Tra cielo e terra: Romanzo - 14
Che cosa avrebbe fatto laggiù? con qual pretesto avrebbe fatto una lunga
fermata, egli che non soleva restarci più di quindici minuti, il tempo
di salutare, di chieder notizie e di carezzare i bambini? Non si sarebbe
sospettato che egli sapesse già della venuta, di Gisella, e che appunto
per lei fosse andato a far sosta sull'aia dei Feraudi? Così, facendo
l'ora del ritrovo, meditando la sua prossima felicità, sognando ad occhi
aperti, guardava ad ogni tanto l'orologio. I minuti gli parevano secoli,
e sempre al medesimo posto quelle lancette del malanno! Che cosa
avevano, le due sottili asticciuole d'acciaio? Fatte per camminare, non
volevano dunque più muoversi?
Le lancette ebbero pietà di lui, ma un po' tardi, non un minuto prima
del convenuto. Sono così metodici, gli orologi! Per uno che corre,
quanti che ritardano! Erano le undici meno pochi minuti, quando egli
uscì dal rifugio, e lento lento si avviò verso le rovine del Martinetto.
Aveva lasciato sul sedile di pietra del torrione il suo mazzolino di
capelveneri e di fiorellini azzurri, destinato a lei, e che perciò non
doveva esser veduto anticipatamente da altri. Sceso sotto le rovine, si
avviò per il solito sentiero che correva lungo la costa del monte, ed
apparve alla vista del casolare dei Feraudi, avendo l'aria di venirsene
a passo a passo dal Castèu. Lo videro da lontano i bambini, e Vittorio
fu il primo a gridare:
--Il signor Maurizio! il signor Maurizio che viene da noi.--
Rosina accorse a sua volta, battendo le palme in segno di allegrezza;
dietro a lui si affacciò Biancolina.
--Questi ragazzi vi fanno ritardare;--diss'ella, vedendo il signor di
Vaussana, che lasciava la strada per prendere il sentieruolo del
casolare.--Andate alla Balma?
--Sì, per portare alla contessa un'ambasciata di mia sorella
Albertina;--rispose Maurizio, che sentiva il bisogno di preparare un
buon pretesto.--Ma ci ho tempo;--soggiunse.--Tanto, a quest'ora non
avranno finito di far colazione. E come va la salute?
--Bene, signor Maurizio; grazie a voi, non abbiamo più tempo di star
male.
--Non dite questo, Biancolina. C'è qualchedun altro che vi assiste, e un
po' meglio di me.
--Volete dire quell'angelo della signora? La metteremo, se mai, a pari
con voi. Son cinque giorni che non abbiamo la fortuna di vederla.
--Glielo dirò; glielo dirò, che non vi trascuri;--disse di rimando
Maurizio, che non aveva l'aria di volersi rimettere in cammino per far
la commissione.--E i vostri balocchi, bambini? Li avete già rotti? è il
caso di rifarvi la provvista?--
Ne avevano infatti dei rotti; un cavallino, tra gli altri, a cui
mancavano due gambe, e un cane che non abbaiava più, per essersi
scollata la pelle del manticino. Ma ne avevano ancora dei nuovi, o
quasi: un'arca di Noè, fabbricata a Norimberga, con otto o dieci animali
ancora presentabili, e un alfabeto di legno, a cui, per miracolo, non
mancavano che due o tre lettere. Quell'alfabeto era per allora il gran
divertimento dei piccini. Vittorio conosceva già tutte le lettere;
Rosina, più precoce di lui, compitava già qualche sillaba.
Seduto accanto alla tavola di cucina, Maurizio si divertì ad ordinare in
varie forme parecchi tasselli di quell'alfabeto infantile. Cominciò col
nome di Biancolina, e finì con quello di Gisella, tenendo desta
l'attenzione dei ragazzi, e ammirando la prontezza con cui sillabava la
piccola Rosina. Così nessuno si avvide della contessa Gisella, quando
ella apparve sull'aia; e la bella signora, capitando improvvisamente là
dentro, fu accolta da un grido di lieta maraviglia. S'intende che il più
maravigliato di tutti parve il signor di Vaussana.
Vestita del suo prediletto color bianco, rallegrato dalle solite
screziature di rosso, fresca, giovanile più che mai nell'aspetto,
animosa nel sorriso delle labbra e nello sfavillìo delle pupille
d'indaco, la contessa Gisella giustificava pienamente l'opinione di
Maurizio: non era mai stata così bella come allora. Cessata la festa di
tutti per la sua improvvisa apparizione, rimase lungamente a discorrere
con Biancolina, a baloccarsi coi ragazzi, tenendo sulle spine Maurizio,
che vedeva oramai correr tanto veloce il tempo, quanto era stato lento
da prima. Egli chiedeva a sè stesso come mai avrebbe fatto la signora a
spiccarsi di là, e incominciava a temere ch'ella non volesse più
muoversi, se non per ritornare alla Balma.
--Sapete?--le disse, dopo aver almanaccato un bel pezzo.--Venivo a farvi
un'ambasciata da parte di mia sorella Albertina.
--Non ce ne sarà più bisogno,--rispose Gisella,--perchè vado io da lei.
Come vedete, ero in istrada. Ma voi, piuttosto, signor Maurizio, non
avevate gran fretta di giungere alla Balma.
--Mi hanno veduto i bambini, mentre passavo di là sotto;--replicò egli,
felice di avere avviate le cose.--Perciò mi son fermato un momento; come
voi, signora, come voi.
--Quanto a me,--disse Gisella,--è un altro affare. Io non passo mai di
qua senza fermarmi al Martinetto, per salutar Biancolina. Del
resto,--soggiunse cerimoniosa,--ci ho guadagnato d'incontrarvi e di
avere un buon compagno per la discesa. Venite dunque, Vaussana, e faremo
anche il giro più largo. Così mentirà una volta ancora la vostra
impresa: _tout droict Sospel_.
--Così la spiegate?--diss'egli, facendo bocca da ridere.
--E come no? Siete l'uomo dei gran giri, voi; ed anche delle lunghe
fermate. Ci avete sempre qualche albero da ammirare, qualche sasso da
adorare, qualche filo d'erba da restarci incantato.--
In questo modo era trovata la gretola. Salutata Biancolina, fatta una
piccola distribuzione di confetti a Rosina e a Vittorio, la bella
signora si avviò con Maurizio per la discesa; ma senza continuarla a
lungo. Giunta appena fuor dalla vista del casolare, prese con Maurizio
il sentiero verso le rovine del Martinetto. Finalmente! Ma ella tremava
un pochino, prendendo il braccio che le offriva Maurizio.
--Ah!--esclamò egli, turbato.--Che avete?
--Nulla, nulla, son forte, più forte che tu non immagini;--s'affrettò
ella a rispondere.--Povero mio Rizio! Hai tanto sofferto, non è vero?
--Mio Dio!--mormorò egli.--Temevo di non vederti più.... così, come
quest'oggi. E sarebbe stato un orrore.
--A chi lo dici! Ero ben cattiva;--rispose ella, reclinando la bionda
testa sul petto del compagno.--Ma voglio che tu mi perdoni; voglio che
tu viva, che non ti ammali più, mio povero Rizio. Che viso hai tu,
quando soffri! e come mi levi allora il coraggio! Ho combattuto, ho
resistito a lungo; ma sono stata vinta, vinta, per non ripigliarmi mai
più. L'ho detto ieri, l'ho giurato a me stessa: non sarà mai che il
povero Rizio soffra tanto per cagion mia. Soffrivo anch'io, sai? Ma per
me avrei sofferto ancora; non ci avrei badato; avrei saputo morire. Per
te, no; per te mi son mancate le forze. Pensando come sei stato male,
come hai vaneggiato, come hai delirato, mi sento un'altra, capisci?
un'altra; quella di prima, dei giorni belli, che erano i tuoi, come
questa povera creatura, che ritorna nelle tue braccia.--
Rabbrividì, entrando nella macchia; ma si riebbe, sotto un bacio di
Maurizio, nel punto che egli metteva il braccio davanti a lei, per
isviare i rami dei nocciuoli e darle passo nel folto. Voleva esser
forte, valorosa, allegra; e sorrise al suo nido così bene ascoso nel
verde, nell'atto di porre il piede sulla soglia del terrazzo. Ma il
sorriso le morì sulle labbra, ed ella tremò tutta, vedendo un gesto di
turbamento del suo dolce compagno.
