Terra vergine: romanzo colombiano - 01
ROMANZO COLOMBIANO
di
Anton Giulio Barrili
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1903
*Quinto migliaio.*
PROPRIETÀ LETTERARIA
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
tutti i paesi, non escluso il regno di Svezia e Norvegia._
A evitare confusioni di bibliografi e di librai, si avverte che
questo nuovo romanzo Colombiano, che fa seguito a _Le due
Beatrici_, è lo stesso che sotto il titolo di _Cosma e Damiano_
ebbe una prima pubblicazione nelle appendici del _Caffaro_ di
Genova.
Tip. Fratelli Treves.
————
INDICE
· I. In alto mare.
· II. Getta l’àncora e spera in Dio.
· III. Di una bella sconosciuta che mandò a Cristoforo Colombo un ramo
di spino fiorito.
· IV. Le maraviglie della terra promessa.
· V. Il sogno di Damiano.
· VI. Il primo sigaro fumato nel nuovo mondo da un abitante del
vecchio.
· VII. Si cerca Babeque, si smarrisce la Pinta, e si ritrova Haiti.
· VIII. Nel quale si ripete su per giù la medesima storia.
· IX. Come Damiano si persuase di non avere amato mai, prima d’allora.
· X. Chi piange e chi ride.
· XI. Come una debolezza di Damiano andasse a finire in una fortezza.
· XII. Una nave che va, e l’altra che viene.
· XIII. Come andò che Cosma si risolvesse ad imparare la lingua di
Haiti.
· XIV. In che salsa vanno accomodati gli amici quando ci guastano le
uova nel paniere.
· XV. Come fu inaugurata e presidiata la fortezza del Natale.
· XVI. Dove può condur le ragazze brune il soverchio amore del biondo.
· XVII. Come la vista delle Sirene svegliasse l’ingegno di Ulisse.
· XVIII. In fretta e in furia.
· XIX. Il commiato.
TERRA VERGINE
_Capitolo Primo._
In alto mare.
Quelli de’ nostri lettori che mettono il venerdì tra i giorni nefasti,
sono pregati a non citare tra gli esempi a conforto della loro opinione
il giorno scelto, o accettato da messer Cristoforo Colombo, per dar
principio al suo primo viaggio di scoperta. Diciamo la loro opinione, e
non la loro superstizione; primieramente perchè non vogliamo essere
scortesi con nessuno, e in secondo luogo perchè non crediamo a questa
facile asseveranza moderna che gabella per superstizioni le idee di cui
non può darsi una ragione. Se dunque i nostri lettori hanno di queste
idee, ed amano tenersele, non saremo noi che ci proveremo a combatterle.
Uomini insigni con idee di tal fatta ce ne sono stati parecchi, e ce ne
saranno ancora, se Dio vuole. Il savio, che vede assumer forma di verità
e grado di certezza tante cose che ieri ancora sapevano di bugia,
d’invenzione, d’illusione e via discorrendo, non bolla di nomi derisorii
le cose che non intende, o che gli paiono escire dalla cerchia delle
verità riconosciute: per contro, diffida di queste ultime, non s’impegna
a sostenere che saranno verità domani, come sembrano oggi.
Così ragionando, si può ammettere benissimo che ci siano dei giorni
nefasti, o per tutti o per qualcheduno. Ma è permesso di credere che il
venerdì, tanto calunniato, non sia tra quei giorni. Io, se debbo
interrogare la mia particolare esperienza in proposito, ho il venerdì
per un giorno buono. E per buono doveva averlo messer Cristoforo
Colombo, che la mattina del 3 agosto 1492, essendo un venerdì, si
avviava da Palos per il suo viaggio di scoperta, con tre caravelle,
quasi con tre gusci di noce, e centoventi uomini d’equipaggio, tra
marinai, soldati, ufficiali di bordo e sopraccarichi. Voi non ignorate
che si chiamano sopraccarichi, in una nave, tutti i personaggi che ci
sono imbarcati, senza avere un uffizio particolare, di comando o
d’ubbidienza, nella nave anzidetta.
