Terra vergine: romanzo colombiano - 09
nell’altro di Punta onorata. Si avvicinò al bordo della nave capitana
una grande piroga, piena di naturali, inviati da un potente cacico,
chiamato Guacanagari, che governava tutta quella parte dell’isola.
Il principale di quegli inviati portava in dono all’almirante una larga
cintura, ingegnosamente fatta di osso e di chicchi colorati, ed una
maschera di legno, i cui occhi, il naso e la lingua, erano d’oro. Recava
inoltre una imbasciata a nome del suo signore, il quale pregava che si
conducessero le due caravelle rimpetto alla sua residenza, situata sul
promontorio a cui l’almirante aveva imposto il nome di Punta Santa,
ricordato poc’anzi.
Il vento, che soffiava al traverso, non permetteva di contentare il
desiderio di Guacanagari. L’almirante pensò di restituire per intanto la
visita, e nella medesima forma che aveva usata il cacico.
—Rodrigo di Escobar,—diss’egli allo scrivano della piccola armata,—voi
siete regio notaio; a voi si pertiene di rappresentarmi in questa
circostanza, presso questo cacico Guacanagari, che dicono essere il
principe più ragguardevole di quest’isola. Volete andar voi a portargli
i miei ringraziamenti, e i miei donativi?
—Io farò in tutto secondo i comandamenti di Vostra Eccellenza;—rispose
il degno tabellione.
—E voi altri, già si capisce,—soggiunse l’almirante, volgendosi ai due
Genovesi,—come pratici di queste spedizioni, accompagnerete don Rodrigo.
—Ai vostri ordini, messere;—rispose Cosma, per sè e per l’amico Damiano.
Damiano, del resto, aveva già risposto per conto suo, dandosi una
stropicciata di mani.
—Senti,—diss’egli sottovoce a Cosma,—questa volta rifiuto i pappagalli.—
Si erano messi in cammino, Rodrigo di Escobar, due Spagnuoli, i due
Genovesi, e Cusqueia, il naturale di Cuba. I primi tre andarono insieme;
l’ultimo per dar ragione alla massima evangelica, andava innanzi a
tutti; i due Genovesi chiudevano la marcia.
—Mi sai dire, Damiano,—incominciò Cosma, quando si fu avviato il
drappello,—perchè tu sei sempre così....—
E non sapeva risolversi di finire la frase.
—Così.... come sarebbe a dire?—chiese Damiano.
—Così.... dedito agli amori;—soggiunse Cosma.—Tu non pensi più altro,
oramai.
—Non mi pare, Cosma, non mi pare. Cita dei fatti, se n’hai.
—Dei fatti, no, veramente; ma i tentativi, le intenzioni, non si contano
più. Tu pigli fuoco peggio dell’esca.
—Meglio, se mai!—disse Damiano.—Ti raccomando la proprietà della lingua.
—E meglio sia;—disse Cosma.—Tu dunque lo ammetti, di essere diventato
troppo tenero? E ti capisco, sai? ti capisco.
—Ah sì, sentiamo che cosa capisci.
—Che tu cerchi di passarla, di obliare, di affogare i tuoi dolori nelle
pazze avventure, come un altro li affogherebbe nel vino.—
Damiano stette un poco in silenzio; tanto che l’altro immaginò di
essersi apposto al vero.
—È così,—riprese Cosma,—non puoi negarlo.
—Senti,—rispose pacatamente Damiano,—t’inganni. Ma già, è il tuo
costume. Tu hai preso sempre lucciole per lanterne, mio buon amico. Ti
ricordi, a Pavia, di quella bella dama che vedevamo là, dalla Torre del
pizzo in giù? Una volta ebbe a dirtelo chiaro e tondo: Messer Gi.... oh
scusami! volevo dire: messer Cosma.... dove avete la testa? E a me la
divina signora Eleonora soggiungeva in disparte: «il vostro amico non è
mai presente a quel che dice, nè a quello che fa; perchè studia la
medicina? non potrebbe studiare l’astrologia, o la cabala?»
—Tira via!—disse Cosma.—È storia antica.
—E di tutti i giorni, per te. Le alte cagioni che la signora Eleonora
non sapeva, persistono. Tu sei l’uomo dell’unico amore, ed io non te ne
faccio le mie congratulazioni; no, perchè tu sei un malato cronico. E
vuoi che tutti siano malati come te. No, caro; io son risanato. Che cosa
t’ho a dire? avevo il petto sano, io. Sicuramente, ho sofferto ancor io
la mia parte; ma poi ho fatto un ragionamento.... Hai tu mai osservato,
Cosma, che la filosofia è la pietra di paragone dello spirito? Quando un
uomo può filosofare, è forte; quando non può più filosofare, è fritto.
—E tu hai sempre filosofato!
—No, pur troppo, non sempre. Fritto, per verità, non sono stato mai; ma
ad un bel punto di cottura, sì, quella volta sono stato, come tanti e
tanti altri. Ma poi, ho capito, ed ho riconquistata la mia freschezza di
mente. _Mens sana in corpore sano_. Infine, a qual pro’ tutte queste
pene d’amore? Un pochettino di febbre, non dico di no, tanto per
ravvivar gli occhi e dar colore alle guance. Specie quando la gioventù
incomincia a mancare. Ah, la gioventù, caro amico! quella è una gran
cosa. Fino a tanto c’è quella, non muor la speranza.
—Speranza!—disse Cosma.—Di che?
—Di passare qualche giorno allegro, che diamine! di aver l’illusione e
il gusto superficiale di tutte le cose che ad approfondirle troppo ti
dànno invece il dolore. E qui, perbacco, nel nuovo Mondo, io voglio
tante allegrezze quanti dolori mi ha cagionati il vecchio. Mi dirai che
non per questo siamo venuti di laggiù, a raggiungere il nostro
concittadino, per trovar nuova terra o affogare con lui. Ma al disegno
per cui siamo venuti, siamo stati fedeli; non ti pare? Quanto a me, se
ho adempiuta per questa parte la mia promessa, posso anche darmi bel
tempo, non vedere che il mio capriccio, non seguire che quello. Vedere,
conoscere, saper tutto quello che si può, ed abbracciare altrettanto,
ecco la vita del savio.
—Sopra tutto abbracciare!—disse Cosma.
—Eh, forse;—rispose Damiano.—Ma capisco che un uomo non basterebbe. Ah,
se tutte le donne del mondo avessero una testa sola!
—Bravo! e se in quella testa ci fossero due occhi che non ti vedessero
volentieri!...
—Taci! incomincio a credere che sia così.... anche al nuovo Mondo. E mi
pare di averne trovata la ragione, sai? L’altro giorno, vedendomi in
quel coccio di spera che ci è rimasto per guardarci le macchie sul viso,
ho notato che i miei capelli son neri. E tu sei biondo, Cosma, sei
biondo a quel dio! Ma che cosa vuol dire, che quando una donna si vede
davanti due uomini, un bruno ed un biondo, ella è molto cortese col
bruno, e molto tenera col biondo?—
Cosma rispose alla domanda con una alzata di spalle.
—Ubbie!—esclamò.
—Eh, niente ubbie, verità sacrosante. Non ti parlerò della vecchia
Europa, che m’annoia, solamente a pensarci. Ma ecco qua delle donne
nuove, degli occhi innocenti, dei vergini cuori. Che cosa fanno?
Sorridono al bruno, ma scelgono il biondo. Cosma _taorib_! E sai perchè
ti trovano _taorib_?
—Non dir sciocchezze, via! Per una che ha preso questa cantonata, c’è da
fare un trattato? Samana ha commesso l’errore; Caritaba lo ha riparato.
—Ah sì, parliamo di Caritaba! Che cosa n’ho avuto? Un pappagallo; un
pappagallo che, bontà sua, mi ha levato l’incomodo la mattina seguente,
rivolando alla spiaggia.