--Che hai, Rizio?--gli domandò sbigottita.
--Nulla, nulla;--rispose egli, padroneggiandosi a stento.--Dei fiori,
per voi.... Credevo di averli lasciati qui.... Li avrò forse portati con
me, senza avvedermene, e mi saranno caduti.--
Parlava così, cercando d'ingannare sè stesso. Ma era ben sicuro del
contrario, e tremava.
--Caduti? Certamente, ma non laggiù;--diss'ella, che in un volger
d'occhio aveva frugato da per tutto.--Sarebbero questi, per caso?--
Così dicendo, muoveva verso il parapetto, e si chinava a raccattare in
un angolo un mazzolino di capelveneri.
--Son questi, sì, son questi;--rispose Maurizio, respirando.--Ma come
così lontano dal sedile, dove io li avevo collocati? Perchè mi ricordo,
ora, mi ricordo bene di averli posati qui, al vostro posto.
--Ebbene?--ripigliò Gisella.--Erano qui? Rimettili dove li avevi
lasciati. Vedi? ruzzolano ancora; segno che il sedile non è ben piano.
Che caro spericolone, il mio Rizio! e come corre subito a pensare il
peggio! Eravamo già lì col mal augurio, non è vero?--
Maurizio sorrise, e si calmò. Ma aveva avuta una bella paura.
--No, no;--rispose egli.--Cioè, diciamo pure di sì. Temevo di aver
perduto quei fiori: e sarebbe stato veramente un cattivo augurio per
me.--
Non voleva dire: temevo che qualcheduno fosse stato qui, mentre eravamo
laggiù. Del resto, il dirlo sarebbe stato inutile, poichè i fiori erano
stati ritrovati, e l'esperimento di Gisella aveva dimostrato in che modo
fosse caduto il mazzolino. Egli era persuaso oramai, e voleva
discacciare tutti i negri pensieri. Per discacciarli bene, bastava
guardare quella stupenda creatura nel viso. Com'era bella. Dio santo!
Maurizio la trasse a sè, con una gran sete di baci che gli ardeva il
sangue, che lo stringeva alla gola.
Momento supremo! Stanchi di rincorrersi tra i rami, gli uccellini
posavano sotto la frappa, sotto la bella frappa tinta di un verde
carico, vaporante all'aria tiepida del mezzodì gli acri profumi dei
succhi vigorosi. Dormiva la brezza sotto la vampa del sole; e ad ogni
palpito lieve del suo buon sonno, si muovevano lenti i chiari smeraldi
onde i raggi solari frastagliavano capricciosamente i vani strati
diseguali del cupo fogliame. In quell'alta pace delle cose, sola
continuava ad agitarsi la cascata d'Aiga, rapida, fremebonda, impetuosa
nella sua curva rutilante, cantando con assiduo metro all'abisso la sua
canzone d'amore. E mentre essa volava piombando con desiderio infinito
nel seno dell'amato, Rizio stringeva fra le sue braccia la bella
creatura adorata, guardandola negli occhi, divorandola coi baci, e poi
guardandola ancora, insaziato, insaziabile. Strana bellezza di quegli
occhi! Per entro all'umor cristallino dal colore dell'indaco stemperato,
nuotavano pagliole d'oro, simili alle vene ed ai punti del prezioso
metallo ond'è sparsa la massa turchina del lapislazzoli. Ma in questa
gemma è l'oro imprigionato ed immobile: in quegli occhi divini, come in
gemme viventi, indaco ed oro palpitavano balenando; ed ogni palpito era
una voce del cuore, ogni baleno un pensiero dell'anima, che si
sprigionava di là, involgendo, accarezzando, inebriando. Momento divino!
Le anime si son ritrovate; le anime si ricongiungono in quel punto; le
anime si confondono l'una nell'altra, invocando l'eternità dell'istante.
Sempre, van ripetendo le labbra, sempre, sempre! E nella dolce parola,
proferita con tutta la energia di cui l'accento umano è capace, non una
lettera si perde, ognuna ha suono, colore e calore. La prima sillaba è
una aspirazione intensa, come di preghiera in cui tutti i sentimenti si
stemprino; la seconda riproduce la stretta violenta d'un bacio che
scocchi premendo; le collega ambedue una profonda caduta, un abbandono
confidente dell'essere. Sempre! O buon Dio, clemente e misericordioso
Signore, che di tanta tenerezza, di tanta soavità, di tanta beatitudine
avete fatto l'amore, perchè non fare di eternità il suo momento supremo?
È ben vero che l'eternità parrebbe anch'essa un istante, e mai come
allora si sentirebbe che le due cose son una.
Tutto ad un tratto la bella creatura sussultò nelle braccia di Rizio.
Gli occhi si dilatarono in espressione di terrore; si scolorarono le
labbra, e ne proruppe un grido d'angoscia. Tremante all'atto repentino,
stringendo più forte la sua Gisella, quasi temesse in quell'istante di
perderla, Maurizio girò tutto intorno gli occhi sospettosi: non vide
nulla di nuovo; ed ancora si volse a lei, chiedendole collo sguardo il
perchè del suo turbamento improvviso.
--Lui!--mormorò ella con accento soffocato.
--Lui!--ripetè Maurizio.--Chi? dove?--
E guardò ancora, guardò meglio, dove pareva accennare lo sguardo
atterrito di Gisella. Frattanto, alzandosi a mezzo, si atteggiava
istintivamente a difesa.
--Lui! lui! non vedi?--gridò ella, aggrappandosi spaventata alle
braccia di Maurizio.--No, no, pietà, non mi guardate così!--soggiungeva
con accento supplichevole.
Allora anche Maurizio vide. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, e
un freddo acuto gli corse per tutte le vene. Là, nella frappa, dalla
parte dond'essi erano venuti al rifugio, ritto sul fianco, alta la
testa, in atto severo, vestito d'una gran tonaca di color marrone, si
vedeva un monaco; lui, lui, il padre Anselmo da Carsoli. Immobile della
persona, irrigidito nel suo atteggiamento spettrale, non accennava di
voler fare un passo più avanti; ma, a guardarlo bene, si vedeva
tentennare lentamente il capo, con aria di muto rimprovero. Ad un tratto
levò il braccio e tese la mano, minacciando col gesto, come già
minacciava collo sguardo.
Maurizio era rimasto un istante perplesso, fissando con occhi sbarrati
la strana apparizione. Ma tosto, irritato da quel gesto minaccioso, non
potendo più sopportare la tetra luce di quello sguardo severo, fece
l'atto di avventarsegli contro. Gisella lo trattenne, Gisella che si
avvinghiava disperata al collo di lui.
--No, no,--ripeteva ella, come pazza di terrore.--Abbiate compassione!
Dannata no.... dannata no. Voi me lo avevate detto; è vero, sì, è vero;
sareste venuto a rinfacciarmi il mio delitto, venuto ad ogni modo, in
ogni tempo, dovunque vi foste trovato, a punirmene. Lo so, padre, lo so.
