Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - 03

“Sicuro!... Io so quanto siete buono, quanto amate il mio Pietro, di
che modo avete preso parte alla nostra felicità.”
Atanasio arrossì fino sulla fronte; egli che, se fosse stato in poter
suo, avrebbe fatto spalancare la terra sotto la casa dei Frangia perchè
ve li inghiottisse tutti.
Lucietta continuava lietamente:
“Oh! Pietro mi ha detto tutto.... Ma egli eziandio vi ama dimolto, e
non so che cosa non farebbe per procurarvi del bene.”
“Oh sì,” mormorò l'operaio coi denti stretti. “Lo so!... Me ne ha già
fatto tanto!... Me ne fa tanto sempre del bene!”
Nè Lucietta nè altri avvertirono la feroce ironia che si nascondeva
sotto quelle parole.
“Ed ora,” riprese la fanciulla sorridendo e come per cambiar discorso,
“voi siete giunto proprio a tempo, perchè ho da domandarvi un piacere.”
“Che cosa?” disse freddamente Atanasio.
“La nostra cagnetta partorì tre bestioline: due sono morte e l'ultima
che ancor rimane, mio padre la vuol sacrificare anch'essa.”
“Uh!” saltò su il vecchio soldato. “Tre brutti mostri da fare
schifo.... Lei è già brutta da non potersi dir quanto, ma quei
suoi piccini riuscirono d'una bruttezza che eccede ogni limite di
discrezione. E Lucietta s'è cacciata in capo di conservare sì bella
razza? Due per fortuna sono già iti, e il terzo sto per iscaraventarlo
giù del burrone.”
“No, no, babbo, non farete ciò:” disse la figliuola con graziosa bizza
capricciosetta. “E' son nati quel giorno appunto che tornai qui felice
di tanto: vo' che quest'ultimo sopravissuto sia salvo; ed è a voi
Atanasio che lo raccomando.”
“A me?”
La cagna, come se avesse capito che si parlava del suo neonato, e
giudicato che questo era appunto il momento opportuno di mostrarsi,
saltò fuori, accompagnata dal suo piccino veramente orribile.
“Eccola qui,” esclamò Lucietta; “ed ecco Azor. Gli ho posto nome Azor,
a questo piccino, e mi farete piacere a conservarglielo.”
“Volete che lo prenda io?” domandò Atanasio di mala voglia.
“Non è vero che me lo farete questo piacere? ve lo terrete per mia
memoria.... Ecco.”
Il giovane sorrise amaramente. La cagna che eragli venuta fra le gambe
lo salutava con amorevole agitar di coda, lo guardava con occhio
che pareva supplichevole, ed avreste detto che gli si raccomandava
anch'essa. L'operaio si curvò a terra e prese fra le mani il cagnolino.
“Per vostra memoria, Lucietta:” ripetè esaminandolo e con un accento
fra di mestizia e d'ira repressa.
Taddeo si cacciò a ridere di buon cuore.
“Bella memoria! Non è vero che è una perfezione di bruttezza?”
La cagna si fregava contro le gambe di Atanasio, e il cagnolino,
ch'egli teneva fra le braccia, gli leccava le mani.
“Ebbene sia,” egli disse: “io lo alleverò! Sarà la mia compagnia.... —
Mia unica compagnia! — soggiunse fra sè con amarezza.
Si portò via il canino. L'uomo ha tanto bisogno di mettere affezione
in altrui, che Atanasio il quale, per le sue tristi condizioni, non
poteva oramai amare nessun essere umano, prese a voler bene a quel
mostricciuolo di cagnolino. E' non si sentiva più così solo sulla
terra: aveva una occupazione diversa da quella del suo mestiere, e se
ne compiaceva; era uno spasso, una diversione da' suoi usati pensieri
che gli faceva del bene; se lo portava seco, quell'animale, perfino
alla fonderia; usciva di molte volte, solamente per farlo passeggiare;
lo accarezzava, quando nessuno lo poteva vedere, come altri fa d'un
bambino.
