Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana - 04
— No, per Giunone Cinzia. Non aspetteremo Maggio che è un mese così
infelice pei matrimoni. _Mense Maio nubunt malae_, è proverbio volgare.
Evita le Calende, le None e gli Idi, che sono tutti giorni nefasti,
e potrai ammogliarti nelle condizioni più prospere che ti siano
consentite, a meno che tu non ami aspettare dopo gli Idi di Giugno, che
è l'ottimo dei tempi coniugali.
— Son contento di far le nozze verso gli Idi di Aprile; — disse
l'impaziente Numeriano.
— Affrettiamoci, dunque. Vi vedo già tutt'e due, coronati di fiori
e verbene; tu coi capelli recisi, lei col flammeo sulla fronte, a
custodire il rossore; i fanciulli con le faci, una delle quali di
bianco spino, che guidano la donna alla tua casa, ornata a festoni di
rose, di mirti e di allori. Giunti alla porta, si fa entrare prima la
conocchia, con la lana e col fuso, simbolo delle cure a cui la tua
Delia non ha mai atteso fin qui. Ma non importa, ci attenderà poi;
tutto sta ad avvezzarcisi. Ambedue toccate l'acqua e il fuoco, posti
sul limitare. Poi gli amici solleveranno tra le braccia la sposa, e la
faranno entrare, senza che tocchi la soglia col piede. Vesta l'avrebbe
per un sacrilegio, e gli amici sarebbero troppo dolenti che quest'uso
santissimo andasse negletto.
— Godo, di vedere che tu la prendi a giuoco, — notò Cinzio, che non
sapeva se dovesse ridere, o adontarsi, di quella filatessa di gentili
cerimonie e di beffardi commenti.
— Come fare altrimenti, amico Numeriano, come fare altrimenti? Tu lo
vuoi; sia fatta la tua volontà. Ed entrato in casa a tua volta, le
consegnerai il mazzo delle chiavi, per la custodia di tutte le cose
domestiche. Un tempo non le si sarebbe consegnata la chiave della
cantina, perchè alle donne era vietato ber vino, pena il ripudio.
Rammenterai l'editto di Catone, che stabiliva l'obbligo del bacio dei
congiunti alla donna; perchè questa, caso mai ne avesse bevuto, non
potesse altrimenti nascondere l'infrazione della legge. Ma qui non è
il caso, e tu farai molto volentieri queste indagini da te; non è egli
vero?
— Puoi crederlo; — rispose Numeriano, che già assaporava la dolcezza di
quelle indagini, con tutta la presaga virtù del desiderio.
— E adesso, andiamo; — soggiunse il cavaliere Caio Sempronio. — S'è
chiacchierato abbastanza, e i nostri amici vorranno propinare ai Lari
Compitali, che guidano i passi degli ubbriachi e fanno trovar l'uscio
di casa. —
Numeriano respirò. Con tutto l'affetto e la gratitudine che sentiva pel
suo amico e patrono, il nostro innamorato cominciava ad annoiarsi di
quelle sue stiracchiature cerimoniali, che arieggiavano maledettamente
la satira.
CAPITOLO VI.
Rose e spine.
Il giorno dopo quella famosa cena (giorno che io vi permetterò di
chiamare romanamente _quarto Nonas Aprilis_, poichè era il terzo sopra
le None, che cadevano al quinto giorno del mese) il cavaliere Tizio
Caio Sempronio si alzò mal volontieri dalle morbide piume.
Quasi non sarebbe mestieri di accennarlo, poichè già s'indovina,
argomentando che l'ospite di tutti quei capi scarichi doveva essere
andato anche tardi a dormire. Ma siccome tutto è relativo in questo
mondo, va detta anche l'ora in cui il nostro cavaliere scese dall'alto
giaciglio, non senza bisogno d'aiuto, per non cascar giù dalla
scaletta, così assonnato com'era.
Non c'è che dire, i nostri antichi Romani amavano i loro comodi. Avete
già veduto che pranzavano sdraiati, appoggiando il torace sul gomito.
Figuratevi ora che dormivano su certi letti così alti, da aver mestieri
d'uno sgabello, o d'uno scalèo, per salirvi su. Que' letti erano fatti
a guisa dei nostri sofà di maggiore grandezza, con una spalliera da
capo, con un'alta fiancata dalla parte del muro, e interamente aperti
dal lato per cui ci si entrava. L'intelaiatura era tesa con cinghie,
che sostenevano un gran materasso, su cui erano collocati un capezzale
e un guanciale. Ho veduto uno di questi letti, il letto di Didone,
dipinto a suo luogo nel più antico codice dell'Eneide, che è il
Virgilio Vaticano. Lo scalèo ha nove gradini; nientemeno! C'era la sua
parte di risico, a voltarsi sul fianco.
Torniamo a Tizio Caio Sempronio. Il nostro cavaliere si alzava per
solito verso il meriggio. Quel giorno, malgrado la veglia prolungata
e i fumi del vino, si alzò alle nove, che era l'_hora tertia_, nella
divisione del giorno presso gli antichi Romani.
Che cosa aveva da fare? La terza era l'ora dei negozi forensi.
_Exercet raucos tertia causidicos_, mi pare che abbia detto Marziale.
Ma anche senza essere un causidico, e senza l'obbligo di andare ai
tribunali, Tizio Caio Sempronio ci aveva per quel giorno la sua parte
di seccature; epperciò, prima di ascendere su quel suo Campidoglio
notturno, aveva raccomandato al servo di svegliarlo ad ogni costo per
quell'ora insolita. E scosso ripetutamente dal fidato cameriere, che
fu mandato a quel paese una mezza dozzina di volte, il povero cavaliere
si alzò, per andare a finire di svegliarsi in un bagno d'acqua fresca:
ottima cosa al mattino, segnatamente quando non si ha obbligo di berla.
— Andiamo, via! — aveva egli detto tra sè, per consolarsi di
quella interruzione al più bel sogno d'oro che mandasse mai l'alba
degl'infingardi al più divoto de' suoi cultori. — Bisognerà pensare a
quei cari amici, che aspettano un servizio da noi. —
Mentre egli era al bagno, capitò l'ostiario.
— Che c'è? — domandò il cavaliere.
— Padrone, è venuta all'uscio di strada una vecchia....
— Vada a pettinar Proserpina! — gridò Caio stizzito. — Così male ha da
cominciare la mia giornata? —
L'ostiario sorrise, e ripigliò:
— Se n'è andata, difatti, ed ha lasciato questo per te. —
Così dicendo porse una tavoletta pugillare al padrone.
Pugillare? Che diavol è? Sentite qua; si chiamavano pugillari certe
piccole tavolette, rivestite di cera, per iscriverci su. Derivavano il
nome dalle loro piccole proporzioni, perchè potevano essere comodamente
tenute nel pugno; ed erano usate per quaderni di memorie, per notarvi i
pensieri fuggitivi, e sopratutto per mandar lettere amorose.
Insomma, avete capito. Avrei potuto dirvi subito un viglietto, come
quello di Rosina a Lindoro. Ma non siamo per niente sotto il consolato
di Sulpicio Rufo e di Claudio Marcello, ed io ho sentito il bisogno di
dirvi: una tavoletta pugillare. Abbiate pazienza e seguitemi, mentre
io guardo che senso ha fatto sull'animo del cavaliere il messaggio
mattutino della vecchia Gabrina.
Tizio Caio Sempronio si era affrettato, come potete immaginarvi, a
rompere il suggello e ad aprire le due facce del pugillare.
— Ah! — esclamò egli, dolcemente commosso, leggendo la prima parola.
Adesso bisognerebbe dir l'ultima, perchè il nome dello scrivente si
mette in fondo; ma allora lo si scriveva sempre da principio. _Cicero
Terentiae suae salutem dicit._
La lettera non era di Cicerone, vi prego di crederlo. Del resto,
sentite Caio Sempronio che vi chiarisce il negozio.
