Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI - 09

animo compiangere, che le prese deliberazioni potessero offendere la
Francia, sua figliuola prediletta, e sopra la quale con tanto amore si
era versato; ma giudicherebbe ella se fosse per amare meglio un papa
prevaricatore, o un papa osservatore de' suoi doveri, un papa innocente
ed oppresso, od un imperatore colpevole e persecutore: della elezione
non conservare dubbio alcuno; ricordarsi ancora con infinita allegrezza
le grate accoglienze, l'affezionato concorso dei popoli, quando in quel
nobile reame se n'era andato ad un ministerio, che ogni altra cosa
portendeva, piuttosto che ruine: ricordarsi come fra quell'immenso
apparato d'armi e di soldati avesse trovato luogo, per la Francese
pietà, un umile preticciuolo inerme, solamente perchè la comunanza dei
fedeli nella persona sua rappresentava; ricordarsi che dove
concorrevano, se non supplici, almeno umili i primi potentati d'Europa,
una opinione solamente fondata sul consenso dei popoli devoti a Dio,
devoti al suo vicario in terra, devoti all'apostolica sedia tanto avesse
potuto, ch'egli non potente fra mezzo ai più potenti, il principale e
più onorato seggio si vendicasse: gisse pure onorata, gisse contenta,
gisse felice la Francia; che quanto a lui, memore della pietà
dimostrata, ogni cosa fuori dell'impossibile avrebbe e consentito ed
operato, perchè ella quella pace di coscienza si godesse, che pei meriti
suoi le era giustissimamente dovuta.
Desiderava Napoleone, solito a fare prima le cose, poi a volere che gli
si consentissero, che il senatus-consulto dell'unione dello stato Romano
al suo impero sortisse il suo effetto, anche per consentimento del papa.
Non gli era nascosto, che ove il pontefice accettasse le condizioni
proposte, facendosi abitatore di Parigi e suo pensionario, avrebbe
dovuto finalmente consentire a quanto egli volesse nell'argomento della
giurisdizione ecclesiastica; perciocchè la forza del pontefice tutta era
fondata sull'opinione, e quando diventasse vile in cospetto degli
uomini, avrebbe perduto coll'opinione quell'antico suo fondamento; che
certamente avrebbe avuto parte di viltà, se in vece di viversene padrone
con isplendore a Roma, o carcerato con onore in Savona, avesse
accomodato l'animo a vivere suddito in Parigi. Per la qual cosa gli
agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di
muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i
milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva
a quei tempi la potenza di Napoleone inconquassabile: le paci di Tilsit
e di Vienna, il matrimonio coll'arciduchessa, esercito invitto,
vincitore, innumerabile, la fondavano. Niuna speranza rimaneva al
pontefice di risorgere; il sapeva, il credeva, il diceva, ma vinse la
coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Che sapeva ben egli,
affermava, ciò che volevano fare; che questi disegni, e se n'era
accorto, già fin d'allora covavano, quand'egli era andato a incoronar
Napoleone a Parigi; che già fin d'allora vi si racconciava il palazzo
arcivescovile per la stanza dei papi; che vedeva chiaramente che era
nato il pensiero di far i papi viaggiatori, e fors'anche primi
elemosinieri degl'imperatori: papi di Francia volersi, non papi di
Cristianità: del resto non volere, protestava, il palazzo di Parigi:
sarebbe un nuovo carcere: non la potestà temporale, ma San Pietro avere
fissa la sua sede in Roma; avere ciò dimostrato colla sua venuta in
quella veneranda città, averlo dimostrato colla sua dimora, averlo
dimostrato col suo martirio; il sangue dell'apostolo avere indicato, e
santificato il luogo dell'apostolica sedia; volere Pio successore
quella, o nissuna: non disfarebbe col consenso suo Pio ciò, che Cristo
stesso Salvatore per mezzo di Pietro aveva fatto, che nè giuramento
presterebbe, nè pensione accetterebbe; sarebbe vile agli occhi suoi,
vile al mondo, se quel prestasse, se questa accettasse: essere il
senatus-consulto la servitù della Chiesa: volersi mandar ad effetto le
macchinazioni dei filosofi, rendere il papa tanto suddito, quanto i