—E dovevi tenerlo per tutta la vita sul cuore!
—Già, per farmi beccare il costato, come un altro Prometeo! Non più
pappagalli, mio caro, nè avvoltoi, nè altre bestie che ti rodano il
cuore. Ce n’ho già abbastanza della gelosia che m’inspirano i biondi. Tu
mi guardi, Cosma? Ebbene, sì, questa è la verità; non ero geloso di te,
in Europa, e mi pare di avertelo dimostrato, da galantuomo; sono geloso
qui, dei tuoi capelli biondi e della tua aria da serafino. Anzi, senti,
volevo dirtelo l’altro giorno, e poi mi sono pentito; facciamo ancora
una prova, ho detto tra me.... Se la prova mi viene come a Bohio, ti
pregherò, caro amico.... quando ci siano spedizioni da fare, ti pregherò
con molto garbo, a discendere a terra tu solo, o di lasciare che scenda
solo io, per correre la mia ventura da solo.
—Matto!—disse Cosma, sorridendo.
—Ah sì, matto mi chiami? Così tu potessi chiamarmi biondino!
—Pure,—ripigliò Cosma,—la tua tesi non regge. Giulio Cesare, di cui
vorresti augurarti le fortune, aveva neri i capelli.
—Non mi parlar di Cesare; quello era calvo come un ginocchio; tanto che
gli permisero di metter corona d’alloro.
—Augusto, allora.
—Lascialo stare; doveva esser calvo anche lui. Non ti ricordi che
portava sempre il cappello in testa, perfino quando era nelle sue
camere, per paura d’infreddarsi? Lo racconta Svetonio. Parlami dei
biondi, Cosma; parlami d’Apollo.
—Apollo.... è il sole. Rammenta la sua bella statua di bronzo dorata,
che ammiravamo a Pavia.
—Il Regisole, sicuramente. E vorrei avere i suoi capelli d’oro, e durar
come lui. Ti vorrei vincere, allora! ti vorrei sopraffare!—
Cosma sorrideva dei pazzi discorsi di Damiano. Intanto, con quei
discorsi, non si era veduta la strada. Ma di questa si davano pensiero i
tre Spagnuoli e l’interpetre.
—Signori,—disse Rodrigo Escobar, rivolgendosi indietro,—voi siete molto
allegri, quest’oggi!
—E come no, don Rodrigo?—disse di rimando Damiano.—Si va alla corte di
Guacanagari, un re potente e ricco, che vorrà, speriamo, accoglierci
degnamente.
—E voi vi preparate all’udienza,—ripigliò l’Escobar,—parlando tra voi
una lingua.... una lingua....
—Indiavolata, volete dire? Badate, don Rodrigo: è lingua genovese, e
molto somiglia alla catalana.
—Non mi pare. Del catalano qualche cosa capisco; del vostro genovese non
capisco niente.
—Quanto avete guadagnato, don Rodrigo!—esclamò Damiano.—E quanto abbiamo
guadagnato noi!—soggiunse egli mentalmente.
Intanto erano giunti sull’erta, alla vista dell’abitato. La città di
Guacanagari sorgeva per l’appunto sovra un ripiano, il cui lembo estremo
pendeva sul dirupo a cui Cristoforo Colombo, vedendolo da lungi, aveva
imposto il nome di Punta Santa. Le case erano molte, e regolarmente
spartite, almeno sulle vie principali; ed erano case di legno, sì, ma
edificate con un certo garbo artistico, e con qualche idea di disegno,
specie per il modo in cui erano disposti i tronchi di pino, che tenevano
luogo di mura maestre.
È stato detto (da un matematico, sicuramente) che Iddio, in cielo,
geometrizza; e gli uomini, aggiungo io, gli uomini, fatti a similitudine
sua, geometrizzano in terra. Il quadrilatero, l’esagono, l’ottagono, il
circolo, il cono, son forme geometriche familiari al selvaggio; e queste
forme egli esprime naturalmente nella casa, quando incomincia a
fabbricarsene una. Il circolo e il globo sono ancora le sue forme
predilette, quando ha da foggiare il primo calice e il primo vaso di
terra. Su quella stoviglia, poi, egli imprimerà i primi segni della sua
arte bambina, in poche linee regolari, geometriche per conseguenza;
spezzate, s’intende, ma ripetute con uniformità matematica. Una cosa
sola non saprà farvi, nè seguitare, fino a che non abbia inventate le
seste: dico la linea diritta. Ma l’uomo non è nato perfetto. E poi,
anche dopo l’invenzione delle seste.... non so se mi spiego.
Le case dunque erano fatte con garbo, ed anche disposte in bell’ordine,
ognuna d’esse col suo giardino intorno: cose da selvaggi, che gli uomini
civili non si sono più curati d’imitare. Ed erano belle a vedersi da
lungi, coi loro tetti acuminati, intessuti di foglie di palma, per modo
che la pioggia vi potesse scorrer sopra, senza far visite a domicilio.
Ed erano anche belle a vedersi da vicino, con le loro finestre sotto la
gronda del tetto; talune con un terrazzino all’ingiro, talaltre coi loro
porticati a pian terreno, facilmente, anzi naturalmente ottenuti dalla
disposizione delle antenne, dei tronchi d’albero che sostenevano
l’edifizio, non avendo nel mezzo altro ingombro che una scala di bambù,
per la quale si ascendeva alle stanze, e che probabilmente all’ora del
riposo si tirava su in casa, per maggior sicurezza. Ma forse questa è
una mia supposizione, che fa onta ai costumi di quell’ottima gente.
Animali feroci, giaguari o gatti salvatici, non ce n’erano, nell’isola
di Haiti; nè l’idea di nuocere all’uomo era ancor penetrata nello
spirito dell’uomo; donde è facile indurre che quelle scale di bambù
restassero anche di nottetempo al posto loro. In qualche luogo le
antenne, o pali che vogliam dire, sparivano sotto una gaia veste di
verde; grazioso lavoro di piante rampicanti, che mandavano la pompa
delle foglie di smeraldo e i lor grappoli di fiori odorosi a rallegrare
il terrazzino soprastante. Le vie del paese erano larghe, come dovevano
essere in un luogo dove il bisogno non misurava lo spazio: e la piazza
maggiore, poi, non aveva nulla da invidiare ai villaggi d’Europa.
Questa era, veduta esternamente, la capitale di Guacanagari. Le case,
vedute di dentro, avrebbero fatto morir d’invidia, non pure le massaie
di tanti nostri villaggi, ma delle istesse città.
Il popolo, nell’ora in cui giunsero i messaggeri delle navi, era tutto
fuori dell’abitato ad accoglierli. In quella folla color di rame erano
spruzzate le gaie note del bianco e del rosso, indizio primo e sicuro
d’un principio di vestimenta. Le donne, infatti, portavano quasi tutte
certi guarnelletti di cotone, che si stringevano alla vita e non
giungevano al ginocchio, lasciando scorgere tutta la eleganza del busto
e le gambe fini e nervose. Meno coperti erano gli uomini, contenti della
lor fascia alle reni; ma essi mettevano tutta la cura dell’adornamento
mascolino nelle loro capigliature, legate a ciuffo sull’alto della
testa, un po’ verso la nuca, donde usciva a mo’ di cresta di pavone un
piccolo fascio di penne, verdi, rosse, gialle ed azzurre. Uomini e donne
avevano la carnagione d’un bel colore metallico; di rosso cupo, come la
terra di Napoli, con una velatura di lacca carminata; il color di rame,
insomma, quando lo esalta e lo rallegra la viva luce del sole. A questo
color di carnagione bisogna farci l’occhio, lo capisco ancor io; ma
domandate a Damiano, che ci si era avvezzato, e sarà capace di
rispondervi: facce pallide, guance smorte, cere d’ospedale, voi siete i
frutti d’una civiltà di stufa; venite alla Spagnuola, e vedrete di che
tinta abbia creato Domineddio il primo uomo, del quale io veramente non
so che farmi, e la sua dolce compagna, che mi preme assai più.