— Clodia! — mormorò egli, dopo la prima esclamazione che ho detto. —
Come va che quella divina mi scrive? A me, Tizio Caio Sempronio, che le
ho parlato a mala pena una volta? —
Mi direte che il miglior modo, anzi l'unico, di sapere che cosa voglia
da noi una dama, quando ci fa l'onore di scriverci, è quello di legger
subito ciò ch'ella si è degnata di mettere in carta. Ma questo, che
è vero in tanti casi, non lo è poi in tanti altri. Non lo era, per
esempio, nel caso di Sempronio e di Clodia.
Vedete, difatti; la bellissima patrizia scriveva così:
«Clodia, a Tizio Caio, salute.
«Ti parrò ardita; e forse è questa la fama che corre di me. Qualunque
io ti sembri, non sarò mai paurosa, nè sciocca. Stimo te grandemente;
nè l'ho taciuto in alcuna occasione; fors'anco, sarà giunto alle tue
orecchie. Alle mie è giunto un sogno, niente più d'un sogno; ma tu
sai quanta fede debba prestarsi a questi avvertimenti del cielo. Una
mia schiava prediletta ha sognato di te, che eri fatto in tre pezzi
da uomini assetati del tuo sangue. Ho tremato in udire il racconto
della sua visione, e non ho potuto resistere al desiderio, nè voluto
sottrarmi all'obbligo di avvisarti. Chiedi ai matematici, e godi le
prospere Megalesi; è il mio voto.»
Avete capito voi? No. E Tizio Caio nemmeno.
Non già perchè non intendesse le ultime parole, che forse allegheranno
i denti a qualcuna delle mie lettrici, poco pratiche d'anticaglie. Le
Megalesi erano feste solenni alla dea Cibele, onorata sotto il nome
di gran madre degli Dei, epperciò chiamata in greco _Megalisia_. E
perchè tutte le feste d'allora finivano in giuochi e spettacoli, come
quelle del nostro popolo finiscono in corpacciate e combibbie, le
Megalesi, che duravano otto o nove dì, cominciando nel quarto giorno
di aprile (_pridie Nonas Aprilis_), erano più specialmente dedicate
alle rappresentazioni sceniche. Pei Ludi Megalensi furono scritte quasi
tutte le commedie di Terenzio.
Quanto ai matematici, era questo il nome degli astrologhi, degli
indovini, che interpretavano i sogni della gente da bene. Orazio Flacco
non voleva che si facesse capo a costoro, e raccomandava a Leuconoe di
non chiedere il futuro ai calcoli babilonesi. E appunto da Babilonia,
patria di astronomi e di matematici, erano venuti a Roma gl'indovini;
e l'astrologia e la matematica, scienze dei Magi, avevano dato il nome
all'arte di quegli antenati di Cagliostro.
Nemmeno era dubbio per Tizio Caio Sempronio il senso della lettera.
Niente di più naturale che il dar retta ai sogni, in un tempo e in
un paese di superstizioni come quello, che aveva tra l'altre cose i
giorni fasti e nefasti, le ferie pubbliche e private, e queste anche in
occasioni di fulmini, di modo che, ogni qualvolta si sentisse tuonare,
era giorno feriato, fino a tanto non si fossero placati con offerte e
sacrifizi gli Dei.
Dunque, nell'avvertimento di madonna Clodia non c'era nulla da dire.
Ma una donna che scrive ha sempre un secondo fine, un intendimento
riposto. E perchè si prendeva costei tanta cura della salute di Tizio
Caio? Che cosa si doveva leggere tra le righe dello scritto? Lo avesse
almeno invitato ad andare da lei! Ma no, d'invito non ce n'era pur
l'ombra, neanche sotto forma di permesso, per un rendimento di grazie.
Un avviso, un augurio, un voto, e nient'altro.
— Strana donna! — pensò il cavaliere. — Che cosa debbo conchiudere? Che
ella si dà pensiero di me. E sia. Ma allora perchè non aggiungere: «a
voce ti dirò meglio»? E questo accenno alle prossime feste! Che voglia
vedermi allo spettacolo? Sì, certamente, ci andrò; ma di questo ella
poteva esser sicura, e non c'era bisogno di dirmelo. Ma forse vuol
farmi sapere che ci andrà lei. Ed anche questo era inutile. Dove non è,
la bellissima Clodia? —
Quanto al pericolo che la bella patrizia gli accennava nel suo
viglietto, Tizio Caio Sempronio ci pensò molto meno che a tutto il
restante.
— Che pericolo ho da correr io? — diss'egli tra sè. — Esser fatto
in tre pezzi! E da chi? Se i sogni vanno interpretati a modo, io
posso credere che non si tratti d'una spartizione materiale. Infatti,
vedete qua; ier sera non ne ho avuti tre, che volevano il mio.... e
che l'avranno, pur troppo! Il sogno è stato veridico, anzi fatidico.
Son tre gli assetati del mio sangue, o, per dire più veramente, di
dugento sessantamila sesterzi. E li abbiano, poichè li ho promessi.
Il sogno della schiava di Clodia non prova esso che io debbo dissetare
quest'oggi i miei tre supplicanti? —
Questo ragionamento lo ricondusse a ricordare come e perchè fosse
balzato quel giorno da letto un po' più presto del solito.
— Piramo! — gridò egli, richiamando lo schiavo, che si era
prudentemente allontanato.
— Padrone!
— Dirai all'arcario che venga qua.
— Prima del cinerario? —
Il cinerario, se nol sapeste, era uno schiavo che, presso le dame,
assisteva l'ornatrice, mentre questa faceva l'acconciatura del capo
alla padrona; e il suo principale ufficio consisteva nel riscaldare
il calamistro, o ferro da riccio, nelle ceneri; donde il suo nome che
ho detto. Ma in alcuni casi, e presso gli uomini, egli faceva altresì
l'ufficio di barbiere. Del resto, anche allora i capegli riccioluti non
era solamente delle donne, e spettava al ferro caldo di dare ai patrizi
romani le ciocche morbidamente inanellate della chioma d'Apollo.
— Anche prima del cinerario; — rispose asciuttamente il cavaliere.
Lo schiavo si allontanò, per andare in cerca dell'arcario.
— Vedete qua; — proseguiva intanto il nostro eroe, rifacendosi
volontieri al tema del suo soliloquio. — Ella pensa a me; si affretta
ad avvertirmi d'un pericolo che mi sovrasta. Ella già non poteva
immaginarsi che si trattasse solamente delle mie sostanze, della mia
persona.... giuridica. Senza badare ad altro, passando sopra a tutte le
consuetudini, ha voluto avvertirmi. Divina Clodia! E poi dicono di lei
che è.... che Valerio Catullo.... Baie! Già, i poeti sono la gente più
molesta e pericolosa che al mondo sia. Vi scoccano un'ode, un'elegia,
e tutta Roma, leggendo quell'ode, quella elegia, pensa che i sogni
del poeta siano la verità, che le bellezze lodate da lui siano state
vedute, che i difetti e i torti notati da lui siano torti e difetti
veri e manifesti come la luce del sole. E una degna matrona, così
calunniata, non ha più modo di rifarsi. Il poeta ha parlato; il volgo
la condanna. Maledetti poeti! Non aveva mica torto Platone, a bandirli
dalla sua repubblica! Questi ornati venditori di ciancie sonore vi
mettono una povera donna in piazza. Hanno veduta una mano, come tutti
gli altri, e nei loro versi vi descrivono il braccio, l'omero, e....
via discorrendo. Il volgo dei lettori, aiutando la malignità, immagina
il resto. Dove il poeta non ha fatto altro che seguire i vaneggiamenti
dell'estro, o le necessità della prosodia tiranna, egli vede
altrettante indiscrezioni della più autentica forma. E in questa guisa
si scrive la storia. Una donna ne ha uno? Povera lei! Gliene regalano
cento. —
Come vedete, il nostro cavaliere girava all'ottimista. Di mattina, lo
siamo sempre un po' tutti. La triste esperienza è un frutto delle ore
più tarde, nella gran giornata dell'uomo; e poichè il giorno è nel
suo piccolo una immagine della vita, voi potrete concedermi che il più
melanconico dei pessimisti veda anche lui le cose del mondo, poniamo
per un'ora, tinte dei colori dell'alba.
