Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana - 08

— Sì, sì; — rispose Clodia Metella, crollando malinconicamente il capo;
— ma trovo anch'io che costa un po' troppo. Non ho già i cinque milioni
di sesterzi di Servilio Cepione.
— È come se tu li avessi; non ti ha egli profferte le sue sostanze,
come contorno all'offerta del suo cuore? — ribattè Caio Sempronio
ridendo.
A quella scappata del cavaliere, il vecchio argentario fece il muso più
lungo del solito.
— Eh, eh, — gridò egli, punto sul vivo, — tu la ricordi in buon punto;
e se mi saltasse il ticchio.....
— Ottimamente! Compera dunque la veste e fanne un presente alla Dea.
— Ma di grazia, perchè non la comperi tu?
— Io? Così fossi certo che si degnasse di accettarla!
— Graziosa, quella paura!
— Non ci credi? Sia dunque tua la colpa, se io ardisco di offerire
qualche cosa a Clodia Metella. Aderbale, dammi da scrivere. —
Il mercante capì subito che cosa intendesse di fare il nostro
giovinotto, e cavò dalla sacca, che portava ad armacollo, un dittico di
legno e uno stilo di avorio. Il dittico era una doppia tavoletta, che
si chiudeva come le due copertine d'un libro, presentando al di fuori
una superficie piana, e di dentro un sottile rivestimento di cera, con
le sponde rilevate tutto intorno, perchè le due faccie, richiudendosi
l'una sull'altra, non avessero a combaciare per modo da guastare le
lettere, segnate nella cera medesima con la punta dello stilo.
Caio Sempronio tolse la tavoletta dalle mani di Aderbale e vi scrisse
queste poche parole:
«T. C. Sempronio a Lisimaco, suo dispensatore. Pagherai oggi cinquemila
sesterzi al mercante Aderbale, di Tiro. Sta sano.»
Ciò fatto, consegnò il dittico al mercante, che, data una scorsa allo
scritto, s'inchinò e si dispose a metter da parte la pezza di stoffa
destinata da Caio Sempronio alla bellissima Clodia.
— Oggi stesso, a quell'ora che ti farà comodo, passerai alla mia casa,
sul Viminale, — disse il cavaliere, — e Lisimaco ti darà la pecunia.
— Tu sei il più liberale tra tutti i patrizi di Roma; — rispose
Aderbale, intascando il prezioso chirografo. — Ed eccoti, nobilissima
Clodia, la veste. Ti consiglio d'indossarla per le feste Megalesi.
Annia Sulpicia vuol proprio morirne d'invidia.
— Oh Caio! — mormorò Clodia Metella, tutta vergognosa, all'orecchio del
giovane. — Io non accetterò mai un così ricco presente.
— Perchè, padrona mia? Sono un temerario, lo vedo; ma la colpa
non è mia. Cepione mi ha data la spinta. Se vuoi punirlo della sua
improntitudine, non ci hai modo migliore di questo. Accetta con lieto
animo il mio povero dono. —
Clodia sorrise e porse la sua bella mano a Caio Sempronio. Era quello
il ringraziamento, e il nostro cavaliere se ne fece abilmente un
premio, stampando su quella mano il più ardente dei baci.
— Animo, giovinotto, e non perdiamo tempo! — gridò Cepione stizzito.
Ma il giovinotto non pose mente alle bizze del vecchio Arpagone, e,
chiesto a Clodia Metella il permesso di tornare il giorno seguente,
tolse commiato da lei. Per una prima visita aveva fatto abbastanza, ne
convenite?
Il mercante aveva rifatta diligentemente la sua balla e se n'era andato
anche lui, dopo molti inchini, ringraziamenti ed augurii di prosperità
alla liberalissima Clodia, che gli comperava le stoffe più preziose col
denaro degli altri.
