Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana - 13
— Parecchie cose, ha trovato. Anzitutto, un tronco d'albero appoggiato
in un certo luogo al muro di cinta; poi due embrici rotti sulla corona
del muro; poi una povera vecchia del vicinato, che aveva dato acqua al
biondo cavaliere per lavarsi una scalfittura al ginocchio, ricevendone
in dono una moneta d'oro. Ecco una moneta bene spesa, affè mia, per
farsi conoscere da mezza Roma. Per Ercole, non tornava lo stesso salire
su d'un tetto e gridare il suo nome alla gente?
— Ah, l'infame! — mormorò Clodia Metella, che ben ricordava quella
assenza di Caio Sempronio dagli orti Tiberini e la circostanza della
scalfittura, da lui spiegata con una mezza bugia.
— Vedi? — incalzò Cepione. — Ecco il bel guadagno che si fa ad
impacciarsi coi giovani, con questi farfalloni, che non stanno mai
fermi in un luogo, e il cui solo diletto par quello di vagabondare
dalle rose ai ligustri.... quando non è quello di dare una scorsa su
qualche cesto di cavolo. E adesso che il nostro bel farfallone dal
cavolo torna alla rosa, vedremo questa dischiudergli amorosamente le
foglie, come se niente fosse...
— Oh, non lo speri! — ribattè Clodia Metella. — Lo manderò dove va
mandato, agli orti Ventidiani. Capisco ora perchè li aveva comprati
e regalati, lui, che in fin dei conti non possedeva la sostanza di
Lucullo, e non era stato nominato erede di un secondo Attalo! —
Attalo era il personaggio favorito dei Romani, quando volevano citare
un grande esempio di ricchezza. E la ragione era questa che Attalo III,
re di Pergamo, detto Filometore, essendo morto senza figli ottant'anni
addietro, aveva lasciato erede di tutte le sue sostanze il popolo
romano. Il quale, colpito da tanta magnificenza, dimenticò volentieri
che il testatore era un fior di briccone, che coltivava nel suo
giardino tutte le piante velenose conosciute a' suoi tempi e impregnava
del loro succo i fiori e le frutte che inviava a' suoi prediletti. Ma
che cosa non fa dimenticare un bel gruzzolo di monete?
— Sì, un bel ricco! — notò Cepione. — E dove si sia ridotto, mi pare di
avertelo detto poc'anzi. Se tu non lo soccorri, io temo...
— Soccorrerlo, io? — interruppe Clodia Metella. — Tu se' pazzo, o
Servilio. Mi vorresti così sciocca da rovinarmi per lui e da mandare
la villa d'Albano e gli orti sul Tevere nel baratro in cui si sono
sprofondati i suoi quattro milioni di sesterzi? Già, soccorrerlo!
Perchè seguiti a fare il vagheggino con la moglie di Cinzio Numeriano!
Neanche per sogno; o non son io, o lo pianterò su due piedi.
— Brava! così va fatto; è il miglior modo per non lasciarsi intenerire.
M'immagino, — soggiunse con arguzia feroce il banchiere, — che ciò
non avverrà senza sdegni e maledizioni, perchè, siamo giusti, sei tu,
padrona mia bella, che l'hai ridotto allo stremo.
— Io? Sono forse io che l'ho consigliato a spendere? Io non gli ho
chiesto mai nulla. Io son patrizia romana, e della gente Claudia, la
più nobile e la più antica di tutte.
— O dove metti la gente Giulia? — domandò l'argentario, che ci prendeva
gusto a punzecchiare la sua alleata.
— Sì, davvero, gran nobiltà! — rispose Clodia Metella. — Discendono da
Giulo, il figlio di Enea. Ma, a buon conto, nella storia di Roma non
compariscono che verso i principii della guerra punica. I Claudii, in
quella vece, vennero dalla Sabina in Roma, sei anni dopo la cacciata
dei re. —
Era graziosa, quella quistione di antenati, in mezzo alle smanie per la
infedeltà, o, a dire più veramente, la povertà di Tizio Caio Sempronio!
Ma bisogna pensare che Claudia Metella ci aveva il suo pudore anche
lei, ed era naturale che volesse nascondere sotto la nobiltà della
stirpe quel brutto esempio d'ingratitudine che si disponeva a dare.
Cepione, per altro, non volle menarle buono il suo fumo nobilesco.
— Senti, padrona mia, — diss'egli col suo tono beffardo, — lasciamo in
disparte gli antenati Sabini e i Troiani. Gli uomini si conoscono dalle
opere loro. Tu fa vedere che sei nobile davvero per te, non volendo
aver che fare più oltre con gli straccioni. Io, domani o doman l'altro,
gli fo sequestrare il suo talamègo e tutto quanto ha portato di buono
con sè... anche le gioie.
— Oh, queste poi!
— Certamente; — ripigliò l'argentario, facendole il bocchino; — ma
insieme con lo scrigno, o, se ti piace meglio, con la dea che le
porta. —
Clodia chinò la testa e pensò. Infatti, era il caso di pensare da
senno. Con quelle notizie che recava Cepione, e che del resto ella si
aspettava un giorno o l'altro, la compagnia del bel cavaliere diventava
un gran peso. Uscire di là, bisognava. E come ne sarebbe venuta a capo,
se qualcheduno, a lei noto e interessato a servirla, non le dava una
mano?
Dopo alcuni istanti di pausa, in cui il suo cervello sottile fece
molte miglia di cammino, Clodia Metella alzò con piglio risoluto la
fronte, e, guardando fisso Cepione, gli disse, così tra il dubbio e
l'affermazione.
— La dea conserva i suoi donativi, non è egli vero? Sarebbe sacrilegio
spogliarla.
— S'intende. I voti non sono essi il premio delle grazie che ha fatte
la dea? E non è giusto che conservi i suoi cuori d'oro, le sue armille,
i suoi monili, dopo averseli così ben guadagnati?
— Ne parleremo; — rispose Clodia, dopo un'altra piccola pausa.
— Perchè non parlarne subito? — disse Cepione. — Padrona mia, queste
risoluzioni si prendono a volo. Non si tratta per l'appunto di volar
via?
— Verissimo; ma senti, ecco il tuo cavaliere che torna.
— Il mio! questa è buona davvero.
— Tuo, o di Furio Spongia, o di Crispo Lamia; non siete voi altri che
lo avete dissanguato? —
Il degno argentario stava già per rispondere qualche altra malignità,
quando Caio Sempronio comparve nell'atrio, con la sua baldanza negli
occhi e col sorriso sul labbro.
CAPITOLO XIX.
Siamo agli sgoccioli.
Clodia Metella si era prontamente ricomposta con quella balìa di sè,
che è propria delle donne. Non se l'abbiano a male, di grazia, le mie
buone lettrici. Io penso che sia una virtù il sapersi padroneggiare,
così nelle piccole cose come nelle grandi, e se è vero che la necessità
aguzza l'ingegno dell'animale pensante, come svolge e perfeziona
l'istinto del bruto, si può ben dire che la soggezione in cui, da che
mondo è mondo, fu sempre tenuta la donna, le abbia appunto accresciuta
la virtù del dissimulare, e data in pari tempo la scusa.
Quanto a Servilio Cepione, il nostro vecchio argentario ci aveva un
grugno così fatto, che poco ci voleva a nascondere i moti nell'animo.
Il sorriso e la smorfia erano tutt'uno per lui.
Caio Sempronio rimase un po' sconcertato alla vista inattesa del suo
ippopòtamo. Ma infine, quella medesima qualità che più doveva dargli
molestia, poteva anche rendergli gradita la presenza di lui. Era un
creditore. Ora, coi creditori, non ci son vie di mezzo; o sprofondarsi
in inchini, o buttarli dalla finestra. Almeno, questa è l'opinione dei
debitori, che in questa materia sono i giudici più autorevoli. Caio
Sempronio, debitore maraviglioso, non poteva onestamente appigliarsi
al secondo partito, anche per la ragione che incominciava a trovarsi
al verde, e, alla vista di Servilio Cepione, gli parve che gli si
presentasse la fortuna, col corno dell'abbondanza tra mani.