Del resto, e per ciò che risguarda il sesso debole, siamo sempre
disposti a pensarne un gran bene, quando le sue debolezze profittano a
noi. Per solito, delle donne che c'importano poco, si sente dir corna
e si tace, quando non vi s'aggiunge del proprio l'onesta complicità
del sorriso. Ma fate che una di loro entri nulla nulla nel cerchio
della nostra giurisdizione, che un suo sguardo, una parola sua, udita
e riferita, sveglino nel nostro animo la speranza, o nel cuor nostro
il desiderio; e quella donna diventa di punto in bianco un'altra.
Poverina, l'avevano calunniata. Già, gli uomini, metà son tristi e metà
sciocchi; qual virtù uscirebbe salva dalle ciarle assassine?
Poi, viene il punto in cui l'uomo avvicina la donna calunniata. È così
bella! Vedete che grazia, che soavità, che dolcezza! Ecco il segreto
svelato; era cortese e l'han gabellata per lusinghiera; confidente di
modi e le hanno dato lettere patenti di sfrontatezza. E l'uomo che ha
fatta questa grande scoperta, felice di non doversi confondere coi
tristi, nè con gli sciocchi, sale di cerchio in cerchio, per tutte
lo stazioni del paradiso, fino a tanto, assorto nei raggi luminosi
della divinità, ne resta così abbacinato da non veder più nulla. Dopo
tutto, che importa il vedere? «Credete più ai vostri occhi che a me?»
domandava audacemente una donna, che conosceva a fondo il suo uomo. Non
era possibile che questi volesse farle un torto così grave, credette a
lei e negò fede a' suoi occhi.
La bella Clodia, che faceva quella mattina palpitare così forte il
cuore di Caio Sempronio e smarrire il suo giudizio (cosa non troppo
difficile, perchè ne aveva sempre avuto pochino), era certamente una
delle dame più calunniate di Roma. A torto, o a ragione? I versi del
suo poeta, anche a fargli la tara, c'indurrebbero a credere che ella
meritasse la sua fama.
Povero Catullo! Ne ha dovute mandar giù! Poeta elegante ed
appassionato, già celebre fin dalla prima giovinezza per aver disposata
nelle sue odi la delicatezza immaginosa di Anacreonte all'ardore
profondo di Saffo, conobbe per suo danno la moglie di Metello Celere,
se ne invaghì perdutamente, e da quel giorno egli non ebbe più pace.
Riguardoso nella forma, mutò il nome di Clodia in quello di Lesbia;
ma la cronaca non tenne il segreto, e Lucio Apuleio potè raccogliere
ancora due secoli dopo le indiscrezioni della cronaca e tramandarle
alla posterità.
Nessuna donna, se crediamo a Catullo, poteva reggere al confronto
della sua innamorata. «Quinzia è bella per molti, dice egli; per me
è bianca, alta e di nobile portamento; ma che sia bella in complesso,
nego, perchè in quella grande persona non c'è grazia nè spirito. Lesbia
sola è intieramente leggiadra; perchè, essendo bellissima tutta, ha
rapite tutte le grazie a tutte le altre donne di Roma.» Contemplava
il suo volto, ne udiva le soavi parole, e gli sembrava d'esser beato
al pari, e, se possibile, più degli Dei. Veduta lei, niente altro
desiderava. Ma la sua lingua s'intorpidiva; una fiamma gli scorreva per
tutte le membra; gli risonavano le orecchie, gli occhi gli si coprivano
di tenebre. Bello ogni atto, leggiadra ogni cura di lei. La vedeva
deliziarsi nell'amore d'un passero, e lui a cantare il passero che
ella amava più dei suoi occhi. Morì il passero, e lui a piangerne in
versi stupendi la morte, invitando le Grazie e gli Amori a confortarla
con le lagrime loro. «Viviamo, o mia Lesbia, ed amiamoci, le dice egli
un giorno; non valgono un soldo le ciancie dei vecchi barbogi. Muore
il sole e risorge; noi, morta una volta questa breve luce, abbiamo a
dormire una notte perpetua. Dammi un migliaio di baci, e poi cento, poi
altri mille ed altri cento ancora; e così via via, fino a perdere il
conto.»
Ma ohimè, un giorno doveva cadergli la benda dagli occhi. Clodia era
una civetta; non amava lui solo. Bella, ma senza cuore! E il poeta si
sdegna, vuol rompere la catena, per custodire la sua dignità. Ma come
fare? «Odio ed amo, dice egli ad un amico. Chiedi come ciò avvenga?
Non so; ma lo sento e ne muoio.» L'ama troppo, non c'è via di salute;
si allontana da lei e ritorna; l'amor suo è una sequela interminabile
di sdegni e di paci. Irato contro sè stesso, disegna di allontanarsi
da Roma, per non assistere alle sregolatezze di Clodia; va in Bitinia
con Caio Memmio Gemello; ne ritorna povero e più innamorato che mai.
Soltanto le sciagure domestiche lo distoglieranno un tratto dalla
sua pena, e l'isoletta di Sirmio, sul Benaco, poco lunge dalla natale
Verona, gli farà meno triste l'autunno precoce della sconsolata sua
vita.
E adesso che abbiamo veduta la figura di Clodia attraverso ai rapimenti
e alle malinconie d'un poeta, facciamo ritorno al nostro cavaliere
Tizio Caio Sempronio. Il poeta s'è ridotto ai silenzi della sua
villa di Sirmio, e Clodia è a Roma, sempre bella, sempre elegante, e
circondata da cento vagheggini. Qual è la donna che non ci ha i suoi,
dopo l'esempio di Penelope, ròcca di fede coniugale, assediata per
tanti anni dai Proci? Ma badino, i bellimbusti di Roma; se entra in
scena Tizio Caio Sempronio, poveri a loro! È un giovanotto che non
perde il suo tempo, nè prima, nè dopo. È forte e bello, di buon cuore
pe' suoi amici, inchinevole al tenero con le signore donne, ma non fino
al punto di guastarcisi il sangue. Egli chiederà a Clodia ciò che essa
può dare, sorrisi e carezze; non già la costanza, derrata di cui egli
non saprebbe che farsi, e a cui non potrebbe offrire il ricambio.
Per altro, anche a non volersi smarrire troppo lungamente nelle ombre
di Pafo, tornano sempre piacevoli i cominciamenti d'un ripesco amoroso.
Messo il piede sul limitare del bosco, il cavaliere ci trovava un gusto
matto a rincorrere le farfalle che gli svolazzavano capricciose davanti
agli occhi. Fuor di metafora, Caio Sempronio seguiva col pensiero tutte
le fasi di una lieta avventura, incominciata così _ex abrupto_ con una
tavoletta pugillare, che andava rivolgendo ancora per tutti i versi,
quando gli si fece dinanzi l'arcario.
— Mio signore, eccomi qua; — disse costui, inchinandosi profondamente.
— Sei tu, vecchio Lisimaco? Che cosa vuoi?
— Mi avevi fatto chiamare.... — riprese quell'altro.
— Ah sì, è vero; — disse Sempronio risovvenendosi; — ho anzi bisogno di
te. Già capirai di che si tratta. —
Lisimaco stette muto a guardarlo. Era un vecchio servo, o, per dire
più veramente, un liberto, servo manomesso, che continuava a vivere in
casa degli antichi padroni, esercitando l'uffizio di arcario, ossia di
soprintendente e cassiere. Pulito, molto serio e d'una rara probità,
Lisimaco aveva avuta la piena fiducia del padre di Caio Sempronio, uomo
assennato e non d'altro curante che di far prosperare la sua casa; nè
doveva mancargli la pienissima fiducia del figlio, che alle faccende
sue pensava pochissimo, come mi pare di avervi fatto già intendere.