— Ecco la mia sola famiglia, — dicevasi con pungente amarezza: — ecco
il mio solo amore, ecco tutto il mondo per me.... un cane! —
In Azor la bruttezza, che invece di scemare veniva aumentando ogni
giorno, era compensata da molta intelligenza e superiore ancora
l'affettuosità. Pose al suo padrone un amore che nulla più; e come s'ei
ricordasse la protezione datagli da Lucietta, dopo Atanasio era colei
che prediligeva, e ogni qual volta la vedesse, le andava incontro a
farle un'infinità di feste.
Pietro e Lucietta, frattanto, vivevano felici. Si amavano proprio sul
sodo, non solamente per trasporto giovanile, ed erano affatto degni
l'uno dell'altra a vicenda. Atanasio li fuggiva con cura. Un anno dopo
il cielo mandava alla giovane coppia un bel bambino. Tutte le felicità!
L'operaio era diventato sempre più misantropo; fuori dell'officina, non
lo si vedeva più in nessun luogo mai, fuor che all'osteria: colà beveva
da solo, non permetteva che nessuno sedesse alla sua tavola, respingeva
bruscamente ogni tentativo di accostarlo, e quando cominciava a
sentirsi ubbriaco, balbettava parole inintelligibili e partiva
barcollando, accompagnato dal suo indivisibile cane, per andarsi a
nascondere, non si sapeva dove.
Un giorno, Lucietta e Pietro, ai quali molto rincresceva il
degradamento di questo valente giovane, ebbero la infelice ispirazione
di volerlo ritornare quel di prima. Cercavano di lui, lo chiamavano
sovente in casa loro; e Lucietta principalmente, colta ogni occasione
per averlo a sè da sola, si pose a trattarlo con assai amorevolezza,
nell'intento di fargli scorgere il torto della sua vita presente e
destargli la voglia di ammendarsi.
Atanasio da prima si schivò, parve anzi fuggire con più cura tutti,
e la moglie specialmente del suo giovane principale; poi si lasciò
cogliere alla dolcezza di quei momenti in cui si trovava solo con lei
e n'era trattato con tanta amorevolezza; finì per accarezzare le più
pazze illusioni, che sapeva essere illusioni, ma nelle quali cercava e
trovava una morbosa soddisfazione. Pareva rinata fra Lucietta e lui la
famigliarità d'un tempo, quando Atanasio, lassù alla bianca casetta,
andava ad attinger acqua per lei, col secchiello ch'ella faceva le
mostre di contrastargli.
Le rimostranze e i consigli di Lucietta parevano aver ottenuto
un felice successo. Atanasio tornava ad essere più pulito, meno
misantropo, non allegro, ma meno scontroso, non mite, ma meno permaloso
ed irascibile: lavorava con più ardore ancora, teneva condotta più
regolata. Solamente, il vizio onde non si era guarito era quello del
bere. Però se ne nascondeva accuratamente. Non si frammischiava più
alla frotta dei beoni; penetrava di soppiatto nell'osteria a notte
inoltrata, quando ogni altro n'era già partito, si faceva recare in
una stanza un numero di bottiglie, e là, rinserratosi col suo Azor,
beveva, beveva, finchè ne smarriva completamente la ragione; allora
parlava, e diceva a sè stesso, al cane, alle pareti, alle bottiglie, le
mille cose, che non avevano senso, che parevano il delirio d'un pazzo,
cose tali che se egli avesse mai sospettato che un altr'uomo le avesse
udite, lo avrebbe strozzato colle sue mani. Al mattino si riscuoteva
dal pesante letargo, in cui aveva finito per cadere; si versava in capo
tutta una brocca d'acqua gelata, pagava l'oste e correva all'officina
dove lavorava più indefesso che mai. Ci volevano i muscoli di ferro e
i nervi d'acciaio che gli aveva dato madre natura per resistere ad una
tal vita.
