Terra vergine: romanzo colombiano - 15

—No, non domani, non subito;—rispose Abarima sollecita.—Per dare la sua
figlia ad un uomo, Tolteomec deve invocare il grande Spirito.
—Ah!—disse Damiano.—È il grande Spirito che fa i matrimonii, nell’isola
di Haiti?
—Sì,—rispose Abarima.—Il grande Spirito sa tutto. Il grande Spirito solo
può dire se l’unione di due creature deve essere felice.
—È naturale, se egli sa tutto;—conchiuse Damiano, un pochettino
umiliato.—E capisco che dovrò farmi divoto del grande Spirito, per
ottenere il suo responso favorevole. Ha egli i suoi ministri in terra,
ai quali si possa parlare?—
Abarima non intese la domanda. Parecchie cose non intendeva, nei
discorsi di Damiano. E ciò accadeva molto facilmente, perchè non sempre
Damiano aveva pronta la parola in lingua Haitiana, o perchè, avendo
pronta la parola, non gli veniva egualmente giusta la frase.
—Basta,—diss’egli, conchiudendo,—vedremo ad ogni modo Tolteomec. Sono
impegnato al giuoco, e intendo di guadagnar la partita.—
Poco dopo, vedendo che la bella Abarima non si muoveva dalle vicinanze
della casa, e pensando che la sua presenza poteva essere desiderata
altrove, si alzò e prese commiato.
—Che dirò a Tolteomec?—domandò la fanciulla.—Che tu ritornerai per il
pasto?
—Se potrò.... se ti farà piacere che io torni....—balbettò Damiano.
—Tolteomec sarà contentissimo;—rispose Abarima.
—Ebbene, farò questo piacere.... a Tolteomec;—conchiuse
Damiano.—Abarima, Abarima! tu non sei oggi come ieri. Ma già—soggiunse
egli, nel suo vernacolo,—son pazzo io a volere che una donna sia due
giorni alla fila dello stesso pensiero. Questa qua aspetta che il grande
Spirito abbia dato il responso. Sente il marito in aria, e si tiene in
riserbo.—
Uscito sulla piazza del villaggio, Damiano si abbattè in Cusqueia. Il
naturale di Cuba andava impettito e superbo, argomento di ammirazione a
tutti i sudditi di Guacanagari, per una camicia bianca che aveva
indossata.
Damiano non aveva mai veduto Cusqueia in quell’arnese. Non sapeva, non
avrebbe immaginato mai, che l’interpetre di Cuba possedesse una camicia.
—Ma bene, Cusqueia!—gli disse, rispondendo al suo saluto.—Chi ti ha
vestito così nobilmente?
—È stato Cosma;—rispose Cusqueia, facendosi bello.
—Cosma!—esclamò Damiano, inarcando le ciglia.—Cosma, che ha due sole
camicie nel suo fardello, come tutti noi, del resto.... Cosma ne ha data
una a te?
—Cosma buono!—rispose Cusqueia.
—Eh, non dico di no; ma quale servizio gli hai reso, per meritarti la
sua camicia..... di rispetto?—
L’interpetre, naturalmente, non capì il «rispetto» con cui i marinai
genovesi intendevano ed intendono ancora di dire «ricambio». Ma intese
sempre ad occhio e croce il pensiero di Damiano, e ingenuamente rispose:
—Cosma impara lingua di Haiti. Ieri, appena ritornato dalla fortezza,
Cosma cercò amico Cusqueia, dicendogli: voglio imparare tua lingua.
—Ieri!—esclamò Damiano.—Ieri Cosma è disceso a terra?
—Sì, Cosma disceso; Cosma salito al _bohio_ di Guacanagari; poi venuto
cercare Cusqueia, per imparare lingua di Haiti.
—Strano!—mormorò Damiano.—Ed io non l’ho veduto. È vero che io sono
andato alla fortezza un po’ tardi. Ma egli poteva andare prima di me
dall’almirante; e non c’è andato. Se ci fosse andato, me ne sarei
avveduto dai discorsi del nostro grande concittadino.—
Tutti questi ragionamenti interiori non cavavano un ragno da un buco.