Il liberto taceva, vi ho detto; ma il cavaliere continuò il discorso
per lui.
— Ho bisogno di moneta; — soggiunse.
— A' tuoi comandi; — rispose Lisimaco.
— E molta; — ripigliò il cavaliere.
— Ahi! — mormorò quell'altro, — siamo alle solite.
— Come? saresti all'asciutto?
— Oh, questo, poi! — esclamò il vecchio liberto, che sentiva offesa
da quel dubbio la maestà della casa Sempronia. — Ma se tu mi permetti
un'osservazione....
— Sentiamo l'osservazione.
— Padrone mio, si spende troppo.
— Eh, non dico di no.
— Anche le case più ricche vanno in malora, se non c'è misura nello
spendere.
— È sempre stata la mia opinione; — disse gravemente Caio Sempronio; —
e son lieto di vedere che tu partecipi al mio modo di vedere. —
L'arcario lo guardò trasognato.
— Mi pare, — pensò egli, — che il cavaliere voglia burlarsi di
me. —
E non aveva mica torto, il vecchio Lisimaco. Ma, per rispetto al
padrone, finse di non aver capito.
— Anche la tua casa, padrone, finirà come tante e tant'altre, se non
provvedi in tempo.
— Ottimamente; ma dimmi, savio Lisimaco. Ci sono ancora.... in tempo?
— Che domanda! Grazie agli Dei, siamo sempre sul sodo.
— Ah, meno male. Mi avevi già fatto paura. Dunque, si possono avere
quest'oggi quarantamila sesterzi per compiacere all'amico Postumio
Floro? È un imprestito, non ti spaventare, mio vecchio Lisimaco.
— Vado a numerare la somma; — disse l'arcario, dopo aver tratto un
sospiro.
— Aspetta ancora. All'imprestito dunque abbiamo provveduto. Ora c'è
dell'altro. Mi bisognano, per un altro negozio, sessantamila denari.
— Sessantamila! — balbettò l'arcario, strabuzzando gli occhi. — Hai
detto sessantamila....
— Denari, sicuro; che ragguagliati alla moneta di rame fanno dugento e
quarantamila sesterzi, o poco meno. Ma non ti confondere; non si tratta
di un imprestito, questa volta; si tratta invece di un collocamento,
d'una compera di fondi. —
Lisimaco diede una rifiatata, ma senza rallegrarsi molto. Il povero
cassiere andava da Scilla a Cariddi. Cessava la paura, sottentrava lo
stupore.
— Tu comperi?
— Sì, — rispose Caio Sempronio, — compero gli orti di Ventidio,
sull'Esquilino.
— Tu comperi? — tornò a chieder quell'altro, che non poteva mandarla
giù.
— Sì, te l'ho detto; che cosa ci trovi di strano?
— Ma, mi pare che ce ne sia la sua parte. Perdonami, signor mio; ma è
nuova davvero, che tu abbia pensato a comperare un pezzo di terreno.
— Io che ci ho sempre avuto una gran propensione a buttar via, non è
vero? — disse il cavaliere, ridendo. — Ma non temere, Lisimaco; io non
sono mutato per ciò. Compero.... ma per regalare il comprato.
— Di bene in meglio! Ed è questo che tu chiami un.... collocamento di
moneta?
— Ma sì, vecchio Lisimaco, è questo. Non ho forse detto di comperare?
— Per regalar poi.
— Ah, questa, vedi, è una seconda operazione. Badiamo ora soltanto alla
prima. —
Lisimaco crollò il capo, ma non aggiunse più altro. Con quel matto del
suo padrone non c'era modo di ragionare.
— Eccoti lì ingrognato, mio Cerbero! — proseguì Caio Sempronio. — Ma
infine, abbi pazienza; ho promesso. Vorresti tu che io mancassi alla
mia parola?
— Tolgano gli Dei immortali che io ti consigli in tal guisa; — rispose
il vecchio Lisimaco, non sapendo più che pesci pigliare. — Debbo dunque
metter da parte anche i sessantamila denari?
— Se li hai in cassa.
— Li ho.... quantunque, levati questi, non ci rimanga molto di più. E
tu lo sai, padron mio, che le entrate dell'anno scorso hanno già preso
il volo, mentre questo è a mala appena incominciato.
— Bene, per tirare avanti fino al raccolto, puoi chiedere in prestito
al danista Corbulone. Intanto vedremo di ristringere le spese.
— Ah, magari! — esclamò il vecchio liberto, alzando gli occhi e
le palme al cielo. — Con un anno di risparmio, si potrebbe ancora
rimetterci in carreggiata.
— Un anno! — gridò il cavaliere. — È troppo. Mettiamo sei mesi.
— Ma bada, ci sono ancora le ipoteche sul fondo Reatino, il più bel
fondo che tu possieda! Poi c'è l'imprestito di dugentomila denari sulla
villa di Aricia. Poi....
— Dimmi, — interruppe Caio Sempronio, — non avresti tu un altro
discorso più allegro da tenermi, per questa mattina? A momenti tu mi
passi in rassegna tutta la emerita classe degli argentarii. —
Lisimaco gli rispose con un gesto che voleva dire: che colpa ci ho io?
— Animo, via; — ripigliò, il cavaliere, vedendo la faccia malinconica
del suo povero cassiere. — Non pensiamo ora a queste miserie. Vedremo
di correggerci, se sarà scritto nel libro dei fati. Tu scrivi intanto,
nel tuo, che oggi verrà Postumio Floro, al quale dovrai consegnare
quarantamila sesterzi, e Giunio Ventidio per vendermi i suoi orti alle
Esquilie, contro la somma di sessantamila danari.
— E metterò a libro l'acquisto degli orti?
— Sì, se ti piace, — rispose Caio Sempronio, con quella sua faccia
da ridere, che dava tanta noia al disgraziato cassiere, — purchè tu
aggiunga in margine: regalati oggi stesso a Publio Cinzio Numeriano,
poeta innamorato. —
Ciò detto, il cavaliere congedò con un gesto maestoso il suo povero
arcario, che se ne andò borbottando tra i denti:
— Poeti.... innamorati.... matti... tutta gente da legare!
CAPITOLO VII.
Venere spogliatrice.
Clodia Metella, che le necessità del racconto mi costringono a
presentarvi, era una delle tre sorelle di Publio Clodio Pulcro.
Ma chi era Publio Clodio Pulcro? Era quel caro matto che aveva iniziata
la sua vita pubblica introducendosi travestito da donna nella casa
di Giulio Cesare, durante la celebrazione dei riti della dea Bona;
marachella giovanile per cui subì un processo, e non ne uscì sano
che corrompendo i suoi giudici. Sano nella persona, io vo' dire,
non già nella fama, che n'ebbe uno strappo maiuscolo, anche per la
testimonianza di Marco Tullio Cicerone, a cui giurò in conseguenza
un odio mortale. Eletto tribuno, con l'aiuto di Pompeo e di Cesare,
che protestava a suo modo contro certi sospetti, tanto da far passare
in proverbio l'onestà di madonna Aurelia sua moglie, si diede a
perseguitare in ogni guisa il suo illustre nemico. Questi gli oppose
l'unico uomo che potesse tenergli testa, Tito Annio Milone; e l'andò
tra quei due da galeotto a marinaro.
Il resto è noto ad ogni scolaro di retorica. Milone si recava un giorno
a Lanuvio; Clodio tornava dalla sua villa d'Aricia; i servi delle due
comitive s'azzuffarono; Clodio, ferito nel tafferuglio, fu trasportato
in un'osteria di Bovilla; Milone pensò che fosse giunto il momento di
levarsi quel bruscolo dagli occhi, e, fatto trascinar Clodio fuori
infelice pei matrimoni. _Mense Maio nubunt malae_, è proverbio volgare.