Cepione era rimasto in piedi nel tablino, ora guardando Caio Sempronio
che se ne andava, ora Clodia che aveva seguitato il giovinotto con una
lunga e malinconica occhiata fino alla tenda del pròtiro. Il vecchio
argentario non appariva troppo contento; di certo egli mulinava qualche
cattiveria, a sfogo della bile che già gli schizzava dagli occhi.
Tutto ad un tratto, diede in uno scroscio di risa.
— Che c'è? — dimandò Clodia Metella, con aria tra stupita e severa.
— Ho fatto una bella scoperta; — rispose Cepione. — La colomba è
innamorata.
— Sì; — diss'ella brevemente, in quella che stendeva la mano al
monopodio, per ripigliare la sua favola milesia.
— E il colombo, — soggiunse Cepione, — è molto ricco.
— Che importa? — riprese Clodia Metella, stringendosi nelle spalle.
— Come, che importa? Importa moltissimo.
— Non a me certamente. —
L'argentario rispose a quel magnanimo diniego con un ammicco beffardo.
Ma perchè Clodia fingeva di non vedere, crollò il capo ed aggiunse:
— Sia pure, come tu dici; ma importa a me. Dammi lode per la mia
schiettezza, ti prego.
— Non vedo come c'entri tu; — replicò la matrona.
— Non c'entro? Non c'entro? Figùrati! Noi qui faremo a metà. Tu
prenderai l'amante, io la pecunia. —
A quella cinica bottata dell'argentario, Clodia Metella si rizzò di
scatto, come una serpe a cui sia stata calpestata la coda.
— Che novità son queste? — gridò, saettando Cepione con uno sguardo
corrucciato.
— Padrona mia, un po' di calma, e vediamo di intenderci; — disse
quell'altro, adagiandosi tranquillamente sul cuscino d'una sedia a
bracciuoli. — Anzitutto, perchè parli di novità? Non sono forse passati
per le mie mani tutti i giovani patrizi che tu hai onorati della tua
benevolenza? Valerio Catullo, Celio Rufo, Cornelio Basso, Aulo....
— Finiscila! — interruppe Clodia Metella. — Tu sei veramente noioso.
— Ah, ti secca la nomenclatura? Bada, padrona mia, non intendevo citare
che i colombi spennacchiati; mettevo in disparte tutti quegli altri
che hanno avuta la sorte di non lasciarci le penne maestre. Il povero
Cepione li ha veduti passar tutti, l'uno dopo l'altro. Per Ercole!
Si davano la muta, come i legionarii in sentinella. Ed io, destinato
a colmar gl'intervalli, mi trovavo sempre fuori delle tue grazie;
vedevo appena il sole, che già mi spariva dagli occhi. Eppure, vedi la
mia bontà; in attesa di riavere la tua benevolenza, facevo servizio
ai miei fortunati rivali; imprestavo quasi sempre io, le migliaia di
sesterzi che dovevano servire ai donativi; fornivo io le armi contro
di me. Che cosa vuoi di più umano? Ed anche adesso, io mi preparo
a servirti. Quel giovinotto mi piace. Ti ringrazio di averlo scelto
così ricco. Poverina! potevi benissimo invaghirti d'un plebeo povero
in canna, o d'un cavalierino indebitito fino agli occhi, ed io avrei
dovuto recarmelo in pace. Ma tu non l'hai fatto, padrona mia bella; tu
sei sempre quella matrona di garbo, che ero avvezzo a stimare da tanti
anni. Abbi dunque i miei ringraziamenti, e concedi che io tiri innanzi
a servirti. —
Clodia Metella si mordeva le labbra a sangue.
— E.... — diss'ella, con voce tremante dalla rabbia, — se io non
volessi stare al tuo patto?
— Faresti malissimo; — rispose il beffardo vecchio; — perchè io
potrei....
— Potresti? Continua!
— No, non è bene scoprirsi così scioccamente, e con una donna di
così sottile accorgimento come tu sei. Oh, non dubitare, io ti rendo
giustizia. Se fossi pretore, come ci avrei diritto pel nome che porto,
darei ad ognuno il suo, che non ci mancherebbe mezz'oncia.
