Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana - 02

porzione, ed egli poteva mangiarla, o riporla, o rimandarla, come
più gli piacesse. Per tal modo, non c'era a temere d'indiscreti, che,
verbigrazia, si servissero di tutto il migliore del pesce, lasciando la
testa e le spine all'ultimo del giro. E nemmeno si avevano a patire i
danni della propria discrezione, o modestia. La rapacità degli uni e la
timidezza degli altri avevano un solo correttore, lo scalco.


CAPITOLO III.
Donne, vino e canzoni.

Mentre tutte quelle pietanze si distruggevano allegramente, e perchè la
cena non apparisse un pasto di affamati volgari, la regina comandò che
qualcheduno dei commensali proponesse una quistione gradevole.
Vibenna domandò qual fosse miglior vino tra il Cecubo e il Massico;
ma Giunio Ventidio sciolse prontamente la quistione, dicendo che erano
ottimi ambedue, e che il superlativo, anche a detta dei grammatici, non
ammetteva comparativi.
Postumio Floro avrebbe voluto che si disputasse intorno all'anima dei
creditori, ma Lalage dichiarò che non avrebbe patito di tali discorsi
a tavola, e condannò Postumio a non guardarla più fino alla seconda
mensa, cioè fino alle frutte.
Il poveretto gridò che lo si voleva morto. Tizio Caio Sempronio
intercesse per lui e gli ottenne la grazia della diva, a patto che
trovasse il modo di dire una cosa gentile a tutte, senza scontentarne
veruna.
— Non son poeta; — rispose Postumio; — e qui meglio di me varrebbe
Numeriano. Ma poichè lo volete, vi dirò che amo una donna sola,
perchè.... non ho quattro cuori. —
Le donne, così chiaramente indicate dal numero dei cuori che si
augurava Postumio, dovevano sentenziare. Ma Lalage taceva, per non aver
aria di sapere chi fosse quell'una. Febe guardava Numeriano, che era
dall'altra parte della mensa e non si accorgeva di essere guardato da
lei. Glicera si stringeva amorosamente al fianco di Caio Sempronio, e
non badava troppo alla conversazione.
Delia parlò, Delia la bionda, severa all'aspetto, come una statua di
Fidia.
Secondo lei, la donna amata da Postumio Floro doveva esser poco
lusingata dalla sua dichiarazione.
— E se Giove ti avesse dato quattro cuori.... — diss'ella al suo vicino
di destra, — che cosa avverrebbe?
— Mia bella severa, — rispose Postumio, — non ardisco prevederlo. Ma
certo, qualunque cosa avvenisse, l'avrebbe voluto lui, ed io non ci
avrei ombra di colpa. —
Intanto i coppieri andavano attorno con le anfore, mescendo il vino nei
vuoti sestanti.
E il cuoco venne egli in persona, per curare l'arrivo della terza
portata. Il vassoio quella volta era smisurato e ci volevano due uomini
per sorreggerlo.
Un grido di ammirazione ruppe dalle labbra di tutti i convitati. Il
cuoco sorrise, come sanno sorridere i cuochi, quando ci hanno ancora
dell'altro, con cui sbalordire i commensali del padrone.
E non aveva torto, perdinci, il degno scolare di Apicio. Figuratevi
che aveva cotto un cinghiale intiero, coperto ancora (dico ancora, ma
certo si trattava di una giunta artificiale) della sua pelle setolosa.
E perchè niente mancasse a dargli l'aspetto del vero, la degna bestia
si vedeva sdraiata, come in atto di voltarsi, in un certo intriso,
che voleva raffigurare un pantano, ed era la salsa più appetitosa del
mondo.
— Come? — dimandò Vibenna, rinvenuto allora dal primo stupore. — Non è
stato neanche sventrato?
— Qui ti volevo! — disse il cuoco tra sè.
