Tra cielo e terra: Romanzo - 11

Restiamo nelle nuvole, dove ci siamo conosciuti ed amati. È già triste
abbastanza il pensare a questa grama stagione, che è venuta pur troppo.
Abbiamo così poche occasioni di trovarci insieme! Scendendo in paese,
legandomi un po' più con quella cara Albertina, ho almeno la sorte di
vederti più spesso, mio povero Rizio.--
Rizio lasciava fare, e l'unico suo lavoro alla Balma era di giustificare
timidamente le visite della contessa al Castèu con la innocente
curiosità delle funzioni di chiesa. Infine, non si trattava che di uno
spasso. Quanti non sono i fedeli cristiani, che fanno così?
--Ed è quello che più mi dispiace;--notava il generale, felicissimo di
trovare un'opinione per via.--Cristiani per cristiani, meglio esser tali
sul serio.--
Da un'altra parte Gisella diceva a Maurizio:
--Sono felice, tanto felice di credere come te, insieme con te. Sai,
Rizio, che ho già avuto una visione?
--Una visione!--esclamò egli, sorridendo.--Così presto? Non sarà poi
stato un sogno?
--Non so che cosa significhi la vostra distinzione;--rispose
Gisella.--Sareste incredulo voi, ora? Il mio sogno è stato bello, se
mai. Figuratevi che mi son ritrovata in un paese nuovo, un paese
orientale, che riconoscevo benissimo, senza averlo veduto mai. Ero
uscita dalla città per andare verso un bosco d'olivi, a pregare,
sentendo nel mio cuore una gran tenerezza; allorquando, già presso al
colmo di una collina, nella calda luce del tramonto, mi apparve un uomo,
vestito d'una tunica rossa, con un mantello azzurro sulle spalle. Un
uomo, vi ho detto; ma io bene sentivo che non era tale. Intorno alla sua
bella testa, incoronata di capelli lunghi e fini, morbidamente ricadenti
in ciocche dorate, splendeva mite un'aureola vaporosa: la barba di un
bel biondo carico gli scendeva sul petto bianco di latte; gli occhi
azzurri, sereni, guardavano pietosamente verso di me, dando un senso di
bontà paterna alla bellezza di un angelico sorriso. Non mi parlò; ma la
sua mano si alzava benedicendo, ed io mi sentii morire di gioia. Come
era dolce quell'atto! come era buono lo sguardo! e quanto, nell'aspetto,
aveva egli di voi!
--Ah, ecco,--disse Maurizio,--voi ora guastate la dolce visione. Non è
così che bisogna immaginare il buon padre, la cui figura è oltre
l'umano. Ma è sempre bello che l'abbiate veduta,--conchiuse,--e che ne
abbiate sentita la poesia consolatrice.--


CAPITOLO XIV.
Da Ceppo a Carnevale.

Anche il signor di Vaussana andava in chiesa: credente nell'anima,
voleva mostrarsi tale in certi atti esteriori. Amava all'italiana
antica; perciò volentieri glorificava la bellezza nel recinto d'un
tempio, come avevano fatto l'Alighieri e il Petrarca, e al pari di quei
due immortali sarebbe stato capace di un amore puramente ideale. Il
destino aveva voluto altrimenti; ma egli nell'amor suo metteva sempre un
senso di adorazione, in cui si smarriva quel non so che di pungente e di
aspro che l'idea della colpa induce confusamente nell'amore più intenso.
Ah, quella colpa, non la espiava egli amaramente nel difetto della
possessione piena ed intiera della donna adorata? Ma in tanta amarezza
era più dolce qualche volta il pensare che egli, egli solo, aveva
condotta quella divina creatura alla fede; che l'amor suo, svegliando in
lei un senso più intimo della ragion delle cose, ne aveva per così dire
compiuta la perfezione. Maurizio sinceramente pensava, non esser senza
la fede creatura perfetta, come non è perfetta la pianta che non possa
vestire i suoi rami di fiori. La bella pianta della Balma, fiorita in
quella guisa di fede, guadagnava non pure agli occhi di lui, ma a quelli
di tutto il paese, che vedeva un tal miracolo di bellezza sovrana
mescolarsi nella modesta chiesa di San Giorgio alla umile turba dei
fedeli preganti. Si era creduto da prima che la contessa Gisella fosse
tenuta lontana dalle pratiche religiose per volontà del marito, a cui
dava noia il fumo delle candele. Vedendola ogni domenica in chiesa,
s'incominciò a pensar meno male dell'orso della Balma, che accennava a
volersi ammansare; ma più si ammirò la contessa Albertina, la buona fata
del Castèu, alla quale si attribuiva da tutti il prodigio.
