivo una gravezza, come cappa di piombo, scendermi e pesarmi
sull'anima. Imbiancavo a volta a volta ed arrossivo nel viso; mi veniva
difficile il respiro.
“Finalmente entrò a discorrere de' miei versi.
— «Me ne rallegro teco. Non c'è male. Alcune stranezze di un gusto non
perfetto; ma con qualche ritocco qua e là, con qualche correzione,
cambiando qualche verso, davvero che mi pare si possano ridurre una
cosa più che mediocre.»
“Io aveva chinato il capo e tacevo.
— «Anzi ho pensato ad una cosa:» soggiunse. «Mio caro, le nostre
produzioni letterarie, per giudicarle a dovere noi stessi, bisogna
vederle stampate. La stampa è come alle sceniche composizioni la luce
della ribalta; se tu acconsenti, voglio fare stampare i tuoi scritti.»
“Tacevo sempre.
“Alfredo riprese a dire, che aveva giusto sotto i torchi un volume di
sue poesie, che avrebbe a quelle aggiunte le mie, e così introdottele
nel mondo letterario sotto il patrocinio del suo nome, già conosciuto
e circondato di qualche riguardo.
“Tacevo, ma la mia mente lavorava in modo febbrile. I miei versi,
stampati in nitide pagine, con nuova ed efficace leggiadria, mi
turbinavano innanzi, atteggiandosi, per così dire, a mirabili forme,
esplicando una segreta armonia di dolcissimi suoni.
“Li vedevo apparire come luminosi agli occhi della gente, li udivo
cantare nell'orecchio ammirato degli uomini, sentivo ripetuto dagli
echi della terra con plauso, il mio povero nome.
“Alfredo aveva voluto persuadermi della mia indegnità per la donna che
amavo. Una mai provata superbia gonfiava invece l'anima mia. Oh no, non
ero indegno di lei. Il genio che mi possedeva, era capace d'innalzare
il mio essere sino all'altezza di quell'angelo umanato. Le mie opere
l'avrebbero dimostrato; lo dimostreranno in fè di Dio, giuravo in
segreto a me stesso.
“L'amico mi chiese, non senza qualche inquietudine, se acconsentivo
alla sua proposta.
— «Sì,» risposi debolmente con una simulata indifferenza, abbandonando
nelle sue la mia mano diventata fredda ed inerte.
“Ma dentro me quale tumulto!
“Le mie prime poesie si stamparono poco dopo nel volume pubblicato da
Alfredo, e comparvero sotto il suo nome; erano pubblicate quali io glie
le aveva date, senza la correzione d'una virgola. Provai nel vederle
un misto di sentimenti contrari, indicibili. Mi parvero sublimi, mi
parvero ridicole; ne sentii ora orgoglio, ora vergogna; provai una
rabbia dolorosa nel vederle andare sotto nome d'un altro, una specie
d'acuta gelosia, e poi dissi a me stesso che così era anche meglio:
ritirato nella mia cameretta, pensai con satanica superbia che la mia
opera aveva gran pregio, ma che io era capace tuttavia d'assai più.
“Alfredo ebbe da quella pubblicazione molta rinomanza. Gli si disse
che aveva trovate vie nuove, che aveva rivelato un nuovo lato del
suo genio, manifestata una nuova potenza della sua poesia. Mi venne
intorno più amorevole che mai. Io non metteva insieme due parole,
senza tosto comunicarle a lui. Talvolta mi suggeriva alcune idee, mi
abbozzava qualche argomento; poi ammorzava alcun colore troppo acceso,
temperava taluna immagine troppo ardita della mia poesia; e quando poi
le composizioni erano al termine, le chiamava con tutta franchezza, fra
noi due, nostre, in pubblico sue, senza uno scrupolo.
“Mi adattavo a codesto suo modo ma, come potete pensare, non
soddisfatto.