Ben altri pensieri, ben altri dubbi e timori occupavano lo spirito del
navigatore Genovese, che il terrore della partenza in venerdì. Due di
quei gusci di noce erano stati presi ed allestiti per ordine regio, come
a dire per forza. E per forza erano stati imbarcati in gran parte i suoi
marinai. Un primo esempio di sorda resistenza gli aveva dimostrato come
egli potesse far poco assegnamento su quella marinaresca, allorquando
era stato male aggiustato alla _Pinta_ il timone, per modo che al primo
colpo di mare dovesse spiccarsi dalla poppa, mettendo la caravella in
istato di non più governare. Oramai si era in acqua, e bisognava
navigare. Ma non poteva ancora il mal talento studiarne
qualchedun’altra, per far ritornare indietro le navi? La paura è tanto
ingegnosa! E l’almirante del mare Oceano ricordava a proposito che
un’altra caravella mandata celatamente dai Portoghesi sulla rotta
indicata da lui, per rubargli la gloria della scoperta, non era tornata
a Lisbona per poca voglia che avesse il suo comandante di andare
innanzi, ma per deliberato proposito della ciurma ribelle.
Una cosa era necessaria, perchè niente di simile accadesse a Cristoforo
Colombo: che tra la sua piccola squadra navale e le famose colonne
d’Ercole corressero leghe marine a parecchie centinaia. Ma come sperare
che quei marinai, costretti a navigare per forza, si adattassero a fare,
senza un tentativo di ribellione, parecchie centinaia di leghe? E se la
ribellione ci fosse stata, e se le navi avessero dovuto dar volta, che
vergogna per lui! quale impossibilità di tentare in altra occasione e
con altre forze navali il viaggio! Egli, a buon conto, per non lasciare
troppe armi alla resistenza della sua gente, aveva subito immaginato di
non segnare sul libro di stima il numero esatto delle leghe percorse,
tenendo il computo vero per sè. Ma quanti altri argomenti di rivolta
alla sua autorità non avrebbe offerti la paura a quegli uomini rozzi,
ignoranti, che egli aveva raccolti a furia, non scelti diligentemente
tra i migliori della classe marinara?
Queste cose pensava Cristoforo Colombo; e queste cose non lo facevano
lieto, non gli lasciavano gustare pienamente, come avrebbe potuto e
dovuto, il gaudio onesto della sua sudata vittoria su tante contrarietà,
su tanta guerra d’uomini e cose. Nè i suoi sospetti erano vani. La
mattina del 6 agosto, un lunedì, terzo giorno del viaggio, la _Pinta_
fece il segnale di non poter proseguire il cammino, avendo spezzato il
timone; proprio quel timone che sulla spiaggia di Palos era stato così
male aggiustato alla poppa. Gomez Rascon e Cristoval Quintero, padroni
della nave, che era senza fallo la migliore delle tre, tornavano dunque
alla riscossa con le loro alzate d’ingegno?
Del malvagio proposito non dubitava l’almirante, mentre governava verso
la _Pinta_ per recarle soccorso. Ma il vento soffiava gagliardo, il mare
ruggiva, e con quel tempo era più facile investire la _Pinta_ che
accostarsi al suo bordo. Per fortuna, il comandante della nave era
Martino Alonzo Pinzon, e questi non era della opinione dei padroni, in
materia di parziali avarie.
—Almirante!—gridò egli dal capo di banda,—non temete di nulla. Leverò io
la voglia a tutti di guastare un’altra volta il timone, dandone la barra
sulla testa al primo che parlerà di ritornarsene indietro. Per ora il
timone sarà accomodato con quattro giri di gomena; e poi si vedrà.
Magari zoppicando, seguiteremo la capitana. Ma io consiglierei, salvo il
parer vostro, di appoggiare alle Canarie, per provvedere un po’ meglio a
questa rottura.—
Non era intenzione dell’almirante di far sosta alle Canarie, come a
nessun’altra isola o costa di quei paraggi. Ma bisognava chinar la testa
al destino, e seguitare i consigli della prudenza. Il giorno appresso,
non era più questione di prudenza, ma di assoluta necessità. La _Pinta_,
di sicuro, era stata male raddobbata, e per il fasciame sconnesso
incominciava a far acqua. La legatura del timone si era anche
rallentata, e la caravella governava male da capo. La _Santa Maria_ e la
_Nina_ dovettero diminuire la tela, per serrar meno vento, e andar di
conserva con la povera zoppa. E l’almirante, non che risolversi di far
sosta alle Canarie, pensò che gli sarebbe convenuto cercare laggiù
un’altra caravella, per liberarsi da quella nave, che incominciava a
parergli un vero castigo di Dio.
