Tra cielo e terra: Romanzo - 13
--Ah, sì, scusate, dimenticavo che siete un marinaio. Ci vorrebbe un
cavallo marino, per voi.--
E trascinava Maurizio con sè, lontano dalla casa, volendo rifarsi della
noia di quella giornata. Ma col discorso ritornava spesso a sua moglie.
--Credo che quel monaco l'abbia stregata;--diceva. Dal giorno che ha
cominciato a seguire quel maledetto quaresimale, Gisella non ha più
pace. Perfino di notte, vedete, ella sogna del monaco. Almeno, io penso
che sia così. Prima d'ora, dormiva i suoi sonni tranquilli, come una
bambina; ed ora è in agitazione continua; di tanto in tanto,
svegliandomi, sento che si lagna come una persona malata. Scendo da
letto, vado a vedere che cos'ha, le domando se si sente male: non
risponde; è addormentata, ma d'un sonno cattivo, come quando s'è fatta
una cattiva digestione. Ha l'affanno, l'oppressione, una specie d'incubo
che la fa rammaricare, gemere, uscire in frasi rotte, incomprensibili.
Capirete, amico mio, che tutto ciò è molto grave. Quando si parla
dormendo, è segno che il cervello lavora; e lavora male, il cervello,
quando non è la sua ora, quando egli ha bisogno di rifarsi della fatica
del giorno.--
Maurizio fremette, pensando alle frasi rotte, alle frasi
incomprensibili, che ben potevano una volta o l'altra riuscir frasi
formate, ed esser comprese. Non temeva per sè; questo era l'ultimo de'
suoi pensieri. Ma non voleva perder Gisella; lo atterriva l'idea d'esser
cagione d'una sventura per lei. Povera bella! ed era ammalata; un guasto
era avvenuto in quell'essere così perfetto. Ma come grave? a che punto
poteva giungere? come si poteva rimediarci? Anzitutto, che cosa aveva
osservato il medico? che cosa aveva detto a quel marito? se aveva detto
qualche cosa, che fede meritava?
Il medico di San Giorgio era un uomo di mezza età; non faceva lunghi
discorsi, nello impostare la diagnosi; anzi annaspava un pochino,
accennando i sintomi, i segni osservati; tanto che non pareva avere una
cognizione ben chiara del male, e contentava poco i suoi ascoltatori. Ma
egli non annaspava poi nella pratica; correva ai rimedii, alle
ordinazioni, alle operazioni, con una prontezza mirabile, che dinotava
altrettanta sicurezza di giudizio. Apparteneva alla scuola vecchia:
buona cosa, il più delle volte, perchè la scuola vecchia è tutta
esperienza accumulata intorno ad un metodo riconosciuto; non ha tante
parole dottamente aggrovigliate, non ha tanti sistemi frettolosamente
fabbricati. Ma questo ci avviene, quando cade inferma una persona a noi
cara: se il medico è della scuola vecchia, temiamo sempre che non ne
sappia abbastanza; e tanto più lo temiamo oggidì, che il giornalismo ci
confonde più facilmente con cento notizie di scoperte, di globuli, di
piastrelle, di microbii, di micrococchi, d'iniezioni ipodermiche, di
trasfusioni, di sterilizzazioni, di attenuazioni, di tentativi audaci,
di processi rigeneratori, di cure portentose, facendoci credere che un
nuovo mondo sia stato scoperto ieri, e un altro debba essere scoperto
domani. Se poi il medico è d'una scuola moderna (ci sono infatti tante
scuole quanti sono gli sperimentatori nuovi, i nuovi cercatori della
verità scientifica) temiamo che la sua scuola non sia la buona, che
voglia veder troppo, che si fidi troppo ad un sistema non ancora
provato, ad un rimedio non ancora abbastanza sperimentato, che prenda un
dirizzone scambio d'un indirizzo ragionevole, e vada e conduca noi fuori
di strada.
Maurizio non ebbe pace fino a tanto non gli venne fatto di abboccarsi
col medico, per sentire da lui che cosa fosse il malore ond'era
minacciata la contessa Gisella. Ma doveva egli entrar subito in
argomento? Un po' di confidenza ci voleva, e Maurizio pensò di non
averla ancora meritata. Egli lo aveva sempre un po' trascurato, quel
brav'uomo, che esercitava l'arte sua con molta coscienza, e che era
degno dell'amicizia di tutte le persone per bene. Incominciò dunque col
fargli la corte, fermandolo per via, accompagnandosi con lui,
chiedendogli notizie dei suoi ammalati, informandosi delle malattie
dominanti e del metodo di cura tenuto da lui. Biancolina e il piccolo
Vittorio furono anche buoni gradini per risalire bel bello alla contessa
Matignon, a quella graziosa e cara provvidenza di tutti i poveri, di
tutti i sofferenti del vicinato.
Anche lei, povera provvidenza, sì certo, aveva bisogno di cura. E il
signor di Vaussana, accennando quelle piccole indisposizioni delle quali
era stato testimone, aveva ad arte aggravate le cose, nella speranza,
quasi nella certezza di sentirsi rassicurare dal medico. Ma quell'altro
non aveva corrisposto alla sua aspettazione; batteva le labbra, aveva
l'aria di dargli ragione, gliene dava sicuramente più ch'egli non
mostrasse di volerne avere. E allora Maurizio a turbarsi davvero, a
fremere di spavento, a tempestar di domande.
Ma, che dire? Non bisognava confidar troppo, nè sgomentarsi prima del
tempo. Il medico, dopo tutto, aveva osservato lì per lì, badando alle
necessità del momento. Sì, certo, c'era qualche cosa al cuore. Vizio
cardiaco, dunque? Si poteva temerlo. Di mal di cuore era morta anche la
vecchia contessa Matignon, la madre di Gisella, e questo per l'appunto
gli dava da pensare; forse per questo egli si era così prontamente
fissato sul sospetto del vizio cardiaco. Aveva notato irregolarità di
polso, asistolìe, acinesìe; in altri termini, ritardati movimenti di
sistole, troppo lunghi intervalli nel doppio movimento di diastole e di
sistole, dilatazione e restringimento alterno del cuore. Ed anche
accennava a troppa frequenza di respiro, a qualche piccolo rantolo alla
base dei polmoni, indizio di stasi, ossia ristagno del sangue.
Erano sintomi poco piacevoli, sicuramente: ma potevano esser
passeggieri. Il medico non voleva pronunziarsi troppo presto, nè troppo
risolutamente. Ma aveva incominciato, doveva anche finire, per
contentare la curiosità incalzante del signor di Vaussana, la cui
amichevole sollecitudine per i signori della Balma meritava benissimo
una esposizione sincera. Non prendesse il signor di Vaussana per vangelo
tutto ciò ch'egli diceva; ammettesse ancora la possibilità di un errore;
ma per lui il vizio cardiaco ci doveva essere, e valvolare. In altre
parole, e più chiare, il medico di San Giorgio credeva di aver notata
una insufficienza della valvola bicuspidale dell'ostio auricolo
ventricolare sinistro.
--Che nomi!--aveva esclamato Maurizio, sforzandosi di sorridere, mentre
il cuore gli tremava e un sudor freddo gli gemeva dalle tempia.
--Che ci volete fare?--disse di rimando il dottore.--Il nostro
linguaggio è complesso e avviluppato, come la nostra povera macchina. Si
tratta infine della valvola che separa il ventricolo sinistro del cuore
dalla corrispondente orecchietta.
--Capisco, capisco, rispose Maurizio.--E quali le conseguenze?...