Evita le Calende, le None e gli Idi, che sono tutti giorni nefasti,
e potrai ammogliarti nelle condizioni più prospere che ti siano
consentite, a meno che tu non ami aspettare dopo gli Idi di Giugno, che
è l'ottimo dei tempi coniugali.
— Son contento di far le nozze verso gli Idi di Aprile; — disse
l'impaziente Numeriano.
— Affrettiamoci, dunque. Vi vedo già tutt'e due, coronati di fiori
e verbene; tu coi capelli recisi, lei col flammeo sulla fronte, a
custodire il rossore; i fanciulli con le faci, una delle quali di
bianco spino, che guidano la donna alla tua casa, ornata a festoni di
rose, di mirti e di allori. Giunti alla porta, si fa entrare prima la
conocchia, con la lana e col fuso, simbolo delle cure a cui la tua
Delia non ha mai atteso fin qui. Ma non importa, ci attenderà poi;
tutto sta ad avvezzarcisi. Ambedue toccate l'acqua e il fuoco, posti
sul limitare. Poi gli amici solleveranno tra le braccia la sposa, e la
faranno entrare, senza che tocchi la soglia col piede. Vesta l'avrebbe
per un sacrilegio, e gli amici sarebbero troppo dolenti che quest'uso
santissimo andasse negletto.
— Godo, di vedere che tu la prendi a giuoco, — notò Cinzio, che non
sapeva se dovesse ridere, o adontarsi, di quella filatessa di gentili
cerimonie e di beffardi commenti.
— Come fare altrimenti, amico Numeriano, come fare altrimenti? Tu lo
vuoi; sia fatta la tua volontà. Ed entrato in casa a tua volta, le
consegnerai il mazzo delle chiavi, per la custodia di tutte le cose
domestiche. Un tempo non le si sarebbe consegnata la chiave della
cantina, perchè alle donne era vietato ber vino, pena il ripudio.
Rammenterai l'editto di Catone, che stabiliva l'obbligo del bacio dei
congiunti alla donna; perchè questa, caso mai ne avesse bevuto, non
potesse altrimenti nascondere l'infrazione della legge. Ma qui non è
il caso, e tu farai molto volentieri queste indagini da te; non è egli
vero?
— Puoi crederlo; — rispose Numeriano, che già assaporava la dolcezza di
quelle indagini, con tutta la presaga virtù del desiderio.
— E adesso, andiamo; — soggiunse il cavaliere Caio Sempronio. — S'è
chiacchierato abbastanza, e i nostri amici vorranno propinare ai Lari
Compitali, che guidano i passi degli ubbriachi e fanno trovar l'uscio
di casa. —
Numeriano respirò. Con tutto l'affetto e la gratitudine che sentiva pel
suo amico e patrono, il nostro innamorato cominciava ad annoiarsi di
quelle sue stiracchiature cerimoniali, che arieggiavano maledettamente
la satira.
CAPITOLO VI.
Rose e spine.
Il giorno dopo quella famosa cena (giorno che io vi permetterò di
chiamare romanamente _quarto Nonas Aprilis_, poichè era il terzo sopra
le None, che cadevano al quinto giorno del mese) il cavaliere Tizio
Caio Sempronio si alzò mal volontieri dalle morbide piume.
Quasi non sarebbe mestieri di accennarlo, poichè già s'indovina,
argomentando che l'ospite di tutti quei capi scarichi doveva essere
andato anche tardi a dormire. Ma siccome tutto è relativo in questo
mondo, va detta anche l'ora in cui il nostro cavaliere scese dall'alto
giaciglio, non senza bisogno d'aiuto, per non cascar giù dalla
scaletta, così assonnato com'era.
Non c'è che dire, i nostri antichi Romani amavano i loro comodi. Avete
già veduto che pranzavano sdraiati, appoggiando il torace sul gomito.
Figuratevi ora che dormivano su certi letti così alti, da aver mestieri
d'uno sgabello, o d'uno scalèo, per salirvi su. Que' letti erano fatti
a guisa dei nostri sofà di maggiore grandezza, con una spalliera da
capo, con un'alta fiancata dalla parte del muro, e interamente aperti
dal lato per cui ci si entrava. L'intelaiatura era tesa con cinghie,
che sostenevano un gran materasso, su cui erano collocati un capezzale
e un guanciale. Ho veduto uno di questi letti, il letto di Didone,
dipinto a suo luogo nel più antico codice dell'Eneide, che è il
Virgilio Vaticano. Lo scalèo ha nove gradini; nientemeno! C'era la sua
parte di risico, a voltarsi sul fianco.
Torniamo a Tizio Caio Sempronio. Il nostro cavaliere si alzava per
solito verso il meriggio. Quel giorno, malgrado la veglia prolungata
e i fumi del vino, si alzò alle nove, che era l'_hora tertia_, nella
divisione del giorno presso gli antichi Romani.
Che cosa aveva da fare? La terza era l'ora dei negozi forensi.
_Exercet raucos tertia causidicos_, mi pare che abbia detto Marziale.
Ma anche senza essere un causidico, e senza l'obbligo di andare ai
tribunali, Tizio Caio Sempronio ci aveva per quel giorno la sua parte
di seccature; epperciò, prima di ascendere su quel suo Campidoglio
notturno, aveva raccomandato al servo di svegliarlo ad ogni costo per
quell'ora insolita. E scosso ripetutamente dal fidato cameriere, che
fu mandato a quel paese una mezza dozzina di volte, il povero cavaliere
si alzò, per andare a finire di svegliarsi in un bagno d'acqua fresca:
ottima cosa al mattino, segnatamente quando non si ha obbligo di berla.
— Andiamo, via! — aveva egli detto tra sè, per consolarsi di
quella interruzione al più bel sogno d'oro che mandasse mai l'alba
degl'infingardi al più divoto de' suoi cultori. — Bisognerà pensare a
quei cari amici, che aspettano un servizio da noi. —
Mentre egli era al bagno, capitò l'ostiario.
— Che c'è? — domandò il cavaliere.
— Padrone, è venuta all'uscio di strada una vecchia....
— Vada a pettinar Proserpina! — gridò Caio stizzito. — Così male ha da
cominciare la mia giornata? —
L'ostiario sorrise, e ripigliò:
— Se n'è andata, difatti, ed ha lasciato questo per te. —
Così dicendo porse una tavoletta pugillare al padrone.
Pugillare? Che diavol è? Sentite qua; si chiamavano pugillari certe
piccole tavolette, rivestite di cera, per iscriverci su. Derivavano il
nome dalle loro piccole proporzioni, perchè potevano essere comodamente
tenute nel pugno; ed erano usate per quaderni di memorie, per notarvi i
pensieri fuggitivi, e sopratutto per mandar lettere amorose.
Insomma, avete capito. Avrei potuto dirvi subito un viglietto, come
quello di Rosina a Lindoro. Ma non siamo per niente sotto il consolato
di Sulpicio Rufo e di Claudio Marcello, ed io ho sentito il bisogno di
dirvi: una tavoletta pugillare. Abbiate pazienza e seguitemi, mentre
io guardo che senso ha fatto sull'animo del cavaliere il messaggio
mattutino della vecchia Gabrina.
Tizio Caio Sempronio si era affrettato, come potete immaginarvi, a
rompere il suggello e ad aprire le due facce del pugillare.
— Ah! — esclamò egli, dolcemente commosso, leggendo la prima parola.
Adesso bisognerebbe dir l'ultima, perchè il nome dello scrivente si
mette in fondo; ma allora lo si scriveva sempre da principio. _Cicero
Terentiae suae salutem dicit._
La lettera non era di Cicerone, vi prego di crederlo. Del resto,
sentite Caio Sempronio che vi chiarisce il negozio.