Ma perchè andare alle Canarie? Quelle isole erano ancora molto lontane.
Non era meglio ritornare indietro, coi due legni che ancora reggevano al
mare, e sui quali si sarebbe potuto trasbordare tutta la gente e il
carico della _Pinta_, perchè questa seguitasse come poteva, magari presa
a rimorchio? Era questo il pensiero dei marinai, confortato dalla
opinione dei piloti. Alcuni di essi, come Pedro Alonzo Nino e Sancio
Ruiz della _Nina_, stimavano sicuramente di essere molto distanti dalle
Canarie. Forse meno sincero, perchè più desideroso del ritorno, era
Bartolomeo Roldan, altro pilota della _Nina_. Ma niente affatto sincero,
e più caldo sostenitore della grande distanza, era Perez Matteo Hernèa,
pilota della _Santa Maria_. Costui incominciava ben presto a far prova
del suo mal animo contro il comandante supremo, che egli non si peritava
di giudicare, sebbene ancor sotto voce, un ambizioso impostore.
Ma il comandante della _Pinta_, della nave zoppa, aveva manifestato egli
stesso il proposito di appoggiare alle Canarie, e per conseguenza di
proseguire il cammino fin là. Con Martino Alonzo Pinzon, marinaio
esperto e ben veduto dall’equipaggio, non si poteva lottare; specie
quando minacciava di ricorrere agli argomenti _ad hominem_. Più calmo,
ma più sicuro nella sua nautica dottrina, Cristoforo Colombo aveva
detto:—V’ingannate, nella vostra stima; le isole sono anzi vicinissime.
Tra domani o doman l’altro, le avvisteremo di certo.—
Il fatto seguì com’egli aveva annunziato. Sull’alba del giorno nove, si
scorgevano le vette della Gran Canaria. Disgraziatamente, ora per troppo
vento, ora per troppo poco, non era possibile l’approdo. Si stette due
giorni in attesa di una propizia occasione, ma invano; e l’almirante,
non volendo perder tempo a bordeggiare in quelle acque, si lasciò
addietro la _Pinta_, ordinando a Martino Alonzo Pinzon di approdare
quando potesse, e di cercare un’altra nave, per dare il cambio alla sua.
Egli intanto andava con le altre due caravelle alla Gomera, per il
medesimo intento. E giunse alla Gomera nel pomeriggio del 12 agosto
udendovi con sua grande consolazione che s’aspettava di giorno in giorno
una buona nave, andata per l’appunto alla Gran Canaria.
—Aspettiamo dunque con fiducia;—aveva detto l’almirante.—Se la buona
nave è a quell’ancoraggio, Martino Alonzo l’ha trovata, l’ha presa, e
viene con essa a raggiungermi.—
Ma lo aspettò invano. E stanco di aspettare, partì il 23 per andare
incontro al compagno. Giunse il 25 alla Gran Canaria. Martino Alonzo
Pinzon non v’era giunto che il giorno prima, e stentatamente; udendo da
quegli abitanti che la nave c’era stata, ma che da parecchi giorni ne
era partita, nè si sapeva per dove.
Bisognava rinunziare ad ogni speranza di barattare la nave, e lì per lì
provvedere invece a rimettere in sesto la _Pinta_. Martino Alonzo Pinzon
mandò a terra i mastri d’ascia per cercare il legname adatto e tagliare
alla svelta un altro timone. Frattanto, poichè la sua caravella faceva
acqua, i marinai si mutarono in calafati, e si diedero a fabbricare con
vecchi cavi disfatti le stoppe catramate, che con scalpelli e mazzuoli
dovevano poi ficcare nei comenti del fasciame, nelle ossature, nei nodi
del legname, intorno ai cavicchi, e dovunque bisognasse, ricoprendo poi
ogni cosa di pece.
La _Nina_ approfittò di tutto quel tempo per cambiar velatura. Le sue
vele latine si mutarono in quadre, e alle antenne, per conseguenza,
furono sostituiti i pennoni. Per tal guisa, di caravella che era, e
somigliante ad uno sciabecco, si trasformò in una specie di brigantino a
palo. Quanto alla velatura, s’intende; non già quanto alla alberatura.