“Un giorno, finalmente, la mia tolleranza mi parve una debolezza e una
viltà; il procedere d'Alfredo una pirateria a mio danno.
“Non vi ho ancor detto come praticassi nella casa della fanciulla
amata. Il padre di lei, pietoso alla mia povertà, avevami dato un umile
ufficio nella ragioneria dei suoi grandi capitali e delle sue vaste
tenute; ero poco più d'un servo in quello sfarzoso palazzo, ma vi ero
accolto con una specie di domestica fiducia.
“Un giorno, entrando nel salotto, trovai Albina intentissima alla
lettura con una profonda emozione da questa prodottale, le guancie
affocate, gli occhi per lagrime lucenti, il seno agitato. Dio del
cielo! Ella stava leggendo i miei versi.
“Albina fuggì, come per nascondermi la sua emozione. Io rimasi là,
piantato, invaso il cuore da un'improvvisa, ineffabile dolcezza. I miei
versi avevano parlato all'anima di lei!
“Ma ad un tratto una terribile idea mi ferì come la punta di uno
stile, il cervello e il cuore. I miei versi, per lei come per tutti al
mondo, non erano miei; ad altri ella attribuiva que' sentimenti, que'
pensieri, quella passione; ad altri ella attribuiva il merito di quel
suo commuoversi e del suo palpitare. E s'io le avessi detto ch'era mia
quell'ispirazione, mi avrebbe ella creduto?
“Una specie di furore subitamente m'invase. Volli che Alfredo mi
restituisse la rinomanza che a me aveva derubato; mi restituisse
soprattutto la simpatica commozione e forse l'ammirazione d'Albina.
Sentii a quel momento il primo impulso di odio che avessi ancora
provato mai, io che il mondo e la sorte avevano sì crudelmente
bistrattato sempre; e quest'odio lo sentivo per colui che primo aveva
mostrato aver di me alcun pietoso riguardo!
“Corsi da Alfredo, e tutto ancor concitato lo minacciai di svelare il
segreto della paternità dei suoi libri. Egli si fece bianco in volto,
e i suoi sguardi dapprima lampeggiarono di sdegno e di minaccia; poi
tosto si raumiliò, come non avevo mai visto alcuno umiliarsi, come non
lo credevo capace di fare, egli, con la sua fierezza.
“Mi disse che avrei distrutto ogni sua felicità, che avrei cagionata
la sua morte, perchè di certo egli si sarebbe ucciso a tanta vergogna;
mi pregò colle lagrime agli occhi: giurò che, io tacendo, avrebbe egli
fatto per me qualunque cosa che gli avessi chiesto, datomi anche la
vita.
“Quell'affetto, che da tanto tempo avevo in lui, risorse tutto in un
attimo e maggiore di prima. Mi gettai nelle sue braccia, piangendo
ancor io.
— «Amami soltanto, Alfredo,» gli dissi: «e di tutto mi avrai
compensato.»
“Giurai di tacere per sempre.”
XV.
“Era mio proposito accingermi con nuova lena al lavoro, e riguadagnare
in breve il tempo per la mia fama perduto: ma luttuosi avvenimenti me
ne impedirono.
“Il padre d'Albina ebbe subiti e irreparabili rovesci di fortuna.
Come sempre accade nel mondo, tutti coloro che a lui avventurato erano
amici compiacenti e cortigiani, lo abbandonarono. Io gli venni innanzi
umilmente, quasi tremando, e dissi:
— «Sono povero, e buono a poco o nulla; ma tutto quello che ho e quello
che valgo, pongo in poter vostro. Disponete di me.»