Ma egli moriva, moriva per cagion mia. Perdono! Iddio non poteva
volerlo; perdono!--
Il colpo era stato troppo grave, l'esaltazione troppo grande; la povera
creatura, disfatta dallo sforzo violento, ricadde inerte nelle braccia
di Maurizio. Fremente di sdegno, egli l'adagiò sul sedile, e libero
appena del caro peso si scagliò contro il monaco. Più nulla; il monaco
era scomparso. Ma come? neanche una foglia si muoveva laggiù, dov'egli
lo aveva pur dianzi veduto; nè alcuno strepito di rami smossi si udiva
nella macchia, nè alcun rumore di passi tra gli sterpi. Un fantasma,
dunque? E la povera Gisella nel suo terrore, ed egli sotto la pressione
delle braccia di lei, erano stati in balìa d'una medesima allucinazione?
Gisella era svenuta. Sbigottito, egli corse all'acqua, risicando ad ogni
passo di scivolar nell'abisso. Là, nel fascio spumeggiante, intrise il
fazzoletto a guisa di spugna, per venire sollecitamente a spruzzarne il
volto e il collo della creatura adorata. Con mano mal destra, ma pronta,
strappando convulsamente dove non poteva slacciare, le aperse la veste
al sommo del petto, per farla respirare più libera. Non ebbe pace, non
ebbe posa, fino a tanto non la vide riaprire i begli occhi languidi alla
luce del giorno.
Allora, prendendo animo dalla necessità del momento, se la recò tra le
braccia e si avviò verso la macchia dei nocciuoli; proteggendole il
volto come poteva, andando a ritroso, cacciandosi avanti colle spalle e
coi gomiti, si faceva strada a forza tra i rami. Che orrore! che orrore,
se non avesse potuto trarre in salvo la dolce creatura! Ma
finalmente.... finalmente, uscivano da quell'intrico di piante. Ancora
un centinaio di passi, e le rovine del Martinetto erano in vista.
CAPITOLO XVIII.
Povera bella!
Biancolina Feraudi ebbe quel giorno un segreto da custodire, anche per
suo marito, quando il brav'uomo fu richiamato a gran voce dal pascolo e
mandato in fretta e furia alla Balma, per avvertire il conte Matignon
del triste caso toccato alla sua signora, mentre ella si trovava di
passaggio al casolare del Martinetto.
Il generale ricevette l'annunzio doloroso mentre ritornava da una delle
igieniche cavalcate che da pochi giorni aveva preso a fare per
ordinazione del medico. Spaventato accorse, ansando e sbuffando, ma
facendo i passi lunghi e frettolosi, come un giovanotto, non avvedendosi
neanche della cattiva strada che doveva fare per recarsi lassù. Quando
giunse, trovò Gisella ancora mezzo vestita, distesa sul letto di
Biancolina, e il medico di San Giorgio al suo capezzale. La povera bella
era inerte, con le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhi
semichiusi, cerea nel volto, come una morta.
--Che cosa è stato?--gridò il generale, cacciandosi avanti a guardare,
poi rivolgendosi con gli occhi stralunati verso il dottore.--Parlate, in
nome di Dio!
--Signor generale, che dirvi?--mormorò il dottore.--È ancora il suo
male. Non era eliminata.... non poteva eliminarsi la causa.... e gli
effetti si ripetono. Fortuna ancora che il signor di Vaussana è venuto
ad avvertirmi subito.
--Sì,--soggiunse Biancolina,--e fortuna maggiore che i miei piccini
l'abbiano veduto passar qui sotto, mentre dal Castèu si recava alla
Balma. È stata una vera provvidenza che egli si ritrovasse sulla
strada.--
Quella brava donna non era stata avvertita nè pregata di nulla; aveva
indovinato tutto, o quasi tutto, e trovava nel suo cuore riconoscente il
segreto delle pietose bugìe. Ma non era tempo per nessuno di fare
indagini troppo minute: l'essenziale era di provvedere, di correre ai
rimedii, di salvare, se fosse possibile, la povera inferma. Che cosa
pensava il medico? che cosa consigliava? Il medico Soleri per allora non
pensava, non consigliava nulla; bensì aveva molto da fare. Ripigliava in
quel punto l'ufficio che dall'arrivo del generale gli era stato
interrotto: con forti, assidue strofinate cercava di riattivare le
funzioni cutanee. Biancolina, dal canto suo, con un gran ventaglio (il
suo ventaglio di sposa, serbato fin allora gelosamente nel suo forziere
nuziale) rinfrescava l'aria al viso ed al petto dell'inferma.
--Non c'è altro?--chiese il generale, dopo alcuni minuti.--Non c'è altro
da fare?
--Sì, sì, non dubitate;--rispose il dottore.--Si fa ora quel che si può,
in attesa dei rimedii.--
Aveva appena finito di parlare, che si sentì rumore di persone
accorrenti. Giungeva allora il signor Maurizio, affannato, grondante di
sudore, con una sporta tra mani.
--Ecco;--diss'egli, senza pure avvedersi della presenza del
generale;--vedete se c'è tutto quello che avete ordinato.
--Siate benedetto!--rispose il dottore, mettendo mano alla sporta, e
traendone fuori l'uno dopo l'altro parecchi involtini, boccette ed
arnesi di varie forme.--Anche del cognac! egregiamente;--soggiunse,
prendendo una bottiglia di vecchio Martel, e versandone alcune gocce in
un piccolo cucchiaio, che accostò subito alle labbra dell'inferma.
Il generale si buttò nelle braccia di Maurizio, mescolando lagrime e
ringraziamenti. Maurizio, a tutta prima confuso, accolse in silenzio
quella dimostrazione affettuosa, che sentiva di meritar così poco. Ben
presto la loro attenzione fu rivolta alla povera giacente. Le gocce
dello spiritoso liquore l'avevano rianimata un tratto. Ma il respiro era
quasi impercettibile, e si sentivano appena i battiti del cuore.
Raccomandato a Biancolina di strofinar lei le braccia e il seno
dell'inferma, il dottore aveva messo mano ad altri apparecchi, per farle
alcune iniezioni ipodermiche di etere e di liquore anisato di ammonio.
Era di una operosità portentosa, il bravo dottore. Trovò anche modo di
applicare qualche vescicatorio volante, determinato con ammoniaca
liquida concentrata. Oramai, la sporta di Maurizio gli permetteva
quell'abbondanza di tentativi. E ci volevano tutti, proprio tutti, per
far riavere la povera donna. Respirando sempre a stento, aperse gli
occhi e li girò lentamente intorno; riconobbe il generale, allora, e con
un fil di voce proferì il nome di lui.
--Ettore!...
--Oh, Gisella, figlia mia!--gridò egli, precipitandosi alla sponda del
letto e dando in uno scoppio di pianto.
--Via, via! gli uomini non ridiventino bambini!--disse il dottor Soleri,
intromettendosi coll'autorità del suo ministero.--Generale, lasciate
fare; non turbiamo con queste commozioni il poco che si è potuto
ottenere finora.
--Avete ragione;--disse il vecchio, ritraendosi;--obbedisco. Ma voi
salvatela, dottore, salvatela!--
E andò singhiozzando a sedersi in un angolo, accanto a Maurizio, che si
era buttato là sopra una scranna, con gli occhi a terra, senza parole,
senza lagrime. Poco stante giungeva la contessa Albertina che avevano
fatto chiamare i Feraudi. La mite e buona signora del Castèu, col
pronto coraggio silenzioso che è tutto delle donne, prese subito il suo
posto d'infermiera accanto al vecchio dottore.
Passarono due ore di terribile angoscia per tutti. Il respiro
dell'inferma si era fatto più lento: appena dieci respirazioni al
minuto. Il dottore credette necessario di avvertire che non aveva più
speranze. Veramente, non ne aveva avute mai, dal momento ch'era stato
chiamato. Ma parlava così per trarne occasione di consigliare che si
mandasse pel prete, se pure i conforti religiosi fossero per piacere
alla famiglia. Albertina conosceva l'animo di Gisella: si affrettò a
condurre il generale fuori della camera, per dirgli il parere del
medico, e insieme il suo consiglio, che non poteva essere disforme dal
desiderio della malata.