E ad Azor Atanasio voleva sempre più bene. Spesse volte quando era
solo nella sua camera, lungi da ogni occhio ed orecchio umano, egli
se lo prendeva fra le braccia, quel brutto aborto di cagnuolo, e lo
stringeva, e lo accarezzava, e lo baciava!... dicendogli coll'accento,
con cui altri parlerebbe ad un amante:
— Caro il mio Azor, voglimi bene almeno tu. Io, a te, ti voglio tanto
bene!... È _lei_ che ti ha dato a me; e _lei_.... sappilo, ricordatene,
ma non dirlo a nessuno veh!... _lei_, io l'amo sempre, e sempre più....
e furiosamente! —

VII.
Gli affari della fonderia, intanto, sotto l'abile direzione del signor
Pietro, prosperavano sempre meglio.
Il giovane principale, che tutto curava, tutto voleva vedere egli
stesso, a tutto sopraintendeva e provvedeva, era perciò obbligato
a fare frequenti gite lungi del villaggio, per acquisto di carbon
fossile, di minerali, di macchine, per trattare a viva voce di
ordinazioni, per intraprendere forniture ed appalti: e queste assenze,
più o meno lunghe, dimolto rincrescevano e recavano malinconia a
Lucietta la quale il suo sposo amava sempre più, come, in realtà, il
bravo Pietro meritava che fosse.
Nei tristi giorni della lontananza del marito, la giovane soleva
cercare conforto nelle occupazioni della maternità, intorno a quel
gioiello di bimbo, ch'ella amava con vero trasporto, e nella compagnia
d'Atanasio, il quale, come compagno d'infanzia di Pietro, le pareva
ricordarle più efficacemente il caro lontano. E questi stesso, prima di
partire, soleva dire sorridendo ad Atanasio:
— Ti raccomando mia moglie veh! Falle buona compagnia. —
L'operaio obbediva zelantemente; in quei giorni tutte le ore che
aveva libere, le passava con Lucietta: e sapeva così bene condurre
il discorso, che parlavano il più spesso dei tempi passati, prima
del matrimonio di lei, delle ore che trascorrevano così leste e
così liete nelle belle sere estive sull'aia della casetta di papà
Taddeo; e Lucietta, che vedeva il volto sempre cupo ed arcigno
dell'operaio rasserenarsi, e capiva quanto bene gli facessero siffatte
chiacchierate, gentilmente e con amorevole bontà vi si prestava.
La infelice non sapeva, colla sua generosa e caritatevole debolezza,
quale ardore ponesse nel sangue di quell'uomo, quali folli idee nella
mente, quali audaci e impossibili sogni nella fantasia! Quando Pietro
ritornava, Atanasio allontanavasi di nuovo, si rifaceva più solitario e
più taciturno; ma fra sè e sè continuava a pensare agli avuti colloqui,
interpretava a suo modo, o per dir meglio a gusto della sua passione,
parole ed atti di Lucietta, si guastava lo spirito e la ragione
col martellare continuo d'un'idea fissa. La sua diventava così, per
davvero, un'infermità del cervello, una monomania.
Allora appunto, quando era al suo apogeo questa morale esaltazione
del disgraziato, Pietro ebbe a partirsi di là per quattro o cinque
giorni, affine di procacciarsi certo nuovo combustibile di cui voleva
fare esperimento in una nuova maniera di forni. Ferveva più che mai il
lavoro; per la fine della settimana dovevasi dare compìta una certa
fusione importantissima e di grandi proporzioni, per cui da tanto
tempo s'era in moto ad aggiustare le forme, preparare il materiale,
acconciare gli alti forni. Prima di partire, il principale ebbe a sè
Atanasio, e gli disse:
“Mi tocca abbandonare la fonderia proprio in un momento de' più
importanti e in cui si richiederebbe imperiosamente la mia presenza;
ma urge pure all'estremo andare per quel tal affare nel quale non
posso farmi sostituire da nessuno. Invece qui alla fonderia lascio
te, che sai, e sei capace, e di cui mi fido interamente; adunque su
te, mio caro Atanasio, tutto il carico fino a sabato. Io arriverò
immancabilmente venerdì sera; voglio trovar tutto pronto, perchè
sabato mattina di buon'ora si possa cominciare il gitto; bada bene di
preparare ogni cosa, e non voglio sentir poi pretesti nè scuse. Hai
capito?”