--Ci vengo. Premettiamo che l'orecchietta sinistra, con le sue
contrazioni, ha per ufficio di spingere il sangue nel ventricolo
sinistro. La valvola si apre allora, abbassandosi; e allora il
ventricolo, ripieno del sangue che l'orecchietta gli ha mandato, si
contrae a sua volta per ispingerlo nell'aorta. Ci siete? Orbene, se la
valvola è insufficiente, che cosa avverrà? che il sangue, alla
contrazione del ventricolo, non andrà tutto verso l'aorta, ma in parte
rifluirà verso l'orecchietta; e questa a sua volta, ingombrata da
questo ritorno, non potrà accogliere tutto il sangue che
contemporaneamente le verrà trasmesso dalle vene polmonari. Quindi
ristagno nei polmoni, ristagno che sarà risentito dalla parte destra del
cuore, che non potrà scaricare nei polmoni tutto il sangue venoso.
--E tutto ciò,--disse Maurizio,--è molto pericoloso?
--Sì e no;--rispose il medico.--Durante la gioventù e l'età verde, la
natura trova qualche compenso sulla dilatazione del ventricolo destro e
della orecchietta corrispondente. Più tardi, venendo un po' meno la
forza di resistenza, o per indebolimento da qualsivoglia causa prodotto,
o per indurimento di vasi, a cagione dell'età, il disequilibrio cardiaco
è maggiormente sentito. Allora i moti disordinati, le fatiche protratte,
le passioni, specie se afflittive, avendo grande influenza sul cuore,
possono facilmente esser cagione di lipotimìe, o deliquii che vogliamo
dire, di sincopi, di morte improvvisa.
--Mi fate fremere;--disse Maurizio.
--Parlo dell'età inoltrata, s'intende;--ripigliò il medico.--Qui non
siamo nel caso.
--Ma ad ogni modo, _principiis obsta_, non è vero? E quale è la vostra
cura?
--Quella che ho incominciata: è la solita; non c'è novità, in questa
materia; infusione di digitale, pillole di sparteina, gocce di
strofanto, tutte sostanze vegetali, tutti rimedii cardiaci,
rallentatori, riordinatori delle funzioni del cuore. E poi decotto di
china; è un corroborante. Vedete, signor conte; abbiamo ancora delle
armi per difenderci. Ed anche la gioventù, che è una buona corazza, per
chi la possiede.--
Il medico aveva un bel dire di gioventù, di cose non certe, e ad ogni
modo di pericoli ancora lontani. Maurizio aveva ricevuto il colpo in
pieno, e il colpo gli era andato all'anima. Anche il pericolo lontano lo
sgomentava; ed egli non poteva avvezzarsi all'idea della morte di
Gisella, neanche in un lontano futuro. Bella virtù dell'amore, che
sempre s'illude di vivere eterno! Intanto, fra questi terrori, che gli
furono aggravati dal troppo pensare delle ore notturne, Maurizio fu
colto dalla febbre; e la mattina seguente, poichè egli non ebbe forza di
alzarsi dal letto, si dovette chiamare il medico per lui. Povero medico!
Per la prima volta che aveva parlato un po' a lungo, dando ragione
dell'arte sua, faceva un bel guadagno davvero! Capì allora molte cose,
il buon discepolo di Esculapio; ma non le disse, non le ripetè neanche a
sè stesso. La vista continua di tanti mali ha educati i medici alla
religione del segreto. Per quella volta non fece nessuna diagnosi. Aveva
trovata una gran febbre, una eccitazione generale dell'organismo, il
volto acceso, gli occhi scintillanti, e una tale palpitazione al cuore
dell'infermo, da sentire lo scuotimento del viscere senza bisogno di
mettergli la mano sul cuore. A questi primi sintomi di una meningite, si
aggiunse tosto il delirio, il vaniloquio. Il buon dottore non istette a
pensar più che tanto; mise mano all'antipirina, alla fenacetina; poi
ordinò ghiaccio alla testa, ghiaccio pesto in bocca, ombra nella camera,
anzi buio fitto, e riposo assoluto.
La febbre era già salita di alcune linee sopra i quaranta gradi, e non
accennava a lasciarsi domare. Cominciò allora per Maurizio la triste
sequela delle pazze visioni. Le immagini come le idee s'inseguivano
nella sua mente con una rapidità vertiginosa, senza che alcuna potesse
giungere al suo compimento, incalzate com'erano, l'una sull'altra, a
guisa di flutti alla spiaggia, quando il mare è in tempesta. E il mare
appariva quasi sempre minaccioso, terribile, ora strappandogli una amata
creatura dalle braccia, ora inabissandolo insieme con lei, che atterrita
si avvinghiava al suo collo. Quando non era il mare, era una cascata
rumorosa, che si spandeva d'ogni lato, sgretolando il masso,
scoscendendo il terreno, abbattendo, inghiottendo ogni cosa, scrollando
ad ogni tratto un torrione su cui egli e lei erano rimasti prigionieri.
Unica via di salvezza, prender lei in collo, spiccare un salto,
afferrare un ciglione non ancora intaccato dalle acque irrompenti; ed
egli tentava, lanciandosi a volo col dolce peso sulle braccia; ma
proprio allora si smottava il terreno sotto i suoi piedi, ed egli e lei
rovinavano giù, giù, sempre più giù nell'abisso, senza toccare mai
fondo. E poi, di qua, di là, strani animali che s'avventavano, parole
misteriose che apparivano sui muri di un ignoto edifizio, voci arcane
che uscivano sibilando dallo spiraglio di una caverna, lampi sinistri
nel buio, fragori sordi, rombi sotterranei, tanaglie strette alla gola,
risa beffarde nell'aria, fornaci in fiamme, tutti i tormenti, tutte le
paure, tutte le follie della ragione turbata.
Stanco, abbattuto, disfatto da tanti viaggi, senza potersi formare
un'idea del tempo che erano durati, vide ancora Gisella, ma non più in
pericolo con lui. Egli era disteso in un letto, con le membra
prosciolte, mentre Gisella andava e veniva per la sua stanza, insieme
con Albertina; ambedue in aspetto d'infermiere, di assistenti al suo
capezzale. Ebbe allora un senso di dolcezza, di sollievo, di refrigerio
allo spirito, e pregò tacitamente le potenze invisibili a cui era stato
così lungamente in balìa, che non mutassero più la visione. Fu quello il
suo ritorno alla coscienza della vita; ritorno lento, timido, incerto,
ma a grado a grado più chiaro. Era ben lui che vedeva intorno a sè; ma
era nel suo letto, ammalato, e vedeva il vero: non più sgomenti, non più
terrori, non più larve di sogni, non più visioni di febbre.
La bella creatura spiava quel ritorno dell'infermo in sè stesso. Lo
indovinò alla insistenza con cui egli guardava verso di lei, dovunque
ella andasse o da una parte o dall'altra della camera. Meglio ancora lo
intese, essendogli venuta vicina, al desiderio ch'egli mostrava di
parlarle, allo sforzo che faceva per balbettare il suo nome. Ma ella non
voleva che l'infermo si affaticasse; voleva essere un conforto, un
argomento di sollievo, non una cagione di nuovo abbattimento per lui; e
involgendolo tutto d'un sorriso amoroso, si recò un dito alle labbra, in
atto di dirgli: Silenzio, per ora!
Maurizio era tanto spossato allora, quanto era stato da prima in
orgasmo. Obbedì, come un bambino buono al comando della mamma; avrebbe
obbedito ad un così dolce comando, se anche fosse stato nella pienezza
delle sue forze. Così passarono due giorni, in cui gradatamente si
riebbe: ma ancora non si muoveva dalla sua postura di giacente. Buona
postura, per altro, se quella adorata gli veniva dappresso e chinava la
faccia amorosa a guardarlo. Ah, i belli occhi d'indaco, sprazzi di
faville d'oro! Ma c'erano anche delle lagrime, che inumidivano le
ciglia, senza spegnerne il lampo.
--Sono stato dunque molto male?--mormorò egli il secondo giorno di
quella lenta risurrezione.