Lo accolse dunque benissimo, e gli mosse incontro con le braccia
distese.
— Oh Cepione! Che buon vento ti ha condotto tra noi?
— In verità, — disse quell'altro, — il vento non ci ha avuto a far
nulla. Son venuto per terra. Del resto, come dicevo poc'anzi alla
nostra Clodia Metella, una ragione poco piacevole mi ha tirato fin qua.
I medici mi hanno ordinati i bagni di mare, per una certa salsedine che
m'è venuta alla pelle.
— Malattie dei ricchi! — notò Caio Sempronio ridendo.
— Ah, non parlar di ricchezze! Non si fa nulla.....
— E i danari dormono nelle arche, infruttuosi, non è vero? Ma sta di
buon animo, Servilio; presto ti darò occasione io, di srugginire le
chiavi del forziere. —
Cepione fece un muso lungo una spanna.
— Basta, ne parleremo; — prosegui Caio Sempronio. — Oggi si sta
allegri. Rimani con noi, ci s'intende?
— No, ti ringrazio. Sono qui per curare la mia salute e non posso fare
la vostra vita da epicurei.
— Che! Ti spaventi di poco. Pensa che l'allegria fa buon sangue.
— Vieni almeno a cena da noi; — disse Clodia Metella, secondando
abilmente le premure del compagno.
Cepione si lasciò persuadere. Oramai era accettato in casa e poteva
aspettare tranquillamente il buon punto. Fatte poche altre chiacchiere
sul più e sul meno, il degno uomo prese commiato per andare alla sua
bagnatura, e Caio Sempronio lo accompagnò cortesemente fino all'uscio
di strada.
— Poveraccio! — diss'egli tornando nel tablino, ove Clodia Metella
attendeva ad alcuno di quei nonnulla, che le donne chiamano lavori,
mentre non sono altro che passatempi. — È un avaro, uno strozzino; ma
in fondo in fondo è migliore della sua fama. —
Il nostro cavaliere vedeva tutto color di rosa, in quel giorno.
— Padrona mia dolce, — soggiunse egli, — sono stato fuori un po'
troppo. Ma la colpa fu del lavoro, che non era finito. Ecco il tuo
diadema. Va bene così?
Clodia ammirò, e si volse a guardare il giovine col più lusinghiero dei
suoi dolci sorrisi.
Ora, chi nol sa? i sorrisi d'una bella donna si bevono, e scendono al
cuore più soavi dell'ambrosia, o del nèttare. «Niente è più dolce del
miele» ha detto Salomone; e certo l'autorità è grande, nè si può così
leggermente contraddirgli. Pure, io porto opinione che il sapientissimo
re non badasse troppo a quel che diceva. Se ci avesse pensato un
pochino, metto pegno che si sarebbe ricordato. Poffaremmio! Che tra
i mille sorrisi raccolti nel suo palazzo (e dico mille, perchè ne ha
tenuto il conto la storia), non ce n'avesse uno da valer più d'un favo
di miele?
Caio Sempronio bevette senz'altro quel sorriso di Clodia, e nella
dolcezza ond'era tutto compreso dimenticò ogni sopraccapo.
— Mia bella amica, — le bisbigliò quindi all'orecchio, — io ti amo. E
tu? —
Clodia Metella non rispose. Ma fece meglio; gli gettò le braccia al
collo.
— Dopo tutto, è un bel giovane; — pensò la bella patrizia, che se ne
intendeva. — Peccato che non sia più ricco! —
Fu quella l'orazione funebre agli amori di Tizio Caio Sempronio. Ma che
importava ciò, se il morto era calato nel monumento con una ghirlanda
di rose?
Quel giorno la cena fu gaia oltre l'usato. Il nostro cavaliere avea
l'aureola dei beati intorno alla fronte; e Clodia Metella..... Abbiamo
veduto come sapesse padroneggiarsi e dissimulare, quella gentile alunna
di Venere.
In mezzo a tutti i piccoli episodii della serata, Cepione trovò il
modo di dire alcune parole all'orecchio di Clodia. Ma Caio Sempronio,
dal canto suo, trovò il modo di parlare un tratto da solo a solo con
Cepione.
— Amico mio, quattro parole.
— Ci siamo! — pensò l'argentario. — Attenti a parare la botta. —
E ad alta voce soggiunse:
— Mio cavaliere, sentiamole.
— Forse già le indovini. Ho bisogno di danaro.
— Non ne ho. Ti parrà strano, e i tuoi occhi me lo dicono chiaramente,
prima che parlino le labbra. Ma il fatto è questo: non ne ho. In questi
mesi mi sono andati a male parecchi negozi e mi trovo in secco.
— Mi duole..... per te e per me; — disse, dopo una breve pausa, Caio
Sempronio. — Ma, poichè mi sei amico.....
— Amicone! Amicone! — interruppe l'argentario, prendendogli una mano e
battendogli così amorevolmente sul braccio, che non pareva più lui.
— Orbene, poichè così è, potrai parlarne o scriverne, che sarà meglio,
al tuo collega Furio Spongia, a Crispo Lamia, a qualcun altro delle
Botteghe Vecchie.
— Ahi, ahi! — esclamò Cepione, con quell'aria di soave malinconia che
assumono i mercanti sulle difese, e in generale tutti gli uomini che
stanno per negarvi un servizio. — Le Botteghe Vecchie sono chiuse.
— Da quando? — domandò Caio Sempronio, che lì per lì non aveva capito
il senso riposto della frase di Cepione.
— Da quando hanno incominciato a diffidare. Bada, non sono io che
parlo; riferisco i discorsi degli altri. C'è Furio Spongia che
asserisce aver tu preso ad imprestito per somme di gran lunga superiori
alle tue sostanze.
— Ah! dice questo, il briccone?
— Sicuro, ed aggiunge di averne le prove. A me, che volevo persuaderlo
del contrario, perchè ho fede in te, e dopo tutto non mi spaventerei
d'aver perduta una parte del mio, pur di averti potuto rendere un
servizio, a me, dico, Furio Spongia ha risposto di essersi abboccato
col tuo arcario e di averlo costretto a convenirne, dopo tirata la
somma di tutti i tuoi debiti, antichi e nuovi. Anzi, mi aggiungeva che
Lisimaco... Ê così che si chiama il tuo cassiere?
— Sì, va innanzi; — disse Caio Sempronio, impaziente di giungere al
fine.
— Mi aggiungeva dunque che Lisimaco, turbato da quella improvvisa
scoperta, che rendeva inutile il suo ufficio, ti aveva scritto una
lettera.
— A me? Non so nulla di ciò.
— Eppure, quella medesima sera il messaggiero era partito da Roma.
— Aspetta; — disse Caio Sempronio. — Ora mi rammento. Dev'essere stato
quindici giorni fa. Lisimaco infatti mi scriveva..... Ma in verità, non
so che cosa mi scrivesse, perchè non ho letto il messaggio.
— Leggilo ora, e vedrai. —
Il nostro cavaliere, scombussolato da quelle ingrate notizie, andò
nella sua camera, aperse la capsa e trovò la lettera del suo povero
arcario. Era un piagnisteo dalla prima all'ultima parola. Lisimaco
aveva riconosciuti ad uno ad uno gli sdruci fatti dal cavaliere nel
suo patrimonio, e conchiudeva malinconicamente col dirgli: «tu non hai
più nulla del tuo; i creditori sequestreranno ogni cosa, e, quel che è
peggio, i tuoi poderi non basteranno a coprire i debiti, così numerosi
ed ingenti, come hai avuto il senno di farli.»