Così andavano pianamente le cose, come l'acqua d'un fiume alla foce; e
il signor generale, vedendo di mal occhio quella manìa religiosa della
sua giovane metà, si adattava al fatto con più filosofia che non avesse
mai mostrato di avere. Così giunsero le feste del Natale, che furono per
Gisella una lieta novità, senza essere una troppo grave noia per il suo
signore e padrone. Il Natale, dopo tutto, è una solennità dell'anno che
non dispiace a nessuno, checchè si pensi in materia di fede. C'è l'uso
antico della baldoria domestica, a cui non saprebbe sottrarsi lo spirito
più scettico; e tiepidi credenti e caldi filosofi, facendosi imprestare
dagli eruditi qualche notizia intorno alle storiche celebrazioni
dell'anno nuovo presso tutti i popoli antichi e moderni del globo,
trovano che in certe occasioni, specie quando fa molto freddo di fuori,
si sta bene riuniti alla fiammata del ceppo tradizionale. In questo modo
si mettono tutti d'accordo, nella più varia dissonanza di umori e d'idee
che abbia mai turbata la pace di una famiglia. Le povere donne credenti
sorridono meglio ai loro uomini, vedendoli così lieti, quasi contenti di
sè medesimi, in quell'ora di domestico abbandono, e pensano e sperano
che il giorno verrà anche per essi di accostarsi meglio a Dio. Non è
forse vero che tutte le strade conducono a Roma?
Il gran camino padronale della Balma non aveva avuto da molti anni un
ceppo così allegro. Cedendo alle istanze dei Matignon, i signori del
Castèu erano andati a far Natale lassù, e così pure la notte del Capo
d'anno. Per quella doppia solennità era anche venuto di Francia il
capitano Dutolet. Il buon ragno non aveva parenti, e si era mostrato
molto amabile venendo a spendere quei pochi giorni di libertà presso il
suo antico capo squadrone. Non aveva per quella volta che una breve
licenza; ma prometteva di averne una lunga per l'anno prossimo, se
niente fosse venuto a guastare. Veramente, guastare non era il verbo
adatto: ciò che poteva guastare il disegno di una pacifica gita a San
Giorgio sarebbe stato accolto come un invito a nozze da lui, soldato
francese anzi tutto. Ma di questo non ne diceva nulla, il buon ragno;
aveva caldo l'amor patrio, ma silenzioso, e con quell'aria di Guglielmo
il Taciturno lasciava credere di annoiarsi mortalmente per tutt'altra
cagione.
--Prendete moglie, Dutolet;--gli aveva detto ad un certo punto il
generale.
--Se fossi ricco, perchè no?--aveva risposto il capitano.
--Come?--esclamò la contessa Gisella.--C'è forse bisogno di esser
ricchi?
--Sì, e molto ricchi;--rispose il buon ragno.--Come si potrebbe
altrimenti coprir di diamanti la donna che si fosse scelta a compagna?--
Era un gentile pensiero; e la contessa Gisella, da buona figlia d'Eva,
trovò che il capitano Dutolet ragionava benissimo. Così il buon ragno
cansò quella sequela di argomentazioni che sogliono scaraventarsi in
ogni società di ammogliati addosso agli scapoli impenitenti. Ma la
contessa Gisella, che era stata assai lieta il giorno di Natale, non fu
egualmente lieta nella notte del Capo d'anno, quando al brindisi solenne
delle dodici il generale alzò il calice spumante del generoso liquore
della vedova Cliquot, per bere alla felicità di Maurizio e della sua
moglie futura. Era in uno strano periodo psicologico, il generale;
voleva ad ogni costo combinar matrimonii. E Maurizio, come aveva
risposto al brindisi? Male, assai male, balbettando rotte parole, quasi
accettando l'augurio.
--Come fare altrimenti?--disse quel poveretto, appena ebbe modo di
ritrovarsi a quattr'occhi con lei.--Dovevo io rispondergli che non
gradivo il discorso? Dovevo, con la mia prontezza a respingere un
augurio senza nessuna importanza, correre il rischio di mettergli un
sospetto nell'anima? Ci pensate voi, anima mia, a quello che potrebbe
succedere, se egli immaginasse....