--Sì, povero Rizio!--bisbigliò la cara donna, chinandosi ancora un
tratto su di lui.--E sono stata io, non è vero? io la cagione del tuo
male! Ma voglio che tu guarisca, m'intendi? lo voglio. Ad ogni costo,
risanerai; non ti ammalerai più; non avrai più da soffrire, te lo
prometto.
--E tu?--mormorò ancora l'infermo, aprendo ben gli occhi, come se
volesse significarle colla intensità dello sguardo tutto quello che non
poteva dirle colle parole.
--Io? nulla; ora sto bene. Ve l'ho detto, che era una cosa di poco;
perchè spaventarti? Mi ero troppo esaltata; avevo anche fatto dei
digiuni troppo lunghi. Ma ora non più. Ragiono un po' meglio, sai? E
sono tua;--soggiunse con un filo di voce, ma con una intensità di
accento che andò al cuore di Maurizio;--tua mi capisci? E voglio esser
tua, viver tua, morir tua.--
Maurizio sorrise; una vampa di felicità gli corse alle guance, gli
brillò dagli occhi accesi. Le labbra si tesero, cercando, chiedendo,
pregando. Ma ciò non era da savio, e la buona infermiera lo chetò con un
gesto che voleva dir molte cose.
Poco stante ritornava il generale. Anch'egli capitava ogni giorno; ed
erano già sei, che Maurizio era caduto infermo; ma egli non restava a
lungo, avendogli il medico ordinato di fare del moto. Quel giorno,
trovando il convalescente di migliore aspetto, il generale diede la
stura ad una bottiglia di buon umore, _première marque_, che teneva in
serbo per il suo amico Vaussana, quando fosse in grado di assaggiarne. E
lo chiamava il suo «_intéressant moribond_» e gli ripeteva la facezia
feroce di Robert Macaire al povero ammalato: «_allez, allez à
l'Hôtel-Dieu; on fera des manches de couteau avec vos os, on en fera
des jeux de dominos, on en fera des boutons pour guêtres._» Ed anche
quel genere tutto mascolino di celia faceva ridere Maurizio.
--Ma sapete, interessante moribondo,--continuava il generale,--che ci
avete spaventati ben bene? Ve lo dico ora, che ne siamo fuori. E come
lavoravate di fantasia! Ci avete fatto perfino un trattato di storia
naturale, insistendo particolarmente sul capitolo dell'ornitologia. Non
parlavate che di nidi tra i rami, di passere, di lucherini, di
cardellini; di questi ultimi sopra tutto. Certo li avete amati molto, da
ragazzo.
--La febbre!--mormorò Maurizio.
--Sì, capisco, la febbre. Ma c'è anche la sua ragione, nel ritorno di
certe immagini, quando la febbre lavora;--ripigliava il generale.--Si
ridiventa bambini. Il fatto è scientificamente dimostrato. Il nostro
cervello è come una cipolla, per rispetto alle impressioni ricevute, una
cipolla di tante tonache sovrapposte. Si guastano nella malattia le
impressioni più superficiali, si cancellano le più recenti, e le più
antiche rimangono, vengono per così dire alla vista. Si cita il caso di
un ammalato di malattia cerebrale, che sapeva otto lingue, e ne perdette
parecchie via via, nell'ordine contrario a quello in cui le aveva
imparate. Basta, per voi non è stato il caso; quella brutta cosa della
meningite è stata scongiurata dal nostro grande Soleri. Ma è sempre
strano il fatto di quei ricordi d'infanzia ritornati a galla,
ridiventati padroni del campo.--
Bisognava lasciargli credere quel che voleva, e Maurizio non si provò a
contraddirlo. Il buon umore di quell'uomo era la pace sua, per allora,
era la certezza di veder sempre Gisella. Andava sempre e veniva, la
bellissima creatura; pensava a tutto, lei, prevedeva tutto, faceva
tutto, e covava il suo malato con gli occhi, come una madre il suo
bambino. Mai convalescente fu tenuto nella bambagia più e meglio del
signor di Vaussana. La stupenda infermiera cedeva a tutti i suoi
capriccetti; lo involgeva nelle sue occhiate fosforescenti,
accostandogli il cucchiaio alle labbra; o chinandosi su lui per
ravviargli il lenzuolo sotto il mento, lo inondava di fragranze soavi.
Il medico, vedendo opportuno il momento, prese a rinvigorirlo con
qualche pezzetto di carne, con vino generoso e qualche goccia di cognac.
Ma più fece un bacio leggero leggero che una mattina sfiorò furtivamente
le labbra di Rizio.
--No, non più vane paure;--bisbigliava a lui una soavissima
bocca.--Credere è bello; ma bisogna credere come te. Hai ragione tu,
Rizio; Iddio, che ti ha condotto sulla mia strada, che ha voluto essermi
rivelato da te, non può volere che io ti abbandoni.--
CAPITOLO XVII.
L'apparizione.
La mattinata era stupenda; l'aria calda, attraversata da piacevoli
ondate di frescura; il cielo uno splendore di azzurro perlato; la
montagna una festa di colori svariati, dal verde cupo e dal metallico
lucente allo smeraldino, al giallo tenero, con chiazze ferrigne,
rossastre, turchine, disposte qua e là nelle curve del terreno, nelle
insenature delle balze, nel mutarsi dei piani in lontananza; involto il
tutto, fuso, attenuato, in una tonalità violacea, che s'inteneriva negli
sfondi fino alla espressione del grigio. Un buon tepore si svolgeva dal
terreno, e in quel tepore si stemperavano, vaporando, tutte le fragranze
della selva e dei prati. Maurizio respirava a larghi polmoni aria,
tepori e fragranze, dando anch'egli, a quell'angolo di paradiso
terrestre, il suo profumo di felicità. Come era bella la montagna, e
come pareva contenta di sè! Ginepri e pini, frassini, corbezzoli ed
eriche, sterpaglie, rovi e fiammole, tutto verdeggiava, luccicava,
rideva dai ciglioni, dalle zolle, dai sassi; ogni arbusto, ogni
frutice, ogni più umile pianticella del bosco, persino la cèspita dalle
foglie glutinose, perfino i muschi del prato e i licheni dei grigi
lastroni scabrosi, sfaldati a migliaia d'inverni, avevano qualche cosa
da dire al sole, all'aria, agli insetti alianti e ronzanti, contenti
anch'essi di vivere, di respirare, di splendere.
--Voi felici!--disse Maurizio, vedendo due uccellini che si rincorrevano
a brevi volate tra gli alberi.--Ma sono felice ancor io, sapete? Ella
verrà fra poco, per pochi momenti forse, troppo pochi al mio desiderio,
ma verrà, verrà.--
E andava ripetendo sottovoce le due sillabe del verbo gaudioso, per
sentirne meglio, per assaporarne tutta la dolcezza ineffabile. Gisella
aveva promesso; sarebbe apparsa senza fallo. Che festa, la cara donna
che si aspetta! e come è bello il momento che fugge, avvicinando sempre
più l'ora della dolce apparizione! e come il luogo dove la cara donna è
aspettata, si anima, sorride, si compone a bellezza, preparandosi a
riceverla!
Assai prima di vedere la gran ruota del mulino, Maurizio lasciò il
sentiero battuto che tutti i giorni lo conduceva alla Balma. Non andava
alla Balma, per allora; s'inerpicava verso l'Aiga, e non gli bisognava
risalir la costiera più in là; era anzi prudente risalirla più in qua
dal mulino, evitando ogni incontro molesto, ogni sguardo importuno. E
risalendo, inerpicandosi di ciglione in ciglione, sentiva la cascata
rumoreggiare lontana sulla sua testa. Di tanto in tanto vedeva il
ruscello nei serpeggiamenti del suo alveo, affondato tra rupi e cespugli
in una piega del monte; i suoi passi frattanto si spegnevano sul morbido
tappeto delle zolle erbose e dei muschi, mentre lo coprivano d'ombre
discrete i rami degli ontàni e dei salici, onde erano vestite le balze.