Rimase di sasso. Non ignorava già di andare alla rovina, ma non credeva
di giungerci così presto. Altro che fermarsi allo scrimolo! Egli era
già a gambe levate nel vuoto.
Il primo pensiero che gli usci formato ed intiero da quella gran
confusione, fu per la donna amata da cui avrebbe pure dovuto separarsi.
— E Clodia? Che dirà Clodia? Come l'avvertirò io di tanta
sciagura? —
La conclusione del suo soliloquio si fu che per quella sera non avrebbe
parlato di nulla. Rimettere le noie al dimani è sempre stata la gran
regola degli uomini a modo.
Il giorno dopo, era meno che mai disposto a parlare. Andò in
quella vece a trovar l'argentario, per vedere se fosse possibile di
intenerirlo.
— Senti; — gli disse; — l'autunno è inoltrato e a giorni mi bisognerà
ritornare a Roma. Fa ancora uno sforzo, e t'assicuro che sarà l'ultimo.
— Lo vorrei, per Saturno, ma non posso. Tu vuoi cavar sangue da una
rapa. Ho appena il danaro bastante per viver qui una ventina di giorni,
da solo e senza uscire di riga. Quanto a Furio Spongia e a' suoi degni
colleghi, mi pare di avertene detto abbastanza ier sera. Credo anzi che
abbiano intenzione di rivolgersi al pretore, se già non lo hanno fatto,
per tutelare i loro diritti. —
Al nostro eroe cascarono a dirittura le braccia.
— Siamo già a questi punti! — diss'egli.
— Mah! Io non ne so nulla; ti ripeto quello che ho inteso a dire e ti
aggiungo quello che temo. —
Caio Sempronio usci disperato dal diversorio, in cui era alloggiato il
feroce argentario.
Quel giorno fu tutto per Clodia. E lei? Quanto a lei, lettori
umanissimi, non so dirvi che pensieri le girassero per la fantasia.
Sbadigliare non fu vista da alcuno, e se vi dicessi, per certe mie
induzioni, che reprimeva gli sbadigli e gli atti d'impazienza, temerei
di asserire una cosa non vera. L'hanno tanto lacerata, quella povera
Clodia Metella, che non ci sarebbe misericordia da parte nostra ad
imitare i suoi contemporanei. Ammettiamo, per farla finita, che le
dolesse di vedere il suo Caio Sempronio così presto andato a male, ma
che, da donna assennata qual era, desiderasse in cuor suo di trovare
un'uscita, e per lui e per sè.
— Stamane, se permetti, — le disse il povero cavaliere, — vo fuori.
— Dove?
— Fino a Puteoli. Ho da vedere un amico. —
Clodia Metella indovinò così a mezz'aria che tutto stava per finire, e
non volle trattenerlo. Per altro, una parola ci voleva; e la parola fa
questa:
— Purchè non si tratti d'una donna!
— Ah, non temere! Chi ama te, le dimentica tutte. —
Ciò detto, si allontanò, ma non senza volgere dal fondo dell'atrio una
lunga occhiata a lei, che gli sorrideva dal tablino aperto, bella e
fresca come l'aurora.
— Lasciarla! pensava egli intanto. — Non ne sento il coraggio. Udiamo
prima il consiglio di un savio. —
Chi era costui, che doveva metter bocca sulle faccende di Tizio Caio
Sempronio? Aspettate, e lo vedrete. Il pensiero di far capo a costui
gli era nato nella notte, e, cosa strana, posando al fianco di Clodia.
Il mondo è pieno d'antitesi, e il cervello dell'uomo, che è un piccolo
mondo, ne ha una ad ogni svolta delle operose sue cellule.
La barca su cui era salito il nostro cavaliere andava a tutta forza
di remi verso Puteoli; ma volse a riva, prima di giungere in vista
di quel piccolo porto. Colà si vedeva una villa graziosa, le cui mura
dipinte di cinabrese s'inerpicavano per la verde costiera, andando a
congiungersi al sommo di un poggio, dove sorgeva una casa foggiata a
mo' di tempio greco. Questa almeno era l'apparenza sua, derivata dal
portico d'ordine dorico, che correva lungo la fronte dell'edifizio.
Quel luogo dicevasi l'Academia, e gli eruditi hanno già capito a
chi appartenesse. Noi che non siamo eruditi (e ci corre) prenderemo
ad imprestito un po' della loro dottrina, per dirvi che Acadèmo era
un cittadino ateniese, il quale aveva nominato il popolo erede dei
suoi orti, convertiti poscia in pubblico passeggio, cinto di mura da
Ipparco, abbellito da Cimone, illustrato dai discepoli di Platone,
che vi si raccoglievano a disputare; donde la scuola ebbe il nome di
Academia. Ma perchè tuttociò non vi chiarirebbe ancora le origini
dell'Academia di Puteoli, aggiungeremo che un grande romano aveva
imposto quel classico nome alla sua casa di campagna, posta colà, tra
Puteoli e il lago d'Averno, abbellendola di portici e circondandola di
giardini, ad imitazione dell'Academia di Atene. E quest'uomo, ormai
lo hanno indovinato anche i non eruditi, si chiamava Marco Tullio
Cicerone.
Caio Sempronio, smontato dal burchiello alla riva, salì per un
sentieruolo, che, serpeggiando attraverso una macchia di corbezzoli e
di frassini, metteva all'abitazione del magno oratore. Tutto in quel
luogo era grazioso e severo ad un tempo; si capiva alla bella prima che
dovesse essere il romitorio d'un filosofo, e che quel filosofo fosse
anche un uomo di buon gusto. Alla mente del nostro cavaliere s'affacciò
per l'appunto una sentenza dell'Arpinate, che doveva essere nata colà:
_hic mihi jucundior solitudo, hic et amicitia jucundior_.
Fu annunziato l'arrivo del nostro eroe, mentre il più elegante dei
pensatori romani stava dettando una delle auree sue pagine al suo
liberto, amico e discepolo, Marco Tullio Tirone. Non ignorate per fermo
che i liberti prendevano il nome dei loro antichi padroni.
Caio Sempronio non voleva riuscire molesto in quell'ora solenne, e il
filosofo approfittò delle cortesi sollecitazioni di lui, per finir di
dettare uno dei suoi capitoli immortali. Cicerone stava appunto per
condurre a termine il trattato «Della Vecchiaia» che è senza fallo uno
dei suoi migliori, anzi l'ottimo fra tutti, per la purezza della forma
e la dignità dei pensieri.
In quel libro parlava Catone il Maggiore, ma un Catone riveduto e
corretto dall'ingegno altissimo di Marco Tullio, che si levava nella
chiusa ad inarrivabili altezze.
— «Nessuno, o Scipione, mi persuaderà mai, che il padre tuo Paolo,
o i due avi Paolo e l'Africano, o il padre dell'Africano, o lo zio,
o molti altri valentuomini che non accade di enumerare, avrebbero
operato tante cose degne del ricordo della posterità, se non avessero
veduto con l'occhio della mente che la posterità era ad essi dovuta. O
pensi che io (per lodare un tratto anche me, alla guisa dei vecchi) mi
sarei tolti sugli omeri tanti assidui travagli in città e nel campo,
se avessi pensato di dover chiudere la mia gloria in quei medesimi
confini in che la mia vita doveva esser chiusa? E non sarebbe stato
assai meglio trarre oziosa la vita e quieta, senza alcuna fatica,
o contrasto? Senonchè, io non so come, l'animo mio, sollevandosi,
sempre così vedeva la posterità, come se, dopo la morte, avesse a
continuargli la vita. La qual cosa se non procedesse in tal modo,
che le anime nostre fossero immortali, l'intelletto degli ottimi non
si travaglierebbe di certo per conseguire una gloria immortale. E
perchè credete voi che muoiano di buon animo i sapienti, e tutto al
contrario gli stolti? O non vi pare che l'animo il quale più scorge, e
più lontano, s'avveda per l'appunto di partire per regioni migliori,
mentre chi ha ottusa la vista nol vede? Sì, veramente, io m'esalto
nel desiderio di vedere i padri vostri, che ho rispettati ed amati; nè
quei soli che io stesso conobbi, ma altresì coloro dei quali udivo e
leggevo, e intorno ai quali scrissi nei miei libri di storie. Pronto
alla partenza per quei luoghi, nessuno varrebbe a trattenermi, volesse
anco ritornarmi alla prima giovinezza, ricuocendomi, come si narra
del vecchio Pelia aver fatto Medea. E se pure un Dio mi concedesse
di tornar bambino, così che io dovessi vagire in cuna, in verità
ricuserei, non volendo, quasi alla fine del mio corso, dalle riprese
essere ricondotto alle mosse.» —
— Stupendo! — esclamò Caio Sempronio, che non seppe trattenere lo
scoppio della sua ammirazione.