Diavolo d’uomo, quel Damiano! Ma sapete voi che prima d’entrare in paese
egli aveva fatti i suoi apparecchi di civetteria? In primo luogo si era
diligentemente ravviati i capelli; poi s’era arroncigliati i baffi in
forma di due rubacuori; da ultimo aveva fermate un po’ meglio nella
rivolta della berretta alcune penne di pappagallo, che il giorno innanzi
aveva ritrovate nei boschi. Sicuramente, il nostro allegro Genovese
voleva far colpo sulle belle suddite di Guacanagari. Ah, se per colmo di
fortuna fosse stato anche biondo!
Furono accolti, come al solito, da grida festose. Tutto quel popolo
acclamante si era precipitato incontro a loro, e si accalcava ai lor
fianchi, ma con rispettosa foga, se mi è lecito di accoppiare due
concetti come questi, che a tutta prima sembrano escludersi l’un
l’altro. Voglio dire, del resto, che la calca festante non si buttava in
mezzo alle persone che voleva onorare, non cercava di romperne le file,
di travolgerne, di sballottarne, di soffocarne le parti disgiunte, come
farebbe in simili casi ogni folla civile d’Europa. Sentite, i selvaggi
hanno del buono assai; quasi quasi vo sulle tracce di Damiano, mi fo
selvaggio ancor io.
Guacanagari, il cacìco della regione, sedeva nel mezzo della gran piazza
centrale, circondato da tutta la sua casa, figliuoli, donne, guerrieri e
servitori. Lo spettacolo non era senza maestà. Le lance e gli scudi,
senza alcuna traccia di metallo, non scintillavano al sole; ma nella
regolarità della loro disposizione contentavano l’occhio, mentre lo
rallegravano i vivi colori dei guarnelletti, dei mantelli, delle fasce
di cotone, che spiccavano per entro a quella massa di rame.
L’aggruppamento delle persone, poi, dava un aspetto sommamente
pittoresco alla cerimonia che stava per cominciare.
Alla vista di quell’apparecchio solenne, i messaggeri si fecero più
gravi nel volto e più composti negli atti. Rodrigo di Escobar, tutto
compreso della sua dignità di ambasciatore, come lo era sempre della sua
dignità di regio notaio, si fece avanti di due passi sulla prima fila
dei suoi colleghi. Da un lato, e in disparte, conscio dell’ufficio a cui
era destinato dalla sua parlantina, si avanzava il naturale di Cuba,
come nelle ordinanze militari il guidone a sinistra.
All’avvicinarsi dei messaggeri, e vedendo quello che veniva tutto solo
con tanta nobiltà di contegno, Guacanagari si alzò dal suo alto seggio
di bambù, e mise in atto di amicizia una mano sul cuore.
—Sei tu,—diss’egli,—il capo del figli del cielo?—
La domanda fu subito raccolta e tradotta da Cusqueia, che s’incaricò di
tradurre la risposta di Rodrigo d’Escobar:
—Non son io. Il capo dei figli del cielo deve invigilare i suoi uomini e
le sue grandi piroghe, a cui il vento contrario non permette di
avvicinarsi fino alla vista della tua sede reale. Egli manda un suo
ministro a salutarti, e a portarti il pegno di amicizia degli uomini
bianchi.
—Siano essi i ben venuti;—replicò nobilmente Guacanagari;—siano essi gli
amici miei, e di tutto il mio popolo.—
_Capitolo IX._
Come Damiano si persuase di non avere amato mai, prima d’allora.
Noi non istaremo a sentire tutti i discorsi che si fecero su quel tono,
il cacìco Guacanagari e il regio notaio Rodrigo di Escobar, essendo
intermediario il naturale di Cuba. Sono lunghi, troppo lunghi, i
discorsi che hanno bisogno d’interpetre; e per solito non sono neanche
piacevoli. Del resto, i due personaggi duravano già molta fatica a farsi
intendere dal loro intermediario, per il frastuono che si faceva intorno
a loro da una intiera tribù d’uomini, donne e fanciulli. La curiosità di
veder da vicino i figli del cielo era grande; tutti volevano
avvicinarsi, tutti volevano guardare e toccare. Sicuro, anche toccare.
Forse annettevano a quella tastatina la stessa virtù preservativa che
noi annettiamo, al toccare una santa reliquia. E per avvicinarsi tutti,
dovevano pigiarsi; per toccare, dovevano cacciarsi l’un l’altro; quei
che riuscivano ad avvicinarsi, a toccare, non si sarebbero più mossi di
là; donde gli spintoni, le grida, il tumulto, il baccano indiavolato,
che confondeva, a pochi passi di distanza, il cacico Guacanagari, il
notaio Rodrigo di Escobar, e l’interpetre Cusqueia.
Finalmente, il cacìco si alzò da sedere, volgendo da prima un gesto
autorevole, poi la parola alle turbe. Che cosa disse? Le turbe si
ritrassero umiliate: ma parecchi restarono al posto, battendo le palme
in segno di allegrezza; e subito, spartiti in manipoli, s’impadronirono
dei quattro compagni di Rodrigo di Escobar, mentre di lui s’impadroniva
il cacico in persona.
—Che cosa si vuole da noi?—gridò Damiano all’interpetre.—Che diavolo ha
detto il cacico?
—Figli del cielo, bisogna mangiare e poi riposare;—rispose
Cusqueia.—Amici consiglieri di Guacanagari condurre nelle case figli del
cielo.
—Ospitalità?—disse Damiano.—E niente banchetto nella casa reale? Tanto
meglio. E la fortuna assista ognuno di noi. Cosma mio bello, salute!—
Cosma era già nelle mani di tre o quattro persone, che lo portavano, più
che non lo conducessero, verso il lato sinistro della piazza. Damiano si
lasciò trascinare verso il lato destro. E non era neanche scontento di
quella dolce violenza; neanche scontento di vedersi per un po’ di tempo
lontano dalla eterna compagnia dei figli del cielo, suoi fratelli
amatissimi. L’amicizia è una bella cosa; ma qualche volta è pesante;
specie quando il cuore vi dice che essa non basta alla vostra felicità,
e che una.... Ma c’è egli bisogno di mettere i puntini sugli i?
Damiano era stato preso per le braccia da un vecchio, il quale gli
faceva un discorso e dei gesti vivaci. Egli non capì una parola del
discorso, ma indovinò dai gesti che la casa in cui lo avrebbero accolto
non era molto lontana. Anzi, tutt’altro, era in fondo alla piazza, e
molto vicina alla casa del re.
—Sono coi pezzi grossi;—pensò.—Cusqueia, del resto, lo ha detto: amici e
consiglieri di Guacanagari. Attento Damiano! qui bisognerà star bene in
gambe, e non far onta alla nostra eccelsa Repubblica.—
Col vecchio venivano due giovanotti, forse figliuoli, forse nipoti,
fors’anche generi del personaggio eminente. Generi!... Damiano pensò
naturalmente alle figlie. Infatti, dove son generi, son sempre
figliuole. Per contro, dove sono figliuole, non è ancor detto che i
generi abbondino.
Damiano si lasciava condurre, sorridendo alle frasi del vecchio,
sorridendo alle frasi dei giovani, sorridendo a tutti e a tutto. Si
sarebbe arrivati finalmente in qualche luogo, dov’egli potesse
continuare a sorridere, e con più gusto che allora.