“Sì signore.”
“Dunque ci conto sopra. Ricordati bene! A venerdì sera.”
Il signor Frangia partì. Atanasio non ebbe in realtà altro pensiero
fuori questo: — Lucietta è sola! — La giovane donna, per maggior
fatalità, mai non era stata così benigna ed amorevole all'operaio, nel
quale non vedeva che il compagno d'infanzia, l'amico devoto, la persona
di maggior fiducia di suo marito.
L'esaltazione di Atanasio era al colmo. Pensava rapire Lucietta e
fuggire; gettarsele ai piedi, confessare il suo amore, domandarle
il contraccambio e poi uccidersi; passare un giorno, un'ora di
felicità con lei, e poi morire tutti e due. Contava i giorni. Ancora
settant'ore, e poi il marito sarebbe ritornato; — e quella volta,
prima che egli venisse, doveva compiersi qualche gran fatto; — lo
aveva giurato a sè stesso, se lo veniva ripetendo le mille volte lungo
la giornata; si diceva per incitarsi, per irritarsi vieppiù, che egli
sarebbe stato un vile se al ritorno di Pietro le cose fossero rimaste
come prima, ed egli avesse continuato a sopportare in silenzio lo
spasimo della sua passione.
E mentre siffatta battaglia gli ruggiva nell'animo, egli rimaneva
calmo, taciturno, e freddamente tutto disponeva come se fosse il più
tranquillo uomo del mondo, perchè puntualmente fossero obbediti gli
ordini del principale.
Non c'erano più che due giorni all'arrivo di quest'ultimo.
— Domani, — disse a sè stesso Atanasio, la sera, partendosi da Lucietta
e corrispondendo con uno strano sguardo al gentile saluto ch'ella gli
fece, mentre la si ritirava nelle sue stanze col suo bambinello in
braccio: — domani tutto sarà finito. —
Girò per la campagna fino ad ora tarda con Azor dietro. Dopo mezzanotte
arrivò all'osteria e si diede a picchiare furiosamente. Apertogli,
entrò con passo concitato e comandò, secondo il solito, gli si recasse
nell'usata stanzetta una mezza dozzina di bottiglie, tabacco, lume,
e lo si lasciasse solo. Si chiuse dentro egli col suo cane. Nella
sua testa, quella notte dovette avvenire una tempesta più terribile
di quella che ci racconta Vittor Hugo aver tormentato il cervello di
Jean Valjean nel più bello dei capitoli dei _Miserabili_. Al mattino
uscì come le altre volte, ma si portò seco una bottiglia intiera di
_cognac_.
Lavorò tutto il giorno, come se nulla fosse; Pietro doveva arrivare
alla sera ed avrebbe trovato tutto disposto secondo i suoi ordini.
Il metallo era in fusione nei forni e cominciava a gittar zampilli
di fuoco da qualche commessura, come se impaziente di prorompere e
precipitarsi nelle bocche appostate entro le escavazioni inferiori.
Un calore d'inferno emanava da quel focolare incandescente, in cui
il ferro era liquido come l'acqua. Atanasio esaminò tutto per bene,
diede le ultime disposizioni; poi, venuto il momento di cessare i
lavori, dato un fischio ad Azor che si teneva prudentemente lontano da
quell'inferno, si diresse a passi lenti verso casa sua. Erano le sei;
il treno di ferrovia per cui doveva giungere il padrone non arrivava
che alle dieci, tutti gli operai erano chiamati per quell'ora, affine
di riceverne gli ordini. Atanasio aveva quattro ore innanzi a sè.