Indi, ad alta voce proseguì:
— Perdona, illustre Vibenna; quello che non è stato fatto può farsi
ancora. —
E levato il coltello dalle mani dello scalco, lo piantò arditamente
nel petto del cinghiale, traendo la lama a sè, per quanto lungo era il
ventre.
Allungarono tutti il collo e stettero cogli occhi tesi per vederne
balzar fuori le interiora, ma non senza sospetto di qualche piacevole
novità. Difatti, il cuoco appariva sicuro del fatto suo. O faceva
troppo a fidanza con l'umore del padrone, o ci aveva il segreto in
corpo, e quell'abile colpo di coltello doveva metterlo fuori.
Una risata omerica salutò la conseguenza dell'operazione. E qui
l'epiteto di omerica vien proprio a taglio, perchè il cavallo di legno,
divino lavoro di Pallade, non gittò tanti armati nelle mura di Troia,
quante il cinghiale sventrato diè fuori salsiccie, olive, sanguinacci,
tordi, ed altre ghiottornie, debitamente rosolate, che promettevano una
festa di sapori al palato.
Tosto gli schiavi si avvicinarono e lavorarono coi loro cucchiai a
raccogliere tutta quella sugosa grandinata e a collocarla in giuste
parti nei piatti dei convitati, mentre lo scalco, riprendendo il
coltello dalle mani del cuoco, faceva destramente a pezzi il cinghiale,
per darne uno spicchio a ciascuno.
— Gli Dei ti proteggano, o Caio; — disse Vibenna, ammirato. — Tu
possiedi la fenice dei cuochi.
— A Sibari gli avrebbero eretta una statua; — aggiunse Ventidio. — Noi
dovremmo decretargli il trionfo.
— Per carità, non me lo guastate. Io l'ho già manomesso; — rispose
Tizio Caio Sempronio. — Che altro potrei fare per lui? Mi mette al
fuoco dugentomila sesterzi all'anno; è questo il tributo che io pago
alla sua maestria.
— Vivi cent'anni, o Caio, — gridò il cuoco inchinandosi, — e conservami
la tua benevolenza.
— Coi dugentomila sesterzi; — aggiunse mentalmente Postumio Floro. —
Vedete un po' il mio amico Caio, come spende allegramente il suo! Se
gli domandassi oggi i quarantamila che mi occorrono, per chetare quel
Cerbero di Cepione! —
Il dispensiere si era fatto innanzi col Massico, altro vino che non
la cedeva al Falerno, nè al Cecubo. E la regina del convito appagò il
desiderio di Marco Giunio Ventidio, facendo dare in tavola i trienti.
— Oh bene! — gridò Ventidio. — Beviamo dunque e celebriamo queste spume
generose col verso.
— Col verso! Tu?
— Io, sì, io. Che vi credete? Che alle mie ore non sia poeta anche un
Giunio Ventidio? Sentite qua:
Ben venga, amici, il Massico,
E cresca la misura,
Mentre gli affanni e i triboli
La sorte rea matura.
Quando si muoia e dove
Si vada, è in grembo a Giove.
Ci pensi dunque il Dio,
O se ne scordi pur, come fo io;
Mentre bevo al tuo nome,
Febe divina dalle bionde chiome.
Versa, coppiere, il liquido
Rubino profumato.
Vedi? Alla prima lettera
Bevo, e in un sorso è andato.
Per la seconda, ratto
Versa, ed io bevo.... È fatto.
La terza ancor ti chiedo,
E per la quarta ad implorarti io riedo.
Perchè sì breve ha il nome
Febe divina dalle bionde chiome?
— Ma bene! Egregiamente! — gridò Caio Sempronio. — Tu rubi l'arte a
Numeriano.
— E mira anche a rubargli dell'altro: — soggiunse Vibenna.
— Dell'altro? Che cosa?
— Il cuore della mia vicina e sua, che va troppo spesso con gli occhi
verso il nostro poeta. —
Febe si fece rossa in volto come una fragola. Anche Numeriano arrossì,
ma non per la stessa ragione di lei. Il giovine poeta pensava a
tutt'altro, e dovette credere che l'amico Vibenna si prendesse giuoco
di lui e di Febe.