E si arrivò davanti ad una capanna, la cui grandezza e l’architettura
esteriore promettevano assai. Le antenne, che salivano a sostenere il
gran tetto di palme, erano tutte vestite di gaio fogliame e di fiori,
bell’indizio di altri fiori ch’egli avrebbe ritrovati nell’interno. La
porta aveva stipiti di legno, intagliati rozzamente, ma di bella
apparenza, perchè l’intaglio era screziato di vivaci colori. In alto,
dove i grandi d’Europa mettono lo stemma e la corona, si vedeva un
bianco teschio d’animale, in mezzo ad un trofeo di frecce, spiedi, mazze
ed altre armi selvagge.
—Questo,—disse Damiano tra sè, poi ch’ebbe veduti quei simboli,—è
certamente il savio che presiede alle cose della guerra. Mi sia propizia
Minerva! Ma io, confesso il mio peccato, preferirei un’altra divinità.—
In quel mentre, una famiglia numerosa si affollava all’ingresso. E più
innanzi di tutti veniva una donna, vestita del suo guarnello bianco e di
un piccolo drappo girato ad armacollo dal fianco alle spalle.
—Che sia questa, Minerva?—pensò Damiano.—O non piuttosto la Giunone di
questo Giove sbarbato?—
Era infatti Giunone, la moglie del padrone di casa, la madre di
famiglia, che stese la mano per toccar l’ospite sulla fronte, secondo il
rito del paese, e gli diede il benvenuto con una frase ch’egli non
doveva capire.
Damiano rispose con un inchino. Ma subito gli venne un’idea luminosa.
—Qui,—disse tra sè,—onorano l’ospite a modo loro; l’ospite deve onorare
a modo suo i padroni.... e le padrone di casa.—
E fermatosi di botto sull’uscio, si volse al vecchio, lo guardò e gli
stese la mano, per dargli una stretta famosa. Poi, voltosi alla moglie
dell’ospite, prese la mano di lei, e s’inchinò, come per imprimervi un
bacio. Fece l’atto, s’intende, ma non andò fino a toccar con le labbra.
Non tutte le mani si baciano; e una bella cerimonia, uguale per tutte,
vi consente di aggiustarla come vi pare.
L’uomo era rimasto lì, in atto di osservare, studiando; si era lasciata
prender la mano, e stringere a quel modo che ho detto; e subito aveva
fatto un cenno del capo e data un’occhiata ai suoi, che pareva volesse
dire: capite? questa è l’usanza degli uomini bianchi. La donna, a sua
volta, aveva lasciato fare, notata la diversità dell’atto, e sorriso al
marito, come per dirgli: i figli del cielo fanno così, per dimostrare
l’amicizia e il rispetto. E tutti e due, guardandosi ancora, e
ammiccando, parevano accordarsi a conchiudere che il loro ospite faceva
le cerimonie secondo l’uso della sua terra; che queste cerimonie si
facevano sull’uscio, come da loro; che erano di due forme, per gli
uomini e per le donne, e volevano dire su per giù: sono l’amico del
padrone, sono il servo della padrona di casa.
Da uomo savio ed accorto, il nostro Damiano non prese altre mani, nè per
stringere, nè per baciare. Ce n’erano troppe, del resto, e di belle e di
brutte, di delicate e di ruvide. Ad un certo punto, guardandosi
intorno.... altro che mani, buon Dio! Tra vecchie e giovani, stavano a
contemplarlo due dozzine di femmine.
E si capiva che la più parte fossero ancelle della padrona, o del
padrone di casa. Ma cinque o sei, che erano in prima fila, più giovani,
e meglio adornate, si capiva ancora che fossero figliuole dei padroni di
casa, o spose dei loro figliuoli.
Tra persone che non parlano la medesima lingua, non è da far cerimonie.
Anche i naturali di Haiti intendevano questa verità elementare. E subito
condussero Damiano nella stanza più vasta, quella del focolare, che è la
più intima, e che, presso tutti i popoli primitivi, del nuovo mondo come
del vecchio, è quella in cui si ricevono gli ospiti, nella dolce
intimità del convito. Colà, su piccoli deschetti di canne, era imbandito
il pasto. Ciotole e vasi d’argilla erano disposti davanti ai commensali;
ma la parte maggiore del vasellame di tavola si componeva di zucche,
d’ogni forma, d’ogni misura, e in vari modi tagliate, per servire a
tutti gli usi, del mangiare e del bere.
Innanzi di prender posto, Damiano aveva guardato attentamente in giro. E
adocchiate le giovani donne, subito ne aveva distinta una, su cui doveva
ritornare più frequentemente il suo sguardo. Si sbagli o no, a
qualcheduna bisogna pur dare la palma, e a lei volgere la muta
adorazione, la giaculatoria degli occhi. L’attenzione di Damiano si era
fermata sopra una bellezza nascente, dal color di rame assai chiaro,
traente al roseo. Come forma, era fatta a pennello, anzi meglio, a
scalpello, se non da Fidia o da Prassitele, certo da uno dei loro più
valenti discepoli. Mi chiederete come potessero artisti greci aver
passato l’Atlantico, per modellare quella bella creatura; ed io
correggerò la mia frase dicendo che non un discepolo di Fidia o di
Prassitele, ma lo stesso maestro dei greci maestri aveva plasmata quella
creta e spiratole in fronte il soffio della vita. L’opera ci guadagnerà,
in questo cambio d’artefice, e il narratore si sarà accostato alle fonti
del vero. Quanto ad attingervi direttamente, si sa, è un altro paio di
maniche.
Debbo io dirvi della fronte breve, mezzo nascosta dai ciuffi indocili
della sua negra capigliatura? Amerei meglio parlarvi della grazia
birichina con cui portava una ghirlanda di vitalba, o d’altro fiore
consimile, al sommo della testa. E più ancora amerei parlarvi (ma
bisognerebbe farlo bene) delle sue guance floride, lucenti e morbide
come le pesche mature; guance aperte e sporgenti, a cui davano spicco
due grandi occhioni neri, maravigliosamente frangiati di ciglia e di
sopracciglia nerissime. Erano quelli i veri occhi parlanti, e dicevano,
quando ella arrovesciava un pochino la testa, per guardarvi dall’alto,
un visibilio di cose, consigliandovi naturalmente un visibilio di
pazzie. E quelle labbra tumidette, coralline, rugiadose! E quei denti
piccolini, luminosi nella loro candidezza lattea! Oh, infine, non voglio
che perdiate la testa, come il nostro amico Damiano. Vi dirò brevemente
che era dal capo alle piante un miracolo di bellezza, di salute, di
gioventù; che si vedevano e si sentivano in lei tutte le native eleganze
che si sogliono immaginare oggidì nella creola americana, e che del
resto non mancano neppure in Europa, sebbene qui un altro tipo prevalga.
Damiano era rimasto sbalordito. Ma voi sapete che questi sbalordimenti
non mettono un uomo per terra, anzi gli addoppiano le forze, ravvivando,
stimolando, aguzzando tutte le sue facoltà. Egli parlava a tutti e a
tutte, dicendo quelle frasi corte con cui si suole accompagnare il
gesto, quando si sa che solamente da questo e per questo possiamo esser
capiti. E di qua e di là si volgeva, parlando e gesticolando con quanta
più grazia poteva; ma si volgeva alla guisa degli innamorati, che, dopo
aver ben girato con gli occhi, cascano sempre a guardare in un punto, e
pare che non abbiano guardato altrove, se non per descrivere il mezzo
cerchio, e ricascare a quel punto.
La bellissima creatura aveva capito tutto quel sapiente artifizio di
occhiate. E quando gli sguardi dell’ospite, dopo aver ben girato di qua
e di là, venivano a fermarsi, a raccogliersi amorosamente su lei, si
confondeva, abbassando le ciglia. E allora le due frange nere pendevano
come lembi di velo, ad ombreggiare il sommo delle guance. Ma tosto si
rialzavano, e di sotto a quei lembi balenava un doppio raggio bianco
azzurrino, che andava diritto agli occhi dell’ospite, e dagli occhi al
cuore, per accendergli il sangue.
una grande piroga, piena di naturali, inviati da un potente cacico,
chiamato Guacanagari, che governava tutta quella parte dell’isola.