Marco Tullio, a cui piaceva la lode, pagò quella esclamazione con
un sorriso e con un cenno amichevole del capo; indi continuò la sua
dettatura:
— «Invero, che cos'ha la vita di utile, o non piuttosto di travaglio?
Ma l'abbia pure; essa ha certamente, dopo tutto, la sua noia e il suo
termine. Non mi piace adunque di rimpiangere la vita, come molti ed
anche savii hanno fatto. Neanche mi pento di essere vissuto, perchè
sono vissuto in tal guisa da non credermi nato invano, e da questa vita
mi parto, come si fa da un ospizio, non come da una casa. Infatti a
noi la natura diede l'albergo per soggiornarvi, non già per abitarvi. O
splendido giorno, nel quale io parta per quel consesso di anime divine
e mi allontani da questa turba e confusione di gente! Nè solo andrò
a quegli uomini dei quali ho detto poc'anzi, ma eziandio a Liciniano
mio figlio, di cui non nacque uomo migliore, nè chi lo avanzasse in
pietà; il cui corpo fu abbruciato da me, quando era più naturale che
il mio lo fosse da lui. L'anima sua non mi abbandonò, veramente; anzi,
mirando a me di continuo, s'avviò a quel luogo dove sapeva che io
pure avrei dovuto giungere un giorno. La quale sventura mia io parvi
sopportare con fortezza, non perchè mi vi acconciassi di buon animo,
ma perchè me ne consolavo, stimando non esser lontane tra noi la
dipartita e l'assenza. Per queste cose, o Scipione (che mi dicevi di
averne fatte spesso le meraviglie con Lelio), la vecchiezza, non che
molesta, mi torna dilettevole e cara. Che se io m'inganno nel credere
immortali le anime umane, volentieri m'inganno, nè voglio mi si tolga
un errore, che abbellisce la mia vita. Se morto non sentirò più nulla,
come credono certi filosofastri, non temo che i filosofi, morti anche
loro, abbiano a deridere questa mia illusione. Che se poi non dobbiamo
essere immortali, tuttavia è desiderabile per l'uomo di estinguersi al
suo tempo. Imperocchè la natura, come in tante altre cose, così ha una
misura nel vivere. E la vecchiezza è come il compimento della vita; è
il quint'atto della commedia, in cui dobbiamo sfuggire ogni ombra di
stanchezza, segnatamente dove si aggiunga la sazietà. Queste cose avevo
a dire della vecchiaia, a cui v'auguro di pervenire, affinchè le cose
udite da me possiate trovar giuste, mercè la vostra esperienza.» —
L'amanuense aveva finito di scrivere, e Cicerone diede una rifiatata di
contentezza.
Anche questa è condotta a termine; — diss'egli. — E quasi quasi mi
duole. Ci si separa mal volentieri da un amico; e questo lavoruccio era
un amico per me.
— Tu lavori sempre, ad onore di Roma, — notò con timido accento il
giovine cavaliere.
— Così tu dicessi il vero! Confermeranno i posteri la tua sentenza?
Ecco il punto. Ad ogni modo, fo quanto è in me per meritarla. Le
lettere mi consolano in ogni studio della vita, e, come tu vedi, mi
seguono anche in villa. E adesso, o Tirone, — soggiunse il grande uomo,
— va a ricopiare lo scritto; lo manderemo agli amici, se credi che ne
valga la spesa. Io udrò frattanto questo umanissimo giovine. —
Tirone raccolse le sue tavolette e si ritirò, mentre Caio Sempronio si
faceva innanzi.
— Tu vorrai perdonarmi l'indugio; — continuò Cicerone. — Noi vecchi
abbiamo sempre qualche ricordo da lasciare a chi verrà dopo; e guai
a noi, se perdiamo il filo, perchè il tempo incalza e la Parca ci
attende. —
Il grande oratore e filosofo sentiva già forse vicina la morte.
Infatti, sei anni dopo, egli moriva coraggiosamente, nel sessantesimo
quarto anno d'età, vittima delle ire d'Antonio che egli aveva fulminato
con le sue filippiche, piene di tanto amore per la patria e di tanta
devozione alla causa della libertà, che pur vedeva perduta. I soldati
recarono la sua testa a Fulvia, la moglie di Antonio, e la fierissima
donna, impugnato lo spillo che le teneva raccolti i capegli, vendicò
sulla lingua del morto le dure verità dette dai rostri al suo secondo e
al suo primo marito. Ricorderete che innanzi di dar la mano al futuro
amante di Cleopatra, il quale la trattò poi secondo i suoi meriti,
facendola morire di dolore e di gelosia, Fulvia era stata la moglie di
Publio Clodio.
— Ma lasciamo questi vani discorsi; — proseguì Cicerone. — In che cosa
può giovarti l'opera mia? —
Caio Sempronio gli espose allora in poche parole il caso suo,
riserbandosi di tornarci sopra con maggior diffusione, per tutti
quei particolari che al sommo giureconsulto mettesse conto di sapere.
Cicerone, che aveva conosciuto da vicino il padre di lui, lo ascoltò
con molta benevolenza e volle conoscere tutto, dall'a fino alla zeta.
— C'è una donna, di mezzo! — esclamò. — Dovevo immaginarmelo. Giovani
matti, che non ricordate essere stata una donna la causa dell'eccidio
di Troia! È vero per altro — soggiunse egli, ridendo umanamente della
sua medesima osservazione, — che, se non cadeva Troia, non nasceva
Roma. Dunque, perdoniamo alle donne, e tiriamo avanti. —
Il nostro cavaliere proseguì il suo racconto, nel quale gli occorse
anche di profferire il nome di Clodia Metella. E questo non giunse
nuovo a Marco Tullio, che rammentò allora il teatro di Pompeo e la
rappresentazione della _Casina_ di Plauto, alla quale abbiamo fatto
assistere i lettori.
— Io non ti dirò nulla di lei; — disse il magno oratore. — Sarei un
testimonio sospetto. A me basta che tu, sapendo quello che io ne ho
detto al tribunale pochi anni or sono, non abbia temuto di venire da me
per consiglio. Forse intendevi che, dopo quanto t'è occorso, ero io il
tuo alleato naturale. —
Queste parole di Cicerone svegliarono nel cuore di Caio Sempronio
un vago senso di tristezza. Egli non aveva pensato a nulla di tutto
ciò che il suo illustre interlocutore vedeva in quella visita, fatta
piuttosto a lui che ad un altro. Era andato da Marco Tullio, per la
stima che aveva grandissima del suo ingegno, per la stessa urgenza
del caso, che non portava di andare a cercare un consigliere lontano,
mentre ce n'era uno a pochi passi da Baia, e in fondo in fondo anche
per quella virtù dell'istinto, che nei supremi momenti ci fa indovinare
da qual parte si trovino gli aiuti più poderosi. Ma quell'accenno del
grand'uomo al passato, gli fece provare una specie di rimorso, che si
in un certo luogo al muro di cinta; poi due embrici rotti sulla corona
del muro; poi una povera vecchia del vicinato, che aveva dato acqua al
biondo cavaliere per lavarsi una scalfittura al ginocchio, ricevendone
in dono una moneta d'oro. Ecco una moneta bene spesa, affè mia, per
farsi conoscere da mezza Roma. Per Ercole, non tornava lo stesso salire
su d'un tetto e gridare il suo nome alla gente?