— Daresti! — notò ironicamente Clodia Metella. — Sarebbe la prima volta.
— Ah sì; come se l'imprestare non fosse una maniera di dare! _Do ut
des, do ut facias_, son forme di contratto, mi sembra. E a proposito
di fare, bada, padrona mia, che non mi venga in mente di far aprir gli
occhi al tuo nuovo amatore.
— Non lo farai; — disse Clodia, dopo un istante di pausa.
— Sta a te ch'io non lo faccia, mia bella. Sii prudente, e non avrai
a dolerti di me. Déi buoni, e non è giusto che io trovi un compenso
alla brevità di questi interregni? Perchè, infine, tu ci hai una virtù
singolare, che riesce tutta a mio danno. Quando uno ti piace, bisogna
rassegnarsi; nel tuo cuoricino non c'è mai posto per due.
— Cepione, io l'amo.
— Lo so, poverina; intendo i tuoi spasimi, e, come vedi, asciugo
una lagrima di tenerezza. Mia candida colomba! Sei così buona, così
affettuosa! Lo seppe Metello Celere, tuo cugino e marito; lo seppe
anche la felice memoria di Publio Clodio, tuo degno fratello....
— Ma infine, — proruppe Clodia, non vedendo più lume, — vorrai tacere
una volta? Lascia i morti nell'Averno e non mi dar noia più oltre. Ti
ho sempre ai fianchi, ora coi sarcasmi, ora con le minaccie. Chi ti
ha mai impedito di fare il tuo mestiere? Metello Celere ha avuto il
torto di morire, senza lasciarmi venti milioni di sesterzi. Se così non
fosse, vedresti tu come io starei a sentirti.
— Eh, lo so, che non mi ami. Ma appunto per ciò è notevole la nostra
alleanza. Che cosa c'è di più grande di due che si odiano e si aiutano
a vicenda? Io, vedi, qualche volta sento il desiderio di chiuder
le mani intorno al tuo collo di cigno e di strangolarti senz'altro.
Sei bella ed io non lo sono; ti amo e tu ti beffi di me; quando pure
ti degni di sorridermi, indovino che ciò mi costerà un bel gruzzolo
di monete. Ah, se non fosse che tu sei una civetta addestrata e che
fai calare da tutte le frasche i merli curiosi al mio campo!... Ma
basta; se no, vado fuori dei gangheri. Padrona mia, siamo intesi e non
occorrono altre spiegazioni tra noi. Venere conservi la tua bellezza,
e Diana cacciatrice mantenga saldi i panioni del tuo nobilissimo
servo. —
Ciò detto, il bravo argentario si alzò da sedere, e, fatto un mezzo
inchino alla sua alleata, s'incamminò verso l'uscio. Clodia Metella
riprese il suo codice e provò a ricominciar la lettura, ma per un bel
pezzo non ne spiccicò una parola.


CAPITOLO XII.
Nel teatro di Pompeo.

Siamo ai cinque di aprile, giorno dedicato nel lunario cattolico a San
Vincenzo Ferreri, ma segnato nell'antico calendario romano con queste
parole LUD. MATRIS MAG., abbreviazione che vuol dire: _ludi Matris
magnae_, ossia, giuochi della Gran Madre.
Erano questi i giuochi Megalesi, e si facevano in onore di Cibele, la
Berecinzia, detta in greco _Megale Meter_, che significa appunto gran
madre. Avevano avuto cominciamento verso la fine della seconda guerra
Punica, nell'anno 548 di Roma, quando il simulacro di Cibele, la madre
degli Dei, fu portato di Frigia alle rive del Lazio, e di là, con pompa
straordinaria, introdotto nelle sacre mura di Romolo. Erano giuochi
particolarmente scenici; perciò si celebravano sempre in teatro, e
nel giorno che cadevano correva tra i cittadini una lieta usanza di
convitarsi a vicenda. La qual cosa esprimevasi col verbo _mutitare_,
cioè tramutarsi a cena qua e là, or da questo or da quello, come a
memoria del felice tramutamento della Dea dallo rive di Frigia a Roma.