--Tutto ciò che vorrete;--rispose il vecchio gentiluomo, stringendosi i
pugni alla fronte.--Se Dio facesse un miracolo! Credete voi che lo
farà?--
Albertina levò gli occhi al cielo, e uscita di là spedì subito ad
avvisar l'arciprete di San Giorgio.
Mezz'ora dopo don Martino era giunto, con la cotta, la stola e la
pisside, involta nel suo copertoio di seta. Dio entrava con lui; si
ritirarono tutti. La giacente accolse don Martino con un lampo dagli
occhi e un sorriso. Certamente aspettava quel momento. Ma non aveva
forza di parlare, per confessarsi; don Martino parlò per lei; all'invito
del confessore, una lieve pressione di mano, un lieve cenno delle
labbra, doveva dire il pentimento delle colpe. L'assoluzione fu pronta,
e pronto del pari fu il rito che univa quell'anima a Dio. Un senso di
beatitudine si diffuse allora sul volto cereo della morente. Il medico
poteva rientrare, e tutti gli altri con lui.
Il generale era rimasto nella cucina, seduto presso la tavola, con le
braccia ripiegate sulla lastra e il volto ascoso nelle braccia. Doveva
essersi assopito; non si era mosso, infatti, nè alla partenza di don
Martino, nè all'andare e venire degli altri.
Maurizio entrò a sua volta nella camera, e si accostò al letto di
Gisella. Non poteva più resistere al desiderio di vederla ancora. Il
medico e Albertina stavano a' piedi del letto, preparando una pozione,
ed egli fu solo un istante al capezzale. Gisella aveva gli occhi
semichiusi; lo vide, lo riconobbe, e fece uno sforzo per proferire
qualche parola. Non fu che un soffio, per altro; ma egli intese quel
soffio.
--Dio perdona;--diss'ella.
--Oh! perdoni a tutti;--rispose Maurizio.
Gisella aveva mossa la mano; ed egli aveva presa quella mano. Gisella
allora volse gli occhi, come invitandolo a seguire il suo movimento; ed
egli pure volse gli occhi dove ella accennava. Ah! che voleva dir ciò?
Maurizio rabbrividì, mentre un sudor freddo gli bagnava le tempie.
Dall'altra banda del letto, il frate! ancora il frate! Ma egli aveva il
cappuccio calato sulle spalle; la testa del padre Anselmo appariva
intiera, luminosa; l'aspetto era benevolo, la mano era stesa in atto di
benedire.
Maurizio s'inchinò umiliato, e lasciò la mano di Gisella. Quando rialzò
gli occhi non vide più il monaco. La visione era sparita. Gisella
sorrideva ancora, e cercava con gli occhi, pareva domandar qualche cosa,
o qualcheduno.
--Chi?--disse Maurizio--il dottore?
Ella fece un cenno di diniego col capo.
--Il generale?--rispose Maurizio.
Il capo e gli occhi di Gisella accennarono di sì.
Maurizio si mosse sollecito, e andò dal generale, che era ancora
assopito. Scosso da lui, il conte Ettore si destò in soprassalto.
--Morta?--esclamò egli, rabbrividendo.
--No, generale; vi chiede.--
Il vecchio gentiluomo accorse, e si chinò con atto affettuoso verso di
lei. Gisella guardò il marito, lo guardò lungamente; poi si sforzò di
sorridergli. Schiantava il cuore, quel triste sorriso. E volle parlare,
la povera creatura; ma non le venne più fatto. Maurizio, che vide
l'atteggiamento di quelle labbra scolorate, Maurizio che ne colse una
sillaba, intese ciò che la morente voleva dire al marito. E si ritrasse
ancora, premendosi il pugno al cuore, che pareva volesse scoppiargli in
quel punto.
--Ah!--pensò egli.--Perdono! sempre perdono! Chi perdonerà a me il mio
delitto?--
Il rantolo crescente diceva che gli ultimi momenti si avvicinavano. Il
medico tentò ancora di richiamare quella povera vita fuggente: ma
l'etere non valse più a prolungarle l'agonia. Erano paralizzate le
contrazioni del cuore; le respirazioni non più di sei al minuto.
Albertina s'inginocchiò presso la sponda del letto, pregando. Anch'egli
inginocchiato, il conte Ettore copriva la mano di Gisella delle sue
lagrime silenziose. Quella mano a grado a grado si raffreddò tra le sue.
Era cessato il respiro, cessato il movimento del cuore; un placido
sorriso si era diffuso sulle labbra di Gisella. Le ombre del crepuscolo
incominciavano ad invadere la stanza, viva ancora di mormorate
preghiere, di mal rattenuti singhiozzi, e la bella creatura si era
spenta dolcemente, addormentata con Dio.
Quella sera fu un gran pianto a San Giorgio. È dolore, è rammarico
profondo in ogni paese, quando muore una bella donna, quando sparisce
per sempre una di quelle figure in cui eravamo avvezzi a vedere la
divinità in forma terrena. Ma nel paese di San Giorgio la contessa
Gisella non era soltanto ammirata per la sua grande bellezza; era anche
amata per la sua grande bontà. Dopo che l'avevano veduta entrare in
chiesa, quei buoni alpigiani la consideravano una santa, e non
dubitavano punto ch'ella non fosse per convertire alla fede il marito.
L'incredulità del conte Ettore ebbe ancora in quel giorno uno scatto; e
fu quando vollero allontanarlo di là, facendogli intendere che tutto era
finito. Alla contessa Albertina che con delicatissimi modi cercava di
condurlo fuori, trovando per quello sventurato le parole del cuore, egli
rispondeva feroce:
--Ah, la vostra religione! la vostra religione è una grande menzogna. E
voi, con le vostre divozioni, l'avete uccisa; coi vostri digiuni, coi
vostri scrupoli, coi terrori del vostro inferno l'avete assassinata.--
Albertina chinò la fronte, in atto di rassegnazione sublime. Poi
dolcemente, quasi umilmente, gli disse:
--Il vostro dolore è legittimo, è sacro. Ma pensate, signor conte, che
un angelo è salito in cielo a pregare per voi.--
Il conte Ettore fu atterrato da quella calma risposta; ed anche si pentì
d'aver parlato con tanta durezza.
--Perdonate;--le disse.--Voi che credete, siete angeli in terra.--
Quella sera la contessina di Vaussana ebbe testa per tutti. Fatta
preparare una lettiga e adagiare sovr'essa la sua morta amica, la fece
trasportare nella notte alla Balma. Triste convoglio a lume di luna;
triste ritorno della povera Gisella alla dimora de' suoi padri, dond'era
uscita il mattino con tanta gioia nell'anima, così fiorente di salute e
di bellezza! La riposero nel suo letto; la sua stanza, tutta ornata di
fiori e di doppieri, fu tramutata in camera ardente. Tre giorni la salma
fu lasciata colà, assiduamente vegliata dai suoi, e dagli amici della
famiglia, che si davano la muta. Così era adempiuto un desiderio della
morta, a cui l'immediato trasporto della salma al camposanto era sempre
parso un atto irriverente e crudele.--Io non intendo,--aveva detto essa
tante volte,--io non intendo, quando uno muore, che smania sia quella
dei cari congiunti di levarselo subito dagli occhi. Temono forse che non
sia morto davvero, e che possa da un momento all'altro riaprire i suoi
alla luce?--
Ma per lei non c'era più dubbio. Al terzo giorno un indugio maggiore
sarebbe stato irriverente e crudele come una più pronta levata. La
fermata, egli che non soleva restarci più di quindici minuti, il tempo
di salutare, di chieder notizie e di carezzare i bambini? Non si sarebbe
sospettato che egli sapesse già della venuta, di Gisella, e che appunto
per lei fosse andato a far sosta sull'aia dei Feraudi? Così, facendo
l'ora del ritrovo, meditando la sua prossima felicità, sognando ad occhi
aperti, guardava ad ogni tanto l'orologio. I minuti gli parevano secoli,
e sempre al medesimo posto quelle lancette del malanno! Che cosa
avevano, le due sottili asticciuole d'acciaio? Fatte per camminare, non
volevano dunque più muoversi?