— Ah, l'infame! — mormorò Clodia Metella, che ben ricordava quella
assenza di Caio Sempronio dagli orti Tiberini e la circostanza della
scalfittura, da lui spiegata con una mezza bugia.
— Vedi? — incalzò Cepione. — Ecco il bel guadagno che si fa ad
impacciarsi coi giovani, con questi farfalloni, che non stanno mai
fermi in un luogo, e il cui solo diletto par quello di vagabondare
dalle rose ai ligustri.... quando non è quello di dare una scorsa su
qualche cesto di cavolo. E adesso che il nostro bel farfallone dal
cavolo torna alla rosa, vedremo questa dischiudergli amorosamente le
foglie, come se niente fosse...
— Oh, non lo speri! — ribattè Clodia Metella. — Lo manderò dove va
mandato, agli orti Ventidiani. Capisco ora perchè li aveva comprati
e regalati, lui, che in fin dei conti non possedeva la sostanza di
Lucullo, e non era stato nominato erede di un secondo Attalo! —
Attalo era il personaggio favorito dei Romani, quando volevano citare
un grande esempio di ricchezza. E la ragione era questa che Attalo III,
re di Pergamo, detto Filometore, essendo morto senza figli ottant'anni
addietro, aveva lasciato erede di tutte le sue sostanze il popolo
romano. Il quale, colpito da tanta magnificenza, dimenticò volentieri
che il testatore era un fior di briccone, che coltivava nel suo
giardino tutte le piante velenose conosciute a' suoi tempi e impregnava
del loro succo i fiori e le frutte che inviava a' suoi prediletti. Ma
che cosa non fa dimenticare un bel gruzzolo di monete?
— Sì, un bel ricco! — notò Cepione. — E dove si sia ridotto, mi pare di
avertelo detto poc'anzi. Se tu non lo soccorri, io temo...
— Soccorrerlo, io? — interruppe Clodia Metella. — Tu se' pazzo, o
Servilio. Mi vorresti così sciocca da rovinarmi per lui e da mandare
la villa d'Albano e gli orti sul Tevere nel baratro in cui si sono
sprofondati i suoi quattro milioni di sesterzi? Già, soccorrerlo!
Perchè seguiti a fare il vagheggino con la moglie di Cinzio Numeriano!
Neanche per sogno; o non son io, o lo pianterò su due piedi.
— Brava! così va fatto; è il miglior modo per non lasciarsi intenerire.
M'immagino, — soggiunse con arguzia feroce il banchiere, — che ciò
non avverrà senza sdegni e maledizioni, perchè, siamo giusti, sei tu,
padrona mia bella, che l'hai ridotto allo stremo.
— Io? Sono forse io che l'ho consigliato a spendere? Io non gli ho
chiesto mai nulla. Io son patrizia romana, e della gente Claudia, la
più nobile e la più antica di tutte.
— O dove metti la gente Giulia? — domandò l'argentario, che ci prendeva
gusto a punzecchiare la sua alleata.
— Sì, davvero, gran nobiltà! — rispose Clodia Metella. — Discendono da
Giulo, il figlio di Enea. Ma, a buon conto, nella storia di Roma non
compariscono che verso i principii della guerra punica. I Claudii, in
quella vece, vennero dalla Sabina in Roma, sei anni dopo la cacciata
dei re. —
Era graziosa, quella quistione di antenati, in mezzo alle smanie per la
infedeltà, o, a dire più veramente, la povertà di Tizio Caio Sempronio!
Ma bisogna pensare che Claudia Metella ci aveva il suo pudore anche
lei, ed era naturale che volesse nascondere sotto la nobiltà della
stirpe quel brutto esempio d'ingratitudine che si disponeva a dare.
Cepione, per altro, non volle menarle buono il suo fumo nobilesco.
— Senti, padrona mia, — diss'egli col suo tono beffardo, — lasciamo in
disparte gli antenati Sabini e i Troiani. Gli uomini si conoscono dalle
opere loro. Tu fa vedere che sei nobile davvero per te, non volendo
aver che fare più oltre con gli straccioni. Io, domani o doman l'altro,
gli fo sequestrare il suo talamègo e tutto quanto ha portato di buono
con sè... anche le gioie.
— Oh, queste poi!
— Certamente; — ripigliò l'argentario, facendole il bocchino; — ma
insieme con lo scrigno, o, se ti piace meglio, con la dea che le
porta. —
Clodia chinò la testa e pensò. Infatti, era il caso di pensare da
senno. Con quelle notizie che recava Cepione, e che del resto ella si
aspettava un giorno o l'altro, la compagnia del bel cavaliere diventava
un gran peso. Uscire di là, bisognava. E come ne sarebbe venuta a capo,
se qualcheduno, a lei noto e interessato a servirla, non le dava una
mano?
Dopo alcuni istanti di pausa, in cui il suo cervello sottile fece
molte miglia di cammino, Clodia Metella alzò con piglio risoluto la
fronte, e, guardando fisso Cepione, gli disse, così tra il dubbio e
l'affermazione.
— La dea conserva i suoi donativi, non è egli vero? Sarebbe sacrilegio
spogliarla.
— S'intende. I voti non sono essi il premio delle grazie che ha fatte
la dea? E non è giusto che conservi i suoi cuori d'oro, le sue armille,
i suoi monili, dopo averseli così ben guadagnati?
— Ne parleremo; — rispose Clodia, dopo un'altra piccola pausa.
— Perchè non parlarne subito? — disse Cepione. — Padrona mia, queste
risoluzioni si prendono a volo. Non si tratta per l'appunto di volar
via?
— Verissimo; ma senti, ecco il tuo cavaliere che torna.
— Il mio! questa è buona davvero.
— Tuo, o di Furio Spongia, o di Crispo Lamia; non siete voi altri che
lo avete dissanguato? —
Il degno argentario stava già per rispondere qualche altra malignità,
quando Caio Sempronio comparve nell'atrio, con la sua baldanza negli
occhi e col sorriso sul labbro.
CAPITOLO XIX.
Siamo agli sgoccioli.
Clodia Metella si era prontamente ricomposta con quella balìa di sè,
che è propria delle donne. Non se l'abbiano a male, di grazia, le mie
buone lettrici. Io penso che sia una virtù il sapersi padroneggiare,
così nelle piccole cose come nelle grandi, e se è vero che la necessità
aguzza l'ingegno dell'animale pensante, come svolge e perfeziona
l'istinto del bruto, si può ben dire che la soggezione in cui, da che
mondo è mondo, fu sempre tenuta la donna, le abbia appunto accresciuta
la virtù del dissimulare, e data in pari tempo la scusa.
Quanto a Servilio Cepione, il nostro vecchio argentario ci aveva un
grugno così fatto, che poco ci voleva a nascondere i moti nell'animo.
Il sorriso e la smorfia erano tutt'uno per lui.
Caio Sempronio rimase un po' sconcertato alla vista inattesa del suo
ippopòtamo. Ma infine, quella medesima qualità che più doveva dargli
molestia, poteva anche rendergli gradita la presenza di lui. Era un
creditore. Ora, coi creditori, non ci son vie di mezzo; o sprofondarsi
in inchini, o buttarli dalla finestra. Almeno, questa è l'opinione dei
debitori, che in questa materia sono i giudici più autorevoli. Caio
Sempronio, debitore maraviglioso, non poteva onestamente appigliarsi
al secondo partito, anche per la ragione che incominciava a trovarsi
al verde, e, alla vista di Servilio Cepione, gli parve che gli si
presentasse la fortuna, col corno dell'abbondanza tra mani.