--Non mi dir altro, Maurizio, non mi dir altro!--gridò ella,
fremendo.--Tu hai ragione, hai ragione, hai sempre ragione. Ma ho
sofferto tanto! Una pugnalata al cuore, in quel momento, mi sarebbe
piaciuta di più. Ah, sento che l'anno incomincia male, assai male.
--Superstizioni, non vi pare?--mormorò egli, sforzandosi di sorridere.
--Chi sa?--diss'ella, traendo un sospiro.--Non sono poi le compagne
della fede? A me incominciano a venire con essa. Pensate infine che io
sono una povera donna, con poca istruzione, con pochissime idee. Quando
ne ho una in testa, il mio piccolo cervello è costretto a lavorar sempre
su quella. Felice voi, Rizio, che sapete tante cose, voi che guardate
più lontano e comprendete più largamente di me, trovando il punto giusto
dove io mi smarrisco, dove io non vedo che contraddizioni e paure.--
Maurizio non meritava la lode di Gisella, e il punto giusto non lo
trovava da un pezzo neppur lui. La contraddizione, brutta chimera, lo
afferrava alla gola, ed egli si divincolava inutilmente nella stretta.
Se credi al decalogo, perchè rubi? Se hai tanto squisito il senso della
legge morale da volerne insegnare altrui la eterna sanzione, perchè
inganni il tuo simile? perchè siedi col tradimento nel cuore alla mensa
di chi fida così ciecamente nella tua probità? Ma a questi dilemmi, non
bene formati ancora, egli chiudeva gli occhi della mente, quasi cercando
nella sua cecità volontaria una ragione per non averli a combattere.
Amava, e non voleva affrontare una pugna con la logica inflessibile, una
pugna che sarebbe riuscita a danno dell'amor suo. Quella logica gli
avrebbe comandato di rinunziare a Gisella; e questo era per lui
l'impossibile. Un miracolo, ci sarebbe voluto, un miracolo, per levarlo
di pena. Ma quale? Egli non osava neanche dirlo a sè stesso; e vili
pensieri lampeggiavano sinistramente nell'ombra densa dell'anima sua.
Felice il generale, che negli ozi del suo castello aveva da combattere
solamente la noia. Ognuno, si sa, crede la propria malattia più grave di
quella degli altri, ed egli sinceramente si esagerava i mali di una
noia, in onta alla quale passavano i giorni abbastanza rapidi, tra
partite a biliardo o a picchetto, accessi di malumore e grasse risate.
La volgarità del discorso faceva anche capolino fra la domestichezza
dello consuetudini. Il signor di Vaussana, di tanto in tanto, per una
ragione o per l'altra, interrompeva le visite. Quello dei viaggi brevi e
frequenti era un artifizio, ben noto alla contessa, che non aveva
neanche da soffrirne troppo; perchè Maurizio, il più delle volte, dopo
avere annunziato una gita a Nizza, a Torino, a Genova o altrove, non si
muoveva dal Castèu, dove ella trovava poi modo di scovarlo. Quei piccoli
furti erano un segreto di più e certamente il meno grave tra tutti
quelli che avessero da custodire. Frattanto, colle frequenti sparizioni
dalla Balma, il signor Maurizio si confidava di addormentar meglio il
castellano, sviarne l'attenzione, dissiparne i sospetti, se mai ne
fossero nati. Su quei viaggi frequenti tornava spesso il generale, e con
molta libertà di discorso, anche in presenza della moglie.
--Gran fioritura di camelie dev'essere a Montecarlo; non è vero,
Vaussana? E c'è poi sempre quell'abbondanza di _belles-de-nuit_?
--Non sono stato a Montecarlo;--rispondeva Maurizio, schermendosi come
poteva.--Vi ho pur detto, generale, che ho fatto una punta fino a
Genova.
--Ritorno offensivo, dunque? E come sono ora le genovesi? sempre belle?
Ai tempi della Crimea, quando ci sono passato io, erano tutte d'una
bellezza incontrastabile, ma un pochettino massiccia. Mi dicono che ora
ci sia un altro tipo, alto, flessuoso, con una tendenza spiccata al
biondo, e dei languori orientali nell'occhio. Come le preferite voi,
Vaussana? Fortunato briccone! godete il mondo, finchè vi dura la
gioventù. Ma non abusate, mi raccomando; è insalubre. E credete a me, la
miglior cosa che possiate fare, per calmare questa febbre, tanto
pericolosa all'ultimo stadio, è ancora di prender moglie. Prendete
moglie, Maurizio, prendete moglie.--
E lo canticchiava anche in musica, il suo ritornello, prendendo lo
spunto da una canzonetta del Béranger.