“Quell'uomo, superbissimo fino allora dei suoi natali e delle sue
ricchezze, che altro non aveva avuto mai per me che una compassione
altezzosa, parve stupito ed ammirato del mio tratto. Aveva coraggio
e volontà tenace; era di quelli che, prima di abbandonarsi in balía
della corrente che li travolge, s'attaccano a qualunque ramo, per
debole ch'esso sia, fosse pur anche spinoso da insanguinarvisi le
mani. Accettò la mia offerta, le pochissime mie sostanze sparvero in
un attimo in quel baratro che la sventura aveva scavato sotto i piedi
a quella famiglia; e lavoravo tutte le ore del giorno per essa! Il
padrone, diventato burbero, atrabiliare, mi comandava in modo aspro
come si fa ad un servitore negligente; Albina mi ringraziò una volta
con sublime semplicità, stringendomi la mano, gli occhi gonfi di
lagrime. Che avrei io potuto desiderare di più?
“Bene o male, di questa guisa ero diventato quasi uno della famiglia
e n'andavo superbo. Vedevo Albina tutti i giorni, stavo delle ore a
guardarla, pallida e severa nella sua mestizia; m'inebbriavo spesso
della ineffabile gioia d'udire la sua voce. N'ero quasi felice. _Dear_,
il cagnolino di lei, mi faceva le feste più amorevoli del mondo.
“Ma il padre d'Albina non potè vincere in niun modo la troppo avversa
fortuna. A un punto, perduta ogni speranza, egli perdette ogni
coraggio, ogni forza di spirito e di corpo. Morì di lì a quattro mesi.
Io mi diedi tutto e sempre più all'arido lavoro degli affari, per
sopperire ai bisogni di quella disgraziata famiglia.
“Addio poesia, addio lettere, addio arte, addio sogni di gloria!
M'imbestialivo nelle cifre da mane a sera, nè mi lamentavo, nè
desideravo di meglio. Albina era tanto bella, anche nel suo dolore!...
“Passò circa un anno. L'amavo sempre più. Ad un punto m'accorsi che
un cambiamento non lieve erasi fatto in Albina. Le guancie eranle
divenute più rosee, più brillanti ed espressivi gli occhi, più dal
sorriso animate le labbra. Una certa misteriosa fiamma appariva di
quando in quando sul suo volto; aveva subite contrarietà e improvvise
tristezze avvicendate a giocondità, di cui non sapevo rendermi ragione.
Pareva avere alcuna cosa da dissimulare. Si piaceva molto a restar
sola; sovente la coglievo immersa in profondi pensieri; molte volte
era d'un'amabilità maggiore ancora del solito. Attribuivo codesta
mutabilità allo svolgersi della sua fiorente giovinezza soltanto.
“Ma l'amor mio oramai era tale, che non potevo più rimaner in silenzio.
Il mio cervello era in un esaltamento che non lasciava più luogo alla
ragione. Un giorno ella fu meco più amorevole dell'usato; il sangue
mi s'infiammò nelle vene mandandomi vampe di calore alla testa. Pareva
ella volesse aprirmi il cuor suo, e la piena del mio traboccava verso
di lei. Incoraggiato da' suoi modi, dalle sue parole, mi rivelai....
“Me disgraziato! Come potei avere tanto temerario ardimento?
“Ella impallidì; si trasse vivamente in là, mutò subito maniere ed
aspetto; si premè con una mano il cuore, e quando io a quella vista
mi tacqui sovraccolto da un tremito improvviso, ella gettò un grido e
fuggì.
“La mia sentenza era pronunciata. Caddi in ginocchio in quel punto dove
ella era poc'anzi, e sentii il cuore rompermisi dall'affanno. Avevo di
me stesso vergogna. Poter credere di essere amato! Io? Oh ella doveva
ridere di me. Non avevo ottenuto che di sciogliere quel poco legame che
mi avvinceva a lei, e che era pure il mio solo bene. Come avrei potuto
ancora venirle per casa? come rivederla?
“Quello non era ancora il maggior dolore che mi dovesse toccare; ed era
già sì grande! Ricevei quel medesimo giorno una lettera d'Albina.”
XVI.