Le caravelle portavano bensì tre alberi, il trinchetto, l’albero di
maestra e l’albero di mezzana, ma quest’ultimo era assai più avanzato
sulla poppa e più corto che non sia nei brigantini a palo d’oggidì;
d’onde la conseguenza che non fosse molto larga la vela, artimone o
mezzana che vi piaccia chiamarla, nella sua forma triangolare e latina,
oppure randa di poppa, nella sua forma quadra.
Quando la _Nina_ spiegò al vento la sua velatura nuova, dovette
affrontare i giudizi delle altre navi, che l’aspettavano per muovere di
conserva con lei. Il marinaio è criticatore per eccellenza; figuratevi
se poteva essere risparmiata la _Nina_, il giorno che si presentò in
riga così trasformata. La critica alle sue vele fu come un sorriso, il
primo, in mezzo a tanti giorni di nera malinconia.
—Sarà bella,—diceva uno,—ma mi pare un po’ goffa.
—Già,—soggiungeva un altro,—come un contadino di Biscaglia, quando mette
un abito nuovo.
—E guardate,—entrava a dire un terzo,—tra i pennoni e gli alberi, che
stonatura di tinte!
—Si capisce; i pennoni son nuovi, e gli alberi son vecchi.
—Albero vecchio.... fa buon fuoco.
—E quelle trozze! dovrebbero stringere un po’ meglio.
—Aspettate che bevano, e stringeranno, stringeranno anche troppo.—
Insomma, ognuno voleva dire la sua. E l’almirante, passeggiando
gravemente sul ponte della _Santa Maria_, poteva, come suol dirsi,
sentir suonare tutte le campane, ad una ad una, e magari tutte insieme.
Su tante, egli ne sentì una che lo colpì, facendolo voltare di
soprassalto. Due marinai stavano appoggiati al capo di banda, un po’ in
disparte dai loro compagni, e ragionavano di cose vane, non tali da
destare l’attenzione dell’almirante. Ma il tono è quello che fa la
musica; e quei due cantavano in un tono che doveva far senso a messer
Cristoforo Colombo. Parlavano, a farvela breve, in vernacolo genovese.
Come mai due genovesi a bordo? Ed egli non ne sapeva nulla?
L’equipaggio delle tre caravelle non lo aveva scelto lui. Quella gente
era stata presa per forza, nella maggior parte; e il resto era stato
tirato dall’esempio dei fratelli Pinzon. A Palos, ad Huelva, a Moguer,
erano tutti valenti marinai; si potevano prender tutti ad occhi chiusi.
E un po’ per una ragione, un po’ per l’altra, l’almirante non aveva
presieduto alla formazione della sua marinaresca. Quanto al nome di
tutti, alla patria e alle altre particolarità di quella gente, erano
cose che egli avrebbe conosciute via via, durante il viaggio, senza
bisogno di leggere il registro, che era tenuto dal suo primo pilota.
Immaginate dunque la dolce commozione che messer Cristoforo Colombo
provò in quel giorno e in quell’ora. La parlata della madre patria è
sempre la più soave all’orecchio dell’uomo, quando egli si ritrova fuori
paese. Egli accorre al suono conosciuto, come ad una festa dell’anima;
ascolta giubilante, vorrebbe subito barattar parole anche lui, come se
volesse provare a sè stesso che quell’idioma, che è senza dubbio il più
bello del mondo, egli non lo ha dimenticato. E parlandolo, dopo tanti
anni, in una regione lontana, egli sente in quell’idioma, in quel
vernacolo natìo, un gusto, un sapore di novità, che gli è fonte di gioie
inattese, rivelazione di arcane bellezze.
Ma per allora non era il caso di fermarsi a discorrere. La dignità del
comando voleva che l’almirante tirasse di lungo; e il momento, poi, non
era da chiacchiere. Le caravelle erano in riga, bisognava partire. La
_Santa Maria_ si mosse per la prima dall’ancoraggio della Gran Canaria,
dirigendosi alla Gomera, dove aveva lasciato a terra una squadra
d’uomini per far provvista di viveri. Era una domenica, il 2 di
settembre, un mese dopo la partenza da Palos.