La contessa, di solito, chinava gli occhi sul suo telaino da ricamo,
aspettando che il generale la finisse con quelle sue libertà di
discorso. Ma il generale prendeva un gusto matto a ribattere quel chiodo
in presenza di lei, e chiudendo sempre il discorso col suo solito
ritornello. Tanto che un giorno, seccata, la contessa alzò gli occhi e
soggiunse, rivolgendosi a Maurizio:
--Ma sì, prendete moglie, signor di Vaussana.--
Maurizio rimase un po' male, non intendendo il perchè di quell'altra
esortazione. C'era egli bisogno che Gisella tenesse bordone al generale?
Che cosa ne poteva lui, se quell'altro, abusando del suo diritto di
padrone di casa, gli tornava sempre sul medesimo tasto?
--Me la trovino loro;--rispose egli a denti stretti.
--Oh bravo! e se la troveremo, la prenderete?
--Scelta da amici come voi, perchè no? avrà certamente tutte le virtù
immaginabili.
--Ebbene, cercheremo;--disse Gisella.
--A Nizza, non è vero?--soggiunse il generale.--Mia moglie ha il
desiderio di passare a Nizza gli ultimi giorni di carnevale; sarà una
eccellente occasione per noi di cercare, e per voi di giudicare della
scelta, senza perdita di tempo.
--Si va all'arma bianca!--conchiuse Maurizio, facendo bocca da ridere.
Ma in verità aveva voglia di tutt'altro; era lì lì per uscire de'
gangheri. Anche quel viaggio a Nizza ci voleva! Gisella ne aveva già
accennato a Maurizio, come di uno svago da procurare a quell'eterno
annoiato del signor generale; quanto a sè, non ci aveva nessun gusto,
prevedendo la seccatura delle visite molte e della poca o nessuna
libertà che avrebbe avuto di stare a discorrere col suo povero Rizio. Ma
ci voleva pazienza, e bisognava fare di necessità virtù. Sì, tutto bene,
salvo quell'idea pazza di cercar moglie a lui, che non voleva saperne.
Per fortuna, nel soggiorno di tre settimane a Nizza, non furono che
falsi allarmi. Gli avevano domandato se la preferisse inglese, o
americana, o russa, ed egli aveva risposto di non aver predilezioni in
materia. Intanto, con quell'arte che le donne sanno tutte, ma che le
donne innamorate conoscono a perfezione, la contessa Gisella causava
ogni occasione di far conoscenze del suo sesso, oltre le poche
necessariamente portate dalle relazioni mascoline del marito. Si
vedevano mogli di generali, di colonnelli e di capisquadrone, tra le
quali non c'era pericolo che avesse da scegliere il suo Maurizio, o per
lui il signor generale. E questi, d'altra parte, sempre attorniato da
vecchi _troupiers_, tutto ingolfato nelle sue conversazioni d'arte
militare, di caserma o di piazza d'armi, non pensava più affatto ad
ammogliare il signor di Vaussana. Nè poteva sperare che se ne
incaricasse sua moglie, sempre circondata dal gaio sciame dei giovani
capitani, degli aiutanti di campo e degli uffiziali d'ordinanza. La
galanteria militare si esercitava intorno alla bellissima generala in
visita, con quella amabile festività, con quella misura cavalleresca,
che è propria dei francesi, e che è maravigliosamente aiutata da una
lingua facile e snella, di forme ben definite, di frasi bell'e fatte,
tra cui la stessa consuetudine ha tolta ogni importanza e lasciata tutta
la sua grazia all'iperbole. Maurizio, nondimeno, si seccava un pochino
che tutti fossero _bien heureux_ come santi in paradiso, o _enchantés_
come cavalieri nel castello di una fata, quando erano ammessi alla
presenza di quella _grande charmeuse_, di quella _femme divine_, della
contessa Gisella.