Le lancette ebbero pietà di lui, ma un po' tardi, non un minuto prima
del convenuto. Sono così metodici, gli orologi! Per uno che corre,
quanti che ritardano! Erano le undici meno pochi minuti, quando egli
uscì dal rifugio, e lento lento si avviò verso le rovine del Martinetto.
Aveva lasciato sul sedile di pietra del torrione il suo mazzolino di
capelveneri e di fiorellini azzurri, destinato a lei, e che perciò non
doveva esser veduto anticipatamente da altri. Sceso sotto le rovine, si
avviò per il solito sentiero che correva lungo la costa del monte, ed
apparve alla vista del casolare dei Feraudi, avendo l'aria di venirsene
a passo a passo dal Castèu. Lo videro da lontano i bambini, e Vittorio
fu il primo a gridare:
--Il signor Maurizio! il signor Maurizio che viene da noi.--
Rosina accorse a sua volta, battendo le palme in segno di allegrezza;
dietro a lui si affacciò Biancolina.
--Questi ragazzi vi fanno ritardare;--diss'ella, vedendo il signor di
Vaussana, che lasciava la strada per prendere il sentieruolo del
casolare.--Andate alla Balma?
--Sì, per portare alla contessa un'ambasciata di mia sorella
Albertina;--rispose Maurizio, che sentiva il bisogno di preparare un
buon pretesto.--Ma ci ho tempo;--soggiunse.--Tanto, a quest'ora non
avranno finito di far colazione. E come va la salute?
--Bene, signor Maurizio; grazie a voi, non abbiamo più tempo di star
male.
--Non dite questo, Biancolina. C'è qualchedun altro che vi assiste, e un
po' meglio di me.
--Volete dire quell'angelo della signora? La metteremo, se mai, a pari
con voi. Son cinque giorni che non abbiamo la fortuna di vederla.
--Glielo dirò; glielo dirò, che non vi trascuri;--disse di rimando
Maurizio, che non aveva l'aria di volersi rimettere in cammino per far
la commissione.--E i vostri balocchi, bambini? Li avete già rotti? è il
caso di rifarvi la provvista?--
Ne avevano infatti dei rotti; un cavallino, tra gli altri, a cui
mancavano due gambe, e un cane che non abbaiava più, per essersi
scollata la pelle del manticino. Ma ne avevano ancora dei nuovi, o
quasi: un'arca di Noè, fabbricata a Norimberga, con otto o dieci animali
ancora presentabili, e un alfabeto di legno, a cui, per miracolo, non
mancavano che due o tre lettere. Quell'alfabeto era per allora il gran
divertimento dei piccini. Vittorio conosceva già tutte le lettere;
Rosina, più precoce di lui, compitava già qualche sillaba.
Seduto accanto alla tavola di cucina, Maurizio si divertì ad ordinare in
varie forme parecchi tasselli di quell'alfabeto infantile. Cominciò col
nome di Biancolina, e finì con quello di Gisella, tenendo desta
l'attenzione dei ragazzi, e ammirando la prontezza con cui sillabava la
piccola Rosina. Così nessuno si avvide della contessa Gisella, quando
ella apparve sull'aia; e la bella signora, capitando improvvisamente là
dentro, fu accolta da un grido di lieta maraviglia. S'intende che il più
maravigliato di tutti parve il signor di Vaussana.
Vestita del suo prediletto color bianco, rallegrato dalle solite
screziature di rosso, fresca, giovanile più che mai nell'aspetto,
animosa nel sorriso delle labbra e nello sfavillìo delle pupille
d'indaco, la contessa Gisella giustificava pienamente l'opinione di
Maurizio: non era mai stata così bella come allora. Cessata la festa di
tutti per la sua improvvisa apparizione, rimase lungamente a discorrere
con Biancolina, a baloccarsi coi ragazzi, tenendo sulle spine Maurizio,
che vedeva oramai correr tanto veloce il tempo, quanto era stato lento
da prima. Egli chiedeva a sè stesso come mai avrebbe fatto la signora a
spiccarsi di là, e incominciava a temere ch'ella non volesse più
muoversi, se non per ritornare alla Balma.
--Sapete?--le disse, dopo aver almanaccato un bel pezzo.--Venivo a farvi
un'ambasciata da parte di mia sorella Albertina.
--Non ce ne sarà più bisogno,--rispose Gisella,--perchè vado io da lei.
Come vedete, ero in istrada. Ma voi, piuttosto, signor Maurizio, non
avevate gran fretta di giungere alla Balma.
--Mi hanno veduto i bambini, mentre passavo di là sotto;--replicò egli,
felice di avere avviate le cose.--Perciò mi son fermato un momento; come
voi, signora, come voi.
--Quanto a me,--disse Gisella,--è un altro affare. Io non passo mai di
qua senza fermarmi al Martinetto, per salutar Biancolina. Del
resto,--soggiunse cerimoniosa,--ci ho guadagnato d'incontrarvi e di
avere un buon compagno per la discesa. Venite dunque, Vaussana, e faremo
anche il giro più largo. Così mentirà una volta ancora la vostra
impresa: _tout droict Sospel_.
--Così la spiegate?--diss'egli, facendo bocca da ridere.
--E come no? Siete l'uomo dei gran giri, voi; ed anche delle lunghe
fermate. Ci avete sempre qualche albero da ammirare, qualche sasso da
adorare, qualche filo d'erba da restarci incantato.--
In questo modo era trovata la gretola. Salutata Biancolina, fatta una
piccola distribuzione di confetti a Rosina e a Vittorio, la bella
signora si avviò con Maurizio per la discesa; ma senza continuarla a
lungo. Giunta appena fuor dalla vista del casolare, prese con Maurizio
il sentiero verso le rovine del Martinetto. Finalmente! Ma ella tremava
un pochino, prendendo il braccio che le offriva Maurizio.
--Ah!--esclamò egli, turbato.--Che avete?
--Nulla, nulla, son forte, più forte che tu non immagini;--s'affrettò
ella a rispondere.--Povero mio Rizio! Hai tanto sofferto, non è vero?
--Mio Dio!--mormorò egli.--Temevo di non vederti più.... così, come
quest'oggi. E sarebbe stato un orrore.
--A chi lo dici! Ero ben cattiva;--rispose ella, reclinando la bionda
testa sul petto del compagno.--Ma voglio che tu mi perdoni; voglio che
tu viva, che non ti ammali più, mio povero Rizio. Che viso hai tu,
quando soffri! e come mi levi allora il coraggio! Ho combattuto, ho
resistito a lungo; ma sono stata vinta, vinta, per non ripigliarmi mai
più. L'ho detto ieri, l'ho giurato a me stessa: non sarà mai che il
povero Rizio soffra tanto per cagion mia. Soffrivo anch'io, sai? Ma per
me avrei sofferto ancora; non ci avrei badato; avrei saputo morire. Per
te, no; per te mi son mancate le forze. Pensando come sei stato male,
come hai vaneggiato, come hai delirato, mi sento un'altra, capisci?
un'altra; quella di prima, dei giorni belli, che erano i tuoi, come
questa povera creatura, che ritorna nelle tue braccia.--
Rabbrividì, entrando nella macchia; ma si riebbe, sotto un bacio di
Maurizio, nel punto che egli metteva il braccio davanti a lei, per
isviare i rami dei nocciuoli e darle passo nel folto. Voleva esser
forte, valorosa, allegra; e sorrise al suo nido così bene ascoso nel
verde, nell'atto di porre il piede sulla soglia del terrazzo. Ma il
sorriso le morì sulle labbra, ed ella tremò tutta, vedendo un gesto di
turbamento del suo dolce compagno.