vescovi in Francia: che si mirava evidentemente alla distruzione della
religione; che non potendo assaltarla di fronte, perchè la impresa era
troppo difficile, la volevano assaltar di fianco: non mai i sacerdoti
del paganesimo essere stati tanto dipendenti dalla potestà temporale,
quanto i preti d'oggidì; volersi anche mettere sotto il giogo il papa:
presumere che tali disegni non provenissero dal consiglio ecclesiastico
raunato in Parigi, perchè se ciò fosse, tosto il separerebbe dalla
comunione sua: in mezzo a tante turbazioni, o tanti sovvertimenti
sperare, che Dio fosse quello che avesse a salvare la sua Chiesa: che
del resto non poteva più riconoscere, qual figliuolo primogenito,
l'usurpatore dei beni della santa sede, che già, e pur troppo aveva
sopportato, che già gli era venuta a schifo la sua pazienza; che la sede
di Roma non poteva operare come gli altri sovrani; ch'ei potevano
rinunziare secondo gli accidenti a parte dei loro diritti col pensiero
di riacquistargli, quando che fosse, ma che doveva il papa operare in
coscienza; i trattati di Roma spirituale essere santi, e di buona fede
ripieni.
Così papa Pio tormentato dai Napoleonici i suoi pensieri spiegava.
Quanto poi a quello ch'egli in quei tempi tanto per lui lagrimevoli
desiderasse fare, i ricordi dell'età non lasciano luogo a dubitazione.
L'animo suo era di addomandar sempre i beni temporali della santa sede,
ma di non mai far cosa che tendesse a volergli riacquistare per forza:
solo questo chiedeva e richiedeva, che libero fosse, e libero lasciato
tornare a far il papa nella sua Roma; che farebbe anche il papa in una
grotta, che farebbelo nelle catacombe; che se alla parsimonia ed ai
pericoli della primitiva Chiesa gli fosse duopo tornare, con piena
rassegnazione vi tornerebbe, nè ciò fora anco grave a chi non mai tanto
felice era stato, quanto, quando semplice fraticello essendo, in un
umile chiostro le dottrine teologiche insegnava.
In cotal modo si raffermava, quanto alle sue particolari sorti, l'animo
del pontefice; ma bene piangeva, ed amaramente deplorava le novelle
discordie. Deploravale principalmente perchè laceravano le viscere più
intime e più vitali della cristianità cattolica: deploravale perchè
impedivano l'unione, della quale aveva allora speranza delle parti
dissenzienti; imperciocchè aveva concetto il pensiero, che alcuni paesi
addetti alle dottrine di Lutero avessero presto a ritornare nel grembo
della chiesa. Solo disperava dei Calvinisti, siccome quelli ch'egli
riputava più induriti, e che avevano voluto introdurre nel governo
ecclesiastico gli ordini democratici.
Quest'erano le tribolazioni di Pio settimo. Ma ecco oggimai avvicinarsi
il tempo, in cui la sua virtù doveva esser messa a più duri cimenti.
Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo colle
spie, di sgomentarlo colla segregazione, di scuoterlo con le minacce, si
faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine, e con le persuasioni di
coloro, che o per antica amicizia, o pel carattere di cui erano vestiti,
si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. La
mancanza dell'ufficio pontificale, che il papa ricusava di compire già
da parecchj anni, principiava a farsi sentire fortemente nella
cristianità cattolica, la condizione peggiorava ogni giorno. Molte sedi
vescovili, ricusando il papa le bolle d'investitura, erano vacanti tanto
in Francia, quanto in Italia ed in Germania. Altre vacanze si scoprivano
alla giornata, ed era per estinguersi l'episcopato. L'imperatore, avendo
dato favore col concordato all'opinione cattolica, vedeva non potersi
esimere dal ricorrere all'autorità pontificia. Pensò sulle prime di usar
l'autorità del cardinal Caprara, arcivescovo di Milano, e legato della
santa sede a Parigi, di cui conosceva la condiscendenza. Scrisse il
cardinale supplicando al papa, desse le bolle per le sedi vacanti ai
vescovi nominati dal consiglio dei ministri dell'imperatore. Aggiunse
che Napoleone consentiva, che in esse il pontefice non facesse menzione
delle nomine imperiali, purchè egli non v'inserisse la clausula del moto
proprio, od altra equivalente.