Per andare alla Gomera, si passava davanti a Teneriffa, che è l’isola
centrale del gruppo delle Canarie. Il gran picco di Teneriffa era
proprio allora in piena eruzione vulcanica; maraviglioso spettacolo, che
per la maggior parte dei marinai di Cristoforo Colombo poteva dirsi
anche nuovo. Udendo i boati della montagna, e i tuoni frequenti che
facevano tremar l’aria tutto intorno, vedendo la immensa colonna di fumo
che usciva a fiotti dall’alto cratere, le fiamme che guizzavano in mezzo
a quel fumo, i torrenti di lava che scendevano rosseggianti nella notte
lunghesso i fianchi del cono, quei poveri marinai del secolo
decimoquinto provarono gli stessi timori che cinque secoli prima
dell’Era volgare avevano fatto dare indietro i compagni di Annone
Cartaginese.
Quella eruzione spaventosa di Teneriffa era una ammonizione ai mal
capitati. Così, per terremoti e per vulcani, si era inabissata una gran
terra, laggiù, di cui narravano oscure leggende; quell’istesso mare che
l’aveva inghiottita, non poteva divorare da un momento all’altro anche
loro?
L’arrivo alla Gomera fu occasione di altri timori, non più per i
marinai, ma per il comandante supremo. Da poco erano entrati in rada,
quando sopraggiunse una caravella, anch’essa spagnuola, che faceva
servizio tra quelle isole. Veniva dall’isola del Ferro, la più
occidentale delle Canarie, e recava notizie di una straordinaria
crociera. Tre navi portoghesi avevano toccato all’isola del Ferro; dai
discorsi dei marinai, dalle domande degli uffiziali, si era potuto
capire che il re Giovanni II di Portogallo mandava quelle tre navi ad
aspettare al varco una spedizione di scoperta, per farne prigioniero il
comandante.
Cristoforo Colombo, non durò fatica ad intendere chi fosse l’aspettato.
Sette anni addietro egli era fuggito dal Portogallo, non isperando più
nulla da quel re, che sempre lo aveva tenuto a bada con buone parole.
Richiamato da lui, che certamente si era pentito e temeva di veder la
Spagna far buon viso ai disegni del navigatore Genovese, non aveva
voluto a nessun patto ritornare a Lisbona. Ciò che il Portoghese temeva,
era accaduto; tardi, veramente, ma in tempo per nuocere alla fortuna del
Portogallo, i reali di Castiglia avevano dato a Cristoforo Colombo le
navi e gli uomini per tentare l’impresa dell’Oceano. Nuove isole,
fors’anche continenti, sarebbero stati dunque scoperti a profitto di
Spagna. Ma non erano del Portogallo tutte le nuove terre di là dai
confini d’Abila e Calpe? Già troppo era che Castiglia vantasse diritti
sulle Canarie, e di tanto in tanto, dopo l’impresa del Bethencourt, vi
facesse atti di padronanza. Niente altro doveva sperare, nient’altro
ambire la corona di Castiglia in un campo oramai devoluto alla operosità
portoghese.
Aiutavano questa pretensione, la fortificavano certamente nell’animo del
re Giovanni, le scarse cognizioni geografiche e cosmografiche del tempo.
Dove andava infine il navigatore Genovese? di là dalle Azzorre? di là da
Madera? di là dalle isole del Capo Verde? Tutte conquiste portoghesi
eran quelle; e portoghese doveva essere egualmente tutto ciò che poteva
ritrovarsi più in là. Ma se una grande scoperta fosse fatta per conto
della Spagna, difficilmente si sarebbe potuto contenderne alla Spagna il
possesso. Con la presa di Granata e lo sterminio completo della potenza
moresca, i reali di Castiglia e d’Aragona si ritrovavano forti e liberi
come non erano stati mai; la riunione di tutte le Provincie spagnuole
sotto un solo scettro segnava la decadenza del Portogallo. Una conquista
oltre i mari, sui confini dell’Asia, di quell’Asia a cui miravano allora
tutti gli sforzi della Corte di Lisbona, avrebbe dato il tracollo alla
potenza portoghese. Donde la necessità urgente di mettere ostacolo
all’impresa di Cristoforo Colombo, e ad ogni costo impadronirsi di lui.
E perchè, dopo tutto, non si poteva tentare con forze portoghesi la
medesima impresa? Tre navi allestite per catturarlo, potevano anche
proseguire il viaggio di scoperta, giovandosi dei suoi disegni e della
sua direzione. Comandante con le braccia legate, avrebbe ad ogni modo
raggiunto il suo fine e guadagnata la sua gloria. E forse, chi sa? era
meglio andar prigioniero, ma rispettato, a scoprire un nuovo mondo, in
un primo viaggio, che ritornare incatenato ed umiliato dal terzo, dopo
aver fatta e assicurata la conquista di quel nuovo mondo ad un monarca
sconoscente ed ingrato.