--Che hai, Rizio?--gli domandò sbigottita.
--Nulla, nulla;--rispose egli, padroneggiandosi a stento.--Dei fiori,
per voi.... Credevo di averli lasciati qui.... Li avrò forse portati con
me, senza avvedermene, e mi saranno caduti.--
Parlava così, cercando d'ingannare sè stesso. Ma era ben sicuro del
contrario, e tremava.
--Caduti? Certamente, ma non laggiù;--diss'ella, che in un volger
d'occhio aveva frugato da per tutto.--Sarebbero questi, per caso?--
Così dicendo, muoveva verso il parapetto, e si chinava a raccattare in
un angolo un mazzolino di capelveneri.
--Son questi, sì, son questi;--rispose Maurizio, respirando.--Ma come
così lontano dal sedile, dove io li avevo collocati? Perchè mi ricordo,
ora, mi ricordo bene di averli posati qui, al vostro posto.
--Ebbene?--ripigliò Gisella.--Erano qui? Rimettili dove li avevi
lasciati. Vedi? ruzzolano ancora; segno che il sedile non è ben piano.
Che caro spericolone, il mio Rizio! e come corre subito a pensare il
peggio! Eravamo già lì col mal augurio, non è vero?--
Maurizio sorrise, e si calmò. Ma aveva avuta una bella paura.
--No, no;--rispose egli.--Cioè, diciamo pure di sì. Temevo di aver
perduto quei fiori: e sarebbe stato veramente un cattivo augurio per
me.--
Non voleva dire: temevo che qualcheduno fosse stato qui, mentre eravamo
laggiù. Del resto, il dirlo sarebbe stato inutile, poichè i fiori erano
stati ritrovati, e l'esperimento di Gisella aveva dimostrato in che modo
fosse caduto il mazzolino. Egli era persuaso oramai, e voleva
discacciare tutti i negri pensieri. Per discacciarli bene, bastava
guardare quella stupenda creatura nel viso. Com'era bella. Dio santo!
Maurizio la trasse a sè, con una gran sete di baci che gli ardeva il
sangue, che lo stringeva alla gola.
Momento supremo! Stanchi di rincorrersi tra i rami, gli uccellini
posavano sotto la frappa, sotto la bella frappa tinta di un verde
carico, vaporante all'aria tiepida del mezzodì gli acri profumi dei
succhi vigorosi. Dormiva la brezza sotto la vampa del sole; e ad ogni
palpito lieve del suo buon sonno, si muovevano lenti i chiari smeraldi
onde i raggi solari frastagliavano capricciosamente i vani strati
diseguali del cupo fogliame. In quell'alta pace delle cose, sola
continuava ad agitarsi la cascata d'Aiga, rapida, fremebonda, impetuosa
nella sua curva rutilante, cantando con assiduo metro all'abisso la sua
canzone d'amore. E mentre essa volava piombando con desiderio infinito
nel seno dell'amato, Rizio stringeva fra le sue braccia la bella
creatura adorata, guardandola negli occhi, divorandola coi baci, e poi
guardandola ancora, insaziato, insaziabile. Strana bellezza di quegli
occhi! Per entro all'umor cristallino dal colore dell'indaco stemperato,
nuotavano pagliole d'oro, simili alle vene ed ai punti del prezioso
metallo ond'è sparsa la massa turchina del lapislazzoli. Ma in questa
gemma è l'oro imprigionato ed immobile: in quegli occhi divini, come in
gemme viventi, indaco ed oro palpitavano balenando; ed ogni palpito era
una voce del cuore, ogni baleno un pensiero dell'anima, che si
sprigionava di là, involgendo, accarezzando, inebriando. Momento divino!
Le anime si son ritrovate; le anime si ricongiungono in quel punto; le
anime si confondono l'una nell'altra, invocando l'eternità dell'istante.
Sempre, van ripetendo le labbra, sempre, sempre! E nella dolce parola,
proferita con tutta la energia di cui l'accento umano è capace, non una
lettera si perde, ognuna ha suono, colore e calore. La prima sillaba è
una aspirazione intensa, come di preghiera in cui tutti i sentimenti si
stemprino; la seconda riproduce la stretta violenta d'un bacio che
scocchi premendo; le collega ambedue una profonda caduta, un abbandono
confidente dell'essere. Sempre! O buon Dio, clemente e misericordioso
Signore, che di tanta tenerezza, di tanta soavità, di tanta beatitudine
avete fatto l'amore, perchè non fare di eternità il suo momento supremo?
È ben vero che l'eternità parrebbe anch'essa un istante, e mai come
allora si sentirebbe che le due cose son una.
Tutto ad un tratto la bella creatura sussultò nelle braccia di Rizio.
Gli occhi si dilatarono in espressione di terrore; si scolorarono le
labbra, e ne proruppe un grido d'angoscia. Tremante all'atto repentino,
stringendo più forte la sua Gisella, quasi temesse in quell'istante di
perderla, Maurizio girò tutto intorno gli occhi sospettosi: non vide
nulla di nuovo; ed ancora si volse a lei, chiedendole collo sguardo il
perchè del suo turbamento improvviso.
--Lui!--mormorò ella con accento soffocato.
--Lui!--ripetè Maurizio.--Chi? dove?--
E guardò ancora, guardò meglio, dove pareva accennare lo sguardo
atterrito di Gisella. Frattanto, alzandosi a mezzo, si atteggiava
istintivamente a difesa.
--Lui! lui! non vedi?--gridò ella, aggrappandosi spaventata alle
braccia di Maurizio.--No, no, pietà, non mi guardate così!--soggiungeva
con accento supplichevole.
Allora anche Maurizio vide. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, e
un freddo acuto gli corse per tutte le vene. Là, nella frappa, dalla
parte dond'essi erano venuti al rifugio, ritto sul fianco, alta la
testa, in atto severo, vestito d'una gran tonaca di color marrone, si
vedeva un monaco; lui, lui, il padre Anselmo da Carsoli. Immobile della
persona, irrigidito nel suo atteggiamento spettrale, non accennava di
voler fare un passo più avanti; ma, a guardarlo bene, si vedeva
tentennare lentamente il capo, con aria di muto rimprovero. Ad un tratto
levò il braccio e tese la mano, minacciando col gesto, come già
minacciava collo sguardo.
Maurizio era rimasto un istante perplesso, fissando con occhi sbarrati
la strana apparizione. Ma tosto, irritato da quel gesto minaccioso, non
potendo più sopportare la tetra luce di quello sguardo severo, fece
l'atto di avventarsegli contro. Gisella lo trattenne, Gisella che si
avvinghiava disperata al collo di lui.
--No, no,--ripeteva ella, come pazza di terrore.--Abbiate compassione!
Dannata no.... dannata no. Voi me lo avevate detto; è vero, sì, è vero;
sareste venuto a rinfacciarmi il mio delitto, venuto ad ogni modo, in
ogni tempo, dovunque vi foste trovato, a punirmene. Lo so, padre, lo so.
Ma egli moriva, moriva per cagion mia. Perdono! Iddio non poteva
volerlo; perdono!--
Il colpo era stato troppo grave, l'esaltazione troppo grande; la povera
creatura, disfatta dallo sforzo violento, ricadde inerte nelle braccia
di Maurizio. Fremente di sdegno, egli l'adagiò sul sedile, e libero
appena del caro peso si scagliò contro il monaco. Più nulla; il monaco
era scomparso. Ma come? neanche una foglia si muoveva laggiù, dov'egli
lo aveva pur dianzi veduto; nè alcuno strepito di rami smossi si udiva
nella macchia, nè alcun rumore di passi tra gli sterpi. Un fantasma,
dunque? E la povera Gisella nel suo terrore, ed egli sotto la pressione
delle braccia di lei, erano stati in balìa d'una medesima allucinazione?