Ovidio ci ha detto nei Fasti perchè i giuochi Megalesi fossero i primi
e i più grandi dell'anno. Berecinzia non era forse la genitrice dei
Numi? Era giusto che i figli cedessero il primo luogo alla madre.
Cicerone, che per infilzare aggettivi non restava indietro a nessuno,
chiamò i giuochi Megalesi «casti, solenni, religiosi sopra quanti ne
furono mai» e soggiunse che «a riverenza della loro origine e della dea
cui erano sacri, non fu mutato loro neppure il nome, essendo i soli tra
i giuochi romani, che si chiamassero con vocabolo straniero.» Vedete un
po' che maestà sbardellata di giuochi!
Altre solennità ammettevano le rappresentazioni sceniche, come ad
esempio i giuochi Consuali, sacri a Conso, dio degli arcani consigli,
che, essendo stati ordinati da Romolo in memoria delle rapite Sabine,
erano tenuti i più nazionali, e perciò detti _Romani_ per eccellenza.
Venivano poscia i Plebei, i Funebri e gli Apollinari; i primi in
memoria della rivendicata libertà contro gli oppressori Tarquinii e
della restituita concordia tra i padri e la plebe, dopo la fortunata
favoletta di Menenio Agrippa; i secondi, derivati dai Greci, in onore
degli illustri defunti; gli ultimi, consigliati dalle profezie d'un
tal Marcio indovino, che nella seconda guerra Punica aveva promessa la
vittoria, purchè si onorasse Apollo con solenni spettacoli. Ma la festa
Megalese si distingueva in ciò da tutte le altre, che essa consisteva
appunto ed unicamente nelle rappresentazioni teatrali.
E qui si facevano onore gli edili curuli, magistrati che avevano cura
degli edifizii cittadini, dell'annona e dei solenni spettacoli. Erano
essi che pagavano i poeti drammatici di maggior grido per averne
commedie nuove da sperimentare in quell'occasione, e che spendevano
profumatamente per mettere in iscena col massimo decoro le migliori
produzioni dei vecchi. Quattro delle sei commedie di Terenzio,
l'_Andria_, l'_Eunuco_, la _Suocera_, il _Punitor di sè stesso_, furono
scritte per questi giuochi. Nè creda il lettore che la moltitudine si
accostasse con molta religione a cotali cerimonie, quantunque fatte in
onore della madre degli Dei. Si rideva e si fischiava come ora, che
il teatro è doventato la cosa più profana del mondo. La _Suocera_ di
Terenzio non fu lasciata finire, perchè nella piazza accanto al teatro
_lavoravano_ i funamboli, e l'uditorio svagato aveva più voglia di
veder passeggiare sulla corda, che di esserci tenuto lui, sulla corda,
dalle invenzioni del gentile poeta. Consolatevi, autori del tempo mio;
il pubblico è sempre lo stesso, da che esiste il teatro.
Lettori, se non vi dispiace (e perchè, poi, dovrebbe dispiacervi?)
entriamo nel teatro di Pompeo. È presso al Circo Flaminio, nella
regione nona, la più bassa e la più popolosa di Roma, corrispondente al
moderno Parione.
Fu questo il primo teatro stabile dell'eterna città, e al tempo della
nostra narrazione contava a mala pena i suoi quattro anni di vita,
essendo stato eretto per cura di Pompeo Magno, nell'anno 699, dopo la
guerra Mitridatica.