Si recò a casa sua, e si vestì cogli abiti da festa. Canterellava
fra sè co' denti stretti; ma doveva avere sulle sembianze la traccia
dell'interno turbamento, perchè Azor sedutosi in un angolo della
stanza lo guardava fiso in modo inquieto, con que' suoi occhi pieni
d'intelligenza seguitandolo in ogni movimento.
Tratto tratto Atanasio si fermava, pensava, rifletteva come uomo che
fa per ricordarsi qualche cosa, e poi, dato di piglio alla bottiglia
del _cognac_ ne tracannava giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu
vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore
delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per
uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse
alla porta per seguirlo.
— No, carino! — gli gridò l'operaio con istrano accento: — quest'oggi
non si può: devi rimanere. —
Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli
diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già
fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro.
— Azor! — chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi
colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno.
Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò.
— Chi sa se ti rivedrò ancora! — disse. — Sta' costì mio buon Azor, e
Dio te la mandi buona. —
Lo pose sul letto e poi uscì correndo.
Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva
gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva
chiaramente che l'infelice era fuori di sè.
“O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di
Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?”
Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in
ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò
come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia,
ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al
seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo.
“No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete
lasciar più che dandomi la vita o la morte.... Voglio che sia così....
O mia, o di nessuno mai più!”
“Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al
vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro...”
“Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti.
In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura:
“Lucietta! Lucietta!”
Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava
col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie.
Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte
e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che
cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di
lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che
accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli
medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la
spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo;
si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già
piena, come un forsennato.
Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo
tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come
tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo
degli altri operai.
— Lucietta gli avrà detto tutto, — pensava: — fra Pietro e me che cosa
sta per succedere? —

VIII.
Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero
dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per
essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie
felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò
invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire
la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza
latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e
sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato
abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco
nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che
cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.
— Sa tutto! — diceva fra sè quest'ultimo. — Or ora scoppierà la bomba:
— ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. — Meglio! Sono
stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.
Pietro alzò la voce con accento imperioso.
“Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue
istruzioni. “Domani alle sei al posto.... e guai chi manca!”
A quell'ora si sarebbero aperti i forni.
“A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno....” parve esitare un
momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”
Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.
“Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e
sonora.
C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con
aria di profondo risentimento.
“Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello
che vi dico.”
Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle
officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo
di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo.
— Ah, ah il vile! — esclamò, parlando a sè stesso. — Vuole prorogare
fino a domani la tragedia.... Vuole avere ancora questa notte per
sè..... Questa notte?... Giuro al cielo e all'inferno!... —
I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e
quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un
poco.
“Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi:
questo ti rinfrescherà.”
E porse al compagno la bottiglia del _cognac_, che l'altro non si fece
pregare di molto per mettere alla bocca.
“Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo!
Mano alla pala, e giù combustibile.”
E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul
fuoco.
Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto
era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del
fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la
bottiglia del _cognac_, si era addormentato in un cantuccio sopra uno
stramazzo. Atanasio, accoccolato in faccia allo spiraglio ardente della
fornace, le mani sulle ginocchia e la faccia nelle mani, pensava.
— Aspettare fino a domattina!... Perchè?... E poi che avverrà egli?...
Mi scaccerà.... Forse mi vorrà umiliare in presenza di tutti.... Oh
no per Dio!... Non lo vo' tollerare.... È meglio finirla... Finirla
subito, e tutti! Sì, tutti! Lasciarli dietro di me a godersi il loro
amore? No: per la maledizione di Dio!... Un poco d'acqua in quel
metallo in fusione, e si salta tutti in aria, la fonderia, la casa,
tutti!... Oh sì, che bello spettacolo! —
Rise e si alzò con impeto, per mettere in esecuzione quell'orribile
progetto. Ma nel migliore ebbe paura. Aveva già in mano una secchia
per gettarla e si trattenne. Come se avesse avuto sentore del pericolo,
Girolamo in quella si svegliò.