Gisella era svenuta. Sbigottito, egli corse all'acqua, risicando ad ogni
passo di scivolar nell'abisso. Là, nel fascio spumeggiante, intrise il
fazzoletto a guisa di spugna, per venire sollecitamente a spruzzarne il
volto e il collo della creatura adorata. Con mano mal destra, ma pronta,
strappando convulsamente dove non poteva slacciare, le aperse la veste
al sommo del petto, per farla respirare più libera. Non ebbe pace, non
ebbe posa, fino a tanto non la vide riaprire i begli occhi languidi alla
luce del giorno.
Allora, prendendo animo dalla necessità del momento, se la recò tra le
braccia e si avviò verso la macchia dei nocciuoli; proteggendole il
volto come poteva, andando a ritroso, cacciandosi avanti colle spalle e
coi gomiti, si faceva strada a forza tra i rami. Che orrore! che orrore,
se non avesse potuto trarre in salvo la dolce creatura! Ma
finalmente.... finalmente, uscivano da quell'intrico di piante. Ancora
un centinaio di passi, e le rovine del Martinetto erano in vista.
CAPITOLO XVIII.
Povera bella!
Biancolina Feraudi ebbe quel giorno un segreto da custodire, anche per
suo marito, quando il brav'uomo fu richiamato a gran voce dal pascolo e
mandato in fretta e furia alla Balma, per avvertire il conte Matignon
del triste caso toccato alla sua signora, mentre ella si trovava di
passaggio al casolare del Martinetto.
Il generale ricevette l'annunzio doloroso mentre ritornava da una delle
igieniche cavalcate che da pochi giorni aveva preso a fare per
ordinazione del medico. Spaventato accorse, ansando e sbuffando, ma
facendo i passi lunghi e frettolosi, come un giovanotto, non avvedendosi
neanche della cattiva strada che doveva fare per recarsi lassù. Quando
giunse, trovò Gisella ancora mezzo vestita, distesa sul letto di
Biancolina, e il medico di San Giorgio al suo capezzale. La povera bella
era inerte, con le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhi
semichiusi, cerea nel volto, come una morta.
--Che cosa è stato?--gridò il generale, cacciandosi avanti a guardare,
poi rivolgendosi con gli occhi stralunati verso il dottore.--Parlate, in
nome di Dio!
--Signor generale, che dirvi?--mormorò il dottore.--È ancora il suo
male. Non era eliminata.... non poteva eliminarsi la causa.... e gli
effetti si ripetono. Fortuna ancora che il signor di Vaussana è venuto
ad avvertirmi subito.
--Sì,--soggiunse Biancolina,--e fortuna maggiore che i miei piccini
l'abbiano veduto passar qui sotto, mentre dal Castèu si recava alla
Balma. È stata una vera provvidenza che egli si ritrovasse sulla
strada.--
Quella brava donna non era stata avvertita nè pregata di nulla; aveva
indovinato tutto, o quasi tutto, e trovava nel suo cuore riconoscente il
segreto delle pietose bugìe. Ma non era tempo per nessuno di fare
indagini troppo minute: l'essenziale era di provvedere, di correre ai
rimedii, di salvare, se fosse possibile, la povera inferma. Che cosa
pensava il medico? che cosa consigliava? Il medico Soleri per allora non
pensava, non consigliava nulla; bensì aveva molto da fare. Ripigliava in
quel punto l'ufficio che dall'arrivo del generale gli era stato
interrotto: con forti, assidue strofinate cercava di riattivare le
funzioni cutanee. Biancolina, dal canto suo, con un gran ventaglio (il
suo ventaglio di sposa, serbato fin allora gelosamente nel suo forziere
nuziale) rinfrescava l'aria al viso ed al petto dell'inferma.
--Non c'è altro?--chiese il generale, dopo alcuni minuti.--Non c'è altro
da fare?
--Sì, sì, non dubitate;--rispose il dottore.--Si fa ora quel che si può,
in attesa dei rimedii.--
Aveva appena finito di parlare, che si sentì rumore di persone
accorrenti. Giungeva allora il signor Maurizio, affannato, grondante di
sudore, con una sporta tra mani.
--Ecco;--diss'egli, senza pure avvedersi della presenza del
generale;--vedete se c'è tutto quello che avete ordinato.
--Siate benedetto!--rispose il dottore, mettendo mano alla sporta, e
traendone fuori l'uno dopo l'altro parecchi involtini, boccette ed
arnesi di varie forme.--Anche del cognac! egregiamente;--soggiunse,
prendendo una bottiglia di vecchio Martel, e versandone alcune gocce in
un piccolo cucchiaio, che accostò subito alle labbra dell'inferma.
Il generale si buttò nelle braccia di Maurizio, mescolando lagrime e
ringraziamenti. Maurizio, a tutta prima confuso, accolse in silenzio
quella dimostrazione affettuosa, che sentiva di meritar così poco. Ben
presto la loro attenzione fu rivolta alla povera giacente. Le gocce
dello spiritoso liquore l'avevano rianimata un tratto. Ma il respiro era
quasi impercettibile, e si sentivano appena i battiti del cuore.
Raccomandato a Biancolina di strofinar lei le braccia e il seno
dell'inferma, il dottore aveva messo mano ad altri apparecchi, per farle
alcune iniezioni ipodermiche di etere e di liquore anisato di ammonio.
Era di una operosità portentosa, il bravo dottore. Trovò anche modo di
applicare qualche vescicatorio volante, determinato con ammoniaca
liquida concentrata. Oramai, la sporta di Maurizio gli permetteva
quell'abbondanza di tentativi. E ci volevano tutti, proprio tutti, per
far riavere la povera donna. Respirando sempre a stento, aperse gli
occhi e li girò lentamente intorno; riconobbe il generale, allora, e con
un fil di voce proferì il nome di lui.
--Ettore!...
--Oh, Gisella, figlia mia!--gridò egli, precipitandosi alla sponda del
letto e dando in uno scoppio di pianto.
--Via, via! gli uomini non ridiventino bambini!--disse il dottor Soleri,
intromettendosi coll'autorità del suo ministero.--Generale, lasciate
fare; non turbiamo con queste commozioni il poco che si è potuto
ottenere finora.
--Avete ragione;--disse il vecchio, ritraendosi;--obbedisco. Ma voi
salvatela, dottore, salvatela!--
E andò singhiozzando a sedersi in un angolo, accanto a Maurizio, che si
era buttato là sopra una scranna, con gli occhi a terra, senza parole,
senza lagrime. Poco stante giungeva la contessa Albertina che avevano
fatto chiamare i Feraudi. La mite e buona signora del Castèu, col
pronto coraggio silenzioso che è tutto delle donne, prese subito il suo
posto d'infermiera accanto al vecchio dottore.
Passarono due ore di terribile angoscia per tutti. Il respiro
dell'inferma si era fatto più lento: appena dieci respirazioni al
minuto. Il dottore credette necessario di avvertire che non aveva più
speranze. Veramente, non ne aveva avute mai, dal momento ch'era stato
chiamato. Ma parlava così per trarne occasione di consigliare che si
mandasse pel prete, se pure i conforti religiosi fossero per piacere
alla famiglia. Albertina conosceva l'animo di Gisella: si affrettò a
condurre il generale fuori della camera, per dirgli il parere del
medico, e insieme il suo consiglio, che non poteva essere disforme dal
desiderio della malata.
--Tutto ciò che vorrete;--rispose il vecchio gentiluomo, stringendosi i
pugni alla fronte.--Se Dio facesse un miracolo! Credete voi che lo
farà?--
Albertina levò gli occhi al cielo, e uscita di là spedì subito ad
avvisar l'arciprete di San Giorgio.