Damiano rinunziò a capir la ragione della gita di Cosma.
—E tu?—diss’egli allora a Cusqueia.—Che cosa hai fatto?
—Io ho insegnato a Cosma: tante parole, come a te. Cosma le ha scritte,
coma hai fatto tu.
—Ah, bene!—borbottò Damiano;—Cosma vuol fare un gran profitto in breve
ora.—
Ma che altra novità era quella, che Cosma volesse imparare la lingua di
Haiti? Scendere a terra, senza averne accennato pur l’intenzione, non
era ancor nulla a petto dello studio d’una lingua, per cui non aveva
mostrata mai nessuna propensione. L’idea di muoversi da bordo poteva
essergli venuta lì per lì, forse per seguire e per vigilare l’amico, o
per andargli a fare un cattivo servizio presso l’almirante. Questo,
anzi, egli lo aveva lasciato capire abbastanza. Sceso a terra, si era
pentito; non aveva spiato Damiano, non aveva cercato di parlare
all’almirante; e questo vero o falso che fosse, si poteva argomentare
dal fatto. Ma imparare la lingua di quei selvaggi, e proprio sugli
ultimi giorni di dimora in quell’arcipelago, era un negozio molto più
difficile ad intendersi. Damiano non poteva aver pace, fino a tanto non
ne vedesse l’acqua chiara.
Ritornò a bordo. Cosma era là, occupato a lavare il cassero di poppa; e
pareva che esercitasse il comando, tanta era la dignità con cui
adempieva l’uffizio.
—Buon giorno;—gli disse Damiano.
Cosma alzò gli occhi, e guardò in faccia l’amico.
—Buon giorno;—gli rispose poi, adattandosi a quell’eccesso di cortesia,
che veniva sei ore dopo la diana.
—Che cos’è che mi ha detto Cusqueia?—riprese Damiano.—Tu impari la
lingua di Haiti?
—La imparo;—rispose Cosma, con breviloquenza spartana.
—E perchè.... se è lecito saperlo?
—Per due ragioni;—disse Cosma.—In primo luogo per legittimo desiderio
d’istruirmi. E poi.... te l’ho a dire?
—Dillo, in nome di Dio.
—E poi, perchè ho cambiato opinione. L’Europa dà noia anche a me.
—Ah!
—Sicuro; e ancor io voglio restare in Haiti.—


_Capitolo XIV._


In che salsa vanno accomodati gli amici quando ci guastano le uova nel
paniere.

Damiano si aspettava di tutto, fuorchè quella notizia, ricevuta così a
bruciapelo dal suo dilettissimo Cosma. O, per dire più veramente, se
anche un vago sospetto di quella novità gli era venuto allo spirito,
egli si aspettava di tutto, fuorchè di sentirselo confessare con tanta
tranquillità.
Ma perchè gli tornava così ostico che Cosma avesse deliberato di
restare? Non restava ancor egli? E non era naturale che, vedendo lui
tanto fermo nel suo proposito, Cosma avesse finito con adattarsi alla
medesima fine? Tutto considerato, si poteva ricostituire benissimo la
serie di argomentazioni per cui era passato l’amico. Da principio aveva
tentato di persuadere Damiano a ritornare in Europa; poi si era stizzito
vedendo la sua ostinazione, e aveva lasciato trapelare il disegno di
ricorrere all’autorità dell’almirante. Di lì la risoluzione di scendere
a terra anche lui, e di salire alla fortezza, dove l’almirante era
andato. Ma per via si era pentito, o perchè gli paresse che le sue
ragioni non sarebbero bastate a muovere l’almirante, o perchè temesse di
render ridicolo il suo compagno, con la esposizione di quelle ragioni. E
allora, non sapendo più a qual santo rivolgersi, era avvenuto a Cosma un
quissimile del caso del profeta Balaam, che, andato per maledire, si era
voltato di schianto a benedire. Damiano voleva restare ad ogni costo?