“In quella lettera ella mi narrava come, fin da quando era ancor
giovinetta, avesse dato il suo cuore ad un uomo; i dolori e le sventure
sopravvenute non avere quell'affetto cancellato, e ora che l'occasione
era nata in cui aveva potuto con quell'uomo accontarsi, tratti da
scambievole amore, essersi giurata eterna fede. Volessi compatirla;
seguitassi ad amarla come fratello: non le amareggiassi la felicità del
suo corrisposto affetto col pensiero ch'io soffriva per lei....
“Ah! dovevo rinserrare nel cuore la cruda angoscia e comparirle dinanzi
sorridente, lieto testimonio della felicità d'un altro!
“Non vi dirò che rodimento fosse il mio. Immaginatevi quanti più acuti
tormenti possa cuore umano provare in uno spasimo uguale a quello
dell'agonia!
“I miei primi propositi furono propositi di sangue. Nella mia mite
natura l'angoscia trovò pur tanta ferocia da farmi provare una voluttà
nel pensiero d'uccidere quell'uomo che possedeva un tanto bene a me
negato, d'uccidere anche lei!....
“Ma questo violento parosismo di furore in me non poteva durare.
M'accasciai sotto la sciagura che mi percuoteva, piansi disperatamente;
e quando ebbi tutte versate le mie lagrime, mi levai con animo risoluto
e corsi da Albina. La volevo ad ogni costo felice, lei; a costo anche
d'ogni mio bene.
“Avete avuto torto, le dissi, a non confidarmi tutto. Ora trattatemi
davvero da fratello, e io benedirò alla vostra felicità.
“Udite quel che Albina mi rispondesse.
— «Sono due anni, mi veniva alle mani un libro di poesia; appena letti
pochi versi, la mia attenzione fu tutta raccolta in quella lettura.
Quei versi parlavano all'anima mia un nuovo linguaggio che tutta la
padroneggiava. Erano l'espressione del più nobil cuore e del più nobile
ingegno: erano la voce del più sublime affetto. Lessi avidamente,
commossa, palpitante. Mi ricordo che voi entraste in quel punto;
ed io confusa, turbata, vergognosa, indispettita d'essere colta in
quell'emozione, fuggii.»
“Io gettai un grido a quelle parole, e la guardai con occhio smarrito;
ella continuò:
— «L'autore di quelle sì leggiadre poetiche creazioni mi apparve l'uomo
più degno d'amore che fosse al mondo; l'amai sino da quell'istante.
Quando l'ebbi veduto di poi, Alfredo m'apparve superiore ancora a
quell'immagine che io m'era di lui formata.»
“Pensate qual io rimanessi! Alfredo adunque, non solo la fama mi
aveva derubata, ma l'amore di lei! Obliai in quel momento che io
aveva giurato di tacer sempre, obliai tutto: mi gettai ai suoi piedi,
proruppi coll'impeto d'un pazzo: — Ma quei versi erano miei; ma era
mia quell'anima che parlava alla tua, mio quel genio che ammirasti, mio
l'amore che hai sentito fremere in quell'armonia di parole.... —
“Ella dapprima non comprese; mi credè assalito da un accesso di dolore
che mi levasse di senno: si curvò pietosamente su di me, volle farmi
alzare, mi sussurrò qualche benigna parola; ma giurando, ripetendo,
insistendo io, alfine comprese quel che volevo significare; allora
non parlò più, si allontanò e mi saettò uno sguardo di indicibile
disprezzo.
— «Sciagurato! diss'ella con accento non dissimile da quello sguardo:
la vostra è peggio che imprudenza, è un'infamia.»
“E mi lasciò, allontanandosi con passo affrettato.
“Oh essere fulminato dal disprezzo della donna che si ama, senza
meritarlo! I feroci impulsi mi si ridestarono nell'anima. Forsennato,
corsi da Alfredo, lo minacciai, lo supplicai, levai la mano armata su
di lui; egli, robusto, disarmò il mio debole pugno e mi atterrò con
dispettoso disdegno.... Che più? fui vinto in tutto. Fui proclamato
un tristo, un calunniatore, scacciato dalla casa di lei, bandito dagli
amici di lui, creduto da tutti un pazzo, un cattivo uomo.”