— Clodia! — mormorò egli, dopo la prima esclamazione che ho detto. —
Come va che quella divina mi scrive? A me, Tizio Caio Sempronio, che le
ho parlato a mala pena una volta? —
Mi direte che il miglior modo, anzi l'unico, di sapere che cosa voglia
da noi una dama, quando ci fa l'onore di scriverci, è quello di legger
subito ciò ch'ella si è degnata di mettere in carta. Ma questo, che
è vero in tanti casi, non lo è poi in tanti altri. Non lo era, per
esempio, nel caso di Sempronio e di Clodia.
Vedete, difatti; la bellissima patrizia scriveva così:
«Clodia, a Tizio Caio, salute.
«Ti parrò ardita; e forse è questa la fama che corre di me. Qualunque
io ti sembri, non sarò mai paurosa, nè sciocca. Stimo te grandemente;
nè l'ho taciuto in alcuna occasione; fors'anco, sarà giunto alle tue
orecchie. Alle mie è giunto un sogno, niente più d'un sogno; ma tu
sai quanta fede debba prestarsi a questi avvertimenti del cielo. Una
mia schiava prediletta ha sognato di te, che eri fatto in tre pezzi
da uomini assetati del tuo sangue. Ho tremato in udire il racconto
della sua visione, e non ho potuto resistere al desiderio, nè voluto
sottrarmi all'obbligo di avvisarti. Chiedi ai matematici, e godi le
prospere Megalesi; è il mio voto.»
Avete capito voi? No. E Tizio Caio nemmeno.
Non già perchè non intendesse le ultime parole, che forse allegheranno
i denti a qualcuna delle mie lettrici, poco pratiche d'anticaglie. Le
Megalesi erano feste solenni alla dea Cibele, onorata sotto il nome
di gran madre degli Dei, epperciò chiamata in greco _Megalisia_. E
perchè tutte le feste d'allora finivano in giuochi e spettacoli, come
quelle del nostro popolo finiscono in corpacciate e combibbie, le
Megalesi, che duravano otto o nove dì, cominciando nel quarto giorno
di aprile (_pridie Nonas Aprilis_), erano più specialmente dedicate
alle rappresentazioni sceniche. Pei Ludi Megalensi furono scritte quasi
tutte le commedie di Terenzio.
Quanto ai matematici, era questo il nome degli astrologhi, degli
indovini, che interpretavano i sogni della gente da bene. Orazio Flacco
non voleva che si facesse capo a costoro, e raccomandava a Leuconoe di
non chiedere il futuro ai calcoli babilonesi. E appunto da Babilonia,
patria di astronomi e di matematici, erano venuti a Roma gl'indovini;
e l'astrologia e la matematica, scienze dei Magi, avevano dato il nome
all'arte di quegli antenati di Cagliostro.
Nemmeno era dubbio per Tizio Caio Sempronio il senso della lettera.
Niente di più naturale che il dar retta ai sogni, in un tempo e in
un paese di superstizioni come quello, che aveva tra l'altre cose i
giorni fasti e nefasti, le ferie pubbliche e private, e queste anche in
occasioni di fulmini, di modo che, ogni qualvolta si sentisse tuonare,
era giorno feriato, fino a tanto non si fossero placati con offerte e
sacrifizi gli Dei.
Dunque, nell'avvertimento di madonna Clodia non c'era nulla da dire.
Ma una donna che scrive ha sempre un secondo fine, un intendimento
riposto. E perchè si prendeva costei tanta cura della salute di Tizio
Caio? Che cosa si doveva leggere tra le righe dello scritto? Lo avesse
almeno invitato ad andare da lei! Ma no, d'invito non ce n'era pur
l'ombra, neanche sotto forma di permesso, per un rendimento di grazie.
Un avviso, un augurio, un voto, e nient'altro.
— Strana donna! — pensò il cavaliere. — Che cosa debbo conchiudere? Che
ella si dà pensiero di me. E sia. Ma allora perchè non aggiungere: «a
voce ti dirò meglio»? E questo accenno alle prossime feste! Che voglia
vedermi allo spettacolo? Sì, certamente, ci andrò; ma di questo ella
poteva esser sicura, e non c'era bisogno di dirmelo. Ma forse vuol
farmi sapere che ci andrà lei. Ed anche questo era inutile. Dove non è,
la bellissima Clodia? —
Quanto al pericolo che la bella patrizia gli accennava nel suo
viglietto, Tizio Caio Sempronio ci pensò molto meno che a tutto il
restante.
— Che pericolo ho da correr io? — diss'egli tra sè. — Esser fatto
in tre pezzi! E da chi? Se i sogni vanno interpretati a modo, io
posso credere che non si tratti d'una spartizione materiale. Infatti,
vedete qua; ier sera non ne ho avuti tre, che volevano il mio.... e
che l'avranno, pur troppo! Il sogno è stato veridico, anzi fatidico.
Son tre gli assetati del mio sangue, o, per dire più veramente, di
dugento sessantamila sesterzi. E li abbiano, poichè li ho promessi.
Il sogno della schiava di Clodia non prova esso che io debbo dissetare
quest'oggi i miei tre supplicanti? —
Questo ragionamento lo ricondusse a ricordare come e perchè fosse
balzato quel giorno da letto un po' più presto del solito.
— Piramo! — gridò egli, richiamando lo schiavo, che si era
prudentemente allontanato.
— Padrone!
— Dirai all'arcario che venga qua.
— Prima del cinerario? —
Il cinerario, se nol sapeste, era uno schiavo che, presso le dame,
assisteva l'ornatrice, mentre questa faceva l'acconciatura del capo
alla padrona; e il suo principale ufficio consisteva nel riscaldare
il calamistro, o ferro da riccio, nelle ceneri; donde il suo nome che
ho detto. Ma in alcuni casi, e presso gli uomini, egli faceva altresì
l'ufficio di barbiere. Del resto, anche allora i capegli riccioluti non
era solamente delle donne, e spettava al ferro caldo di dare ai patrizi
romani le ciocche morbidamente inanellate della chioma d'Apollo.
— Anche prima del cinerario; — rispose asciuttamente il cavaliere.
Lo schiavo si allontanò, per andare in cerca dell'arcario.
— Vedete qua; — proseguiva intanto il nostro eroe, rifacendosi
volontieri al tema del suo soliloquio. — Ella pensa a me; si affretta
ad avvertirmi d'un pericolo che mi sovrasta. Ella già non poteva
immaginarsi che si trattasse solamente delle mie sostanze, della mia
persona.... giuridica. Senza badare ad altro, passando sopra a tutte le
consuetudini, ha voluto avvertirmi. Divina Clodia! E poi dicono di lei
che è.... che Valerio Catullo.... Baie! Già, i poeti sono la gente più
molesta e pericolosa che al mondo sia. Vi scoccano un'ode, un'elegia,
e tutta Roma, leggendo quell'ode, quella elegia, pensa che i sogni
del poeta siano la verità, che le bellezze lodate da lui siano state
vedute, che i difetti e i torti notati da lui siano torti e difetti
veri e manifesti come la luce del sole. E una degna matrona, così
calunniata, non ha più modo di rifarsi. Il poeta ha parlato; il volgo
la condanna. Maledetti poeti! Non aveva mica torto Platone, a bandirli
dalla sua repubblica! Questi ornati venditori di ciancie sonore vi
mettono una povera donna in piazza. Hanno veduta una mano, come tutti
gli altri, e nei loro versi vi descrivono il braccio, l'omero, e....
via discorrendo. Il volgo dei lettori, aiutando la malignità, immagina
il resto. Dove il poeta non ha fatto altro che seguire i vaneggiamenti
dell'estro, o le necessità della prosodia tiranna, egli vede
altrettante indiscrezioni della più autentica forma. E in questa guisa
si scrive la storia. Una donna ne ha uno? Povera lei! Gliene regalano
cento. —
Come vedete, il nostro cavaliere girava all'ottimista. Di mattina, lo
siamo sempre un po' tutti. La triste esperienza è un frutto delle ore
più tarde, nella gran giornata dell'uomo; e poichè il giorno è nel
suo piccolo una immagine della vita, voi potrete concedermi che il più
melanconico dei pessimisti veda anche lui le cose del mondo, poniamo
per un'ora, tinte dei colori dell'alba.