Ebbene, non bisognava lasciarlo solo in quella terra lontana; anche
Cosma, il vecchio amico, sarebbe rimasto laggiù; e la sua risoluzione
avrebbe fatto arrossire di vergogna l’ingrato Damiano, per cui Cosma si
disponeva ad un sacrifizio così grande.
Questa risoluzione tornava sicuramente a grande onore dell’amicizia. Si
era detto, nei tempi antichi, Damone e Pizia, Niso ed Eurialo, Oreste e
Pilade; si sarebbe detto, nei tempi moderni, Cosma e Damiano. È sempre
bene che certi tipi, belli ma antiquati, si rinnovino, in quella stessa
guisa che si rinfrescano i vecchi dipinti.
Eppure, no, la ricostituzione delle fasi psicologiche per cui poteva
esser passato Cosma, non finiva di persuadere Damiano. Egli sentiva
Cosma, da parecchio tempo, come uno che gli vogasse sul remo. Senza
volerlo, sì, forse; ma infine, non è necessario che uno sia innocente
dell’averci pestato un piede, se ci dà noia e dolore pestandolo; e tutti
abbiamo in uggia il nostro compagno di passeggiata, che, senza farlo a
posta, solo per vizio d’abitudine, ci dà l’eterno colpettino sul
braccio.
Damiano, adunque, sentiva da qualche tempo riuscir molesto l’amico. La
noia che Cosma gli aveva data in altre isole non poteva dargliela pure
in Haiti? E qui certe idee vaghe, ma dolorose, passavano per la mente di
Damiano. Abarima che sapeva il nome di Cosma.... E perchè ciò? Come
poteva ella ricordarlo, avendo veduto una volta sola, e alla sfuggita,
l’amico di Damiano, mentre questi non ricordava di averne proferito il
nome, vedendolo apparire nella sala del convito?
E poi, quel desiderio, manifestato da lei, che Cosma restasse! Gli amici
dovrebbero star sempre uniti; bella ragione! Ma deve passare per la
mente di una donna, che ami l’uno dei due? L’opposto dovrebbe essere,
precisamente l’opposto.
E finalmente, quella discesa di Cosma a terra, subito dopo di lui, ma
senza lasciarsi vedere da lui!... Abarima diventata ad un tratto così
capricciosa, che non pareva più quella del giorno innanzi!... Il rumore
venuto dal bosco, dove ella non aveva voluto più ritornare con
Damiano!... Ah, per tutti i diavoli!...
Lettori, vi è mai avvenuto di almanaccare su certi fatti che vi
riguardassero, e di cui non sapeste darvi ragione? Voi mettevate in fila
tutte le ipotesi più ragionevoli, facevate le deduzioni più logiche,
ricavandone una spiegazione naturalissima del problema che vi affaticava
lo spirito. Un matematico se ne sarebbe contentato; voi no. Voi andavate
a cercare un fatto da nulla, quasi un fuscellino dimenticato per via, e
su quello fondavate un altro ragionamento, più leggero, più sottile, più
vano. Ed era quello che vi contentava di più. Perchè ciò? perchè un vago
sospetto, un presentimento sordo, come la voce dell’istinto, vi diceva:
la traccia è quella; tutto il resto è.... logica; e la logica, in questa
materia, non serve.
—Ah, per tutti i diavoli!—aveva detto Damiano, tra sè, mentre uno
sprazzo di luce ideale gli balenava alla mente.—Se è così come io vedo,
ti aggiusto io, bell’amico.—
Quell’altro, stando sempre a capo chino, rovesciava acqua a secchie sul
tavolato del cassero, e subito dopo ripigliava a lavorare di
strofinaccio. La posizione non si poteva tenere, col pericolo continuo
di essere innaffiati come gambi di cavolo. Damiano colse l’occasione
d’uno spruzzo che gli era venuto più vicino; e borbottando ridiscese dal
cassero di poppa nella corsìa.
Ivi si trattenne un pezzo a far le volte del leone, seguitando a
svolgere la sua coroncina. Non erano avemmarie nè paternostri, come vi
potete immaginare.