Così muovendo frettoloso per l'erta, trovando da esperto montanaro i
passi più facili, le scorciatoie più pronte, afferrò l'orlo di un borro,
sotto l'alta rupe donde precipitava in basso il gran volume delle acque.
Lassù il burrone faceva conca per un giro abbastanza largo; in quella
conca le acque si stendevano in forma di fossato, innanzi di cercarsi,
tra nuovi scoscendimenti, la via; e là, dove incominciavano a trovarla,
era gittato un pancone, che faceva ufficio di ponte. Il luogo alpestre
era improntato di un'orrida bellezza. Davanti a Maurizio, e da tant'alto
che pareva dovesse rovesciarglisi sulla testa, si dirupava la candida
massa liquida, scintillante, spumeggiante, sempre in moto e sempre
uguale nell'ampiezza del suo volume, venendo a frangersi in una larga
incavatura del masso, donde rimbalzava divisa, sparpagliata, come una
immensa capigliatura fluente di spume, in cento rivoli capricciosi e
canori. Quanti scintillamenti cristallini! quante voci argentine di là!
Ben vieni, parevano dire quelle voci a Maurizio, ben vieni. Frattanto,
sul margine della cascata, l'arcobaleno stendeva a mezzo cerchio la
fascia diafana dei suoi sette colori. Mai l'arcobaleno dell'Aiga era
apparso più glorioso a Maurizio, più intenso, più luminoso, più vivo.
--Com'è bella,--pensava egli,--come è poetica la leggenda dei popoli
primitivi! Hanno veduto nell'iride il pegno dell'alleanza tra Dio e le
sue creature. Infatti, che cos'è l'arcobaleno? Un sorriso della luce
dopo la tempesta. Qui le gocce del nembo, sciolte in vapori e sospese
nell'aria, rifrangono i raggi del sole; ed è il sole, immagine di Dio,
che si specchia in questo basso strato d'aria, largito per condizione di
vita ai mortali.--
In un impeto di amore, Maurizio scoccò un bacio col sommo delle dita
all'arcobaleno, che parve intenderlo, e gradire l'omaggio, muovendosi
leggero leggero, quasi per far brillare i suoi colori d'una luce più
viva.
Un'altra cura trattenne Maurizio colà, per alcuni minuti. Lungo le
muscose pareti della stretta per cui scendeva la massa, delle acque,
crescevano molti ciuffi di capelvenere, facendo ad ogni zampillo, ad
ogni soffio di vento, tremolare sui lunghi picciuoli neri lucenti le
verdi foglioline disposte a ventaglio. Quei graziosi e ben nomati ricami
della natura piacevano tanto a Gisella; ed egli ne raccolse un bel
pugno, per comporne un mazzetto, insieme con certi fiorellini azzurri
che si vedevano spuntare qua e là. Fatto il suo bottino, ripigliò la
sua strada per l'erta: pochi minuti dopo giungeva alla macchia dei
nocciuoli. Era là dietro, il torrione; era là, nascosto ancora ai suoi
occhi, nascosto agli occhi di tutti, il suo nido. Ah, come gli batteva
il cuore, afferrando quel colmo! E come fu lieto, mettendo il piede nel
suo quieto rifugio! L'aspetto del luogo non era punto mutato; più folta
la frappa, se mai, avendo i nocciuoli messo altri polloni in primavera.
Tronchi grossi e sottili, asticciuole e virgulti, mettevano fuori gran
ciocche di larghe foglie cuoriformi, arrotondate alla base. Già sulle
vette dei rami si vedevano formati, a due, a tre, a quattro in un
grappolo, i lunghi involucri verdolini campanulati e polposi, nel cui
seno veniva crescendo il frutto, dal guscio ancora bianchiccio. Maurizio
ricordò che da bambino li addentava volentieri, quei verdi invogli
coriacei, per assaporarne il sugo aspretto, non dispiacevole al palato.
E non era egli un bambino anche allora? Lasciava stare gli invogli delle
nocciuole; ma componeva mazzetti di capelvenere e di talco celeste;
intanto gli batteva il cuore nel petto. La cara donna sarebbe venuta
lassù. Non più terrori, oramai; sarebbe venuta.
Terrori! e di che? Ma infine, Dio santo, perchè avete voi acceso questo
fuoco nel cuore della vostra creatura? Non è un sacrifizio a voi,
l'amore? non è un inno di lode per voi? Perchè dovremmo insospettircene?
perchè dovremmo impaurirne? La legge, si dice. Ma l'uomo, l'uomo
soltanto, ha fatta la legge, tela caduca, mutevole e vana; Dio ha fatto
l'amore, la fiamma viva, durevole, eterna. Andate contro la legge; è
niente, o poco meno di niente: andate contro l'amore; è lo schianto del
cuore, il tormento dell'anima, la morte.
Ella e lui erano stati per morirne. Ma ora non più. Ed ella non doveva
morire. Il medico aveva voluto veder troppe cose, in un momentaneo
malore; si era troppo turbato di alcuni indizi fugaci, non sintomi,
simulazioni di sintomi. Se si dovesse badare a tutte le passeggere
irregolarità dell'organismo, ci sarebbe in verità da temere di averle
tutte, le malattie dei trattati. Anch'egli, quante volte non si era
sentito male nel corso della sua vita! quante volte, senza saper come nè
perchè, non si era sentito andar via il cervello e la terra mancar sotto
i piedi! Il medico di bordo gli aveva detto ridendo: inezie,
scioccherie, scherzi del sangue; assottigliate questa volta, corroborate
quest'altra; due giorni di dieta; nutritevi di più, ed altre cose
simili. Quello era un dottore che la sapeva lunga. Ma quell'altro, il
medico di San Giorgio! Un brav'uomo, e non c'era niente a ridire. Ma
quel brav'uomo si era ingannato. Come non esserne persuasi, oramai?
Gisella non era stata mai così bella, così fiorente di salute, come dopo
quel piccolo male, che aveva messo tutti in ansietà, e non era poi che
l'effetto di un malaugurato cambiamento negli usi quotidiani della
vita.
E bellissima, e fiorentissima, la cara donna aveva bisbigliato la sera
innanzi a Maurizio:
--Domani andrò da Biancolina. È un pezzo che non vedo quella povera
gente.... e quella bella montagna.
--Ci sarò io?--aveva chiesto egli tremando.
--Con che aria me lo domandate! Rizio farà bene ad essere da per tutto,
come è nel mio cuore;--aveva ella risposto.--Tanto più, se vuol
rinunciare a quella cera di funerale, che sembra accusarmi continuamente
di crudeltà.--
Rizio si era sentito un gran rimescolo al cuore; il sangue gli era corso
veloce alle tempie; gli occhi volevano schizzargli fuori dalle orbite.
Se in quel punto lo avesse veduto il medico di San Giorgio, sicuramente
ordinava un'altra applicazione di ghiaccio. Strano dottore, che non
vedeva altro se non meningiti e vizi cardiaci!
Finalmente, ella doveva giunger lassù. Non più tormenti per lui, salvo
quello di attenderla due o tre ore sulla montagna. Tanto tempo? Ma sì:
con la solita prudenza egli aveva anticipata di tre ore la salita:
facendo il giro largo e fermandosi al bosco, aveva consumato un'ora;
lassù, poi, nel rifugio dell'Aiga era fuori d'ogni pericolo d'essere
frastornato, perfino di esser veduto. Da quella banda i Feraudi non si
mostravano mai; egli piuttosto avrebbe dovuto mostrarsi al Martinetto,
poichè laggiù, con aria di non aspettarla, doveva incontrare Gisella.