Del resto, e per ciò che risguarda il sesso debole, siamo sempre
disposti a pensarne un gran bene, quando le sue debolezze profittano a
noi. Per solito, delle donne che c'importano poco, si sente dir corna
e si tace, quando non vi s'aggiunge del proprio l'onesta complicità
del sorriso. Ma fate che una di loro entri nulla nulla nel cerchio
della nostra giurisdizione, che un suo sguardo, una parola sua, udita
e riferita, sveglino nel nostro animo la speranza, o nel cuor nostro
il desiderio; e quella donna diventa di punto in bianco un'altra.
Poverina, l'avevano calunniata. Già, gli uomini, metà son tristi e metà
sciocchi; qual virtù uscirebbe salva dalle ciarle assassine?
Poi, viene il punto in cui l'uomo avvicina la donna calunniata. È così
bella! Vedete che grazia, che soavità, che dolcezza! Ecco il segreto
svelato; era cortese e l'han gabellata per lusinghiera; confidente di
modi e le hanno dato lettere patenti di sfrontatezza. E l'uomo che ha
fatta questa grande scoperta, felice di non doversi confondere coi
tristi, nè con gli sciocchi, sale di cerchio in cerchio, per tutte
lo stazioni del paradiso, fino a tanto, assorto nei raggi luminosi
della divinità, ne resta così abbacinato da non veder più nulla. Dopo
tutto, che importa il vedere? «Credete più ai vostri occhi che a me?»
domandava audacemente una donna, che conosceva a fondo il suo uomo. Non
era possibile che questi volesse farle un torto così grave, credette a
lei e negò fede a' suoi occhi.
La bella Clodia, che faceva quella mattina palpitare così forte il
cuore di Caio Sempronio e smarrire il suo giudizio (cosa non troppo
difficile, perchè ne aveva sempre avuto pochino), era certamente una
delle dame più calunniate di Roma. A torto, o a ragione? I versi del
suo poeta, anche a fargli la tara, c'indurrebbero a credere che ella
meritasse la sua fama.
Povero Catullo! Ne ha dovute mandar giù! Poeta elegante ed
appassionato, già celebre fin dalla prima giovinezza per aver disposata
nelle sue odi la delicatezza immaginosa di Anacreonte all'ardore
profondo di Saffo, conobbe per suo danno la moglie di Metello Celere,
se ne invaghì perdutamente, e da quel giorno egli non ebbe più pace.
Riguardoso nella forma, mutò il nome di Clodia in quello di Lesbia;
ma la cronaca non tenne il segreto, e Lucio Apuleio potè raccogliere
ancora due secoli dopo le indiscrezioni della cronaca e tramandarle
alla posterità.
Nessuna donna, se crediamo a Catullo, poteva reggere al confronto
della sua innamorata. «Quinzia è bella per molti, dice egli; per me
è bianca, alta e di nobile portamento; ma che sia bella in complesso,
nego, perchè in quella grande persona non c'è grazia nè spirito. Lesbia
sola è intieramente leggiadra; perchè, essendo bellissima tutta, ha
rapite tutte le grazie a tutte le altre donne di Roma.» Contemplava
il suo volto, ne udiva le soavi parole, e gli sembrava d'esser beato
al pari, e, se possibile, più degli Dei. Veduta lei, niente altro
desiderava. Ma la sua lingua s'intorpidiva; una fiamma gli scorreva per
tutte le membra; gli risonavano le orecchie, gli occhi gli si coprivano
di tenebre. Bello ogni atto, leggiadra ogni cura di lei. La vedeva
deliziarsi nell'amore d'un passero, e lui a cantare il passero che
ella amava più dei suoi occhi. Morì il passero, e lui a piangerne in
versi stupendi la morte, invitando le Grazie e gli Amori a confortarla
con le lagrime loro. «Viviamo, o mia Lesbia, ed amiamoci, le dice egli
un giorno; non valgono un soldo le ciancie dei vecchi barbogi. Muore
il sole e risorge; noi, morta una volta questa breve luce, abbiamo a
dormire una notte perpetua. Dammi un migliaio di baci, e poi cento, poi
altri mille ed altri cento ancora; e così via via, fino a perdere il
conto.»
Ma ohimè, un giorno doveva cadergli la benda dagli occhi. Clodia era
una civetta; non amava lui solo. Bella, ma senza cuore! E il poeta si
sdegna, vuol rompere la catena, per custodire la sua dignità. Ma come
fare? «Odio ed amo, dice egli ad un amico. Chiedi come ciò avvenga?
Non so; ma lo sento e ne muoio.» L'ama troppo, non c'è via di salute;
si allontana da lei e ritorna; l'amor suo è una sequela interminabile
di sdegni e di paci. Irato contro sè stesso, disegna di allontanarsi
da Roma, per non assistere alle sregolatezze di Clodia; va in Bitinia
con Caio Memmio Gemello; ne ritorna povero e più innamorato che mai.
Soltanto le sciagure domestiche lo distoglieranno un tratto dalla
sua pena, e l'isoletta di Sirmio, sul Benaco, poco lunge dalla natale
Verona, gli farà meno triste l'autunno precoce della sconsolata sua
vita.
E adesso che abbiamo veduta la figura di Clodia attraverso ai rapimenti
e alle malinconie d'un poeta, facciamo ritorno al nostro cavaliere
Tizio Caio Sempronio. Il poeta s'è ridotto ai silenzi della sua
villa di Sirmio, e Clodia è a Roma, sempre bella, sempre elegante, e
circondata da cento vagheggini. Qual è la donna che non ci ha i suoi,
dopo l'esempio di Penelope, ròcca di fede coniugale, assediata per
tanti anni dai Proci? Ma badino, i bellimbusti di Roma; se entra in
scena Tizio Caio Sempronio, poveri a loro! È un giovanotto che non
perde il suo tempo, nè prima, nè dopo. È forte e bello, di buon cuore
pe' suoi amici, inchinevole al tenero con le signore donne, ma non fino
al punto di guastarcisi il sangue. Egli chiederà a Clodia ciò che essa
può dare, sorrisi e carezze; non già la costanza, derrata di cui egli
non saprebbe che farsi, e a cui non potrebbe offrire il ricambio.
Per altro, anche a non volersi smarrire troppo lungamente nelle ombre
di Pafo, tornano sempre piacevoli i cominciamenti d'un ripesco amoroso.
Messo il piede sul limitare del bosco, il cavaliere ci trovava un gusto
matto a rincorrere le farfalle che gli svolazzavano capricciose davanti
agli occhi. Fuor di metafora, Caio Sempronio seguiva col pensiero tutte
le fasi di una lieta avventura, incominciata così _ex abrupto_ con una
tavoletta pugillare, che andava rivolgendo ancora per tutti i versi,
quando gli si fece dinanzi l'arcario.
— Mio signore, eccomi qua; — disse costui, inchinandosi profondamente.
— Sei tu, vecchio Lisimaco? Che cosa vuoi?
— Mi avevi fatto chiamare.... — riprese quell'altro.
— Ah sì, è vero; — disse Sempronio risovvenendosi; — ho anzi bisogno di
te. Già capirai di che si tratta. —
Lisimaco stette muto a guardarlo. Era un vecchio servo, o, per dire
più veramente, un liberto, servo manomesso, che continuava a vivere in
casa degli antichi padroni, esercitando l'uffizio di arcario, ossia di
soprintendente e cassiere. Pulito, molto serio e d'una rara probità,
Lisimaco aveva avuta la piena fiducia del padre di Caio Sempronio, uomo
assennato e non d'altro curante che di far prosperare la sua casa; nè
doveva mancargli la pienissima fiducia del figlio, che alle faccende
sue pensava pochissimo, come mi pare di avervi fatto già intendere.