Ma non è dato agli uomini di prevedere il futuro. Se anche Cristoforo
Colombo avesse preveduto il suo destino, possiamo star certi che avrebbe
fatto egualmente quello che fece, appena udite le notizie della crociera
portoghese. Ordinò prontamente che si smettesse di far provvigioni,
richiamò tutti gli uomini a bordo, e fece spiegare le vele.
Le tre caravelle lasciarono l’ancoraggio il giovedì 6 settembre, due ore
innanzi l’alba. Allontanandosi un buon tratto verso ostro, l’almirante
sperava di uscir dalla vista del nemico, caso mai questi avesse lasciati
i paraggi dell’isola del Ferro per muovergli incontro. Un vento fresco
che era sorto nella notte, gli dava buona speranza di riuscire
nell’intento. Ma quella brezza d’improvviso cessò; e le tre caravelle
dovettero restarsene tutto quel giovedì, ed anche il venerdì, con le
vele penzoloni. Per fortuna, l’almirante aveva guadagnato tre ore di
cammino, e non era probabile che il vento delle isole giovasse tanto
alle navi portoghesi, da spingerle sulla sua strada. Neanche era
probabile che esse si fossero spiccate da ponente dell’isola del Ferro,
dove potevano egualmente vigilare a destra e a sinistra di
quell’arcipelago. Piuttosto era da temere che toccassero alla Gomera,
sapessero del passaggio di lui e muovessero a dargli caccia, appena il
vento si fosse levato.
Ed egli spiava ansiosamente quel vento, che si levò soltanto sul mattino
del sabato. Ma non era un buon vento; spirava da ostro, e spingeva le
caravelle sull’isola del Ferro. Ore terribili furono quelle per lui. Ma
anche per le navi portoghesi quel vento soffiava contrario. Non era
dunque perduta ogni speranza per lui.
Sull’alba della domenica, quel vento malaugurato cambiò finalmente, e le
caravelle lo ebbero in fil di ruota. Allora l’almirante rese grazie a
Dio della buona ispirazione che gli aveva mandata, di far mettere le
vele quadre alla _Nina_, che con le vele latine non avrebbe potuto
camminare di conserva con le altre, nè per conseguenza sottrarsi con
esse al pericolo. Messa tutta la sua tela al vento, la piccola squadra
di Cristoforo Colombo, in un giorno e nella notte che seguì, si
allontanò quarantadue leghe dalla isola del Ferro. E naturalmente
perdette di vista quell’ultima terra occidentale del mondo antico. Che
gioia, per Cristoforo Colombo, non veder più che acqua dintorno a sè,
quanto andasse attorno la vista!
Ma era scritto lassù che quando egli era lieto non lo fossero egualmente
i suoi marinai. Essi avevano veduto con terrore il picco di Teneriffa
vomitar fumo e fiamme. Con altrettanto terrore videro quella immensa
distesa d’acque, forse la prima che navigatori vedessero, senza certezza
di un lido. E un lido non si aspettavano di ritrovare laggiù, sebbene
l’almirante assicurasse di doverlo ritrovare a settecento leghe oltre lo
stretto di Gibilterra; s’aspettavano invece di veder sorgere dagli
abissi i mostri marini che avrebbero capovolte le navi e castigati i
temerarii violatori dei segreti dell’Oceano. Quante volte non fu
costretto Cristoforo Colombo a chetarli, a fare il suo sermoncino
cosmografico a quei rozzi marinai, tentando di persuaderli della vanità
delle loro paure! Lo stavano a sentire; lì per lì sembravano persuasi,
pieni d’insolito ardimento; poi ricascavano nella loro viltà, tremavano,
e si lagnavano peggio di prima.
Altra cagione di sgomento fu il giorno 11 di settembre, a cento
cinquanta leghe dall’isola del Ferro, quando videro galleggiare sulle
acque un pezzo d’albero di gabbia. Così ad occhio e croce si poteva
giudicarlo appartenuto ad un naviglio di cento venti tonnellate. Ma il
naviglio, dov’era? Sicuramente sprofondato negli abissi dell’Oceano.
Ugual sorte non era riserbata anche a loro?