Ma a quell'incontro fortuito non voleva andare troppo prima dell'ora.
cavallo marino, per voi.--
E trascinava Maurizio con sè, lontano dalla casa, volendo rifarsi della
noia di quella giornata. Ma col discorso ritornava spesso a sua moglie.
--Credo che quel monaco l'abbia stregata;--diceva. Dal giorno che ha
cominciato a seguire quel maledetto quaresimale, Gisella non ha più
pace. Perfino di notte, vedete, ella sogna del monaco. Almeno, io penso
che sia così. Prima d'ora, dormiva i suoi sonni tranquilli, come una
bambina; ed ora è in agitazione continua; di tanto in tanto,
svegliandomi, sento che si lagna come una persona malata. Scendo da
letto, vado a vedere che cos'ha, le domando se si sente male: non
risponde; è addormentata, ma d'un sonno cattivo, come quando s'è fatta
una cattiva digestione. Ha l'affanno, l'oppressione, una specie d'incubo
che la fa rammaricare, gemere, uscire in frasi rotte, incomprensibili.
Capirete, amico mio, che tutto ciò è molto grave. Quando si parla
dormendo, è segno che il cervello lavora; e lavora male, il cervello,
quando non è la sua ora, quando egli ha bisogno di rifarsi della fatica
del giorno.--
Maurizio fremette, pensando alle frasi rotte, alle frasi
incomprensibili, che ben potevano una volta o l'altra riuscir frasi
formate, ed esser comprese. Non temeva per sè; questo era l'ultimo de'
suoi pensieri. Ma non voleva perder Gisella; lo atterriva l'idea d'esser
cagione d'una sventura per lei. Povera bella! ed era ammalata; un guasto
era avvenuto in quell'essere così perfetto. Ma come grave? a che punto
poteva giungere? come si poteva rimediarci? Anzitutto, che cosa aveva
osservato il medico? che cosa aveva detto a quel marito? se aveva detto
qualche cosa, che fede meritava?
Il medico di San Giorgio era un uomo di mezza età; non faceva lunghi
discorsi, nello impostare la diagnosi; anzi annaspava un pochino,
accennando i sintomi, i segni osservati; tanto che non pareva avere una
cognizione ben chiara del male, e contentava poco i suoi ascoltatori. Ma
egli non annaspava poi nella pratica; correva ai rimedii, alle
ordinazioni, alle operazioni, con una prontezza mirabile, che dinotava
altrettanta sicurezza di giudizio. Apparteneva alla scuola vecchia:
buona cosa, il più delle volte, perchè la scuola vecchia è tutta
esperienza accumulata intorno ad un metodo riconosciuto; non ha tante
parole dottamente aggrovigliate, non ha tanti sistemi frettolosamente
fabbricati. Ma questo ci avviene, quando cade inferma una persona a noi
cara: se il medico è della scuola vecchia, temiamo sempre che non ne
sappia abbastanza; e tanto più lo temiamo oggidì, che il giornalismo ci
confonde più facilmente con cento notizie di scoperte, di globuli, di
piastrelle, di microbii, di micrococchi, d'iniezioni ipodermiche, di
trasfusioni, di sterilizzazioni, di attenuazioni, di tentativi audaci,
di processi rigeneratori, di cure portentose, facendoci credere che un
nuovo mondo sia stato scoperto ieri, e un altro debba essere scoperto
domani. Se poi il medico è d'una scuola moderna (ci sono infatti tante
scuole quanti sono gli sperimentatori nuovi, i nuovi cercatori della
verità scientifica) temiamo che la sua scuola non sia la buona, che
voglia veder troppo, che si fidi troppo ad un sistema non ancora
provato, ad un rimedio non ancora abbastanza sperimentato, che prenda un
dirizzone scambio d'un indirizzo ragionevole, e vada e conduca noi fuori
di strada.
Maurizio non ebbe pace fino a tanto non gli venne fatto di abboccarsi
col medico, per sentire da lui che cosa fosse il malore ond'era
minacciata la contessa Gisella. Ma doveva egli entrar subito in
argomento? Un po' di confidenza ci voleva, e Maurizio pensò di non
averla ancora meritata. Egli lo aveva sempre un po' trascurato, quel
brav'uomo, che esercitava l'arte sua con molta coscienza, e che era
degno dell'amicizia di tutte le persone per bene. Incominciò dunque col
fargli la corte, fermandolo per via, accompagnandosi con lui,
chiedendogli notizie dei suoi ammalati, informandosi delle malattie
dominanti e del metodo di cura tenuto da lui. Biancolina e il piccolo
Vittorio furono anche buoni gradini per risalire bel bello alla contessa
Matignon, a quella graziosa e cara provvidenza di tutti i poveri, di
tutti i sofferenti del vicinato.
Anche lei, povera provvidenza, sì certo, aveva bisogno di cura. E il
signor di Vaussana, accennando quelle piccole indisposizioni delle quali
era stato testimone, aveva ad arte aggravate le cose, nella speranza,
quasi nella certezza di sentirsi rassicurare dal medico. Ma quell'altro
non aveva corrisposto alla sua aspettazione; batteva le labbra, aveva
l'aria di dargli ragione, gliene dava sicuramente più ch'egli non
mostrasse di volerne avere. E allora Maurizio a turbarsi davvero, a
fremere di spavento, a tempestar di domande.
Ma, che dire? Non bisognava confidar troppo, nè sgomentarsi prima del
tempo. Il medico, dopo tutto, aveva osservato lì per lì, badando alle
necessità del momento. Sì, certo, c'era qualche cosa al cuore. Vizio
cardiaco, dunque? Si poteva temerlo. Di mal di cuore era morta anche la
vecchia contessa Matignon, la madre di Gisella, e questo per l'appunto
gli dava da pensare; forse per questo egli si era così prontamente
fissato sul sospetto del vizio cardiaco. Aveva notato irregolarità di
polso, asistolìe, acinesìe; in altri termini, ritardati movimenti di
sistole, troppo lunghi intervalli nel doppio movimento di diastole e di
sistole, dilatazione e restringimento alterno del cuore. Ed anche
accennava a troppa frequenza di respiro, a qualche piccolo rantolo alla
base dei polmoni, indizio di stasi, ossia ristagno del sangue.
Erano sintomi poco piacevoli, sicuramente: ma potevano esser
passeggieri. Il medico non voleva pronunziarsi troppo presto, nè troppo
risolutamente. Ma aveva incominciato, doveva anche finire, per
contentare la curiosità incalzante del signor di Vaussana, la cui
amichevole sollecitudine per i signori della Balma meritava benissimo
una esposizione sincera. Non prendesse il signor di Vaussana per vangelo
tutto ciò ch'egli diceva; ammettesse ancora la possibilità di un errore;
ma per lui il vizio cardiaco ci doveva essere, e valvolare. In altre
parole, e più chiare, il medico di San Giorgio credeva di aver notata
una insufficienza della valvola bicuspidale dell'ostio auricolo
ventricolare sinistro.
--Che nomi!--aveva esclamato Maurizio, sforzandosi di sorridere, mentre
il cuore gli tremava e un sudor freddo gli gemeva dalle tempia.
--Che ci volete fare?--disse di rimando il dottore.--Il nostro
linguaggio è complesso e avviluppato, come la nostra povera macchina. Si
tratta infine della valvola che separa il ventricolo sinistro del cuore
dalla corrispondente orecchietta.
--Capisco, capisco, rispose Maurizio.--E quali le conseguenze?...