— Difenda Numeriano la sua conquista! — disse la regina, a cui
piacevano i versi. — Egli è il prediletto delle Muse.
— Sì, canti Numeriano.
— Sentiamolo; — disse Ventidio. — Ma badi, io gli contenderò la palma
fino all'ultimo.... bicchiere!
Numeriano, colto così alla sprovveduta, non sapeva che pesci pigliare.
— Ma io non ho ancora detto di voler combattere; — diss'egli
timidamente.
E il suo sguardo andava frattanto più oltre, verso la spalliera del
letto di mezzo, donde si sentiva venire incontro come un'aria di
temporale. La dea c'era; perchè non ci sarebbe stata la nuvola?
— O Numeriano, che vuol dir ciò? — chiese Vibenna. — Ti spaventa il
competitore? E non t'incuora nemmeno la speranza del premio?
— Amici, — rispose Numeriano, — perdonate al pusillanime che vi
confessa la sua codardia. Mi dò per vinto.
— Senza scendere in campo?
— Senza scendere in campo; e griderò volentieri un evviva a Marco
Giunio Ventidio. —
La più parte dei commensali erano per menar buona a Numeriano la
sua ritirata. Ma c'era la dea nella nuvola, e non poteva mancare la
folgore. _Intonuit laevum._
— Come? Non bastano ad inspirarti gli sguardi soavi di Febe? —
chiese con ironico accento la bella e severa Delia, che aveva notato
le occhiate della sua bionda compagna a Numeriano, anche prima
dell'osservazione maliziosa di Elio Vibenna. — Così poco potere ha la
donna sul prediletto delle Muse?
— Anche tu! — esclamò Numeriano, ferito da quel sarcasmo, che non
credeva di aver meritato. — Anche tu! Ah, per Apolline, io sono
calunniato. E non son donne le Muse? — Ed io potrei macchiarmi di così
nera ingratitudine, dimenticando che la donna è la regina dei cuori,
come lo è oggi del nostro convito? —
Il lusinghiero accenno propiziò a Numeriano il cuore di Lalage.
— Bene! — diss'ella. — Cantaci dunque il regno della donna.
— Lo canterò, — rispose Numeriano, dopo un istante di pausa, in cui
parve misurare le sue forze, — lo canterò, a confusione di chi non
intende il mio cuore. —
E chiesta l'ispirazione al biondo Iddio, Numeriano incominciò:
Forma soave e splendida,
Anco ai celesti piaci,
Leda, Latona, o Danae,
Hai del Tonante i baci.
Nè t'amerà il poeta
Che anela al sacro monte?
Amor di carmi è fonte;
Fonte d'amor sei tu.
Per te il solingo genio
Beato od infelice.
Te chiede inspiratrice,
Più desiata meta
Quanto superba più.
Qual, de' mortali a strazio,
Chiuse nel cor più gelo,
Di lei che al Dio de' numeri
Nacque sorella in Delo?
Delle bellezze avare
Seppe Atteon lo sdegno,
Che, fatto a' veltri segno,
Indarno supplicò.
Ma Endimione inconscia
Fe' d'Atteon vendetta,
E là del Latmo in vetta
La nube tutelare
I divi amor celò.
Cinzia, Diana, o Delia,
Qual più nomarti hai caro,
Del cacciatore improvvido
Mi serbi il fato amaro?
O me, già fuor di spene,
Ora più lieta attende?
De' tuoi rigor l'emende
Lice sperare a me?
Non l'osa ormai l'assiduo
Dolore ai danni esperto;
E nulla chiedo e il serto
Rapito all'Ippocrene,
Bella, consacro a te.
Solo retaggio ed umile,
È pure il mio tesoro.
Poeta tuo, dimentico
Ogni più verde alloro.
Te salutar regina
È più sicuro orgoglio
Che i fasci in Campidoglio
Ed il trionfo ambir.