Sapete già tutti, ed io qui lo ricordo _pro forma_, che le
rappresentazioni sceniche ebbero origine in Grecia, dove in principio
era costume di farle sotto un frascato, od ombracolo, che dava
ricetto ai giuochi villerecci; poscia in un carro, quello di Tespi,
che menavasi attorno pei trebbi e per le borgate; più tardi su di un
palco, messo insieme con quattro assi, come quelli dei saltimbanchi
di villaggio. Da quel tempo, la scena aveva seguitato ad ampliarsi e
ad ornarsi, ma sempre rimanendo di tavole. Una disgrazia che costò la
vita a centinaia di spettatori, persuase Temistocle e i suoi Ateniesi
a fabbricare di buon materiale gli edifizii scenici; e gli architetti
Democrate ed Anassagora idearono in tal guisa il primo teatro di
fabbrica, scavando le gradinate a semicerchio nel fianco di una collina
a piè dell'Acropoli, e mettendovi di rincontro il palco e la scena.
Questo raccontano le storie. Altri vuole, ed ha parecchi ruderi dalla
sua, che i primi teatri stabili sorgessero in Sicilia e nelle colonie
greche dell'Asia Minore. Io, lasciando gli archeologi a vedersela tra
loro, vi dirò che in Roma la severità delle leggi, non potendo opporsi
validamente ai ludi scenici introdotti nel 599 dai censori Valerio
Messala e Cassio Longino, bastò cionondimeno ad impedire per cent'anni
intieri la costruzione d'un teatro permanente. Plauto e Terenzio
esponevano le loro favole in teatri posticci, o nel Circo, destinato
alle corse dei cavalli e alle sanguinose pugne dei gladiatori.
Terminati gli spettacoli, doveva tosto disfarsi anche il teatro.
Neppure si perdonò a quello sfarzosissimo, che Scauro aveva innalzato
per ottantamila persone, con trecento sessanta colonne, tremila statue,
la scena per metà di marmo e per metà di vetro. Inaudita forma di
lusso! esclama Plinio. E tanta opera non ebbe che un mese di vita.
Più fortunato fu il console Pompeo, perchè il suo teatro, costrutto
sul disegno di quello che egli aveva veduto a Mitilene, non soggiacque
alla condanna degli Edili. La spesa era stata immensa, e il console
era stato tacciato di troppo sfarzo per una fabbrica che non aveva a
durare; ma, avendo egli adonestato il suo colpo con un titolo di pietà,
edificando sulla cavea del teatro un tempio a Venere vincitrice, la
fabbrica non potè essere distrutta, e, diventando stabile, fu lodata di
parsimonia. La bandiera aveva fatto passare la merce.
Patito un incendio sotto Tiberio, il teatro di Pompeo fu subito
ristorato da quell'imperatore. Caligola e Claudio lo abbellirono.
Nerone in un sol giorno lo fece indorare, per mostrarlo al domani in
tutta la sua pompa a Tiridate, re d'Armenia. Gran tempo dopo, essendo
rovinato, fu da Teodorico rifatto sulle vecchie fondamenta. Se non
riuscì del tutto una fabbrica ostrogota, bisognerà darne lode agli
artefici, che erano sempre italiani. Le vestigia dell'edifizio, trovate
nei tempi nostri in capo alla via dei Giubbonari, presso la chiesa di
Sant'Andrea della Valle, fanno buona testimonianza della romanità del
lavoro.
Ma entriamo una volta e vediamo le tre parti notevoli del teatro, che
sono la cavea, l'orchestra e la scena. Tutti i teatri romani, su per
giù, con un meniano di più, od uno di meno, si rassomigliano, e quando
se n'è visto uno si son visti tutti.
La cavea, che oggi direbbesi il recinto, è la parte più ragguardevole
per la sua mole e quella che propriamente può dirsi _theatrum_, o
_visorium_, perchè di là gli spettatori, distribuiti lungo le gradinate
a semicerchio, vedono la scenica rappresentazione. Le gradinate, dal
podio, o parapetto «che men loco cinghia» come direbbe Dante, salgono
allargandosi man mano fino all'orlo superiore, intorno a cui gira una
galleria coperta, dal cui architrave sporgono gli arpioni, o i pali,
che terranno disteso il velario.