Lo accolse dunque benissimo, e gli mosse incontro con le braccia
distese.
— Oh Cepione! Che buon vento ti ha condotto tra noi?
— In verità, — disse quell'altro, — il vento non ci ha avuto a far
nulla. Son venuto per terra. Del resto, come dicevo poc'anzi alla
nostra Clodia Metella, una ragione poco piacevole mi ha tirato fin qua.
I medici mi hanno ordinati i bagni di mare, per una certa salsedine che
m'è venuta alla pelle.
— Malattie dei ricchi! — notò Caio Sempronio ridendo.
— Ah, non parlar di ricchezze! Non si fa nulla.....
— E i danari dormono nelle arche, infruttuosi, non è vero? Ma sta di
buon animo, Servilio; presto ti darò occasione io, di srugginire le
chiavi del forziere. —
Cepione fece un muso lungo una spanna.
— Basta, ne parleremo; — prosegui Caio Sempronio. — Oggi si sta
allegri. Rimani con noi, ci s'intende?
— No, ti ringrazio. Sono qui per curare la mia salute e non posso fare
la vostra vita da epicurei.
— Che! Ti spaventi di poco. Pensa che l'allegria fa buon sangue.
— Vieni almeno a cena da noi; — disse Clodia Metella, secondando
abilmente le premure del compagno.
Cepione si lasciò persuadere. Oramai era accettato in casa e poteva
aspettare tranquillamente il buon punto. Fatte poche altre chiacchiere
sul più e sul meno, il degno uomo prese commiato per andare alla sua
bagnatura, e Caio Sempronio lo accompagnò cortesemente fino all'uscio
di strada.
— Poveraccio! — diss'egli tornando nel tablino, ove Clodia Metella
attendeva ad alcuno di quei nonnulla, che le donne chiamano lavori,
mentre non sono altro che passatempi. — È un avaro, uno strozzino; ma
in fondo in fondo è migliore della sua fama. —
Il nostro cavaliere vedeva tutto color di rosa, in quel giorno.
— Padrona mia dolce, — soggiunse egli, — sono stato fuori un po'
troppo. Ma la colpa fu del lavoro, che non era finito. Ecco il tuo
diadema. Va bene così?
Clodia ammirò, e si volse a guardare il giovine col più lusinghiero dei
suoi dolci sorrisi.
Ora, chi nol sa? i sorrisi d'una bella donna si bevono, e scendono al
cuore più soavi dell'ambrosia, o del nèttare. «Niente è più dolce del
miele» ha detto Salomone; e certo l'autorità è grande, nè si può così
leggermente contraddirgli. Pure, io porto opinione che il sapientissimo
re non badasse troppo a quel che diceva. Se ci avesse pensato un
pochino, metto pegno che si sarebbe ricordato. Poffaremmio! Che tra
i mille sorrisi raccolti nel suo palazzo (e dico mille, perchè ne ha
tenuto il conto la storia), non ce n'avesse uno da valer più d'un favo
di miele?
Caio Sempronio bevette senz'altro quel sorriso di Clodia, e nella
dolcezza ond'era tutto compreso dimenticò ogni sopraccapo.
— Mia bella amica, — le bisbigliò quindi all'orecchio, — io ti amo. E
tu? —
Clodia Metella non rispose. Ma fece meglio; gli gettò le braccia al
collo.
— Dopo tutto, è un bel giovane; — pensò la bella patrizia, che se ne
intendeva. — Peccato che non sia più ricco! —
Fu quella l'orazione funebre agli amori di Tizio Caio Sempronio. Ma che
importava ciò, se il morto era calato nel monumento con una ghirlanda
di rose?
Quel giorno la cena fu gaia oltre l'usato. Il nostro cavaliere avea
l'aureola dei beati intorno alla fronte; e Clodia Metella..... Abbiamo
veduto come sapesse padroneggiarsi e dissimulare, quella gentile alunna
di Venere.
In mezzo a tutti i piccoli episodii della serata, Cepione trovò il
modo di dire alcune parole all'orecchio di Clodia. Ma Caio Sempronio,
dal canto suo, trovò il modo di parlare un tratto da solo a solo con
Cepione.
— Amico mio, quattro parole.
— Ci siamo! — pensò l'argentario. — Attenti a parare la botta. —
E ad alta voce soggiunse:
— Mio cavaliere, sentiamole.
— Forse già le indovini. Ho bisogno di danaro.
— Non ne ho. Ti parrà strano, e i tuoi occhi me lo dicono chiaramente,
prima che parlino le labbra. Ma il fatto è questo: non ne ho. In questi
mesi mi sono andati a male parecchi negozi e mi trovo in secco.
— Mi duole..... per te e per me; — disse, dopo una breve pausa, Caio
Sempronio. — Ma, poichè mi sei amico.....
— Amicone! Amicone! — interruppe l'argentario, prendendogli una mano e
battendogli così amorevolmente sul braccio, che non pareva più lui.
— Orbene, poichè così è, potrai parlarne o scriverne, che sarà meglio,
al tuo collega Furio Spongia, a Crispo Lamia, a qualcun altro delle
Botteghe Vecchie.
— Ahi, ahi! — esclamò Cepione, con quell'aria di soave malinconia che
assumono i mercanti sulle difese, e in generale tutti gli uomini che
stanno per negarvi un servizio. — Le Botteghe Vecchie sono chiuse.
— Da quando? — domandò Caio Sempronio, che lì per lì non aveva capito
il senso riposto della frase di Cepione.
— Da quando hanno incominciato a diffidare. Bada, non sono io che
parlo; riferisco i discorsi degli altri. C'è Furio Spongia che
asserisce aver tu preso ad imprestito per somme di gran lunga superiori
alle tue sostanze.
— Ah! dice questo, il briccone?
— Sicuro, ed aggiunge di averne le prove. A me, che volevo persuaderlo
del contrario, perchè ho fede in te, e dopo tutto non mi spaventerei
d'aver perduta una parte del mio, pur di averti potuto rendere un
servizio, a me, dico, Furio Spongia ha risposto di essersi abboccato
col tuo arcario e di averlo costretto a convenirne, dopo tirata la
somma di tutti i tuoi debiti, antichi e nuovi. Anzi, mi aggiungeva che
Lisimaco... Ê così che si chiama il tuo cassiere?
— Sì, va innanzi; — disse Caio Sempronio, impaziente di giungere al
fine.
— Mi aggiungeva dunque che Lisimaco, turbato da quella improvvisa
scoperta, che rendeva inutile il suo ufficio, ti aveva scritto una
lettera.
— A me? Non so nulla di ciò.
— Eppure, quella medesima sera il messaggiero era partito da Roma.
— Aspetta; — disse Caio Sempronio. — Ora mi rammento. Dev'essere stato
quindici giorni fa. Lisimaco infatti mi scriveva..... Ma in verità, non
so che cosa mi scrivesse, perchè non ho letto il messaggio.
— Leggilo ora, e vedrai. —
Il nostro cavaliere, scombussolato da quelle ingrate notizie, andò
nella sua camera, aperse la capsa e trovò la lettera del suo povero
arcario. Era un piagnisteo dalla prima all'ultima parola. Lisimaco
aveva riconosciuti ad uno ad uno gli sdruci fatti dal cavaliere nel
suo patrimonio, e conchiudeva malinconicamente col dirgli: «tu non hai
più nulla del tuo; i creditori sequestreranno ogni cosa, e, quel che è
peggio, i tuoi poderi non basteranno a coprire i debiti, così numerosi
ed ingenti, come hai avuto il senno di farli.»