Ciò basti a cui s'inchinano
I vinti Medi e i Parti;
A me sol giovi amarti,
E a' piedi tuoi, divina,
Procombere e servir.
— Bene! per gli Dei immortali! — gridò Tizio Caio Sempronio,
profondamente commosso. — Diana o Delia che sia, questa donna è adorata
in forma solenne!
— Senti, Delia; — disse la regina del convito. — Tu sei debitrice d'un
bacio a Numeriano. O in premio ai suoi versi leggiadri, o in penitenza
di un falso giudizio, a tua scelta.
— Di che mi punite? — domandò la bella sdegnosa. — Di aver costretto
il poeta a cantare? Lodatemi, invece, perchè l'ode è riuscita degna di
Valerio Catullo.
— Questo paragone vai forse un bacio; — entrò a dire Ventidio.
— Non per me; — rispose prontamente Numeriano. — Del resto, io
l'accetto come uno scherzo di quelle labbra, che fanno parer
bello il sarcasmo. Valerio Catullo è un gran poeta, ed io sono uno
scolaretto. —
Quella di Numeriano era onestà, rara anche allora per un alunno delle
Muse. Ma pensate, o lettori, che Numeriano era giovane, e non aveva
anche imparato a lasciar correre tutti i giudizii che potessero nuocere
ai suoi fratelli in Apolline e far comodo a lui.
Intanto che gl'innamorati si bisticciano (poichè, già lo avrete capito,
Numeriano è invaghito di Delia ed ella lo sa da un bel pezzo), non
dimentichiamo le ultime fasi della cena.
I servi avevano portato via la mensa ed erano andati attorno coi
catini d'argento e cogli asciugamani, perchè i convitati ripulissero le
forchette, date a loro dalla madre natura, e tali perciò da non potersi
portar via sudicie, per rigovernarle in cucina.
Ciò fatto, a suon di cetre e di flauti, venne in mezzo al triclinio
la seconda mensa, bella a vedersi per la sua lastra di legno
prezioso intarsiato d'avorio e di tartaruga, con fregi d'argento, che
ricorrevano eziandio sul piede, riccamente intagliato.
Sulla seconda mensa erano già imbanditi i confetti, i dolciumi,
le torte di cotognato ed ogni generazione di frutte serbevoli. Non
mancavano tuttavia le frutte fresche, quantunque si fosse alle calende
di aprile. L'Africa e la Sicilia erano gli orti suburbani di Roma. E
qual è lo scolare di umanità che non ricorda i fichi d'Africa, portati
dal fiero Catone in Senato, come il più fresco degli argomenti a
conforto del suo eterno: _Delenda Carthago_?
Intanto si seguitava a bere. Le anfore si succedevano e non si
rassomigliavano; e i discorsi neppure; anzi, questi assai meno delle
anfore. Parlavano tutti, e bevevano a lor posta, senza aspettare i
comandi della regina. La quale, del resto, non avrebbe saputo più
darne, incalzata com'era dalle fervide orazioni di Postumio Floro, che
affogava nelle proteste d'amore il ricordo dei quarantamila sesterzi di
cui era debitore all'usuraio Cepione.
Tra Ventidio, che criticava ad alta voce tutti i poeti del tempo, e
Vibenna che incominciava ad annaspare, come uomo che caschi dal sonno,
Febe taceva, pensando a Numeriano, che mostrava di non pregiare i
suoi vezzi e di non intendere le sue languide occhiate. Glicera, dolce
come il suo nome, aiutava Caio Sempronio a ravviare la conversazione,
che procedeva a sbalzi, ad urti, a sbrendoli, come era naturale in
quell'ora. Delia, più padrona di sè che non fossero gli altri, si
schermiva destramente in quella guerra di parole, prodiga d'arguzie
e sorrisi a tutti, fuorchè al suo poeta, al povero Numeriano, che non
sapeva distogliere lo sguardo da lei.