Il guaio era che parlando così avevano tutti ragione. Ed egli, anche
gradito da tutti, trattato con quella deferenza di cui lo faceva degno
il suo grado e la sua educazione, con quella cortesia cerimoniosa che
era dovuta alla sua qualità di straniero, si sentiva a disagio, era
sempre sulle spine. Vedeva ogni giorno Gisella, ma troppo diviso da lei,
anche essendo vicino, e soffriva. Non già del brutto male, intendiamoci;
perchè Maurizio conosceva la divina creatura, ne sentiva il pensiero
costantemente fido, ne vedeva lampeggiar l'occhio azzurro sparso di
faville d'oro, quando faceva un giro largo per giungere a lui e dargli
il suo istante di felicità. Ma quanta bellezza ammirata, respirata,
assorbita da troppi! ma quanta musica di parole sparsa a consolazione di
troppi! Gisella era una regina, dovunque apparisse; amabile ad un modo
con ogni età, con ogni grado, passava in mezzo a quella gloria di
filetti d'oro e di rosso _garance_, come una bella dea serena e
sorridente, maestosa e leggera, appagando tutti senza fermarsi a
nessuno. Così debbono esser lieti i fiori di un giardino, quando passa
aleggiando sulle aiuole una splendida farfalla, sempre in alto e sempre
in moto, avendo l'aria di posarsi su tutti i calici, dischiusi a lei,
odoranti per lei.
Qualche volta, passando accanto al signor di Vaussana, la divina
creatura gli gittava una di quella frasi sommesse e brevi, ma calde di
passione, che avevano virtù di rianimarlo, di esaltarlo, di fargli
toccare i termini della beatitudine.
--Ah, il nostro San Giorgio! Ancora pochi giorni, Rizio! Questo
carnevale, che morte! Sorridi, via, grande bambino, che hai così dolce
il sorriso! T'intendo, sai? è così tarda a giungere, la nostra buona
quaresima!--


CAPITOLO XV.
Padre Anselmo da Carsoli.

La quaresima ricondusse i nostri viaggiatori a San Giorgio. Il piccolo
paese alpino era tutto in fermento per una di quelle novità che sogliono
commuovere perfino i grandi, tra il carnevale e la pasqua. Senza esserne
stato avvertito dalle trombe della fama, San Giorgio possedeva per quel
periodo di penitenze, di digiuni e di esercizi spirituali, un
quaresimalista insigne, un predicatore coi fiocchi. Come mai un
tant'uomo si fosse persuaso di andare a pescare anime tra quei monti, in
verità non si poteva immaginare; certamente bisognava conchiudere che
per una volta tanto l'arciprete don Martino avesse avuto una grazia
speciale dai suoi santi protettori. Fin dalla prima predica il nuovo
quaresimalista, del quale, a vederlo, non si sarebbe dato un baiocco,
aveva sbalordito il suo uditorio; alla seconda lo aveva incantato. E già
si parlava di lui in tutte le case, come di una gran maraviglia; se ne
discorreva in farmacia, se ne ragionava al casino di lettura; in ogni
luogo, perfino nelle osterie, si facevano confronti fra lui e i
predicatori degli anni passati; chi aveva viaggiato e sentito altri
famosi oratori del pergamo, non dubitava d'asserire che quello era uomo
da batterli tutti.
Non vecchio nè giovane, con poca barba biondiccia venata di peli
bianchi, più macilento che magro, alto della persona ma curvo, quasi
piegato in due quando attraversava la grande navata della chiesa per
recarsi dalla sagrestia al suo pulpito, appariva tutt'altro quando si
affacciava di lassù, alta la fronte, sfavillanti gli occhi, diritto il
corpo come una spada. Era cappuccino; si chiamava padre Anselmo da
Carsoli. Modesta figura di asceta, vestiva umilmente una tonaca
spelacchiata, su cui non mancavano le toppe, larghe, lunghe, fatte più
vistose dal colore più carico del panno, con le quali il vecchio abito
si andava via via rinnovando a pezzi e bocconi. Camminando in istrada,
così curvo delle spalle e sempre a capo basso, non guardava mai nè di
qua nè di là, non vedeva nessuno, tranne i bambini, quando gliene
passavano daccanto, dandogli una curiosa sbirciata di sotto in su. Ma
anche senza vedere la gente, il cappuccino ne indovinava il saluto, e lo
ricambiava con un gesto di benedizione, breve breve, come d'uomo che
avesse fretta. Coi bambini, per altro, si fermava sempre un poco, due o
tre minuti secondi, il tempo di aggiungere alla benedizione una carezza
paterna, accompagnata da una crollatina di testa; come se in quel punto
e a quella vista il pover uomo volesse cacciar dalla mente un doloroso
ricordo.