Il principale di quegli inviati portava in dono all’almirante una larga
cintura, ingegnosamente fatta di osso e di chicchi colorati, ed una
maschera di legno, i cui occhi, il naso e la lingua, erano d’oro. Recava
inoltre una imbasciata a nome del suo signore, il quale pregava che si
conducessero le due caravelle rimpetto alla sua residenza, situata sul
promontorio a cui l’almirante aveva imposto il nome di Punta Santa,
ricordato poc’anzi.
Il vento, che soffiava al traverso, non permetteva di contentare il
desiderio di Guacanagari. L’almirante pensò di restituire per intanto la
visita, e nella medesima forma che aveva usata il cacico.
—Rodrigo di Escobar,—diss’egli allo scrivano della piccola armata,—voi
siete regio notaio; a voi si pertiene di rappresentarmi in questa
circostanza, presso questo cacico Guacanagari, che dicono essere il
principe più ragguardevole di quest’isola. Volete andar voi a portargli
i miei ringraziamenti, e i miei donativi?
—Io farò in tutto secondo i comandamenti di Vostra Eccellenza;—rispose
il degno tabellione.
—E voi altri, già si capisce,—soggiunse l’almirante, volgendosi ai due
Genovesi,—come pratici di queste spedizioni, accompagnerete don Rodrigo.
—Ai vostri ordini, messere;—rispose Cosma, per sè e per l’amico Damiano.
Damiano, del resto, aveva già risposto per conto suo, dandosi una
stropicciata di mani.
—Senti,—diss’egli sottovoce a Cosma,—questa volta rifiuto i pappagalli.—
Si erano messi in cammino, Rodrigo di Escobar, due Spagnuoli, i due
Genovesi, e Cusqueia, il naturale di Cuba. I primi tre andarono insieme;
l’ultimo per dar ragione alla massima evangelica, andava innanzi a
tutti; i due Genovesi chiudevano la marcia.
—Mi sai dire, Damiano,—incominciò Cosma, quando si fu avviato il
drappello,—perchè tu sei sempre così....—
E non sapeva risolversi di finire la frase.
—Così.... come sarebbe a dire?—chiese Damiano.
—Così.... dedito agli amori;—soggiunse Cosma.—Tu non pensi più altro,
oramai.
—Non mi pare, Cosma, non mi pare. Cita dei fatti, se n’hai.
—Dei fatti, no, veramente; ma i tentativi, le intenzioni, non si contano
più. Tu pigli fuoco peggio dell’esca.
—Meglio, se mai!—disse Damiano.—Ti raccomando la proprietà della lingua.
—E meglio sia;—disse Cosma.—Tu dunque lo ammetti, di essere diventato
troppo tenero? E ti capisco, sai? ti capisco.
—Ah sì, sentiamo che cosa capisci.
—Che tu cerchi di passarla, di obliare, di affogare i tuoi dolori nelle
pazze avventure, come un altro li affogherebbe nel vino.—
Damiano stette un poco in silenzio; tanto che l’altro immaginò di
essersi apposto al vero.
—È così,—riprese Cosma,—non puoi negarlo.
—Senti,—rispose pacatamente Damiano,—t’inganni. Ma già, è il tuo
costume. Tu hai preso sempre lucciole per lanterne, mio buon amico. Ti
ricordi, a Pavia, di quella bella dama che vedevamo là, dalla Torre del
pizzo in giù? Una volta ebbe a dirtelo chiaro e tondo: Messer Gi.... oh
scusami! volevo dire: messer Cosma.... dove avete la testa? E a me la
divina signora Eleonora soggiungeva in disparte: «il vostro amico non è
mai presente a quel che dice, nè a quello che fa; perchè studia la
medicina? non potrebbe studiare l’astrologia, o la cabala?»
—Tira via!—disse Cosma.—È storia antica.
—E di tutti i giorni, per te. Le alte cagioni che la signora Eleonora
non sapeva, persistono. Tu sei l’uomo dell’unico amore, ed io non te ne
faccio le mie congratulazioni; no, perchè tu sei un malato cronico. E
vuoi che tutti siano malati come te. No, caro; io son risanato. Che cosa
t’ho a dire? avevo il petto sano, io. Sicuramente, ho sofferto ancor io
la mia parte; ma poi ho fatto un ragionamento.... Hai tu mai osservato,
Cosma, che la filosofia è la pietra di paragone dello spirito? Quando un
uomo può filosofare, è forte; quando non può più filosofare, è fritto.
—E tu hai sempre filosofato!
—No, pur troppo, non sempre. Fritto, per verità, non sono stato mai; ma
ad un bel punto di cottura, sì, quella volta sono stato, come tanti e
tanti altri. Ma poi, ho capito, ed ho riconquistata la mia freschezza di
mente. _Mens sana in corpore sano_. Infine, a qual pro’ tutte queste
pene d’amore? Un pochettino di febbre, non dico di no, tanto per
ravvivar gli occhi e dar colore alle guance. Specie quando la gioventù
incomincia a mancare. Ah, la gioventù, caro amico! quella è una gran
cosa. Fino a tanto c’è quella, non muor la speranza.
—Speranza!—disse Cosma.—Di che?
—Di passare qualche giorno allegro, che diamine! di aver l’illusione e
il gusto superficiale di tutte le cose che ad approfondirle troppo ti
dànno invece il dolore. E qui, perbacco, nel nuovo Mondo, io voglio
tante allegrezze quanti dolori mi ha cagionati il vecchio. Mi dirai che
non per questo siamo venuti di laggiù, a raggiungere il nostro
concittadino, per trovar nuova terra o affogare con lui. Ma al disegno
per cui siamo venuti, siamo stati fedeli; non ti pare? Quanto a me, se
ho adempiuta per questa parte la mia promessa, posso anche darmi bel
tempo, non vedere che il mio capriccio, non seguire che quello. Vedere,
conoscere, saper tutto quello che si può, ed abbracciare altrettanto,
ecco la vita del savio.
—Sopra tutto abbracciare!—disse Cosma.
—Eh, forse;—rispose Damiano.—Ma capisco che un uomo non basterebbe. Ah,
se tutte le donne del mondo avessero una testa sola!
—Bravo! e se in quella testa ci fossero due occhi che non ti vedessero
volentieri!...
—Taci! incomincio a credere che sia così.... anche al nuovo Mondo. E mi
pare di averne trovata la ragione, sai? L’altro giorno, vedendomi in
quel coccio di spera che ci è rimasto per guardarci le macchie sul viso,
ho notato che i miei capelli son neri. E tu sei biondo, Cosma, sei
biondo a quel dio! Ma che cosa vuol dire, che quando una donna si vede
davanti due uomini, un bruno ed un biondo, ella è molto cortese col
bruno, e molto tenera col biondo?—
Cosma rispose alla domanda con una alzata di spalle.
—Ubbie!—esclamò.
—Eh, niente ubbie, verità sacrosante. Non ti parlerò della vecchia
Europa, che m’annoia, solamente a pensarci. Ma ecco qua delle donne
nuove, degli occhi innocenti, dei vergini cuori. Che cosa fanno?
Sorridono al bruno, ma scelgono il biondo. Cosma _taorib_! E sai perchè
ti trovano _taorib_?
—Non dir sciocchezze, via! Per una che ha preso questa cantonata, c’è da
fare un trattato? Samana ha commesso l’errore; Caritaba lo ha riparato.
—Ah sì, parliamo di Caritaba! Che cosa n’ho avuto? Un pappagallo; un
pappagallo che, bontà sua, mi ha levato l’incomodo la mattina seguente,
rivolando alla spiaggia.