Rimase di sasso. Non ignorava già di andare alla rovina, ma non credeva
di giungerci così presto. Altro che fermarsi allo scrimolo! Egli era
già a gambe levate nel vuoto.
Il primo pensiero che gli usci formato ed intiero da quella gran
confusione, fu per la donna amata da cui avrebbe pure dovuto separarsi.
— E Clodia? Che dirà Clodia? Come l'avvertirò io di tanta
sciagura? —
La conclusione del suo soliloquio si fu che per quella sera non avrebbe
parlato di nulla. Rimettere le noie al dimani è sempre stata la gran
regola degli uomini a modo.
Il giorno dopo, era meno che mai disposto a parlare. Andò in
quella vece a trovar l'argentario, per vedere se fosse possibile di
intenerirlo.
— Senti; — gli disse; — l'autunno è inoltrato e a giorni mi bisognerà
ritornare a Roma. Fa ancora uno sforzo, e t'assicuro che sarà l'ultimo.
— Lo vorrei, per Saturno, ma non posso. Tu vuoi cavar sangue da una
rapa. Ho appena il danaro bastante per viver qui una ventina di giorni,
da solo e senza uscire di riga. Quanto a Furio Spongia e a' suoi degni
colleghi, mi pare di avertene detto abbastanza ier sera. Credo anzi che
abbiano intenzione di rivolgersi al pretore, se già non lo hanno fatto,
per tutelare i loro diritti. —
Al nostro eroe cascarono a dirittura le braccia.
— Siamo già a questi punti! — diss'egli.
— Mah! Io non ne so nulla; ti ripeto quello che ho inteso a dire e ti
aggiungo quello che temo. —
Caio Sempronio usci disperato dal diversorio, in cui era alloggiato il
feroce argentario.
Quel giorno fu tutto per Clodia. E lei? Quanto a lei, lettori
umanissimi, non so dirvi che pensieri le girassero per la fantasia.
Sbadigliare non fu vista da alcuno, e se vi dicessi, per certe mie
induzioni, che reprimeva gli sbadigli e gli atti d'impazienza, temerei
di asserire una cosa non vera. L'hanno tanto lacerata, quella povera
Clodia Metella, che non ci sarebbe misericordia da parte nostra ad
imitare i suoi contemporanei. Ammettiamo, per farla finita, che le
dolesse di vedere il suo Caio Sempronio così presto andato a male, ma
che, da donna assennata qual era, desiderasse in cuor suo di trovare
un'uscita, e per lui e per sè.
— Stamane, se permetti, — le disse il povero cavaliere, — vo fuori.
— Dove?
— Fino a Puteoli. Ho da vedere un amico. —
Clodia Metella indovinò così a mezz'aria che tutto stava per finire, e
non volle trattenerlo. Per altro, una parola ci voleva; e la parola fa
questa:
— Purchè non si tratti d'una donna!
— Ah, non temere! Chi ama te, le dimentica tutte. —
Ciò detto, si allontanò, ma non senza volgere dal fondo dell'atrio una
lunga occhiata a lei, che gli sorrideva dal tablino aperto, bella e
fresca come l'aurora.
— Lasciarla! pensava egli intanto. — Non ne sento il coraggio. Udiamo
prima il consiglio di un savio. —
Chi era costui, che doveva metter bocca sulle faccende di Tizio Caio
Sempronio? Aspettate, e lo vedrete. Il pensiero di far capo a costui
gli era nato nella notte, e, cosa strana, posando al fianco di Clodia.
Il mondo è pieno d'antitesi, e il cervello dell'uomo, che è un piccolo
mondo, ne ha una ad ogni svolta delle operose sue cellule.
La barca su cui era salito il nostro cavaliere andava a tutta forza
di remi verso Puteoli; ma volse a riva, prima di giungere in vista
di quel piccolo porto. Colà si vedeva una villa graziosa, le cui mura
dipinte di cinabrese s'inerpicavano per la verde costiera, andando a
congiungersi al sommo di un poggio, dove sorgeva una casa foggiata a
mo' di tempio greco. Questa almeno era l'apparenza sua, derivata dal
portico d'ordine dorico, che correva lungo la fronte dell'edifizio.
Quel luogo dicevasi l'Academia, e gli eruditi hanno già capito a
chi appartenesse. Noi che non siamo eruditi (e ci corre) prenderemo
ad imprestito un po' della loro dottrina, per dirvi che Acadèmo era
un cittadino ateniese, il quale aveva nominato il popolo erede dei
suoi orti, convertiti poscia in pubblico passeggio, cinto di mura da
Ipparco, abbellito da Cimone, illustrato dai discepoli di Platone,
che vi si raccoglievano a disputare; donde la scuola ebbe il nome di
Academia. Ma perchè tuttociò non vi chiarirebbe ancora le origini
dell'Academia di Puteoli, aggiungeremo che un grande romano aveva
imposto quel classico nome alla sua casa di campagna, posta colà, tra
Puteoli e il lago d'Averno, abbellendola di portici e circondandola di
giardini, ad imitazione dell'Academia di Atene. E quest'uomo, ormai
lo hanno indovinato anche i non eruditi, si chiamava Marco Tullio
Cicerone.
Caio Sempronio, smontato dal burchiello alla riva, salì per un
sentieruolo, che, serpeggiando attraverso una macchia di corbezzoli e
di frassini, metteva all'abitazione del magno oratore. Tutto in quel
luogo era grazioso e severo ad un tempo; si capiva alla bella prima che
dovesse essere il romitorio d'un filosofo, e che quel filosofo fosse
anche un uomo di buon gusto. Alla mente del nostro cavaliere s'affacciò
per l'appunto una sentenza dell'Arpinate, che doveva essere nata colà:
_hic mihi jucundior solitudo, hic et amicitia jucundior_.
Fu annunziato l'arrivo del nostro eroe, mentre il più elegante dei
pensatori romani stava dettando una delle auree sue pagine al suo
liberto, amico e discepolo, Marco Tullio Tirone. Non ignorate per fermo
che i liberti prendevano il nome dei loro antichi padroni.
Caio Sempronio non voleva riuscire molesto in quell'ora solenne, e il
filosofo approfittò delle cortesi sollecitazioni di lui, per finir di
dettare uno dei suoi capitoli immortali. Cicerone stava appunto per
condurre a termine il trattato «Della Vecchiaia» che è senza fallo uno
dei suoi migliori, anzi l'ottimo fra tutti, per la purezza della forma
e la dignità dei pensieri.
In quel libro parlava Catone il Maggiore, ma un Catone riveduto e
corretto dall'ingegno altissimo di Marco Tullio, che si levava nella
chiusa ad inarrivabili altezze.
— «Nessuno, o Scipione, mi persuaderà mai, che il padre tuo Paolo,
o i due avi Paolo e l'Africano, o il padre dell'Africano, o lo zio,
o molti altri valentuomini che non accade di enumerare, avrebbero
operato tante cose degne del ricordo della posterità, se non avessero
veduto con l'occhio della mente che la posterità era ad essi dovuta. O
pensi che io (per lodare un tratto anche me, alla guisa dei vecchi) mi
sarei tolti sugli omeri tanti assidui travagli in città e nel campo,
se avessi pensato di dover chiudere la mia gloria in quei medesimi
confini in che la mia vita doveva esser chiusa? E non sarebbe stato
assai meglio trarre oziosa la vita e quieta, senza alcuna fatica,
o contrasto? Senonchè, io non so come, l'animo mio, sollevandosi,
sempre così vedeva la posterità, come se, dopo la morte, avesse a
continuargli la vita. La qual cosa se non procedesse in tal modo,
che le anime nostre fossero immortali, l'intelletto degli ottimi non
si travaglierebbe di certo per conseguire una gloria immortale. E
perchè credete voi che muoiano di buon animo i sapienti, e tutto al
contrario gli stolti? O non vi pare che l'animo il quale più scorge, e
più lontano, s'avveda per l'appunto di partire per regioni migliori,
mentre chi ha ottusa la vista nol vede? Sì, veramente, io m'esalto
nel desiderio di vedere i padri vostri, che ho rispettati ed amati; nè
quei soli che io stesso conobbi, ma altresì coloro dei quali udivo e
leggevo, e intorno ai quali scrissi nei miei libri di storie. Pronto
alla partenza per quei luoghi, nessuno varrebbe a trattenermi, volesse
anco ritornarmi alla prima giovinezza, ricuocendomi, come si narra
del vecchio Pelia aver fatto Medea. E se pure un Dio mi concedesse
di tornar bambino, così che io dovessi vagire in cuna, in verità
ricuserei, non volendo, quasi alla fine del mio corso, dalle riprese
essere ricondotto alle mosse.» —
— Stupendo! — esclamò Caio Sempronio, che non seppe trattenere lo
scoppio della sua ammirazione.