Ogni sette gradinate ce n'è una larga, ed alta il doppio delle altre;
e questa non è per sedervi, ma per passare da un punto all'altro del
recinto. Di queste divisioni (_praecinctiones_) nei teatri molto grandi
ce ne sono infino a tre. Il complesso dei gradi tra una precinzione
e l'altra dicesi _moenianum_, specie di ripiano interiore a cui
corrisponde di fuori un ordine di maestose arcate e di gallerie. Dove
le precinzioni e per conseguenza i ripiani sono tre, la cavea resta
divisa in tre ordini, che si dicono _cavea prima, cavea secunda_ e
_ultima cavea_ (la piccionaia moderna), i cui gradi non sono di pietra,
ma di un semplice tavolato. Ogni meniano è tagliato da più scale,
raffiguranti i raggi d'un circolo, donde gli spettatori vanno a cercare
il posto loro assegnato dalla _tèssera_, o biglietto d'ingresso; e in
tutte lo precinzioni si aprono più porte (_vomitoria_) donde sbocca
in teatro la folla, venuta su per gli androni che girano nei fianchi
dell'edifizio. Gli spazi compresi tra le scale hanno sembianza di
cunei, epperciò ne portano il nome.
Tutte queste divisioni vi confonderebbero oggi la testa, lo capisco.
Ma, se foste Romani d'allora, non ci pensereste più che tanto. Facciamo
un esempio. Avete avuto una tessera d'avorio, su cui, accanto al
titolo della commedia (_Casina Plauti_) sono incise queste parole
abbreviate: CAV. II. CUN. III. GRAD. VIII. Che vuol dir ciò? Che avete
l'ottavo posto nel terzo cuneo della seconda precinzione, o del secondo
meniano. Non vi confondete adunque, pigliate la scala che mette alla
galleria del second'ordine; giunto lassù cercate la indicazione del
terzo vomitorio, e di là riuscite subito entro la cavea, alla vista
del pubblico. Un'occhiatina ai numeri; il cuneo comincia con cinque
posti; dunque il vostro sedile è nel secondo giro di gradini; eccolo
là, difatti, col suo bravo numero inciso sulla pietra. Il maestro di
sala (_designator_) non lo ha lasciato occupare da nessuno; al peggio
dei peggi (come avviene oggidì nelle sedie chiuse dei nostri teatri) il
vicino, per comodo suo, ci ha posato il suo pètaso. Andate liberamente,
egli si affretterà a tirarlo via; se no, avrete il diritto di fargliene
una frittata.
E adesso un'occhiatina all'orchestra. I Greci davano alla piazzuola
semicircolare, compresa nel giro del podio, il nome di orchestra,
o ballatoio, perchè questo era il luogo delle danze, dei cori e dei
mimi. I suonatori stavano sopra un palco, che, somigliando ad un'ara
sacrificatoria, era perciò detto _Timele_. Ma nei teatri romani,
sebbene si conservasse il nome di orchestra, il luogo era riserbato
ai magistrati e alle persone di maggior conto. Perciò era più angusto
che nei teatri di Grecia. Noi moderni l'abbiamo fatto più ampio, e lo
chiamiamo platea.
Davanti all'orchestra era il palco scenico; quadrilatero di pietra,
alto cinque piedi dal suolo, lungo due tanti più che il diametro
dell'orchestra. Sul lato posteriore sorgeva una facciata, ornata di
colonne, di statue, di pitture; e questa era la scena fissa, che veniva
innanzi con due ali sui lati minori del quadrilatero, o proscenio,
dove recitavano gli attori. In queste due ali si aprivano le porte
per cui passavano le comparse, le macchine degli Dei, il còrago,
ossia l'attrezzista e capo comico, quando aveva da dire qualche cosa
all'uditorio. La facciata della scena presentava tre porte; l'una nel
mezzo (_valvae regiae_) per cui entrava il protagonista; le altre ai
lati (_hospitalia_) che servivano al passaggio delle seconde parti.