—E dovevi tenerlo per tutta la vita sul cuore!
—Già, per farmi beccare il costato, come un altro Prometeo! Non più
pappagalli, mio caro, nè avvoltoi, nè altre bestie che ti rodano il
cuore. Ce n’ho già abbastanza della gelosia che m’inspirano i biondi. Tu
mi guardi, Cosma? Ebbene, sì, questa è la verità; non ero geloso di te,
in Europa, e mi pare di avertelo dimostrato, da galantuomo; sono geloso
qui, dei tuoi capelli biondi e della tua aria da serafino. Anzi, senti,
volevo dirtelo l’altro giorno, e poi mi sono pentito; facciamo ancora
una prova, ho detto tra me.... Se la prova mi viene come a Bohio, ti
pregherò, caro amico.... quando ci siano spedizioni da fare, ti pregherò
con molto garbo, a discendere a terra tu solo, o di lasciare che scenda
solo io, per correre la mia ventura da solo.
—Matto!—disse Cosma, sorridendo.
—Ah sì, matto mi chiami? Così tu potessi chiamarmi biondino!
—Pure,—ripigliò Cosma,—la tua tesi non regge. Giulio Cesare, di cui
vorresti augurarti le fortune, aveva neri i capelli.
—Non mi parlar di Cesare; quello era calvo come un ginocchio; tanto che
gli permisero di metter corona d’alloro.
—Augusto, allora.
—Lascialo stare; doveva esser calvo anche lui. Non ti ricordi che
portava sempre il cappello in testa, perfino quando era nelle sue
camere, per paura d’infreddarsi? Lo racconta Svetonio. Parlami dei
biondi, Cosma; parlami d’Apollo.
—Apollo.... è il sole. Rammenta la sua bella statua di bronzo dorata,
che ammiravamo a Pavia.
—Il Regisole, sicuramente. E vorrei avere i suoi capelli d’oro, e durar
come lui. Ti vorrei vincere, allora! ti vorrei sopraffare!—
Cosma sorrideva dei pazzi discorsi di Damiano. Intanto, con quei
discorsi, non si era veduta la strada. Ma di questa si davano pensiero i
tre Spagnuoli e l’interpetre.
—Signori,—disse Rodrigo Escobar, rivolgendosi indietro,—voi siete molto
allegri, quest’oggi!
—E come no, don Rodrigo?—disse di rimando Damiano.—Si va alla corte di
Guacanagari, un re potente e ricco, che vorrà, speriamo, accoglierci
degnamente.
—E voi vi preparate all’udienza,—ripigliò l’Escobar,—parlando tra voi
una lingua.... una lingua....
—Indiavolata, volete dire? Badate, don Rodrigo: è lingua genovese, e
molto somiglia alla catalana.
—Non mi pare. Del catalano qualche cosa capisco; del vostro genovese non
capisco niente.
—Quanto avete guadagnato, don Rodrigo!—esclamò Damiano.—E quanto abbiamo
guadagnato noi!—soggiunse egli mentalmente.
Intanto erano giunti sull’erta, alla vista dell’abitato. La città di
Guacanagari sorgeva per l’appunto sovra un ripiano, il cui lembo estremo
pendeva sul dirupo a cui Cristoforo Colombo, vedendolo da lungi, aveva
imposto il nome di Punta Santa. Le case erano molte, e regolarmente
spartite, almeno sulle vie principali; ed erano case di legno, sì, ma
edificate con un certo garbo artistico, e con qualche idea di disegno,
specie per il modo in cui erano disposti i tronchi di pino, che tenevano
luogo di mura maestre.
È stato detto (da un matematico, sicuramente) che Iddio, in cielo,
geometrizza; e gli uomini, aggiungo io, gli uomini, fatti a similitudine
sua, geometrizzano in terra. Il quadrilatero, l’esagono, l’ottagono, il
circolo, il cono, son forme geometriche familiari al selvaggio; e queste
forme egli esprime naturalmente nella casa, quando incomincia a
fabbricarsene una. Il circolo e il globo sono ancora le sue forme
predilette, quando ha da foggiare il primo calice e il primo vaso di
terra. Su quella stoviglia, poi, egli imprimerà i primi segni della sua
arte bambina, in poche linee regolari, geometriche per conseguenza;
spezzate, s’intende, ma ripetute con uniformità matematica. Una cosa
sola non saprà farvi, nè seguitare, fino a che non abbia inventate le
seste: dico la linea diritta. Ma l’uomo non è nato perfetto. E poi,
anche dopo l’invenzione delle seste.... non so se mi spiego.
Le case dunque erano fatte con garbo, ed anche disposte in bell’ordine,
ognuna d’esse col suo giardino intorno: cose da selvaggi, che gli uomini
civili non si sono più curati d’imitare. Ed erano belle a vedersi da
lungi, coi loro tetti acuminati, intessuti di foglie di palma, per modo
che la pioggia vi potesse scorrer sopra, senza far visite a domicilio.
Ed erano anche belle a vedersi da vicino, con le loro finestre sotto la
gronda del tetto; talune con un terrazzino all’ingiro, talaltre coi loro
porticati a pian terreno, facilmente, anzi naturalmente ottenuti dalla
disposizione delle antenne, dei tronchi d’albero che sostenevano
l’edifizio, non avendo nel mezzo altro ingombro che una scala di bambù,
per la quale si ascendeva alle stanze, e che probabilmente all’ora del
riposo si tirava su in casa, per maggior sicurezza. Ma forse questa è
una mia supposizione, che fa onta ai costumi di quell’ottima gente.
Animali feroci, giaguari o gatti salvatici, non ce n’erano, nell’isola
di Haiti; nè l’idea di nuocere all’uomo era ancor penetrata nello
spirito dell’uomo; donde è facile indurre che quelle scale di bambù
restassero anche di nottetempo al posto loro. In qualche luogo le
antenne, o pali che vogliam dire, sparivano sotto una gaia veste di
verde; grazioso lavoro di piante rampicanti, che mandavano la pompa
delle foglie di smeraldo e i lor grappoli di fiori odorosi a rallegrare
il terrazzino soprastante. Le vie del paese erano larghe, come dovevano
essere in un luogo dove il bisogno non misurava lo spazio: e la piazza
maggiore, poi, non aveva nulla da invidiare ai villaggi d’Europa.
Questa era, veduta esternamente, la capitale di Guacanagari. Le case,
vedute di dentro, avrebbero fatto morir d’invidia, non pure le massaie
di tanti nostri villaggi, ma delle istesse città.
Il popolo, nell’ora in cui giunsero i messaggeri delle navi, era tutto
fuori dell’abitato ad accoglierli. In quella folla color di rame erano
spruzzate le gaie note del bianco e del rosso, indizio primo e sicuro
d’un principio di vestimenta. Le donne, infatti, portavano quasi tutte
certi guarnelletti di cotone, che si stringevano alla vita e non
giungevano al ginocchio, lasciando scorgere tutta la eleganza del busto
e le gambe fini e nervose. Meno coperti erano gli uomini, contenti della
lor fascia alle reni; ma essi mettevano tutta la cura dell’adornamento
mascolino nelle loro capigliature, legate a ciuffo sull’alto della
testa, un po’ verso la nuca, donde usciva a mo’ di cresta di pavone un
piccolo fascio di penne, verdi, rosse, gialle ed azzurre. Uomini e donne
avevano la carnagione d’un bel colore metallico; di rosso cupo, come la
terra di Napoli, con una velatura di lacca carminata; il color di rame,
insomma, quando lo esalta e lo rallegra la viva luce del sole. A questo
color di carnagione bisogna farci l’occhio, lo capisco ancor io; ma
domandate a Damiano, che ci si era avvezzato, e sarà capace di
rispondervi: facce pallide, guance smorte, cere d’ospedale, voi siete i
frutti d’una civiltà di stufa; venite alla Spagnuola, e vedrete di che
tinta abbia creato Domineddio il primo uomo, del quale io veramente non
so che farmi, e la sua dolce compagna, che mi preme assai più.