Il giorno dopo la sua tornata in paese, Gisella aveva voluto andare al
Castèu, per salutare Albertina. Accompagnata in quell'uffizio di
cortesia dal generale, aveva incontrato sulla piazza il signor di
Vaussana, che usciva allora allora dalla posta, con le sue lettere e i
suoi giornali tra le mani. Era una piccola fortuna, di quelle che i
piccoli paesi offrono più facilmente alle persone che si amano, e
Maurizio l'aveva afferrata al volo, accompagnandosi ai signori Matignon:
del resto, non si doveva egli far cammino insieme? Così, muovendo dalla
piazza al Castèu, avevano veduto innanzi a loro il cappuccino, che,
uscito allora dalla canonica, rasentava il muro per andare verso una
viottola campestre, dietro la chiesa parrocchiale. Gisella riconobbe
all'abito il predicatore, di cui quella stessa mattina le avevano già
fatto un gran discorrere alla Balma tutte le sue persone di servizio.
Andando ella innanzi ai due cavalieri, per la ristrettezza della strada,
e passando lesta accanto al cappuccino, la bella signora non aveva
creduto di potersi dispensare da un piccolo cenno di saluto, che andasse
in pari tempo alla veste religiosa, all'età rispettabile e all'ingegno
acclamato dell'uomo. Quell'altro aveva risposto con la sua benedizione
frettolosa, chinando la testa anche più dell'usato; e pochi passi più
in là, trovata la svolta del sentiero campestre, aveva scantonato
prontamente, senza voltarsi neanche con la coda dell'occhio a guardare.
--Vedete che sudicioni!--disse il generale a Maurizio.--Neanche un paio
di calze!
--È la regola, generale.
--Sarà; ma non è la decenza.
--Ettore!--mormorò la contessa, volgendo al marito un'occhiata di
rimprovero.
--Ebbene, che cosa ho detto che non sia il vero?--replicò il
generale.--Se non portano calze, non vadano almeno in ciabatte!
--Umiltà;--disse ancora timidamente Maurizio.
--Ah sì, parlatemi dell'umiltà dei frati!--gridò il conte Ettore.--_Une
bonne blague, celle-là!_
Il cappuccino venne ancora in ballo, quando furono al Castèu, nel
salotto della contessa Albertina. La signorina di Vaussana aveva già
sentito due prediche, e n'era rimasta profondamente commossa. Era una
donna intelligente, leggeva molto, pensava molto; il suo giudizio era
dunque di gran peso. Il generale, del resto, essendo uomo di mondo, si
arrese facilmente, e si tenne in corpo le celie che il tema gli chiamava
alle labbra. Non fiatò neppure quando sua moglie dichiarò di voler
seguire quel corso di prediche, contentandosi di promettere a sè stesso
ch'egli non l'avrebbe imitata, e per quel primo giorno, in cui il
capriccio religioso della sua metà lo coglieva fuori di casa, non
sarebbe neanche rimasto sulla piazza della chiesa per aspettar le
signore all'uscita.
Le signore, frattanto, seguitavano ad occuparsi del frate. Gisella
raccontava di averlo veduto passare, mentre ella saliva verso il Castèu;
ed Albertina soggiungeva qualche notizia intorno alle passeggiate di
lui. Tutte le mattine, un'ora prima di salire al pulpito, se ne andava
soletto per quel sentiero campestre dietro il coro della chiesa
parrocchiale; s'inerpicava per la balza vicina, con la sveltezza di un
giovinetto, e giunto lassù, dove il dorso granitico della montagna
faceva un rialzo in forma di rozza colonna, si riposava una buona
mezz'ora, contemplando, meditando, forse preparandosi nella preghiera
alla predica della giornata.