XVII.
“Fui ammalato gravemente, e quasi due mesi gemetti in un ospedale;
uscito di là, m'aspettava la miseria. Quante giornate senza pane!
quante notti senza sonno, e nessuna speranza di gioia mai per tutta la
vita!
“Mi rimisi al lavoro. Ottenni alcuni trionfi, e questi mi procurarono
nuovi nemici: una polemica rabbiosa e crudele che mi era stuzzicata
contro da Alfredo, mi perseguitò senza tregua; intristito, risposi
offesa ad offesa, invettiva ad invettiva, oltraggio ad oltraggio.
“Erano trascorsi due anni: Albina, io non l'aveva più vista mai;
l'avevo sfuggita con cura; nulla temevo di più che trovarmi a fronte di
lei.
“Un giorno passeggiavo solitario, come sempre, in un viale fuor di
città, a quell'ora deserto. Avevo il capo chino, e, ingolfato nei miei
pensieri, non vedevo nulla di quanto mi circondasse, quasi non sapevo
più nemmeno dov'io mi fossi.
“A un tratto ecco gettarmisi tra le gambe, festosamente abbaiando, un
cagnolino. Sussultai; era _Dear_, il canino d'Albina. Oh come mi sentii
battere il cuore! Come mi parve d'amarla quella povera bestiolina che
avevo affatto dimenticata! Essa però non avevami dimenticato, no; mi
aveva tosto riconosciuto, e mi salutava con affetto, e mi faceva più
vive che mai le sue solite dimostrazioni di gioia e di benevolenza.
Mi curvai verso il cagnolino per rispondere alle sue carezze; volevo
prenderlo tra le braccia e baciarlo.
“Ma ad un tratto un pensiero mi agghiacciò il sangue nelle vene.
Con chi era essa, quella bestiuola? Alzai gli occhi; mi vidi innanzi
Albina, che s'accostava a richiamare il suo cane, e guardare chi fosse
quell'uomo a cui _Dear_ faceva tante feste. Avrei voluto che in quel
momento la terra mi si aprisse sotto i piedi. Ah! in qual modo mi
guardò Albina! Lo sguardo di sdegno con cui m'aveva saettato, quando
avevo voluto svelarle che i versi d'Alfredo erano miei; quello sguardo
era mite e benevolo in paragone.... Dio la perdoni! Ella con quel
suo sguardo uccise l'anima mia. C'era tanto disprezzo, tanto odio,
tanto orrore, che io allibii. Non una parola, non una voce nè l'uno
nè l'altra. Ella volse disdegnosamente altrove il passo, chiamando con
voce secca ed imperiosa il suo cane. Io lasciai cadermi abbandonate le
braccia lungo la persona in uno stato di prostrazione dolorosa.
“_Dear_, tutto stupito del nostro contegno, stette in mezzo a
guardarci. Ella tornò a chiamarlo imperiosamente.
“L'intelligente bestiola corse a lei, le salterellò intorno un poco;
poi tornò verso di me, e ripetè le sue festose dimostrazioni. Egli solo
s'era conservato per me quel di prima; egli solo non aveva cambiato in
odio ed in disprezzo quel poco affetto che m'aveva donato.
“Lo accarezzai, lo presi in braccio, lo baciai, e rimettendolo in
terra, perchè potesse raggiungere la sua padrona che si allontanava con
passo sollecito, gli dissi: — Va', e possa tu almanco non obliarmi, se
d'ogni altro che amai, devo pregare, come una fortuna, l'oblio. —
XVIII.
“Non c'era più alcun ritegno fra noi: Alfredo ed io ci trovavamo a
fronte come nemici mortali, e il mondo crudele, aizzandoci alla lotta,
godeva nel vederci scambiare dolorosi colpi al nostro cuore.