Diavolo d’uomo, quel Damiano! Ma sapete voi che prima d’entrare in paese
egli aveva fatti i suoi apparecchi di civetteria? In primo luogo si era
diligentemente ravviati i capelli; poi s’era arroncigliati i baffi in
forma di due rubacuori; da ultimo aveva fermate un po’ meglio nella
rivolta della berretta alcune penne di pappagallo, che il giorno innanzi
aveva ritrovate nei boschi. Sicuramente, il nostro allegro Genovese
voleva far colpo sulle belle suddite di Guacanagari. Ah, se per colmo di
fortuna fosse stato anche biondo!
Furono accolti, come al solito, da grida festose. Tutto quel popolo
acclamante si era precipitato incontro a loro, e si accalcava ai lor
fianchi, ma con rispettosa foga, se mi è lecito di accoppiare due
concetti come questi, che a tutta prima sembrano escludersi l’un
l’altro. Voglio dire, del resto, che la calca festante non si buttava in
mezzo alle persone che voleva onorare, non cercava di romperne le file,
di travolgerne, di sballottarne, di soffocarne le parti disgiunte, come
farebbe in simili casi ogni folla civile d’Europa. Sentite, i selvaggi
hanno del buono assai; quasi quasi vo sulle tracce di Damiano, mi fo
selvaggio ancor io.
Guacanagari, il cacìco della regione, sedeva nel mezzo della gran piazza
centrale, circondato da tutta la sua casa, figliuoli, donne, guerrieri e
servitori. Lo spettacolo non era senza maestà. Le lance e gli scudi,
senza alcuna traccia di metallo, non scintillavano al sole; ma nella
regolarità della loro disposizione contentavano l’occhio, mentre lo
rallegravano i vivi colori dei guarnelletti, dei mantelli, delle fasce
di cotone, che spiccavano per entro a quella massa di rame.
L’aggruppamento delle persone, poi, dava un aspetto sommamente
pittoresco alla cerimonia che stava per cominciare.
Alla vista di quell’apparecchio solenne, i messaggeri si fecero più
gravi nel volto e più composti negli atti. Rodrigo di Escobar, tutto
compreso della sua dignità di ambasciatore, come lo era sempre della sua
dignità di regio notaio, si fece avanti di due passi sulla prima fila
dei suoi colleghi. Da un lato, e in disparte, conscio dell’ufficio a cui
era destinato dalla sua parlantina, si avanzava il naturale di Cuba,
come nelle ordinanze militari il guidone a sinistra.
All’avvicinarsi dei messaggeri, e vedendo quello che veniva tutto solo
con tanta nobiltà di contegno, Guacanagari si alzò dal suo alto seggio
di bambù, e mise in atto di amicizia una mano sul cuore.
—Sei tu,—diss’egli,—il capo del figli del cielo?—
La domanda fu subito raccolta e tradotta da Cusqueia, che s’incaricò di
tradurre la risposta di Rodrigo d’Escobar:
—Non son io. Il capo dei figli del cielo deve invigilare i suoi uomini e
le sue grandi piroghe, a cui il vento contrario non permette di
avvicinarsi fino alla vista della tua sede reale. Egli manda un suo
ministro a salutarti, e a portarti il pegno di amicizia degli uomini
bianchi.
—Siano essi i ben venuti;—replicò nobilmente Guacanagari;—siano essi gli
amici miei, e di tutto il mio popolo.—
_Capitolo IX._
Come Damiano si persuase di non avere amato mai, prima d’allora.
Noi non istaremo a sentire tutti i discorsi che si fecero su quel tono,
il cacìco Guacanagari e il regio notaio Rodrigo di Escobar, essendo
intermediario il naturale di Cuba. Sono lunghi, troppo lunghi, i
discorsi che hanno bisogno d’interpetre; e per solito non sono neanche
piacevoli. Del resto, i due personaggi duravano già molta fatica a farsi
intendere dal loro intermediario, per il frastuono che si faceva intorno
a loro da una intiera tribù d’uomini, donne e fanciulli. La curiosità di
veder da vicino i figli del cielo era grande; tutti volevano
avvicinarsi, tutti volevano guardare e toccare. Sicuro, anche toccare.
Forse annettevano a quella tastatina la stessa virtù preservativa che
noi annettiamo, al toccare una santa reliquia. E per avvicinarsi tutti,
dovevano pigiarsi; per toccare, dovevano cacciarsi l’un l’altro; quei
che riuscivano ad avvicinarsi, a toccare, non si sarebbero più mossi di
là; donde gli spintoni, le grida, il tumulto, il baccano indiavolato,
che confondeva, a pochi passi di distanza, il cacico Guacanagari, il
notaio Rodrigo di Escobar, e l’interpetre Cusqueia.
Finalmente, il cacìco si alzò da sedere, volgendo da prima un gesto
autorevole, poi la parola alle turbe. Che cosa disse? Le turbe si
ritrassero umiliate: ma parecchi restarono al posto, battendo le palme
in segno di allegrezza; e subito, spartiti in manipoli, s’impadronirono
dei quattro compagni di Rodrigo di Escobar, mentre di lui s’impadroniva
il cacico in persona.
—Che cosa si vuole da noi?—gridò Damiano all’interpetre.—Che diavolo ha
detto il cacico?
—Figli del cielo, bisogna mangiare e poi riposare;—rispose
Cusqueia.—Amici consiglieri di Guacanagari condurre nelle case figli del
cielo.
—Ospitalità?—disse Damiano.—E niente banchetto nella casa reale? Tanto
meglio. E la fortuna assista ognuno di noi. Cosma mio bello, salute!—
Cosma era già nelle mani di tre o quattro persone, che lo portavano, più
che non lo conducessero, verso il lato sinistro della piazza. Damiano si
lasciò trascinare verso il lato destro. E non era neanche scontento di
quella dolce violenza; neanche scontento di vedersi per un po’ di tempo
lontano dalla eterna compagnia dei figli del cielo, suoi fratelli
amatissimi. L’amicizia è una bella cosa; ma qualche volta è pesante;
specie quando il cuore vi dice che essa non basta alla vostra felicità,
e che una.... Ma c’è egli bisogno di mettere i puntini sugli i?
Damiano era stato preso per le braccia da un vecchio, il quale gli
faceva un discorso e dei gesti vivaci. Egli non capì una parola del
discorso, ma indovinò dai gesti che la casa in cui lo avrebbero accolto
non era molto lontana. Anzi, tutt’altro, era in fondo alla piazza, e
molto vicina alla casa del re.
—Sono coi pezzi grossi;—pensò.—Cusqueia, del resto, lo ha detto: amici e
consiglieri di Guacanagari. Attento Damiano! qui bisognerà star bene in
gambe, e non far onta alla nostra eccelsa Repubblica.—
Col vecchio venivano due giovanotti, forse figliuoli, forse nipoti,
fors’anche generi del personaggio eminente. Generi!... Damiano pensò
naturalmente alle figlie. Infatti, dove son generi, son sempre
figliuole. Per contro, dove sono figliuole, non è ancor detto che i
generi abbondino.
Damiano si lasciava condurre, sorridendo alle frasi del vecchio,
sorridendo alle frasi dei giovani, sorridendo a tutti e a tutto. Si
sarebbe arrivati finalmente in qualche luogo, dov’egli potesse
continuare a sorridere, e con più gusto che allora.