Non dimenticate che la scena antica rappresentava sempre un luogo
aperto, perchè i personaggi facevano e dicevano tutti i fatti loro
fuori dell'uscio di casa. Rammentate poi che, al momento di cominciare
il dramma, calavasi dall'_episcenio_, luogo superiore alla scena, il
sipario, od _aulaeum_, come dicevasi allora, che andava a ravvolgersi
nell'_iposcenio_, cioè sotto ii palco scenico; tutto il rovescio dei
nostri teatri. C'erano inoltre gli _echei_, vasi di bronzo ordinati
a rendere più armonioso il teatro. Vitruvio ci racconta che erano
collocati in cellette sotto le gradinate, con tale calcolo matematico
da dividere il recinto della cavea in accordi di quarta, quinta e
ottava; onde l'eco che ne risultava fosse una perfetta sinfonia.
È passato il mezzogiorno; il pranzo è già stato digerito, e la
moltitudine invade il teatro di Pompeo, dove si recita la _Casina_ di
Plauto, vecchia commedia che piace sempre, assai più di tante altre di
autori recenti. L'ingresso al pubblico è gratuito per l'ultima cavea,
che è la più capace di tutte. L'orchestra, riservata ai senatori e
ai magistrati, si va popolando lentamente. Laggiù son tutte persone
che amano i loro comodi e che sanno di trovarceli belli e preparati,
sotto forma di bisellio, o sedia da due posti, con un morbido cuscino
e uno scannello per reggere i piedi. Più presto si vanno occupando
i posti della prima e della seconda cavea, assegnata ai patrizii e
alle loro donne. Pompeo aveva da principio destinato quei quattordici
gradi all'ordine dei cavalieri; onde seder nei quattordici ed esser
cavaliere tornava lo stesso. Ai lati dell'orchestra sorgono alcune
logge (_tribunalia_) dove stanno i magistrati che presiedono alla
rappresentazione. Vi è permesso di vedere in queste tribune i moderni
palchetti municipali, dove si affollano gli assessori teatrali, e in
genere tutti i consiglieri del Comune, segnatamente quando c'è in scena
il corpo di ballo.
L'ordine accennato poc'anzi non era osservato ai tempi di Plauto e
Terenzio, quando i teatri erano di legno e il popolo vi si accalcava
alla rinfusa. Nè tale fu sempre in appresso, perchè vediamo dagli
autori essere state qualche volta confinate le donne su in alto, nelle
gallerie coperte, con grave sfregio all'estetica. Lo immaginate, un
recinto seminato di teste mascoline, come un campo di papaveri, od
altra piantonaia da sbadigli? Dei immortali! ci doveva essere per
gli spettatori il medesimo gusto che c'è pel deputato in una seduta
parlamentare, coi colleghi intorno, e le dame lontane lontane, come le
stelle fisse, o come le nebulose, nell'alta cerchia delle tribune.
Per fortuna, e ad onore del buon gusto antico, Ovidio ci lascia
scorgere nei teatri del suo tempo una ragionevole promiscuità dei due
sessi. Ed io posso dirvi, senza scostarmi dal verosimile, che Clodia
Metella entrò accompagnata dal bel cavaliere Tizio Caio Sempronio, per
uno dei vomitorii che mettevano sulla prima cavea, e andò a sedersi
nella terza fila del quarto cuneo, poco lunge dal podio, che era
occupato dalle vergini Vestali.


CAPITOLO XIII.
Amori in vista.

L'apparizione della bellissima Clodia destò per tutto il teatro quella
attenzione e quel bisbiglio che destano sempre le belle, quando entrano
in una numerosa adunanza. Ciò che parrebbe sommamente disdicevole in
una ristretta compagnia, diventa naturalissimo in una gran folla di
persone, dovunque ella si trovi, o tempio, o teatro, dove nessuno ha da
portare la malleveria di quel pissi pissi generale, di quel fruscìo di
vesti e di quello scricchiolìo di sedie, in cui tutti hanno pure avuta
la parte loro.