—Ah sì, eh? Mi guasti le uova nel paniere? Vedrai, vedrai in che salsa
ti accomodo. Perchè, non c’è dubbio, egli ha veduta Abarima.... Questa
volta, per altro, è arrivato un po’ più tardi del solito. Sono meglio
avviato, qui, che non fossi a Cuba. Ma qui mi preme assai più di vincere
il giuoco. Fossi pazzo!... Ho detto di voler diventare l’Infante di
Haiti, il principe ereditario..... e vivaddio, lo sarò, in barba a tutti
i biondi dell’universo. Purchè quell’altra non sia rimasta stregata dai
suoi capelli d’oro!... Strano, del resto, questo capriccio delle donne,
al Nuovo Mondo! Hanno l’oro a bizzeffe, lo dànno in cambio del vetro e
del bronzo, e rimangono incantate davanti a quattro fili di quel colore.
Ma non corriamo tanto coi sospetti, via! Abarima non ha ancor lasciato
trapelare di avere di questi gusti sciocchi. Comunque sia, qui bisogna
lavorare di fine, mio caro Damiano; «qui si parrà la tua nobilitate.»,
come ha detto il poeta.—
Così mulinava Damiano dentro di sè, quando vide Cosma che scendeva dal
cassero di poppa. Non volle più rimanere, e si affacciò al capo di
banda, per chiamare una piroga delle solite, che si aggiravano intorno
alla _Nina_.
Cosma si fermò presso di lui, in atto di voler appiccare discorso. Ma
egli non aveva nessuna voglia di tenergli bordone.
—Ti saluto;—gli disse.
—Te ne vai?
—Sì, vado a terra.
—Bravo! e dàtti bel tempo.
—Che credi?—brontolò Damiano, seccato di quella licenza.—Che ci sia
solamente da sollazzarsi, a terra? Ho il mio da fare, lassù. Non debbo
anche prepararti l’alloggio?
—A me?—disse Cosma.
—Certamente. Non mi hai annunziato poc’anzi che hai mutato opinione, e
che vuoi restare alla Spagnuola anche tu?
—Ah sì, è vero;—rispose Cosma, che aveva l’aria di risovvenirsi in quel
punto.—Ma tu parlavi di un alloggio per me; ed io mi contento di poco!
—Sei camere ti bastano?
—Anche dodici.
—Benissimo; le avrai.... E la tredicesima, per il buon peso.—
Ciò detto per metà ad alta voce, e trattenendo il resto nella chiostra
dei denti, Damiano scavalcò il capo di banda e saltò nella piroga.
—Ora, facciamo giudizio;—mormorò egli mentre lo schifo scivolava leggero
sull’acqua.—Prima di tutto, niente a quella capricciosa principessa, che
possa metterla in sospetto. Già, col poco che so della lingua di Haiti,
potrei fare poco lungo discorso; non potrei di sicuro addentrarmi nelle
sottigliezze di una conversazione agrodolce.—
Prima ch’egli giungesse al _bohio_ di Guacanagari, Damiano aveva
stabilito il suo disegno di battaglia. Per verità, egli si disponeva ad
usare di tutte armi, e la coscienza gli rimordeva un pochino.
—Oh, infine!—esclamò, dando una scrollata di spalle.—La mia è difesa
legittima. Un uomo mi vuol mettere il piede addosso, ed io non devo
mandarlo a gambe levate? S’intende che io metterò mano agli estremi
spedienti solo nel caso che egli abbia veduta Abarima. Se l’ha veduta,
il suo intento di nuocermi è chiaro, ed io non debbo più usare
riguardi.—
Si, tutto bene; ma come sapere se Cosma avesse veduto Abarima?
Sospettarlo non bastava; era necessario di averne certezza. Ora, con una
donna, sia pure selvaggia, non c’è mai verso di sapere quel che vi
preme. Le accennate in coppe, vi risponde bastoni.
Poco sicuro del modo in cui avrebbe condotte le prime avvisaglie,
Damiano salì al villaggio di Guacanagari; e come fu sulla piazza, si
volse alla casa di Tolteomec. I servi stavano certamente in vedetta,
perchè due naturali, che si stavano soleggiando all’aperto, entrarono
subito in casa, e poco stante apparve il vecchio sull’uscio.