“Che fai tu costì?” gli disse.
“Nulla,” rispose Atanasio: “Ho una sete che mi strugge le fauci, e
pensavo di andare per un po' d'acqua fresca.... Appunto, fammi il
piacere, vacci tu.”
Girolamo si scosse come un can bagnato, prese la secchia ed uscì.
Atanasio, senza aver bene coscienza di sè stesso, saltò contro uno
de' forni, il più grande, e con una gran mazza di ferro percosse
nell'usciolo che ne otturava l'uscita. Un zampillo di fuoco sprizzò
fuori lanciando scintille da tutte le parti. L'operaio ebbe appena il
tempo di gettarsi in là, le bocche delle forme non erano ancora aperte
e il rivolo di fuoco, come la lava d'un vulcano, precipitava rapido
e stendevasi al suolo empiendo tutto di fumo, crepitando, fremendo,
rombando. Atanasio spaventato volle gettarsi a tentar di tappare di
nuovo quella uscita. Era impresa oramai sovrumana, impossibile: il
fiotto impetuoso del liquido incandescente s'era aperto un largo
passaggio e non era più un zampillo, ma un vero fiume ribollente,
impetuoso, che si riversava per terra. Atanasio, assalito da alto
terrore, gettò un grido spaventoso d'allarme e fuggì smarrito.
Incontrò sulla soglia Girolamo che veniva correndo, spaventato ancor
egli da quel grido, che aveva udito risuonare per la notte.
“Che cos'è?”
“Scappa, scappa.... Il metallo ha rotto la fornace e si riversa
tutto....”
Le imposte delle porte e delle finestre della fonderia, i correnti e i
travi del tetto, tutto ciò che si aveva di legno là dentro, le pareti
stesse divampavano, fiammavano, e il tremendo fiotto di fuoco già si
precipitava di fuori nel cortile.
Delle due ale del fabbricato, quella a sinistra conteneva i magazzini
del combustibile, e lì presso subito, immediatamente confinante il
quartiere abitato da Pietro, da sua moglie, dal bambino. La bollente
lava di metallo fuso, come se fosse guidata dall'odio di chi le aveva
dato l'aíre, si diresse a volute sempre più crescenti verso quella
parte.
Girolamo si cacciò a fuggire, urlando come un dannato; Atanasio corse
qual dovette correre Caino, dopo il primo assassinio commesso nel
mondo.
Si fermò dopo dieci minuti sopra un'altura. Quale orrendo spettacolo!
La fonderia era tutta una fiamma, il magazzino di combustibili ardeva
come un mucchio di fascine, le fiamme lambivano colla loro lingua di
fuoco la casa dove abitavano i Frangia, e del quartiere dove stavano
Pietro, Lucietta e il bambino, già ardevano le persiane e i telai delle
invetriate.
In mezzo a tutto quel chiarore, si vedevano come macchie scure correre
affaccendati alcuni uomini; dal villaggio venivano pur correndo gli
abitanti, svegliati dalle grida di Girolamo prima, degli altri operai
poscia, e affrettati per ultimo dai rintocchi della campana suonata
a martello; fino al luogo dove s'era fermato Atanasio, si udiva
arrivare un rumore confuso che era il suono assembrato di grida, di
esclamazioni, di preghiere, di bestemmie, di pianti di tanti uomini e
di tante donne disperati, spaventati.