La cena finiva, come tutte le cene dei nostri vecchi Romani, in una
gran confusione. Qualcheduno dei commensali aveva già provato ad
alzarsi, o perchè avesse il braccio indolenzito, o perchè volesse
sperimentare le sue gambe. E alle lacune avevano tenuto dietro i
cangiamenti di posto. Ventidio, sfortunato con Febe, era andato a
chiacchierare più da vicino col padrone di casa, e Numeriano si era
trovato, senza avvedersene, all'altro capo del triclinio, col gomito
timidamente appoggiato sulla spalliera del letto di mezzo, accanto al
guanciale di Delia.
— Poeta, — gli diceva la bella sdegnosa, rispondendo ad un inno in
prosa che egli le aveva bisbigliato all'orecchio, — tu piaci alle Muse,
ma io ti consiglio di ottenere anche i sorrisi di Pluto. —
A quella frecciata che lo coglieva in pieno, il povero Numeriano
impallidì.
— Hai ragione; — diss'egli poscia. — Ma è colpa mia se non son ricco?
E mi accuserai tu, — soggiunse, prevedendo ciò ch'ella avrebbe potuto
rispondergli, — se i miei occhi ti trovano bellissima tra le belle e
il mio cuore sente il bisogno di dirtelo? Si può amarti, o Delia, anche
senza aver le ricchezze.... o i debiti di Giulio Cesare.
— Ed io non chiedo tanto; — replicò sorridendo la greca. — I miei
gusti sono più modesti che tu non creda. Abborro questo sfarzo dei
tuoi concittadini, questo lusso mostruoso che rasenta la follia. Ero
nata per vivere come una giovine e mite sacerdotessa, nel tempio d'una
Dea....
— Che tu avresti fatta morire d'invidia; — interruppe Numeriano.
— Se una Dea potesse morire; — notò Delia, che le lusinghiere parole
del giovane avevano rabbonita. — Ma infine, anche a voler fare la vita
dei pastori di Teocrito, ci vuol sempre il bosco, l'orto e la casa. Non
hai pensato a questo, o poeta?
— È vero: — disse Numeriano, chinando la fronte. — Ma se tu mi lasci
sperare, l'idillio avrà la sua scena e la colomba il suo nido. —


CAPITOLO IV.
L'amico si conosce alla prova.

Numeriano prometteva nel modo usato da certi animi deboli, che buttano
le parole innanzi, per aggrapparvisi poi, e per trovare nell'obbligo di
fare una data cosa lo stimolo sufficiente alla loro irresolutezza.
Non operò diverso quel capitano, di cui non rammento più il nome, che
gittò il fodero della spada nelle file nemiche, per procacciare a sè
stesso e ai suoi soldati la necessità di andarlo a raccogliere.
Ora il nostro Publio Cinzio Numeriano aveva promesso, con tutto
il desiderio, ma senza la certezza dell'attendere. Una speranza lo
sosteneva; quella di avere il consiglio e l'aiuto (anzi, più l'aiuto
che il consiglio) di Tizio Caio Sempronio.
Certo, se qualcheduno poteva dare una mano in quel frangente al
nostro innamorato, quegli era Tizio Caio, che passava per uno dei
più facoltosi cavalieri di Roma e che amava molto il poeta Numeriano.
Forse, gli esempi di ciò che sperava, mancavano tuttavia. Mecenate era
fanciullo, nè ancora aveva regalato ad Orazio Flacco un podere nella
Sabina, nè fatto restituire a Virgilio Marone il suo campo avito sul
Mantovano. Ma il patronato letterario era già negli usi romani, fin dai
tempi di Scipione Africano e di Lelio. L'amico di Numeriano era ricco
e di buon cuore; poc'anzi aveva detto parole, che a Numeriano erano
tornate più dolci del miele; non c'era altri che lui per intenderlo,
altri che lui per soccorrerlo.
Caldo di quel disegno che gli era balenato alla mente, Numeriano cercò
degli occhi il padrone di casa. Tizio Caio Sempronio non era più nel
triclinio; ma, dalla cortina rialzata, si poteva vederlo poco lunge,
appoggiato da una colonna del peristilio.