Lo sgomento si mutò in alto terrore, quando osservarono la bussola, sei
giorni dopo aver trovato l’avanzo della barca naufragata. L’ago
magnetico, scambio di volger la punta alla stella polare, piegava di
cinque o sei gradi verso maestro. Che voleva dir ciò? Entravano essi in
una regione del mondo ove le leggi di natura non valevano più? E lo
sviamento dell’ago, ogni giorno osservato con ansia, si vedeva ogni
giorno aumentato.
Da parecchi giorni l’almirante aveva notato il fenomeno, e temeva che lo
notassero altri. Quando il guaio fu avvenuto, egli dovette inventare una
spiegazione plausibile del fatto.
—Che credete? che la calamita volga la punta alla stella polare? La
volge invece ad un punto fisso ed immobile. La stella polare, come ogni
altro corpo celeste, fa i suoi mutamenti nello spazio, girando bensì
intorno a quel punto invisibile. Ed ecco perchè qualche volta vedrete la
calamita scostarsi dalla direzione della stella polare. Nel fatto è la
stella polare che si scosta.—
Si persuasero i piloti, che avevano una grande opinione della dottrina
astronomica di Cristoforo Colombo. Persuasi loro, si persuasero anche i
marinai, che non guardavano tanto nel sottile.
Ed era tempo che una spiegazione fosse trovata, anche falsa; perchè già
tra i marinai si andava ricordando la storia di un luogo lontano sul
mare, dove i chiodi ed ogni altro genere di ferramenta si spiccavano dai
navigli, per volarsene ad un certo promontorio incantato, lasciando che
i legni si sfasciassero e colassero a fondo con le povere ciurme. Di
sicuro quel promontorio esisteva, era una montagna di ferro, o d’altra
diavoleria che tirasse a sè ogni specie di metalli; e quella montagna
non doveva essere lontana. Già infatti l’ago calamitato della bussola si
volgeva da quella parte; ancora una cinquantina di leghe, un centinaio
al più, e le tre caravelle sarebbero state attirate verso quella
montagna metallica, per far la fine di tante e tante altre. I marinai
narravano, senza saperlo, una favola orientale, fatta correre dai
novellieri arabi, per tutte le popolazioni marinaresche del
Mediterraneo.
Cristoforo Colombo non si era apposto al vero, immaginando la sua famosa
dichiarazione dello strano fenomeno. Ma lì per lì quella dichiarazione
faceva buon giuoco; ed anche, nello stato delle cognizioni fisiche ed
astronomiche del tempo suo, poteva passare per una divinazione. Oggi,
con tante ipotesi sui poli magnetici, sul loro numero e sulla loro
distribuzione, non ne sappiamo più di lui. Conosciamo le deviazioni
dell’ago calamitato in tutte le regioni del globo, ne abbiamo anche
delineate esattissime tavole; ma la causa del fenomeno costantemente ci
sfugge. Per possedere il segreto di tutti i congegni che fanno muovere
due sottili lancette sopra un quadrante di porcellana, un fanciullo non
dubiterebbe di disfare l’orologio. Ma noi non siamo più fanciulli, pur
troppo!
_Capitolo II_
Getta l’àncora e spera in Dio.
La calma ritornava negli animi sbigottiti. Ma era la calma tenue del
soldato, che tra una battaglia e l’altra gode il riposo dell’avamposto,
mettendo a guadagno tutte le ore di quiete, pure avendo sempre nello
spirito una vaga inquietudine, che gli leva la voglia di pensare alle
cose lontane nello spazio o nel tempo. Certamente, regna la quiete
intorno a lui, ma è quiete che precede la tempesta. Il sentiero è
sgombro, davanti a lui, ma l’insidia è vicina; la morte può stare in
agguato dietro quel canto di strada che verdeggia là in fondo. E verso
quel fondo: si guarda mal volentieri, anche dai più coraggiosi. Chi è di
servizio, ci pensi.
Anche laggiù, sull’Oceano, erano calme le vie. Il sole splendeva, senza
arrostire i cervelli; l’aria era dolce, mitissima; un aprile di
Andalusia, per usare una frase dell’Almirante, un aprile d’Andalusia, a
cui non mancava che il canto del rosignuolo, per far l’illusione
compiuta.
Cristoforo Colombo ebbe sempre una gran tenerezza per il canto del
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