Il liberto taceva, vi ho detto; ma il cavaliere continuò il discorso
per lui.
— Ho bisogno di moneta; — soggiunse.
— A' tuoi comandi; — rispose Lisimaco.
— E molta; — ripigliò il cavaliere.
— Ahi! — mormorò quell'altro, — siamo alle solite.
— Come? saresti all'asciutto?
— Oh, questo, poi! — esclamò il vecchio liberto, che sentiva offesa
da quel dubbio la maestà della casa Sempronia. — Ma se tu mi permetti
un'osservazione....
— Sentiamo l'osservazione.
— Padrone mio, si spende troppo.
— Eh, non dico di no.
— Anche le case più ricche vanno in malora, se non c'è misura nello
spendere.
— È sempre stata la mia opinione; — disse gravemente Caio Sempronio; —
e son lieto di vedere che tu partecipi al mio modo di vedere. —
L'arcario lo guardò trasognato.
— Mi pare, — pensò egli, — che il cavaliere voglia burlarsi di
me. —
E non aveva mica torto, il vecchio Lisimaco. Ma, per rispetto al
padrone, finse di non aver capito.
— Anche la tua casa, padrone, finirà come tante e tant'altre, se non
provvedi in tempo.
— Ottimamente; ma dimmi, savio Lisimaco. Ci sono ancora.... in tempo?
— Che domanda! Grazie agli Dei, siamo sempre sul sodo.
— Ah, meno male. Mi avevi già fatto paura. Dunque, si possono avere
quest'oggi quarantamila sesterzi per compiacere all'amico Postumio
Floro? È un imprestito, non ti spaventare, mio vecchio Lisimaco.
— Vado a numerare la somma; — disse l'arcario, dopo aver tratto un
sospiro.
— Aspetta ancora. All'imprestito dunque abbiamo provveduto. Ora c'è
dell'altro. Mi bisognano, per un altro negozio, sessantamila denari.
— Sessantamila! — balbettò l'arcario, strabuzzando gli occhi. — Hai
detto sessantamila....
— Denari, sicuro; che ragguagliati alla moneta di rame fanno dugento e
quarantamila sesterzi, o poco meno. Ma non ti confondere; non si tratta
di un imprestito, questa volta; si tratta invece di un collocamento,
d'una compera di fondi. —
Lisimaco diede una rifiatata, ma senza rallegrarsi molto. Il povero
cassiere andava da Scilla a Cariddi. Cessava la paura, sottentrava lo
stupore.
— Tu comperi?
— Sì, — rispose Caio Sempronio, — compero gli orti di Ventidio,
sull'Esquilino.
— Tu comperi? — tornò a chieder quell'altro, che non poteva mandarla
giù.
— Sì, te l'ho detto; che cosa ci trovi di strano?
— Ma, mi pare che ce ne sia la sua parte. Perdonami, signor mio; ma è
nuova davvero, che tu abbia pensato a comperare un pezzo di terreno.
— Io che ci ho sempre avuto una gran propensione a buttar via, non è
vero? — disse il cavaliere, ridendo. — Ma non temere, Lisimaco; io non
sono mutato per ciò. Compero.... ma per regalare il comprato.
— Di bene in meglio! Ed è questo che tu chiami un.... collocamento di
moneta?
— Ma sì, vecchio Lisimaco, è questo. Non ho forse detto di comperare?
— Per regalar poi.
— Ah, questa, vedi, è una seconda operazione. Badiamo ora soltanto alla
prima. —
Lisimaco crollò il capo, ma non aggiunse più altro. Con quel matto del
suo padrone non c'era modo di ragionare.
— Eccoti lì ingrognato, mio Cerbero! — proseguì Caio Sempronio. — Ma
infine, abbi pazienza; ho promesso. Vorresti tu che io mancassi alla
mia parola?
— Tolgano gli Dei immortali che io ti consigli in tal guisa; — rispose
il vecchio Lisimaco, non sapendo più che pesci pigliare. — Debbo dunque
metter da parte anche i sessantamila denari?
— Se li hai in cassa.
— Li ho.... quantunque, levati questi, non ci rimanga molto di più. E
tu lo sai, padron mio, che le entrate dell'anno scorso hanno già preso
il volo, mentre questo è a mala appena incominciato.
— Bene, per tirare avanti fino al raccolto, puoi chiedere in prestito
al danista Corbulone. Intanto vedremo di ristringere le spese.
— Ah, magari! — esclamò il vecchio liberto, alzando gli occhi e
le palme al cielo. — Con un anno di risparmio, si potrebbe ancora
rimetterci in carreggiata.
— Un anno! — gridò il cavaliere. — È troppo. Mettiamo sei mesi.
— Ma bada, ci sono ancora le ipoteche sul fondo Reatino, il più bel
fondo che tu possieda! Poi c'è l'imprestito di dugentomila denari sulla
villa di Aricia. Poi....
— Dimmi, — interruppe Caio Sempronio, — non avresti tu un altro
discorso più allegro da tenermi, per questa mattina? A momenti tu mi
passi in rassegna tutta la emerita classe degli argentarii. —
Lisimaco gli rispose con un gesto che voleva dire: che colpa ci ho io?
— Animo, via; — ripigliò, il cavaliere, vedendo la faccia malinconica
del suo povero cassiere. — Non pensiamo ora a queste miserie. Vedremo
di correggerci, se sarà scritto nel libro dei fati. Tu scrivi intanto,
nel tuo, che oggi verrà Postumio Floro, al quale dovrai consegnare
quarantamila sesterzi, e Giunio Ventidio per vendermi i suoi orti alle
Esquilie, contro la somma di sessantamila danari.
— E metterò a libro l'acquisto degli orti?
— Sì, se ti piace, — rispose Caio Sempronio, con quella sua faccia
da ridere, che dava tanta noia al disgraziato cassiere, — purchè tu
aggiunga in margine: regalati oggi stesso a Publio Cinzio Numeriano,
poeta innamorato. —
Ciò detto, il cavaliere congedò con un gesto maestoso il suo povero
arcario, che se ne andò borbottando tra i denti:
— Poeti.... innamorati.... matti... tutta gente da legare!
CAPITOLO VII.
Venere spogliatrice.
Clodia Metella, che le necessità del racconto mi costringono a
presentarvi, era una delle tre sorelle di Publio Clodio Pulcro.
Ma chi era Publio Clodio Pulcro? Era quel caro matto che aveva iniziata
la sua vita pubblica introducendosi travestito da donna nella casa
di Giulio Cesare, durante la celebrazione dei riti della dea Bona;
marachella giovanile per cui subì un processo, e non ne uscì sano
che corrompendo i suoi giudici. Sano nella persona, io vo' dire,
non già nella fama, che n'ebbe uno strappo maiuscolo, anche per la
testimonianza di Marco Tullio Cicerone, a cui giurò in conseguenza
un odio mortale. Eletto tribuno, con l'aiuto di Pompeo e di Cesare,
che protestava a suo modo contro certi sospetti, tanto da far passare
in proverbio l'onestà di madonna Aurelia sua moglie, si diede a
perseguitare in ogni guisa il suo illustre nemico. Questi gli oppose
l'unico uomo che potesse tenergli testa, Tito Annio Milone; e l'andò
tra quei due da galeotto a marinaro.
Il resto è noto ad ogni scolaro di retorica. Milone si recava un giorno
a Lanuvio; Clodio tornava dalla sua villa d'Aricia; i servi delle due
comitive s'azzuffarono; Clodio, ferito nel tafferuglio, fu trasportato
in un'osteria di Bovilla; Milone pensò che fosse giunto il momento di
levarsi quel bruscolo dagli occhi, e, fatto trascinar Clodio fuori
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