—Mandavo a cercare di te,—disse Tolteomec.—È l’ora di metterci a tavola.
—Ah si? molto bene!—rispose Damiano, affrettando il passo.
L’accoglienza festosa del vecchio gli parve di buon augurio. Entrò più
allegro nella casa ospitale.
—Purchè tu non mi stia sempre alle costole, benedetto
patriarca!—diss’egli tra sè, muovendo verso la sala del banchetto, che
era già tutta preparata come pochi giorni addietro.
Abarima comparve, più bella che mai e con un’altra ghirlanda di fiori
sulle chiome nerissime. Sorrise all’ospite, parve anche guardarlo con
attenzione, tra curiosa e benevola, come le donne usano, che non si sa
mai quale sentimento sia il vero.
Damiano, per altro, non ci badò tanto nel sottile. Era in presenza della
donna amata, la vedeva sorridere e dimenticava volentieri una parte
delle sue inquietudini. Aggiungete che a tavola trovava il medesimo
posto al fianco di Abarima, e immaginate che egli fosse molto disposto a
dimenticare anche l’altra metà.
Un pranzo non si racconta, se non quando sia da trarne occasione per
descrivere le sensazioni gastronomiche dei personaggi. Del resto, il
pranzo è sempre eccellente, fosse pur quello di un avaro, quando
l’ospite è innamorato, e siede accanto a lui la donna ch’egli ama. Se a
Damiano avessero servito in tavola un coccodrillo arrosto, metto pegno
che il nostro eroe non ci avrebbe badato. Se poi gli avessero domandato
come lo trovasse, di sicuro avrebbe risposto: squisito! Un pranzo è come
il tempo, che si tinge sempre del colore dell’anima nostra. Il cielo è
sempre azzurro, quando siamo al fianco di una cara creatura.
Or dunque, poichè torna inutile raccontarlo, finiamola con questo pranzo
di Tolteomec. Abarima si è alzata, e Damiano la segue all’aperto. Ella
prende un canestro di vimini, in cui sono parecchi manipoli di filamenti
erbacei, disseccati e tutti di variati colori; snoda due o tre manipoli,
prende alcune fila tra le dita, e si mette ad intrecciarle. È quello il
suo ricamo. Damiano vuole imparar l’arte, o dice di volerla imparare, e
prende occasione da questo suo desiderio, per aver sempre la faccia
china sul braccio della bella selvaggia.
Tolteomec stette un pochettino a vedere. Ma egli non ci aveva le stesse
ragioni, per imparare a tessere una stoia. Perciò si mosse di là, e andò
in casa a prendere alcune foglie secche, arrotolate in forma di fusi.
—Ne vuoi?—diss’egli, ritornando, e offrendo uno di quegli arnesi a
Damiano.
Damiano fece un gesto di orrore.
—No, grazie;—rispose.—non mi piace.
—Molto buono!—disse Tolteomec.—Questo discaccia dalla casa gli spiriti
della sera.
—Per cacciare i miei ci vuol altro!—rispose Damiano.
Ma egli aveva parlato nel suo vernacolo genovese. Col gesto, intanto,
ringraziava, ricusando l’offerta.
Tolteomec si fece portare dei carboni ardenti dal focolare domestico,
accese la sua foglia, e poscia si allontanò. Aveva sulla piazza i
notabili del villaggio, e se ne andava volentieri a barattare due
chiacchiere con loro. I vecchi, si sa, hanno poco a mettere del proprio
nei discorsi dei giovani. Così restarono soli sul prato Abarima e
Damiano.
—Voglio imparare a tessere le stoie;—aveva detto Damiano, stringendosi
più presso alla fanciulla.
—È facile;—rispose Abarima.—Vedi, come si fa?
—Vedo, ma bisognerebbe avere le tue mani. Con la tua sveltezza, del
resto, e con la tua grazia, credo che non lavori nessun’altra donna.—
Abarima crollò il capo, e sorrise. Damiano incominciò a pensare di
essere corso troppo innanzi coi sospetti.