— Andiamo; — disse Numeriano tra sè. — L'occasione è propizia, e questa
è forse una ispirazione di Venere. Tizio Caio, tu sarai la tavola di
salvezza di quest'altro Simonide. —
Così pensando, uscì dal triclinio, per accostarsi al suo protettore.
Ma, giunto appena sul limitare, vide ciò che il lembo della cortina non
gli aveva consentito a tutta prima di scorgere. Tizio Caio Sempronio
dava udienza a Postumio Floro, e il colloquio, proseguito sotto voce,
appariva molto confidenziale.
Numeriano, prudentissimo giovane, tornò frettolosamente indietro, per
aspettare a muoversi da capo, quando vedesse rientrare Postumio.
— Sì, — diceva intanto quest'ultimo a Tizio Caio Sempronio, — mi trovo
ad un brutto passo. L'usuraio Cepione non mi dà requie. Sono citato
davanti al pretore per le none di questo mese e farò una trista figura.
Tutto per quarantamila sesterzi... una miseria; non pare anche a te?
— Sicuro, — rispose Caio Sempronio; — una vera miseria! —
Lettori, date anche voi ragione a Postumio. Infatti, che cos'era il
sesterzio? Potreste insegnarlo a me; una moneta del valore di due
assi e mezzo, la quarta parte d'un denaro d'argento, e corrispondeva
a ventiquattro centesimi e dieci millesimi della moneta odierna. Nei
primi secoli di Roma il sesterzio era coniato in argento, ma più tardi
lo si era fatto d'oricalco, che è come a dire una bellissima qualità
di ottone. Diciamo dunque che Postumio aveva bisogno di quarantamila
sesterzi, poco meno di diecimila lire. Che cosa sono diecimila lire?
Una miseria per Tizio Caio Sempronio, che era ricco, e per Postumio
Floro, che non le aveva lui, ma che contava di trovarle nei forzieri
dell'amico.
Caio Sempronio stette a pensare un pochino. Diecimila lire sono una
miseria, certamente, ma una miseria che non si porta in tasca, neanche
ai dì nostri, che si ha il vantaggio inestimabile del portafogli e
della carta monetata. Bisognava dunque parlare all'arcario, servo o
liberto, che teneva i conti e soprintendeva alle entrate e alle spese
della famiglia. Ora il dover parlare di queste cose all'arcario,
è sempre stata una noia non lieve, anche ai tempi e con la beata
tranquillità di Tizio Caio Sempronio.
Ma l'amicizia non ha forse i suoi dritti? Che cosa vale il danaro a
paragone dell'amico? Non è l'amico una continuazione di noi medesimi,
un compartecipe di tutti i nostri diritti, quantunque non lo sia,
e non lo voglia essere, di tutte le nostre servitù? L'uomo non vive
dell'uomo, come il lupo del lupo? almeno, quando non ci ha di meglio
per servire al suo pasto?
Queste ed altre considerazioni di tal fatta si succedettero nella mente
del cavaliere, e la sua risoluzione fu pronta.
— Quando ti occorrono? — chiese egli a Postumio.
— Te l'ho detto, in questi giorni. Alle none di aprile dovrei essere
chiamato in giudizio e correre per le bocche di tutta Roma. Vedi che
guaio! —
Le none cadevano al cinque d'aprile; c'erano dunque appena quattro
giorni di tempo.
— Orbene, disse Caio Sempronio, — passa domani da me.
— A che ora?
— Sul meriggio; vedrò di servirti. —
Postumio Floro fece l'atto di gettargli le braccia al collo.
— Oh Caio! oh amico impareggiabile!
— Chetati, via! — disse l'altro, schermendosi dalla stretta di
Postumio. — Debbo ringraziarti io stesso di aver pensato a me in questa
occasione.