E si arrivò davanti ad una capanna, la cui grandezza e l’architettura
esteriore promettevano assai. Le antenne, che salivano a sostenere il
gran tetto di palme, erano tutte vestite di gaio fogliame e di fiori,
bell’indizio di altri fiori ch’egli avrebbe ritrovati nell’interno. La
porta aveva stipiti di legno, intagliati rozzamente, ma di bella
apparenza, perchè l’intaglio era screziato di vivaci colori. In alto,
dove i grandi d’Europa mettono lo stemma e la corona, si vedeva un
bianco teschio d’animale, in mezzo ad un trofeo di frecce, spiedi, mazze
ed altre armi selvagge.
—Questo,—disse Damiano tra sè, poi ch’ebbe veduti quei simboli,—è
certamente il savio che presiede alle cose della guerra. Mi sia propizia
Minerva! Ma io, confesso il mio peccato, preferirei un’altra divinità.—
In quel mentre, una famiglia numerosa si affollava all’ingresso. E più
innanzi di tutti veniva una donna, vestita del suo guarnello bianco e di
un piccolo drappo girato ad armacollo dal fianco alle spalle.
—Che sia questa, Minerva?—pensò Damiano.—O non piuttosto la Giunone di
questo Giove sbarbato?—
Era infatti Giunone, la moglie del padrone di casa, la madre di
famiglia, che stese la mano per toccar l’ospite sulla fronte, secondo il
rito del paese, e gli diede il benvenuto con una frase ch’egli non
doveva capire.
Damiano rispose con un inchino. Ma subito gli venne un’idea luminosa.
—Qui,—disse tra sè,—onorano l’ospite a modo loro; l’ospite deve onorare
a modo suo i padroni.... e le padrone di casa.—
E fermatosi di botto sull’uscio, si volse al vecchio, lo guardò e gli
stese la mano, per dargli una stretta famosa. Poi, voltosi alla moglie
dell’ospite, prese la mano di lei, e s’inchinò, come per imprimervi un
bacio. Fece l’atto, s’intende, ma non andò fino a toccar con le labbra.
Non tutte le mani si baciano; e una bella cerimonia, uguale per tutte,
vi consente di aggiustarla come vi pare.
L’uomo era rimasto lì, in atto di osservare, studiando; si era lasciata
prender la mano, e stringere a quel modo che ho detto; e subito aveva
fatto un cenno del capo e data un’occhiata ai suoi, che pareva volesse
dire: capite? questa è l’usanza degli uomini bianchi. La donna, a sua
volta, aveva lasciato fare, notata la diversità dell’atto, e sorriso al
marito, come per dirgli: i figli del cielo fanno così, per dimostrare
l’amicizia e il rispetto. E tutti e due, guardandosi ancora, e
ammiccando, parevano accordarsi a conchiudere che il loro ospite faceva
le cerimonie secondo l’uso della sua terra; che queste cerimonie si
facevano sull’uscio, come da loro; che erano di due forme, per gli
uomini e per le donne, e volevano dire su per giù: sono l’amico del
padrone, sono il servo della padrona di casa.
Da uomo savio ed accorto, il nostro Damiano non prese altre mani, nè per
stringere, nè per baciare. Ce n’erano troppe, del resto, e di belle e di
brutte, di delicate e di ruvide. Ad un certo punto, guardandosi
intorno.... altro che mani, buon Dio! Tra vecchie e giovani, stavano a
contemplarlo due dozzine di femmine.
E si capiva che la più parte fossero ancelle della padrona, o del
padrone di casa. Ma cinque o sei, che erano in prima fila, più giovani,
e meglio adornate, si capiva ancora che fossero figliuole dei padroni di
casa, o spose dei loro figliuoli.
Tra persone che non parlano la medesima lingua, non è da far cerimonie.
Anche i naturali di Haiti intendevano questa verità elementare. E subito
condussero Damiano nella stanza più vasta, quella del focolare, che è la
più intima, e che, presso tutti i popoli primitivi, del nuovo mondo come
del vecchio, è quella in cui si ricevono gli ospiti, nella dolce
intimità del convito. Colà, su piccoli deschetti di canne, era imbandito
il pasto. Ciotole e vasi d’argilla erano disposti davanti ai commensali;
ma la parte maggiore del vasellame di tavola si componeva di zucche,
d’ogni forma, d’ogni misura, e in vari modi tagliate, per servire a
tutti gli usi, del mangiare e del bere.
Innanzi di prender posto, Damiano aveva guardato attentamente in giro. E
adocchiate le giovani donne, subito ne aveva distinta una, su cui doveva
ritornare più frequentemente il suo sguardo. Si sbagli o no, a
qualcheduna bisogna pur dare la palma, e a lei volgere la muta
adorazione, la giaculatoria degli occhi. L’attenzione di Damiano si era
fermata sopra una bellezza nascente, dal color di rame assai chiaro,
traente al roseo. Come forma, era fatta a pennello, anzi meglio, a
scalpello, se non da Fidia o da Prassitele, certo da uno dei loro più
valenti discepoli. Mi chiederete come potessero artisti greci aver
passato l’Atlantico, per modellare quella bella creatura; ed io
correggerò la mia frase dicendo che non un discepolo di Fidia o di
Prassitele, ma lo stesso maestro dei greci maestri aveva plasmata quella
creta e spiratole in fronte il soffio della vita. L’opera ci guadagnerà,
in questo cambio d’artefice, e il narratore si sarà accostato alle fonti
del vero. Quanto ad attingervi direttamente, si sa, è un altro paio di
maniche.
Debbo io dirvi della fronte breve, mezzo nascosta dai ciuffi indocili
della sua negra capigliatura? Amerei meglio parlarvi della grazia
birichina con cui portava una ghirlanda di vitalba, o d’altro fiore
consimile, al sommo della testa. E più ancora amerei parlarvi (ma
bisognerebbe farlo bene) delle sue guance floride, lucenti e morbide
come le pesche mature; guance aperte e sporgenti, a cui davano spicco
due grandi occhioni neri, maravigliosamente frangiati di ciglia e di
sopracciglia nerissime. Erano quelli i veri occhi parlanti, e dicevano,
quando ella arrovesciava un pochino la testa, per guardarvi dall’alto,
un visibilio di cose, consigliandovi naturalmente un visibilio di
pazzie. E quelle labbra tumidette, coralline, rugiadose! E quei denti
piccolini, luminosi nella loro candidezza lattea! Oh, infine, non voglio
che perdiate la testa, come il nostro amico Damiano. Vi dirò brevemente
che era dal capo alle piante un miracolo di bellezza, di salute, di
gioventù; che si vedevano e si sentivano in lei tutte le native eleganze
che si sogliono immaginare oggidì nella creola americana, e che del
resto non mancano neppure in Europa, sebbene qui un altro tipo prevalga.
Damiano era rimasto sbalordito. Ma voi sapete che questi sbalordimenti
non mettono un uomo per terra, anzi gli addoppiano le forze, ravvivando,
stimolando, aguzzando tutte le sue facoltà. Egli parlava a tutti e a
tutte, dicendo quelle frasi corte con cui si suole accompagnare il
gesto, quando si sa che solamente da questo e per questo possiamo esser
capiti. E di qua e di là si volgeva, parlando e gesticolando con quanta
più grazia poteva; ma si volgeva alla guisa degli innamorati, che, dopo
aver ben girato con gli occhi, cascano sempre a guardare in un punto, e
pare che non abbiano guardato altrove, se non per descrivere il mezzo
cerchio, e ricascare a quel punto.
La bellissima creatura aveva capito tutto quel sapiente artifizio di
occhiate. E quando gli sguardi dell’ospite, dopo aver ben girato di qua
e di là, venivano a fermarsi, a raccogliersi amorosamente su lei, si
confondeva, abbassando le ciglia. E allora le due frange nere pendevano
come lembi di velo, ad ombreggiare il sommo delle guance. Ma tosto si
rialzavano, e di sotto a quei lembi balenava un doppio raggio bianco
azzurrino, che andava diritto agli occhi dell’ospite, e dagli occhi al
cuore, per accendergli il sangue.
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