--Ci vengo. Premettiamo che l'orecchietta sinistra, con le sue
contrazioni, ha per ufficio di spingere il sangue nel ventricolo
sinistro. La valvola si apre allora, abbassandosi; e allora il
ventricolo, ripieno del sangue che l'orecchietta gli ha mandato, si
contrae a sua volta per ispingerlo nell'aorta. Ci siete? Orbene, se la
valvola è insufficiente, che cosa avverrà? che il sangue, alla
contrazione del ventricolo, non andrà tutto verso l'aorta, ma in parte
rifluirà verso l'orecchietta; e questa a sua volta, ingombrata da
questo ritorno, non potrà accogliere tutto il sangue che
contemporaneamente le verrà trasmesso dalle vene polmonari. Quindi
ristagno nei polmoni, ristagno che sarà risentito dalla parte destra del
cuore, che non potrà scaricare nei polmoni tutto il sangue venoso.
--E tutto ciò,--disse Maurizio,--è molto pericoloso?
--Sì e no;--rispose il medico.--Durante la gioventù e l'età verde, la
natura trova qualche compenso sulla dilatazione del ventricolo destro e
della orecchietta corrispondente. Più tardi, venendo un po' meno la
forza di resistenza, o per indebolimento da qualsivoglia causa prodotto,
o per indurimento di vasi, a cagione dell'età, il disequilibrio cardiaco
è maggiormente sentito. Allora i moti disordinati, le fatiche protratte,
le passioni, specie se afflittive, avendo grande influenza sul cuore,
possono facilmente esser cagione di lipotimìe, o deliquii che vogliamo
dire, di sincopi, di morte improvvisa.
--Mi fate fremere;--disse Maurizio.
--Parlo dell'età inoltrata, s'intende;--ripigliò il medico.--Qui non
siamo nel caso.
--Ma ad ogni modo, _principiis obsta_, non è vero? E quale è la vostra
cura?
--Quella che ho incominciata: è la solita; non c'è novità, in questa
materia; infusione di digitale, pillole di sparteina, gocce di
strofanto, tutte sostanze vegetali, tutti rimedii cardiaci,
rallentatori, riordinatori delle funzioni del cuore. E poi decotto di
china; è un corroborante. Vedete, signor conte; abbiamo ancora delle
armi per difenderci. Ed anche la gioventù, che è una buona corazza, per
chi la possiede.--
Il medico aveva un bel dire di gioventù, di cose non certe, e ad ogni
modo di pericoli ancora lontani. Maurizio aveva ricevuto il colpo in
pieno, e il colpo gli era andato all'anima. Anche il pericolo lontano lo
sgomentava; ed egli non poteva avvezzarsi all'idea della morte di
Gisella, neanche in un lontano futuro. Bella virtù dell'amore, che
sempre s'illude di vivere eterno! Intanto, fra questi terrori, che gli
furono aggravati dal troppo pensare delle ore notturne, Maurizio fu
colto dalla febbre; e la mattina seguente, poichè egli non ebbe forza di
alzarsi dal letto, si dovette chiamare il medico per lui. Povero medico!
Per la prima volta che aveva parlato un po' a lungo, dando ragione
dell'arte sua, faceva un bel guadagno davvero! Capì allora molte cose,
il buon discepolo di Esculapio; ma non le disse, non le ripetè neanche a
sè stesso. La vista continua di tanti mali ha educati i medici alla
religione del segreto. Per quella volta non fece nessuna diagnosi. Aveva
trovata una gran febbre, una eccitazione generale dell'organismo, il
volto acceso, gli occhi scintillanti, e una tale palpitazione al cuore
dell'infermo, da sentire lo scuotimento del viscere senza bisogno di
mettergli la mano sul cuore. A questi primi sintomi di una meningite, si
aggiunse tosto il delirio, il vaniloquio. Il buon dottore non istette a
pensar più che tanto; mise mano all'antipirina, alla fenacetina; poi
ordinò ghiaccio alla testa, ghiaccio pesto in bocca, ombra nella camera,
anzi buio fitto, e riposo assoluto.
La febbre era già salita di alcune linee sopra i quaranta gradi, e non
accennava a lasciarsi domare. Cominciò allora per Maurizio la triste
sequela delle pazze visioni. Le immagini come le idee s'inseguivano
nella sua mente con una rapidità vertiginosa, senza che alcuna potesse
giungere al suo compimento, incalzate com'erano, l'una sull'altra, a
guisa di flutti alla spiaggia, quando il mare è in tempesta. E il mare
appariva quasi sempre minaccioso, terribile, ora strappandogli una amata
creatura dalle braccia, ora inabissandolo insieme con lei, che atterrita
si avvinghiava al suo collo. Quando non era il mare, era una cascata
rumorosa, che si spandeva d'ogni lato, sgretolando il masso,
scoscendendo il terreno, abbattendo, inghiottendo ogni cosa, scrollando
ad ogni tratto un torrione su cui egli e lei erano rimasti prigionieri.
Unica via di salvezza, prender lei in collo, spiccare un salto,
afferrare un ciglione non ancora intaccato dalle acque irrompenti; ed
egli tentava, lanciandosi a volo col dolce peso sulle braccia; ma
proprio allora si smottava il terreno sotto i suoi piedi, ed egli e lei
rovinavano giù, giù, sempre più giù nell'abisso, senza toccare mai
fondo. E poi, di qua, di là, strani animali che s'avventavano, parole
misteriose che apparivano sui muri di un ignoto edifizio, voci arcane
che uscivano sibilando dallo spiraglio di una caverna, lampi sinistri
nel buio, fragori sordi, rombi sotterranei, tanaglie strette alla gola,
risa beffarde nell'aria, fornaci in fiamme, tutti i tormenti, tutte le
paure, tutte le follie della ragione turbata.
Stanco, abbattuto, disfatto da tanti viaggi, senza potersi formare
un'idea del tempo che erano durati, vide ancora Gisella, ma non più in
pericolo con lui. Egli era disteso in un letto, con le membra
prosciolte, mentre Gisella andava e veniva per la sua stanza, insieme
con Albertina; ambedue in aspetto d'infermiere, di assistenti al suo
capezzale. Ebbe allora un senso di dolcezza, di sollievo, di refrigerio
allo spirito, e pregò tacitamente le potenze invisibili a cui era stato
così lungamente in balìa, che non mutassero più la visione. Fu quello il
suo ritorno alla coscienza della vita; ritorno lento, timido, incerto,
ma a grado a grado più chiaro. Era ben lui che vedeva intorno a sè; ma
era nel suo letto, ammalato, e vedeva il vero: non più sgomenti, non più
terrori, non più larve di sogni, non più visioni di febbre.
La bella creatura spiava quel ritorno dell'infermo in sè stesso. Lo
indovinò alla insistenza con cui egli guardava verso di lei, dovunque
ella andasse o da una parte o dall'altra della camera. Meglio ancora lo
intese, essendogli venuta vicina, al desiderio ch'egli mostrava di
parlarle, allo sforzo che faceva per balbettare il suo nome. Ma ella non
voleva che l'infermo si affaticasse; voleva essere un conforto, un
argomento di sollievo, non una cagione di nuovo abbattimento per lui; e
involgendolo tutto d'un sorriso amoroso, si recò un dito alle labbra, in
atto di dirgli: Silenzio, per ora!
Maurizio era tanto spossato allora, quanto era stato da prima in
orgasmo. Obbedì, come un bambino buono al comando della mamma; avrebbe
obbedito ad un così dolce comando, se anche fosse stato nella pienezza
delle sue forze. Così passarono due giorni, in cui gradatamente si
riebbe: ma ancora non si muoveva dalla sua postura di giacente. Buona
postura, per altro, se quella adorata gli veniva dappresso e chinava la
faccia amorosa a guardarlo. Ah, i belli occhi d'indaco, sprazzi di
faville d'oro! Ma c'erano anche delle lagrime, che inumidivano le
ciglia, senza spegnerne il lampo.
--Sono stato dunque molto male?--mormorò egli il secondo giorno di
quella lenta risurrezione.