Le donne volsero una rapida occhiata alla nuova venuta e arricciarono
il naso. Già, si capisce, Clodia non era quel fior di bellezza
che dicevano gli uomini e non meritava che tante nobili matrone si
storcessero il collo per lei. Ma tratto tratto gli occhi tornavano
là e lampeggiavano sguardi invidiosi ad una stola di porpora nera
intessuta a liste d'oro, che dava tanto risalto alla bianchezza perlata
delle carni. Annia Domizia, la impazientissima tra le seguaci della
moda, e Giunia Sillana, una pallidona che passava per la più bella tra
le patrizie romane e che faceva disperare coi suoi eterni rigori il
vecchio console Servio Sulpicio Rufo, si morsero le labbra dal dispetto
e sentenziarono che quella stola era di pessimo gusto.
Anche le vergini Vestali diedero la loro sbirciata alla terza fila
del quarto cuneo; ma, sia detto ad onore di quelle santissime donne,
non tanto per sacrificare alla vanità, guardando alle vesti di Clodia
Metella, quanto per vedere un po' da vicino quel leggiadro giovinotto
che l'accompagnava, e per cui più d'una tra loro avrebbe lasciato
spegnere il fuoco sacro, anche a dover finire nel campo Scellerato.
Non meno curiosi delle Vestali, e delle matrone, si volsero a guardare
Clodia gli edili, dall'alto dei loro tribunali, e i magistrati e
gli altri uomini consolari, dal basso dell'orchestra. Marco Tullio
Cicerone, il famoso giureconsulto, che contava allora i suoi
cinquantacinque suonati, si voltò sul bisellio anche lui ed onorò di un
lungo sguardo la giovine coppia.
— A chi s'è ora attaccata, la sanguisuga? — domandò egli tra sè, poco
rispettosamente per la sorella del suo vecchio nemico. — Mi par di
conoscerlo; è un Caio Sempronio. Povero giovane! Vuole dar fondo con
lei alle ricchezze che gli ha accumulate quel gravissimo uomo di suo
padre nella pretura di Sicilia. —
Marco Tullio, lo sapete, dava facilmente il titolo di gravissimo e di
santissimo, ed anche più facilmente quello di ladro e di assassino. Era
un vezzo oratorio, che finì per costargli la testa.
Ora, se i vecchi si scomodavano sui loro sedili, lascio pensare a voi,
lettori umanissimi, che cosa dovessero fare i giovani. Stavo già per
dirvi che tutti i cannocchiali erano volti su Clodia Metella, ma ho
ricordato in buon punto che l'invenzione di quell'utile istrumento
doveva tardare ancora milleseicento e più anni. In mancanza di
cannocchiali, lavoravano gli occhi, e giova credere che in quel tempo
fosse più scarso il numero dei miopi.
Clodia Metella, come forma, era molto ammirata; per contro, non si
risparmiavano le frecciate alla sua fama.
— Non temete, — notava argutamente un tale, ripreso di troppa severità
da uno spettatore più temperato, — non si dirà mai tanto di Clodia
Metella, quanto ella stessa ha mostrato di volere che si pensi di lei.
— La frase è lunga e contorta; — osservò Giunio Ventidio. — Non si
potrebbe dire brevemente che essa ha fatto d'ogni erba fascio?
— O d'ogni fior ghirlanda; sarebbe più cortese, la metafora.
— Sì, sì, usategli cortesia; ella non ve ne serberà gratitudine. La
quadrantaria preferisce i quattrini. —
Quadrantaria! Era questo il nomignolo grazioso di cui Marco Tullio, con
quella sua lingua tabana, aveva gratificato Clodia Metella. L'immagine
era ardita e ci voleva anche uno sforzo di volontà singolare per
appioppare quel brutto appellativo ad una donna come lei, sapendo che
_quadrantaria_, si forma da _quadrante_, piccola moneta di rame, pari
in valore alla quarta parte di un soldo. Lisimaco, verbigrazia, il
dispensatore di Tizio Caio Sempronio, non le avrebbe fatto un torto
così grave, egli che vedeva andare così lestamente l'oro e l'argento di
casa.