— Ma se lo dicevo io! Tu sei la fenice dei cavalieri di Roma. Te lo
dirò col verso di Catullo; nessuno osi paragonarsi a te. _Jam tibi
nullus se conferet heros._
— Veramente, non dice così, il verso di Catullo; ed io, poi, non sono
un eroe.
— Lo sei per me. Che cosa facevano gli eroi? Compievano imprese
maravigliose; purgavano le terre dai mostri, campavano gli amici
dall'Erebo. E tu non mi salvi da Cepione, mostro assai più feroce di
Cerbero? La mia gratitudine, o Caio! Abbimi tuo debitore per la vita, e
chiedimi a tua volta ogni cosa.
— Grazie, farò di non averne mestieri. Per un servizio da nulla, non
bisogna far troppo a fidanza cogli amici.
— No, te ne prego, conta su me in ogni occasione. Se tu non mi
promettessi di farlo; non accetterei oggi questo... piccolo servizio,
per quanto mi sia necessario.
— Bene, poichè tu lo vuoi, ci conterò; — disse Caio Sempronio, per
farla finita. — A domani, dunque; il mio arcario ti preparerà il danaro
numerato. —
Postumio Floro gli strinse la mano e non volle spiccarsi da lui senza
averlo abbracciato e baciato. Già, lo sapete, l'amicizia ha i suoi
dritti.
Nel triclinio, frattanto, si continuava a bere e a chiacchierare
allegramente. Non vi giurerei per altro che i discorsi fossero molto
ordinati.
Cinzio Numeriano stava persuadendo Delia dell'amor suo e delle sue
buone intenzioni, quando rientrò Postumio, con quell'aria di trionfo
che potete immaginare, e andò diritto a ripigliare il suo colloquio con
Lalage.
— Ecco il buon punto; — disse Numeriano tra sè. — Vado, e gli
espongo il caso mio. Il Massico mi ha infuso un po' di coraggio;
approfittiamone. —
Ma egli non potè mandar subito il suo disegno ad effetto. Bisognava
finire il discorso incominciato con Delia, trovare un pretesto per
allontanarsi da lei; e quando finalmente lo ebbe trovato ed uscì,
vide Caio Sempronio che passeggiava nel peristilio, ma in compagnia di
Giunio Ventidio.
— Eccone un altro! — borbottò Numeriano. — Non ci ho proprio
fortuna. —
I due peripatetici erano in assai stretto colloquio. Giunio Ventidio
doveva essere entrato in argomento _ex abrupto_. E Numeriano tornò
un'altra volta nel triclinio.
— Buon per me che Vibenna dorme; — pensò egli, guardando quell'altro,
che russava disteso sul letto; — se no, dovrei rassegnarmi ad essere il
quarto. —
Lasciamo il poeta Numeriano, che avrà qualche altra cosa da bisbigliare
all'orecchio di Delia, e teniamo dietro a Giunio Ventidio. È tanto
riscaldato nel suo colloquio col padrone di casa, che non si accorgerà
punto della nostra presenza; la quale ha, dopo tutto, il vantaggio di
essere tutta spirituale.
— Tu solo puoi liberarmi da una grave molestia; — diceva Ventidio
a Caio Sempronio. Figurati che cosa mi accade. Ho da tre mesi alle
costole quella birba matricolata di Furio Spongia, l'argentario che
sta nel Foro, alle Botteghe Vecchie. Egli mi ha imprestato in tre volte
cinquantamila danari.
— Ahi! — disse Caio Sempronio tra sè. — Ne va via uno e ne capita un
altro.
— Cioè, dico male; — proseguiva intanto Giunio Ventidio; — non mi
ha imprestato che la metà della somma. Il resto lo hanno portato
gl'interessi. Ma torna lo stesso, poichè sono cinquantamila danari che
devo, e quel furfante li vuole ad ogni costo.
— E tu non puoi restituirglieli.
— Come lo sai? — chiese Ventidio, cercando di affogare in una risata la
vergogna di quel brutto momento.