“Una mia nuova pubblicazione diede pretesto a un mordacissimo articolo
di critica, in cui le ingiurie e le accuse, con accorte insinuazioni,
erano lanciate a piene mani su di me; sotto a quello scritto c'era il
nome d'Alfredo. Se ne fece un gran chiasso in tutta la città; tutti
s'aspettavano ch'io avrei provocato a duello il mio offensore: nol
feci.
— «È un vile:» si disse di me in tutti i salotti, in cui fioriva
prospera e petulante la mormorazione.
“Tutte le simpatie erano pel mio avversario, e diventarono ancora
maggiori.
— «Da bravo!» gli si diceva da ogni parte; «quello è un rettile che non
sa mordere che colla penna. Bisogna schiacciarlo, e nessuno meglio di
voi lo può fare.»
“Io pur sempre condannai il duello che stimo un'assurdità o ridicola
o assassina. L'esistenza d'un uomo mi è sempre parsa cosa troppo
importante per avventurarla in una vendetta dell'oltraggio, nella quale
la sorte il più spesso, od una scellerata perizia d'uccidere, dànno
torto alla ragione e ragione al torto.
“Mi tacqui. Una seconda diatriba più niquitosa, più audace, più
calunniosa della prima, col nome d'Alfredo ancor essa, venne a far
ridere tutta la città alle mie spalle.
“Uguale alla perfidia si disse in me la codardia. Una rabbia
irrefrenabile allora mi prese. Intinsi la penna nel fiele, nel veleno,
e risposi con la più fiera invettiva, senza misura, senza riguardi,
tutto rivelando di quanto era avvenuto fra Alfredo e me.
“Fu uno scandalo inaudito. Il mondo mi disse un calunniatore, e Alfredo
mi mandò a sfidare.
“Volevo rifiutare il combattimento. Mi si fece comprendere che, dopo un
fatto simile, sarei senza redenzione perduto nel concetto universale.
Ebbi paura dell'ignominia; accettai.
“Non avevo mai preso in mano un'arma. Non m'ero mai esposto, nè la
sorte mai mi aveva ancora messo innanzi ad un pericolo di vita. Se
avessi coraggio o no, non sapevo io stesso. Ero solo al mondo, non
rallegrato pur da un affetto; e la mia morte non avrebbe costato a
nessuno un dolore, a nessuno pure una lagrima. In certi momenti di
quelle ore fatali che precedettero lo scontro, quel mio triste stato
mi dava una disperazione che mi avrebbe lanciato con ardore verso la
tomba, come verso il riposo.
— Che fo io sulla terra? — mi dicevo. — Gli uomini valgono tutti meno
di me: lo sento e lo so, e tutti mi stimano da meno di loro; e la vita
non ha per me attrattive di sorta. Non v'è da rimpiangere nè questa
nè quelli. Moriamo; e si mostri almeno a questa nemica e codarda razza
che mi spregia, come sia facile il coraggio del morire cui essa esalta
cotanto, perchè così raro nell'egoismo vigliacco che la domina.... E
forse innanzi alla mia tomba precoce, ammutirà il livore. —
“In altri momenti, invece, un grande abbattimento mi occupava, che
poteva dirsi paura. La mia giovinezza dimandava di vivere. Perchè
sacrificarmi ai pregiudizi di quel mondo crudele che mi aveva respinto
da sè, che non aveva avuto che spine da darmi? La vita era l'unico bene
ch'io m'avessi, e glie l'avrei offerta in olocausto? Avevo l'avvenire
per me; avevo quell'ingegno che sentivo superiore; ed avrei tutto
gettato in omaggio alle assurde opinioni d'una società, alla quale
ricambiavo in doppia misura quel disprezzo ch'essa aveva per me? Di
corpo ero più debole che tutti gli avversari miei, forse anche d'animo;
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