E si accostava via via. Ma si accostò forse un po’ troppo, ed ella
incominciò a trarre indietro la spalla ignuda, su cui veniva a morire
l’alito caldo della belva umana. Egli finse di non avvedersi dell’atto,
e si avvicinò tanto, quanto ella si era tirata indietro. Abarima non
poteva ritirarsi dell’altro, senza rimuovere il sedile. Perciò si volse
a lui e gli disse:
—Per imparare a tessere le stoie, puoi stare anche più in là.
—Dove?—chiese Damiano.
—A questa distanza.... così.—
E fattolo alzare, lo mise a posto lei, due spanne più in là dal suo
braccio.
—Troppo lontano!—mormorò egli, con voce piagnolosa.
—Oh, basta così! Sei vicino anche troppo.—
Così dicendo, la bella Abarima sorrideva ancora. Anzi, diciamo più
veramente, sorrideva senz’altro.
Donna che ride è di buon umore, ha detto il savio. E con una donna di
buon umore si può fare a fidanza. Damiano prese animo ad entrarle in
discorso dei suoi disegni nuziali.
—Oggi dunque,—diss’egli,—parlerò a Tolteomec.
—Di che cosa?
—Del nostro matrimonio, mia cara.
—No; non ancora, ti ho detto.
—Ma perchè?—diss’egli,—Perchè questi ritardi? Ed è male, sai? Vedi tu e
giudica se non devo aver fretta, anche dopo la ragione principale
dell’amor mio per te, Abarima _taorib_. Fra pochi giorni la nostra
fortezza è finita, e il capo degli uomini bianchi fa stender le ali alla
sua grande piroga per ritornarsene.... in _Azatlan_. Prima che
l’almirante se ne vada, io vorrei potergli dare una buona novella. Gli
farei tanto piacere, a dirgli che sono il tuo sposo.—
Abarima volse la faccia sulla spalla, a guardare il suo interlocutore.
—E perchè tutto questo piacere?—domandò.
—Perchè egli mi ama, e la mia felicità deve esser la sua. Aggiungi che
egli dovrebbe assistere alle nostre nozze.
—Come te le fai vicine!—esclamò la fanciulla, con un risolino asciutto e
sarcastico.
—Ma....—disse Damiano.—Se tuo padre è contento.... mi pare....
—Ed anche se fosse contento mio padre, credi tu che le nozze, da noi, si
facciano così presto? Prima di tutto, bisognerebbe aspettare la luna
piena: poi la risposta del grande Spirito; poi....
—Oh diavolo?—esclamò Damiano, interrompendo la filastrocca.—C’è ancora
più difficoltà qui che in Europa, per metter la corda al collo di un
galantuomo!
—Che cosa hai detto?
—Niente, non badare; sono sbruffi di lingua patria, e vengono così
naturalmente alle labbra! Ma parliamo chiaro, e nella lingua di Haiti.
Vuoi, o non vuoi?—
La fanciulla rimase un istante sovra pensiero; poi brevemente rispose:
—Tolteomec comanda.—
Damiano, a sua volta, ristette un poco, masticando la sua stizza; poi,
col medesimo accento, ripigliò:
—Ma tu? che ne pensi?
—Quello che Tolteomec vuole;—rispose Abarima.
E doveva essere stizzita un pochino anche lei, perchè aveva smesso
d’intrecciar le sue fila di sparto, e guardava davanti a sè, verso la
macchia, non mostrando a Damiano che la sua guancia in isbieco.
—Perchè sfuggi il mio sguardo, Abarima?—diss’egli.
—Perchè guardo di là.
—Di là! c’è la macchia, di là; ed oltre la macchia, c’è la fontana.
—Ebbene?
Ebbene,—rispose Damiano, che perdeva la pazienza;—la fontana, presso la
quale tu hai veduto.... ier l’altro.... un altr’uomo.—
Abarima diede un sobbalzo, e si volse turbata a guardare Damiano.