--Sì, povero Rizio!--bisbigliò la cara donna, chinandosi ancora un
tratto su di lui.--E sono stata io, non è vero? io la cagione del tuo
male! Ma voglio che tu guarisca, m'intendi? lo voglio. Ad ogni costo,
risanerai; non ti ammalerai più; non avrai più da soffrire, te lo
prometto.
--E tu?--mormorò ancora l'infermo, aprendo ben gli occhi, come se
volesse significarle colla intensità dello sguardo tutto quello che non
poteva dirle colle parole.
--Io? nulla; ora sto bene. Ve l'ho detto, che era una cosa di poco;
perchè spaventarti? Mi ero troppo esaltata; avevo anche fatto dei
digiuni troppo lunghi. Ma ora non più. Ragiono un po' meglio, sai? E
sono tua;--soggiunse con un filo di voce, ma con una intensità di
accento che andò al cuore di Maurizio;--tua mi capisci? E voglio esser
tua, viver tua, morir tua.--
Maurizio sorrise; una vampa di felicità gli corse alle guance, gli
brillò dagli occhi accesi. Le labbra si tesero, cercando, chiedendo,
pregando. Ma ciò non era da savio, e la buona infermiera lo chetò con un
gesto che voleva dir molte cose.
Poco stante ritornava il generale. Anch'egli capitava ogni giorno; ed
erano già sei, che Maurizio era caduto infermo; ma egli non restava a
lungo, avendogli il medico ordinato di fare del moto. Quel giorno,
trovando il convalescente di migliore aspetto, il generale diede la
stura ad una bottiglia di buon umore, _première marque_, che teneva in
serbo per il suo amico Vaussana, quando fosse in grado di assaggiarne. E
lo chiamava il suo «_intéressant moribond_» e gli ripeteva la facezia
feroce di Robert Macaire al povero ammalato: «_allez, allez à
l'Hôtel-Dieu; on fera des manches de couteau avec vos os, on en fera
des jeux de dominos, on en fera des boutons pour guêtres._» Ed anche
quel genere tutto mascolino di celia faceva ridere Maurizio.
--Ma sapete, interessante moribondo,--continuava il generale,--che ci
avete spaventati ben bene? Ve lo dico ora, che ne siamo fuori. E come
lavoravate di fantasia! Ci avete fatto perfino un trattato di storia
naturale, insistendo particolarmente sul capitolo dell'ornitologia. Non
parlavate che di nidi tra i rami, di passere, di lucherini, di
cardellini; di questi ultimi sopra tutto. Certo li avete amati molto, da
ragazzo.
--La febbre!--mormorò Maurizio.
--Sì, capisco, la febbre. Ma c'è anche la sua ragione, nel ritorno di
certe immagini, quando la febbre lavora;--ripigliava il generale.--Si
ridiventa bambini. Il fatto è scientificamente dimostrato. Il nostro
cervello è come una cipolla, per rispetto alle impressioni ricevute, una
cipolla di tante tonache sovrapposte. Si guastano nella malattia le
impressioni più superficiali, si cancellano le più recenti, e le più
antiche rimangono, vengono per così dire alla vista. Si cita il caso di
un ammalato di malattia cerebrale, che sapeva otto lingue, e ne perdette
parecchie via via, nell'ordine contrario a quello in cui le aveva
imparate. Basta, per voi non è stato il caso; quella brutta cosa della
meningite è stata scongiurata dal nostro grande Soleri. Ma è sempre
strano il fatto di quei ricordi d'infanzia ritornati a galla,
ridiventati padroni del campo.--
Bisognava lasciargli credere quel che voleva, e Maurizio non si provò a
contraddirlo. Il buon umore di quell'uomo era la pace sua, per allora,
era la certezza di veder sempre Gisella. Andava sempre e veniva, la
bellissima creatura; pensava a tutto, lei, prevedeva tutto, faceva
tutto, e covava il suo malato con gli occhi, come una madre il suo
bambino. Mai convalescente fu tenuto nella bambagia più e meglio del
signor di Vaussana. La stupenda infermiera cedeva a tutti i suoi
capriccetti; lo involgeva nelle sue occhiate fosforescenti,
accostandogli il cucchiaio alle labbra; o chinandosi su lui per
ravviargli il lenzuolo sotto il mento, lo inondava di fragranze soavi.
Il medico, vedendo opportuno il momento, prese a rinvigorirlo con
qualche pezzetto di carne, con vino generoso e qualche goccia di cognac.
Ma più fece un bacio leggero leggero che una mattina sfiorò furtivamente
le labbra di Rizio.
--No, non più vane paure;--bisbigliava a lui una soavissima
bocca.--Credere è bello; ma bisogna credere come te. Hai ragione tu,
Rizio; Iddio, che ti ha condotto sulla mia strada, che ha voluto essermi
rivelato da te, non può volere che io ti abbandoni.--
CAPITOLO XVII.
L'apparizione.
La mattinata era stupenda; l'aria calda, attraversata da piacevoli
ondate di frescura; il cielo uno splendore di azzurro perlato; la
montagna una festa di colori svariati, dal verde cupo e dal metallico
lucente allo smeraldino, al giallo tenero, con chiazze ferrigne,
rossastre, turchine, disposte qua e là nelle curve del terreno, nelle
insenature delle balze, nel mutarsi dei piani in lontananza; involto il
tutto, fuso, attenuato, in una tonalità violacea, che s'inteneriva negli
sfondi fino alla espressione del grigio. Un buon tepore si svolgeva dal
terreno, e in quel tepore si stemperavano, vaporando, tutte le fragranze
della selva e dei prati. Maurizio respirava a larghi polmoni aria,
tepori e fragranze, dando anch'egli, a quell'angolo di paradiso
terrestre, il suo profumo di felicità. Come era bella la montagna, e
come pareva contenta di sè! Ginepri e pini, frassini, corbezzoli ed
eriche, sterpaglie, rovi e fiammole, tutto verdeggiava, luccicava,
rideva dai ciglioni, dalle zolle, dai sassi; ogni arbusto, ogni
frutice, ogni più umile pianticella del bosco, persino la cèspita dalle
foglie glutinose, perfino i muschi del prato e i licheni dei grigi
lastroni scabrosi, sfaldati a migliaia d'inverni, avevano qualche cosa
da dire al sole, all'aria, agli insetti alianti e ronzanti, contenti
anch'essi di vivere, di respirare, di splendere.
--Voi felici!--disse Maurizio, vedendo due uccellini che si rincorrevano
a brevi volate tra gli alberi.--Ma sono felice ancor io, sapete? Ella
verrà fra poco, per pochi momenti forse, troppo pochi al mio desiderio,
ma verrà, verrà.--
E andava ripetendo sottovoce le due sillabe del verbo gaudioso, per
sentirne meglio, per assaporarne tutta la dolcezza ineffabile. Gisella
aveva promesso; sarebbe apparsa senza fallo. Che festa, la cara donna
che si aspetta! e come è bello il momento che fugge, avvicinando sempre
più l'ora della dolce apparizione! e come il luogo dove la cara donna è
aspettata, si anima, sorride, si compone a bellezza, preparandosi a
riceverla!
Assai prima di vedere la gran ruota del mulino, Maurizio lasciò il
sentiero battuto che tutti i giorni lo conduceva alla Balma. Non andava
alla Balma, per allora; s'inerpicava verso l'Aiga, e non gli bisognava
risalir la costiera più in là; era anzi prudente risalirla più in qua
dal mulino, evitando ogni incontro molesto, ogni sguardo importuno. E
risalendo, inerpicandosi di ciglione in ciglione, sentiva la cascata
rumoreggiare lontana sulla sua testa. Di tanto in tanto vedeva il
ruscello nei serpeggiamenti del suo alveo, affondato tra rupi e cespugli
in una piega del monte; i suoi passi frattanto si spegnevano sul morbido
tappeto delle zolle erbose e dei muschi, mentre lo coprivano d'ombre
discrete i rami degli ontàni e dei salici, onde erano vestite le balze.