Mezz'ora dopo don Martino era giunto, con la cotta, la stola e la
pisside, involta nel suo copertoio di seta. Dio entrava con lui; si
ritirarono tutti. La giacente accolse don Martino con un lampo dagli
occhi e un sorriso. Certamente aspettava quel momento. Ma non aveva
forza di parlare, per confessarsi; don Martino parlò per lei; all'invito
del confessore, una lieve pressione di mano, un lieve cenno delle
labbra, doveva dire il pentimento delle colpe. L'assoluzione fu pronta,
e pronto del pari fu il rito che univa quell'anima a Dio. Un senso di
beatitudine si diffuse allora sul volto cereo della morente. Il medico
poteva rientrare, e tutti gli altri con lui.
Il generale era rimasto nella cucina, seduto presso la tavola, con le
braccia ripiegate sulla lastra e il volto ascoso nelle braccia. Doveva
essersi assopito; non si era mosso, infatti, nè alla partenza di don
Martino, nè all'andare e venire degli altri.
Maurizio entrò a sua volta nella camera, e si accostò al letto di
Gisella. Non poteva più resistere al desiderio di vederla ancora. Il
medico e Albertina stavano a' piedi del letto, preparando una pozione,
ed egli fu solo un istante al capezzale. Gisella aveva gli occhi
semichiusi; lo vide, lo riconobbe, e fece uno sforzo per proferire
qualche parola. Non fu che un soffio, per altro; ma egli intese quel
soffio.
--Dio perdona;--diss'ella.
--Oh! perdoni a tutti;--rispose Maurizio.
Gisella aveva mossa la mano; ed egli aveva presa quella mano. Gisella
allora volse gli occhi, come invitandolo a seguire il suo movimento; ed
egli pure volse gli occhi dove ella accennava. Ah! che voleva dir ciò?
Maurizio rabbrividì, mentre un sudor freddo gli bagnava le tempie.
Dall'altra banda del letto, il frate! ancora il frate! Ma egli aveva il
cappuccio calato sulle spalle; la testa del padre Anselmo appariva
intiera, luminosa; l'aspetto era benevolo, la mano era stesa in atto di
benedire.
Maurizio s'inchinò umiliato, e lasciò la mano di Gisella. Quando rialzò
gli occhi non vide più il monaco. La visione era sparita. Gisella
sorrideva ancora, e cercava con gli occhi, pareva domandar qualche cosa,
o qualcheduno.
--Chi?--disse Maurizio--il dottore?
Ella fece un cenno di diniego col capo.
--Il generale?--rispose Maurizio.
Il capo e gli occhi di Gisella accennarono di sì.
Maurizio si mosse sollecito, e andò dal generale, che era ancora
assopito. Scosso da lui, il conte Ettore si destò in soprassalto.
--Morta?--esclamò egli, rabbrividendo.
--No, generale; vi chiede.--
Il vecchio gentiluomo accorse, e si chinò con atto affettuoso verso di
lei. Gisella guardò il marito, lo guardò lungamente; poi si sforzò di
sorridergli. Schiantava il cuore, quel triste sorriso. E volle parlare,
la povera creatura; ma non le venne più fatto. Maurizio, che vide
l'atteggiamento di quelle labbra scolorate, Maurizio che ne colse una
sillaba, intese ciò che la morente voleva dire al marito. E si ritrasse
ancora, premendosi il pugno al cuore, che pareva volesse scoppiargli in
quel punto.
--Ah!--pensò egli.--Perdono! sempre perdono! Chi perdonerà a me il mio
delitto?--
Il rantolo crescente diceva che gli ultimi momenti si avvicinavano. Il
medico tentò ancora di richiamare quella povera vita fuggente: ma
l'etere non valse più a prolungarle l'agonia. Erano paralizzate le
contrazioni del cuore; le respirazioni non più di sei al minuto.
Albertina s'inginocchiò presso la sponda del letto, pregando. Anch'egli
inginocchiato, il conte Ettore copriva la mano di Gisella delle sue
lagrime silenziose. Quella mano a grado a grado si raffreddò tra le sue.
Era cessato il respiro, cessato il movimento del cuore; un placido
sorriso si era diffuso sulle labbra di Gisella. Le ombre del crepuscolo
incominciavano ad invadere la stanza, viva ancora di mormorate
preghiere, di mal rattenuti singhiozzi, e la bella creatura si era
spenta dolcemente, addormentata con Dio.
Quella sera fu un gran pianto a San Giorgio. È dolore, è rammarico
profondo in ogni paese, quando muore una bella donna, quando sparisce
per sempre una di quelle figure in cui eravamo avvezzi a vedere la
divinità in forma terrena. Ma nel paese di San Giorgio la contessa
Gisella non era soltanto ammirata per la sua grande bellezza; era anche
amata per la sua grande bontà. Dopo che l'avevano veduta entrare in
chiesa, quei buoni alpigiani la consideravano una santa, e non
dubitavano punto ch'ella non fosse per convertire alla fede il marito.
L'incredulità del conte Ettore ebbe ancora in quel giorno uno scatto; e
fu quando vollero allontanarlo di là, facendogli intendere che tutto era
finito. Alla contessa Albertina che con delicatissimi modi cercava di
condurlo fuori, trovando per quello sventurato le parole del cuore, egli
rispondeva feroce:
--Ah, la vostra religione! la vostra religione è una grande menzogna. E
voi, con le vostre divozioni, l'avete uccisa; coi vostri digiuni, coi
vostri scrupoli, coi terrori del vostro inferno l'avete assassinata.--
Albertina chinò la fronte, in atto di rassegnazione sublime. Poi
dolcemente, quasi umilmente, gli disse:
--Il vostro dolore è legittimo, è sacro. Ma pensate, signor conte, che
un angelo è salito in cielo a pregare per voi.--
Il conte Ettore fu atterrato da quella calma risposta; ed anche si pentì
d'aver parlato con tanta durezza.
--Perdonate;--le disse.--Voi che credete, siete angeli in terra.--
Quella sera la contessina di Vaussana ebbe testa per tutti. Fatta
preparare una lettiga e adagiare sovr'essa la sua morta amica, la fece
trasportare nella notte alla Balma. Triste convoglio a lume di luna;
triste ritorno della povera Gisella alla dimora de' suoi padri, dond'era
uscita il mattino con tanta gioia nell'anima, così fiorente di salute e
di bellezza! La riposero nel suo letto; la sua stanza, tutta ornata di
fiori e di doppieri, fu tramutata in camera ardente. Tre giorni la salma
fu lasciata colà, assiduamente vegliata dai suoi, e dagli amici della
famiglia, che si davano la muta. Così era adempiuto un desiderio della
morta, a cui l'immediato trasporto della salma al camposanto era sempre
parso un atto irriverente e crudele.--Io non intendo,--aveva detto essa
tante volte,--io non intendo, quando uno muore, che smania sia quella
dei cari congiunti di levarselo subito dagli occhi. Temono forse che non
sia morto davvero, e che possa da un momento all'altro riaprire i suoi
alla luce?--
Ma per lei non c'era più dubbio. Al terzo giorno un indugio maggiore
sarebbe stato irriverente e crudele come una più pronta levata. La
- Parts
- Tra cielo e terra: Romanzo - 01
- Tra cielo e terra: Romanzo - 02
- Tra cielo e terra: Romanzo - 03
- Tra cielo e terra: Romanzo - 04
- Tra cielo e terra: Romanzo - 05
- Tra cielo e terra: Romanzo - 06
- Tra cielo e terra: Romanzo - 07
- Tra cielo e terra: Romanzo - 08
- Tra cielo e terra: Romanzo - 09
- Tra cielo e terra: Romanzo - 10
- Tra cielo e terra: Romanzo - 11
- Tra cielo e terra: Romanzo - 12
- Tra cielo e terra: Romanzo - 13
- Tra cielo e terra: Romanzo - 14
- Tra cielo e terra: Romanzo - 15
- Tra cielo e terra: Romanzo - 16