--Vedetelo appunto lassù;--diceva Albertina, conducendo Gisella nel vano
della finestra e indicando la montagna di contro.--Quel masso che sorge
assottigliandosi come una cuspide di tempio gotico, si chiama la Pietra
Aguzza. È là sotto, il padre Anselmo, seduto in contemplazione. Ecco, si
muove; si è alzato; si dispone a scendere. Sarà ora anche per noi di
andarcene in chiesa.--
Gisella sentì quel giorno il predicatore, e s'invogliò più che mai di
ascoltarlo ancora. Erano veramente prediche maravigliose, quelle del
padre Anselmo da Carsoli. Niente di politica spicciola, di quella che
si vorrebbe gabellare per politica grande: niente pei diritti temporali
del Papa, e niente contro la miscredenza del secolo: a farla breve,
nessuno dei luoghi comuni, esercizi retorici e pistolotti della poco
sacra eloquenza dei sacri oratori del giorno. Ragionava di Dio con una
forma insolita, non strana, semplice, chiara, elevata, degna di lui, in
quella misura che può esser degno di lui il povero linguaggio della
creatura umana. Toccava spesso e volentieri della virtù che onora l'uomo
accostandolo al cielo, ed aveva impeti di passione, accenti nuovi e
profondi che penetravano al cuore. Parlava caldo, serrato, incalzante, a
fiotti su fiotti, come il mare, quando cresce a tempesta; qualche volta
avendone perfino impaccio alla lingua, che durava fatica a sprigionare
la frase. Ma la frase, quando finalmente usciva formata, acquistava da
quell'impedimento momentaneo una singolare efficacia, come acqua
corrente che costretta in angusto passo gorgoglia, spumeggia, rimbalza,
uscendo più limpida, più rumorosa, più viva. Si soffriva un istante con
lui, sentendolo oppresso dalla irruenza del pensiero e della parola; ma
quel soffrire volgeva tosto ad un senso di piacevole stupore, vedendogli
prendere la rincorsa a quel modo. E pareva allora che per tenergli
dietro dovesse mancare il tempo a pensare: ma si pensava pur sempre,
anche senza averne coscienza, perchè tutte le sue parole, così
rinvigorite dallo sforzo, restavano impresse, e tutti gli argomenti in
quelle parole serrati andavano a fondo.
Oramai non si parlava più che di lui, a San Giorgio. Da quarant'anni,
dicevano i vecchi, non si era sentito lassù un oratore di quella forza.
Ed ancora, non potevano i vecchi ingannarsi, esagerando naturalmente i
ricordi della loro gioventù? Evidentemente, un oratore di quella forza
non doveva esserci stato mai, nè quaranta, nè cent'anni prima d'allora;
altrimenti se ne sarebbe conservata un po' meglio la fama, ne avrebbero
parlato le istorie. E l'eco dell'entusiasmo di San Giorgio si
ripercuoteva ogni giorno alla Balma, con gran noia del signor generale.
--E così,--diceva egli alla contessa, vedendola ritornare sul
mezzogiorno a casa,--lo avete sentito, il grand'uomo?
--Ma sì,--rispondeva ella,--ed è veramente grande; lo riconoscono tutti,
a San Giorgio, anche i liberi pensatori.
--Ah!--sclamò il generale, inarcando le ciglia.--Ci sono dunque dei
liberi pensatori, a San Giorgio? E che pensano?
--Quel che vi ho detto, per lo meno;--disse Gisella.--Fin là ci saranno
potuti arrivare.
--Mi fate venir voglia di sentirlo;--conchiuse egli, ghignando.
E saputo che alle prediche di padre Anselmo assisteva anche il medico
condotto, che passava per una testa forte, per una specie di Cabanis
ridotto alle proporzioni mandamentali, andò la mattina seguente anche
lui a vedere l'ottava maraviglia. Non si avventurò nella grande navata,
per altro; si fermò poco lontano da un uscio laterale, nascosto dietro
un pilastro.
Padre Anselmo, quel giorno, aveva predicato sulla scienza, sulla vera
scienza che eleva lo spirito fortificandolo, che conduce a Dio, come la
fede, come la speranza, come la carità. Quella era forse la trattazione
più moderna ch'egli avesse fatta fin allora a San Giorgio.
Ordinariamente il frate parlava di virtù, di pietà, dei doveri del
cristiano, della dolcezza che si prova nel seguire la legge. Quel
giorno, elevato il tono, parve anche più forte del solito. Ma non così
la pensava il suo novo ascoltatore, che torse le labbra, annoiato.--Se
questo è il pezzo più forte,--pensava, egli nel ritornarsene alla
Balma,--gran debolezza vuol essere il restante.--
La sera, in conversazione, si parlò del predicatore; e il signor di
Vaussana domandò al generale che opinione se ne fosse formata.
--Non me ne parlate;--rispose egli, facendo una spallucciata delle
solite.--È uno sciocco. Parole, parole, parole! E neanche armato come
dovrebbe, per sostenere la sua tesi spallata! Non sa citare che autori
di cinquant'anni fa. Lo avete sentito? Gli è parso di far molto,