Atanasio stette un mezzo minuto a contemplare quello spettacolo, i
denti stretti, le braccia serrate al petto, un mezzo minuto che gli
parve un'ora; parevagli sentir nel volto il calore di quelle fiamme a
cuocergli le carni. A un tratto sentì un fruscio fra le piante, e un
essere animato giunse correndo presso di lui e gli saltò alle gambe
guaendo, mugolando, vociando in ogni suo modo. Era Azor fuggito di
casa, chi sa come, cui l'istinto aveva condotto sin là tra le gambe del
suo padrone. Questi si chinò verso la povera bestia ad accarezzarla. Il
cane lo addentava pei panni e pareva volerlo tirare.
— Dove mi vuoi tu condurre? — diceva lo sciagurato, resistendo. —
Laggiù? là in quell'inferno? Che cosa vuoi ch'io vada a fare?... Là
si compie ora la mia vendetta.... All'uno tutto, e all'altro nulla!
Ricchezze, agi, gioie, famiglia, e l'amore di lei! Tutto per lui!... Ed
io niente!... D'ora in poi non avrà più nulla neanch'egli, nè sostanze,
nè moglie, nè bambino.... —
L'idea del bambino lo scosse.
— Ah! quell'innocente!... E lei!.... lei!... Morire così
crudelmente!... —
Azor, come se vedesse che la pietà stava per entrare nell'animo del
padrone, raddoppiava il suo mugolìo.
— E lei che ti ha dato a me.... La vuoi salva?... Hai più cuore di
questo miserabile. —
Prese la corsa verso l'incendio, e il cane dietro di galoppo.
Quando giunse, il fuoco già consumava il tetto dell'ala abitata da
Lucietta; dalla finestra proprio della stanza di lei cominciavano ad
uscir fumo e faville. Atanasio vide la donna con in braccio il suo
bambino, che urlava con voce da straziare l'animo di qualunque.
Pietro, svegliato in sussulto alle grida di Girolamo, non aveva
avuto tempo che di dire alla moglie: — Salvati col bambino, — ed era
corso dove allora più premeva il pericolo. La donna, resa incapace di
muoversi dallo spavento, si era lasciata sopraggiungere dall'incendio.
Un uomo accorreva con una lunga scala: dietro di lui, ansante, Pietro
che in mezzo all'infernale tumulto, aveva pure udito il grido della
madre di suo figlio. La scala fu appoggiata al muro; in quella un
vortice di fiamme avvolse la misera donna col bambino alla finestra.
S'udirono come un grido d'agonia suprema le parole: — Mio figlio! — e
la madre e il piccino sparirono come inabissati.
Pietro, forsennato, fece per islanciarsi sulla scala: una mano di ferro
lo fermò.
— Indietro! — gli gridò una voce che egli non riconobbe. — Tocca a me. —
E Atanasio, lesto come uno scoiattolo, si arrampicò su pei piuoli, e in
un attimo fu alla finestra e si precipitò dentro.
Azor, postato innanzi a quella finestra, accompagnava il suo padrone
cogli abbaiamenti, come se lo volesse incoraggiare.
Atanasio, avvolto nel fumo che turbinava, non vide nulla, ma inciampò
in un corpo disteso per terra; si chinò, sentì che la era una donna,
l'afferrò e stringendola fra le braccia, scavallò di nuovo il parapetto
e incominciò a discendere con essa.
Lucietta era caduta in uno svenimento cagionatole dal terrore, ma le
fiamme non l'avevano ancora toccata. Però l'incendio pareva che non
volesse lasciarsi rapire la sua preda. Atanasio, con precauzione,
cercava col piede il piuolo su cui posare, quando un'ondata di fuoco si
scatenò addosso a lui, lo avviluppò, ne pose in fiamme la capigliatura
e lo svolazzo della tunica sulla schiena. Egli col suo fardello fra
le braccia vacillò: un alto grido d'orrore eruppe dai petti di tutti
gli astanti, che tremavano e palpitavano. Pure il robusto uomo non
fu vinto, con una mano aveva già afferrato il capo della scala, vi si
mantenne e fra mezzo alle fiamme continuò a scendere.