—Sicuramente,—ribadì egli,—un altr’uomo; il mio compagno Cosma... il cui
nome ti è noto.
—Come lo sai?—diss’ella, fissandolo negli occhi, con un’aria di stupore.
—Il come importerebbe poco;—rispose Damiano, gustando, in mancanza di
meglio, la feroce voluttà di avere indovinato il secreto.—Ma tu immagina
pure che io lo abbia saputo dal grande Spirito. Cioè, dico male, dal
piccolo spirito. Voi altri interrogate il grande, quando la luna è
piena; noi abbiamo il piccolo, che vive con noi, e ci avverte, ad ogni
quarto di luna.—
Abarima era rimasta lì, come trasognata.
—Di tutto?—chiese ella.
—Di tutto, e d’altro ancora. Io dunque so che Cosma è venuto qua, dalla
macchia; che ti ha veduta, che ti ha parlato, e ti ha detto.... tante
belle cose, che tu non hai capite, perchè egli non ha potuto parlarti
nella tua lingua.—
Abarima si era a grado a grado riavuta dal suo alto stupore. E Damiano,
per apparirle tanto bene informato dal suo genio tutelare, incominciava
a parlare un po’ troppo.
—Il tuo piccolo spirito si è ingannato!—gridò ella, ridendo.—Il tuo
piccolo spirito ha occhi, ma non ha orecchi.
—Come sarebbe a dire?
—Che non ha orecchi, e non sa riferire quello che è stato detto,—rispose
Abarima, seguitando a ridere di gusto.
—Lascia stare gli orecchi del mio piccolo spirito;—disse Damiano,
pentito di essersi cacciato troppo avanti sulla via delle scoperte.—Sono
migliori che tu non creda. Fermiamoci agli occhi, che hanno veduto
giusto. Puoi tu negare di aver parlato a Cosma?
—No;—rispose Abarima.
—E sentiamo;—soggiunse Damiano, dopo essersi morse un pochino le
labbra;—che cosa ti è sembrato.... della sua faccia?
—_Taorib_.
—Non è vero, che è _taorib_, il mio caro amico Cosma? Sono proprio
contento che tu abbia su questo particolare la mia stessa opinione. E
quei capelli, poi....
—_Turey_.
—Eh, dovevo immaginarmelo, che li avresti giudicati _turey_. È una
maledizione, oramai. Tutte queste figliuole del nuovo mondo amano i
capegli d’oro. E quelle del vecchio, niente?... Ah, se ritorno in
Europa, com’è vero Dio, mi faccio radere come una pelle di capretto, e
mi compero una parrucca, per fare la mia bella figura tra le genti.
Vedrete allora, mie belle capricciose, che capelli d’oro filato saranno
i miei! Febo Apollo, con la sua raggiera, potrà andarsi a nascondere. Ma
ci vorrà del tempo, ad esser laggiù; e qui bisogna vederne l’acqua
chiara. Senti, Abarima, parliamoci schietto. Io sono un buon figliuolo,
e non voglio dar noia a nessuno. Sono anche capace di un atto eroico.
Tutto sta a prendermi per il mio verso, a non carezzarmi di contrappelo.
Dimmi dunque una cosa, ma sinceramente, come la diresti al sacerdote del
grande Spirito, quando vai a fare le tue divozioni. Lo ami tu?
—Io non t’intendo;—rispose Abarima, che era stata fin allora a sentirlo
con gli occhi tesi, ma non venendo a capo di nulla.
—Ti domando se ami Cosma.
—Cosma è bello;—rispose Abarima.
—E viva la tua faccia!—gridò Damiano.—Tu almeno, figlia delle isole
dell’Oceano.... Ma no, che dico io? Anche in Europa si dànno, questi
esempi d’audacia. Non creder dunque che la sincerità sia privilegio dei
tuoi paesi.
—Che dici?—chiese Abarima, che ritornava a non intendere.
—Niente, niente; i soliti sbruffi di lingua patria. Tu dunque lo ami. E
se egli chiedesse di sposarti?...—
Abarima mise un piccolo grido, abbassò le ciglia e rannicchiò il collo
tra le spalle.