Marco Tullio, a cui piaceva la lode, pagò quella esclamazione con
un sorriso e con un cenno amichevole del capo; indi continuò la sua
dettatura:
— «Invero, che cos'ha la vita di utile, o non piuttosto di travaglio?
Ma l'abbia pure; essa ha certamente, dopo tutto, la sua noia e il suo
termine. Non mi piace adunque di rimpiangere la vita, come molti ed
anche savii hanno fatto. Neanche mi pento di essere vissuto, perchè
sono vissuto in tal guisa da non credermi nato invano, e da questa vita
mi parto, come si fa da un ospizio, non come da una casa. Infatti a
noi la natura diede l'albergo per soggiornarvi, non già per abitarvi. O
splendido giorno, nel quale io parta per quel consesso di anime divine
e mi allontani da questa turba e confusione di gente! Nè solo andrò
a quegli uomini dei quali ho detto poc'anzi, ma eziandio a Liciniano
mio figlio, di cui non nacque uomo migliore, nè chi lo avanzasse in
pietà; il cui corpo fu abbruciato da me, quando era più naturale che
il mio lo fosse da lui. L'anima sua non mi abbandonò, veramente; anzi,
mirando a me di continuo, s'avviò a quel luogo dove sapeva che io
pure avrei dovuto giungere un giorno. La quale sventura mia io parvi
sopportare con fortezza, non perchè mi vi acconciassi di buon animo,
ma perchè me ne consolavo, stimando non esser lontane tra noi la
dipartita e l'assenza. Per queste cose, o Scipione (che mi dicevi di
averne fatte spesso le meraviglie con Lelio), la vecchiezza, non che
molesta, mi torna dilettevole e cara. Che se io m'inganno nel credere
immortali le anime umane, volentieri m'inganno, nè voglio mi si tolga
un errore, che abbellisce la mia vita. Se morto non sentirò più nulla,
come credono certi filosofastri, non temo che i filosofi, morti anche
loro, abbiano a deridere questa mia illusione. Che se poi non dobbiamo
essere immortali, tuttavia è desiderabile per l'uomo di estinguersi al
suo tempo. Imperocchè la natura, come in tante altre cose, così ha una
misura nel vivere. E la vecchiezza è come il compimento della vita; è
il quint'atto della commedia, in cui dobbiamo sfuggire ogni ombra di
stanchezza, segnatamente dove si aggiunga la sazietà. Queste cose avevo
a dire della vecchiaia, a cui v'auguro di pervenire, affinchè le cose
udite da me possiate trovar giuste, mercè la vostra esperienza.» —
L'amanuense aveva finito di scrivere, e Cicerone diede una rifiatata di
contentezza.
Anche questa è condotta a termine; — diss'egli. — E quasi quasi mi
duole. Ci si separa mal volentieri da un amico; e questo lavoruccio era
un amico per me.
— Tu lavori sempre, ad onore di Roma, — notò con timido accento il
giovine cavaliere.
— Così tu dicessi il vero! Confermeranno i posteri la tua sentenza?
Ecco il punto. Ad ogni modo, fo quanto è in me per meritarla. Le
lettere mi consolano in ogni studio della vita, e, come tu vedi, mi
seguono anche in villa. E adesso, o Tirone, — soggiunse il grande uomo,
— va a ricopiare lo scritto; lo manderemo agli amici, se credi che ne
valga la spesa. Io udrò frattanto questo umanissimo giovine. —
Tirone raccolse le sue tavolette e si ritirò, mentre Caio Sempronio si
faceva innanzi.
— Tu vorrai perdonarmi l'indugio; — continuò Cicerone. — Noi vecchi
abbiamo sempre qualche ricordo da lasciare a chi verrà dopo; e guai
a noi, se perdiamo il filo, perchè il tempo incalza e la Parca ci
attende. —
Il grande oratore e filosofo sentiva già forse vicina la morte.
Infatti, sei anni dopo, egli moriva coraggiosamente, nel sessantesimo
quarto anno d'età, vittima delle ire d'Antonio che egli aveva fulminato
con le sue filippiche, piene di tanto amore per la patria e di tanta
devozione alla causa della libertà, che pur vedeva perduta. I soldati
recarono la sua testa a Fulvia, la moglie di Antonio, e la fierissima
donna, impugnato lo spillo che le teneva raccolti i capegli, vendicò
sulla lingua del morto le dure verità dette dai rostri al suo secondo e
al suo primo marito. Ricorderete che innanzi di dar la mano al futuro
amante di Cleopatra, il quale la trattò poi secondo i suoi meriti,
facendola morire di dolore e di gelosia, Fulvia era stata la moglie di
Publio Clodio.
— Ma lasciamo questi vani discorsi; — proseguì Cicerone. — In che cosa
può giovarti l'opera mia? —
Caio Sempronio gli espose allora in poche parole il caso suo,
riserbandosi di tornarci sopra con maggior diffusione, per tutti
quei particolari che al sommo giureconsulto mettesse conto di sapere.
Cicerone, che aveva conosciuto da vicino il padre di lui, lo ascoltò
con molta benevolenza e volle conoscere tutto, dall'a fino alla zeta.
— C'è una donna, di mezzo! — esclamò. — Dovevo immaginarmelo. Giovani
matti, che non ricordate essere stata una donna la causa dell'eccidio
di Troia! È vero per altro — soggiunse egli, ridendo umanamente della
sua medesima osservazione, — che, se non cadeva Troia, non nasceva
Roma. Dunque, perdoniamo alle donne, e tiriamo avanti. —
Il nostro cavaliere proseguì il suo racconto, nel quale gli occorse
anche di profferire il nome di Clodia Metella. E questo non giunse
nuovo a Marco Tullio, che rammentò allora il teatro di Pompeo e la
rappresentazione della _Casina_ di Plauto, alla quale abbiamo fatto
assistere i lettori.
— Io non ti dirò nulla di lei; — disse il magno oratore. — Sarei un
testimonio sospetto. A me basta che tu, sapendo quello che io ne ho
detto al tribunale pochi anni or sono, non abbia temuto di venire da me
per consiglio. Forse intendevi che, dopo quanto t'è occorso, ero io il
tuo alleato naturale. —
Queste parole di Cicerone svegliarono nel cuore di Caio Sempronio
un vago senso di tristezza. Egli non aveva pensato a nulla di tutto
ciò che il suo illustre interlocutore vedeva in quella visita, fatta
piuttosto a lui che ad un altro. Era andato da Marco Tullio, per la
stima che aveva grandissima del suo ingegno, per la stessa urgenza
del caso, che non portava di andare a cercare un consigliere lontano,
mentre ce n'era uno a pochi passi da Baia, e in fondo in fondo anche
per quella virtù dell'istinto, che nei supremi momenti ci fa indovinare
da qual parte si trovino gli aiuti più poderosi. Ma quell'accenno del
grand'uomo al passato, gli fece provare una specie di rimorso, che si
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