Così muovendo frettoloso per l'erta, trovando da esperto montanaro i
passi più facili, le scorciatoie più pronte, afferrò l'orlo di un borro,
sotto l'alta rupe donde precipitava in basso il gran volume delle acque.
Lassù il burrone faceva conca per un giro abbastanza largo; in quella
conca le acque si stendevano in forma di fossato, innanzi di cercarsi,
tra nuovi scoscendimenti, la via; e là, dove incominciavano a trovarla,
era gittato un pancone, che faceva ufficio di ponte. Il luogo alpestre
era improntato di un'orrida bellezza. Davanti a Maurizio, e da tant'alto
che pareva dovesse rovesciarglisi sulla testa, si dirupava la candida
massa liquida, scintillante, spumeggiante, sempre in moto e sempre
uguale nell'ampiezza del suo volume, venendo a frangersi in una larga
incavatura del masso, donde rimbalzava divisa, sparpagliata, come una
immensa capigliatura fluente di spume, in cento rivoli capricciosi e
canori. Quanti scintillamenti cristallini! quante voci argentine di là!
Ben vieni, parevano dire quelle voci a Maurizio, ben vieni. Frattanto,
sul margine della cascata, l'arcobaleno stendeva a mezzo cerchio la
fascia diafana dei suoi sette colori. Mai l'arcobaleno dell'Aiga era
apparso più glorioso a Maurizio, più intenso, più luminoso, più vivo.
--Com'è bella,--pensava egli,--come è poetica la leggenda dei popoli
primitivi! Hanno veduto nell'iride il pegno dell'alleanza tra Dio e le
sue creature. Infatti, che cos'è l'arcobaleno? Un sorriso della luce
dopo la tempesta. Qui le gocce del nembo, sciolte in vapori e sospese
nell'aria, rifrangono i raggi del sole; ed è il sole, immagine di Dio,
che si specchia in questo basso strato d'aria, largito per condizione di
vita ai mortali.--
In un impeto di amore, Maurizio scoccò un bacio col sommo delle dita
all'arcobaleno, che parve intenderlo, e gradire l'omaggio, muovendosi
leggero leggero, quasi per far brillare i suoi colori d'una luce più
viva.
Un'altra cura trattenne Maurizio colà, per alcuni minuti. Lungo le
muscose pareti della stretta per cui scendeva la massa, delle acque,
crescevano molti ciuffi di capelvenere, facendo ad ogni zampillo, ad
ogni soffio di vento, tremolare sui lunghi picciuoli neri lucenti le
verdi foglioline disposte a ventaglio. Quei graziosi e ben nomati ricami
della natura piacevano tanto a Gisella; ed egli ne raccolse un bel
pugno, per comporne un mazzetto, insieme con certi fiorellini azzurri
che si vedevano spuntare qua e là. Fatto il suo bottino, ripigliò la
sua strada per l'erta: pochi minuti dopo giungeva alla macchia dei
nocciuoli. Era là dietro, il torrione; era là, nascosto ancora ai suoi
occhi, nascosto agli occhi di tutti, il suo nido. Ah, come gli batteva
il cuore, afferrando quel colmo! E come fu lieto, mettendo il piede nel
suo quieto rifugio! L'aspetto del luogo non era punto mutato; più folta
la frappa, se mai, avendo i nocciuoli messo altri polloni in primavera.
Tronchi grossi e sottili, asticciuole e virgulti, mettevano fuori gran
ciocche di larghe foglie cuoriformi, arrotondate alla base. Già sulle
vette dei rami si vedevano formati, a due, a tre, a quattro in un
grappolo, i lunghi involucri verdolini campanulati e polposi, nel cui
seno veniva crescendo il frutto, dal guscio ancora bianchiccio. Maurizio
ricordò che da bambino li addentava volentieri, quei verdi invogli
coriacei, per assaporarne il sugo aspretto, non dispiacevole al palato.
E non era egli un bambino anche allora? Lasciava stare gli invogli delle
nocciuole; ma componeva mazzetti di capelvenere e di talco celeste;
intanto gli batteva il cuore nel petto. La cara donna sarebbe venuta
lassù. Non più terrori, oramai; sarebbe venuta.
Terrori! e di che? Ma infine, Dio santo, perchè avete voi acceso questo
fuoco nel cuore della vostra creatura? Non è un sacrifizio a voi,
l'amore? non è un inno di lode per voi? Perchè dovremmo insospettircene?
perchè dovremmo impaurirne? La legge, si dice. Ma l'uomo, l'uomo
soltanto, ha fatta la legge, tela caduca, mutevole e vana; Dio ha fatto
l'amore, la fiamma viva, durevole, eterna. Andate contro la legge; è
niente, o poco meno di niente: andate contro l'amore; è lo schianto del
cuore, il tormento dell'anima, la morte.
Ella e lui erano stati per morirne. Ma ora non più. Ed ella non doveva
morire. Il medico aveva voluto veder troppe cose, in un momentaneo
malore; si era troppo turbato di alcuni indizi fugaci, non sintomi,
simulazioni di sintomi. Se si dovesse badare a tutte le passeggere
irregolarità dell'organismo, ci sarebbe in verità da temere di averle
tutte, le malattie dei trattati. Anch'egli, quante volte non si era
sentito male nel corso della sua vita! quante volte, senza saper come nè
perchè, non si era sentito andar via il cervello e la terra mancar sotto
i piedi! Il medico di bordo gli aveva detto ridendo: inezie,
scioccherie, scherzi del sangue; assottigliate questa volta, corroborate
quest'altra; due giorni di dieta; nutritevi di più, ed altre cose
simili. Quello era un dottore che la sapeva lunga. Ma quell'altro, il
medico di San Giorgio! Un brav'uomo, e non c'era niente a ridire. Ma
quel brav'uomo si era ingannato. Come non esserne persuasi, oramai?
Gisella non era stata mai così bella, così fiorente di salute, come dopo
quel piccolo male, che aveva messo tutti in ansietà, e non era poi che
l'effetto di un malaugurato cambiamento negli usi quotidiani della
vita.
E bellissima, e fiorentissima, la cara donna aveva bisbigliato la sera
innanzi a Maurizio:
--Domani andrò da Biancolina. È un pezzo che non vedo quella povera
gente.... e quella bella montagna.
--Ci sarò io?--aveva chiesto egli tremando.
--Con che aria me lo domandate! Rizio farà bene ad essere da per tutto,
come è nel mio cuore;--aveva ella risposto.--Tanto più, se vuol
rinunciare a quella cera di funerale, che sembra accusarmi continuamente
di crudeltà.--
Rizio si era sentito un gran rimescolo al cuore; il sangue gli era corso
veloce alle tempie; gli occhi volevano schizzargli fuori dalle orbite.
Se in quel punto lo avesse veduto il medico di San Giorgio, sicuramente
ordinava un'altra applicazione di ghiaccio. Strano dottore, che non
vedeva altro se non meningiti e vizi cardiaci!
Finalmente, ella doveva giunger lassù. Non più tormenti per lui, salvo
quello di attenderla due o tre ore sulla montagna. Tanto tempo? Ma sì:
con la solita prudenza egli aveva anticipata di tre ore la salita:
facendo il giro largo e fermandosi al bosco, aveva consumato un'ora;
lassù, poi, nel rifugio dell'Aiga era fuori d'ogni pericolo d'essere
frastornato, perfino di esser veduto. Da quella banda i Feraudi non si
mostravano mai; egli piuttosto avrebbe dovuto mostrarsi al Martinetto,
poichè laggiù, con aria di non aspettarla, doveva incontrare Gisella.
Ma a quell'incontro fortuito non voleva andare troppo prima dell'ora.
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