—Brava!—esclamò Damiano.—Io aspettavo che tu mi rispondessi: Tolteomec
comanda.... quello che Tolteomec vuole.... il grande Spirito.... la luna
piena.... Brava la mia principessa selvaggia! Ma io ho il dolore di
doverti dire una cosa, Abarima taorib.... una cosa che ti raffredderà un
pochettino il sangue nelle vene. Il mio amico Cosma non può amare la
figliuola di Tolteomec.—
Abarima si scosse, e diede un’occhiata curiosa a Damiano.
—Come lo sai?—gli disse.
—Eh lo so;—rispose Damiano.—Lo so bene, perchè Cosma è mio amico da
tanti anni.... come fratello. L’esser venuto a vedere la bella del suo
amico, te ne faccia fede solenne. È il nostro uso, in _Azatlan_, di
vogarci sul remo, ed è prova di un affetto, di una cortesia, di una
lealtà, veramente ammirabili. Incominci a non capire? Hai ragione;
ritorno alla lingua di Haiti. Vuoi tu sapere, Abarima, perchè Cosma non
ti può amare? Vuoi tu sapere la storia della sua gioventù?
—Racconta;—disse Abarima.
Damiano si raccolse un istante, pensando.
—Vengo meno alla data parola. Ma in fine, perchè mi guasta egli le uova
nel paniere? Io sono guarito di questa passione.... sicuramente, sono
guarito.... lo voglio essere.... ho un diavolo per occhio, e non patirò
mai che mi si pestino i piedi. Animo dunque, e non usiamo riguardi.
—Racconta;—ripeteva Abarima.
—Sì, racconterò, non dubitare. Cosma, per tua regola, è innamorato di
un’altra donna; di un’altra donna, capisci?... di un’altra donna, che ha
i capelli biondi come l’oro.... anzi, più che l’oro, biondi come il
sole, quando è nel segno del Leone. Ah, che bei capelli di sole ha la
donna amata dal mio caro compagno, dal mio fratello Cosma!
—Ci sono donne con capelli d’oro, in _Azatlan_?—chiese Abarima, con aria
di stupore.
—Eh, sicuramente, mia bella. In Azatlan, oramai, non c’è altro che
capegli d’oro. E si dànno via, come le perline di vetro, come i sonagli
di bronzo. Ami una donna, in Azatlan! Glielo dici, ed ella subito si
taglia una ciocca dei suoi capelli d’oro, e te ne fa un presente.
Domanda a Cosma che ti faccia vedere quella ciocca di capelli d’oro, che
porta sempre sul cuore, entro una borsa di cuoio. Vedrai che bellezza!
Ma già, capisco che tu vorrai sapere la storia di Cosma, la storia dei
suoi amori, non è vero?—
Abarima stava con tanto d’occhi a guardarlo, come se volesse cavargli le
parole di bocca. E ne capiva così poche! Damiano s’ingegnava come
poteva, a farsi intendere; ma su cento parole ne diceva ottanta in
tutt’altro idioma da quello di Haiti.
—Incomincio,—riprese Damiano,—Il mio buon Cosma è nato a Genova. Non sai
che cosa sia Genova? È un _bohio_, come questo, ma venti, trenta volte
più grande. In quel _bohio_, che si chiama Genova, lo zio di Cosma è
doge. Sai che cosa è il doge? È il cacìco di Genova. Ci sei?
—Racconta;—disse Abarima.
—Ecco, dunque. Cosma, appena fu giunto all’età di vent’anni, volle
studiar medicina. Sai che cos’è la medicina? È l’arte di guarir le
malattie del corpo, o di lasciarle durare, aspettando che il grande
Spirito le guarisca lui. Il medico è quello che conosce la virtù delle
erbe....
—E dice le parole magiche;—soggiunse Abarima;—t’intendo.
—Oh, benedetta ragazza! Tu sei dotata di una intelligenza rara. Torniamo
dunque a Cosma. Egli partì da Genova, per andare a Pavia, dove poteva
studiare la medicina. Andare allo studio di Pavia è una vecchia