— Si capisce, per Diana! E ti si legge anche negli occhi.
— Così è, mio ottimo Caio; non posso restituire i cinquantamila danari,
se non vendo i miei orti sull'Esquilino. A te, ecco appunto un affar
d'oro.
— A me? In che modo?
— Ti cedo i miei orti; tu me li paghi quel che valgono, ed io mi libero
da quel ladro di Furio. Che te ne pare? Si combina?
— Eh, non è mica una grama pensata; — disse Caio Sempronio, respirando
un tratto, poichè vedeva allontanarsi il pericolo di una stoccata come
quella ricevuta testè da Postumio Floro; — quando si ha della terra al
sole e dei debiti alle spalle, il meglio è sempre di vender la terra e
di levarsi i debiti. Ma io, dolcissimo Ventidio, di terra ne ho già fin
troppa. Non potresti cercare un altro compratore?
— Ah, se tu mi manchi, sono un uomo spacciato.
— Come? Stiamo a vedere che ci sono io solo in tutta Roma per comperare
i tuoi orti!
— Sicuro, non ci sei che tu: o, per dire più veramente, io non vedo che
te. —
Caio Sempronio stentava a capire.
— Ragioniamo un pochino; — diss'egli.
— Ragioniamo quanto vuoi.
— Se tu non paghi i cinquantamila danari, che cosa ne avviene?
— Che Furio Spongia mi cita davanti al pretore urbano, che il pretore
mi condanna, e che i miei beni sono messi all'asta, trenta giorni dopo
la sentenza.
— I tuoi beni! Saranno gli orti alle Esquilie, non è vero? Perchè non
hai più altro al sole.
— Tu l'hai detto; non ho più altro.
— Orbene, — prosegui Caio Sempronio, cui pareva di aver trovato il
segreto dell'argomentazione socratica, — vendere domani, lasciar
vendere trenta giorni dopo la sentenza, non è forse tutt'uno? E poichè
certamente i tuoi orti varranno quella somma...
— Valgono anzi di più; — interruppe Ventidio.
— Meglio ancora, e tu puoi mettere la mano su quel che ne avanza.
— Sì, ma il disonore dell'asta pubblica, non lo conti per nulla? Se
vendo a te domani, o doman l'altro, posso dir sempre e far dire: a
Tizio Caio Sempronio questi orti piacevano; Ventidio non ha saputo
negarli all'amico. L'amicizia è una gran cosa; come far contro
all'amicizia?
— Capisco; — rispose Caio Sempronio, mettendosi sullo stesso tono di
Ventidio; — ma la taccia di cattivo gusto che ne verrebbe a me, non la
conti un pugno di ceci? Comperare i tuoi orti sull'Esquilino? presso il
tempio di Mefite? accanto al carnaio di tutta la poveraglia? —
Caio Sempronio non aveva tutti i torti. Sull'Esquilino, alle radici
del Fagutale, o bosco di faggi a Giunone Lucina, erano i _puticoli_,
sepolcri della plebe, così detti _a putrescendo_. E là per l'appunto
aveva il suo sacello Mefite, la dea del mal odore.
— Hai ragione; — rispose quell'altro; — ma gli orti Ventidiani non
sono mica da quella parte. Del resto; hai lassù i ricordi più gloriosi
di Roma; il Tigillo sororio, che rammenta la pugna degli Orazii e dei
Curiazii; il Vico Ciprio, che piacque tanto ai Sabini...
— Sì, — interruppe Caio Sempronio, — e il Vico Scellerato, con Tullia
che passa in cocchio sul cadavere insanguinato del padre.
— Vedo che hai intenzione di comperare i miei orti; — disse Ventidio. —
Li disprezzi troppo.
— No, ti ripeto, non mi vanno.
— E sia; imprestami allora il danaro.
— Peggio ancora! Cinquantamila danari? Ma sai che sono.....
cinquantamila danari? La metà della mia rendita..... d'una volta!
Amico mio, soggiunse il povero cavaliere, messo alle strette da