Rispose risolutamente il pontefice, maravigliarsi, che Caprara queste
cose proponesse: esser evidente ch'ei non poteva accomodarvi l'animo:
non mai la cancelleria apostolica avere ammesso simili instanze da parte
dei laici: del resto, a chi concederebbonsi le bolle, se alle instanze
del consiglio dei ministri si concedessero? Non esser loro l'imperatore
medesimo? Non gli organi de' suoi ordini, non gli stromenti della sua
volontà? Ora dopo tante innovazioni funeste alla religione fatte
dall'imperatore, contro le quali egli si era sì spesso e sì inutilmente
querelato, dopo tante vessazioni commesse contro tanti ecclesiastici
dello stato pontificio, dopo l'esilio dei vescovi e della maggior parte
dei cardinali, dopo la carcerazione di Pacca cardinale, dopo
l'usurpazione del patrimonio di San Pietro, dopo di essere stato
assalito lui medesimo da uomini armati nei penetrali stessi del suo
pontificale palazzo, dopo di essere stato forzatamente in terra sotto
strette guardie condotto per modo che i vescovi di parecchi luoghi non
avevano potuto avvicinarsi a lui, o parlargli senza testimonj, dopo
tanti attentati sacrileghi, tacendone anche, per amor della brevità,
altri infiniti, contro i quali i concilj generali e le constituzioni
apostoliche fulminavano l'anatema, che altro avere lui fatto, se non
uniformarsi, com'era suo dovere, ai decreti di questi concilj, se non
obbedire ai termini di queste constituzioni? Come adunque potrebbe
oggidì riconoscere nell'autore di tante violenze il diritto di nominar i
vescovi, come consentire ch'egli l'usasse? Il potrebbe forse senza farsi
reo di prevaricazione, senza contraddire a se medesimo, senza dare, con
iscandalo gravissimo, materia ai fedeli di credere, ch'egli sbattuto e
vinto dalle disgrazie, a tanto di abiezione fosse venuto, che potesse
tradire la sua coscienza, e fare quello, ch'essa con terribil voce
l'ammoniva di dannare? Pesasse bene, e queste ragioni ponderasse, non
secondo la sapienza umana, ma prostrato nel santuario il cardinale, e
vedrebbe, quanto vere, quanto inconcusse, quanto incontrastabili
fossero. Chiamare tuttavia Dio in testimonio di quanto egli in mezzo a
sì crudeli tempeste desiderasse provvedere alle sedie vacanti della
chiesa di Francia, di quella chiesa di Francia, suo primo amore, e suo
supremo diletto: con quanto piacere abbraccerebbe egli un consiglio, che
gli permettesse di soddisfare ad un tempo ed al suo pastorale uffizio,
ed a' suoi doveri sacrosanti! ma come potere, come risolversi solo e
senza soccorso in un affare di tanta importanza? Toltigli essere tutti i
consiglieri suoi, toltagli la facoltà di comunicare con loro, nissuno
restargli, da cui pigliar lume in sì spinosa discussione. Se vera
affezione avesse l'imperatore alla cattolica chiesa, incominciasse dal
riconciliarsi col suo capo: togliesse le innovazioni funeste,
rendessegli la sua libertà, la sua sede, i suoi ufficiali;
restituissegli il patrimonio, non suo ma di san Pietro; riponesse sulla
cattedra dell'apostolo il suo capo supremo, il suo capo di cui ella era
vedova e priva dopo la Savonese cattività; rimandassegli i quaranta
cardinali dal suo grembo divelti pei crudi comandamenti suoi;
richiamasse alle diocesi loro tanti esuli vescovi: pregare
incessantemente e ferventemente fra tante sue tribolazioni quel Dio, che
tiene in sua mano tutti i cuori, incessantemente e ferventemente
pregarlo per l'autore di tanti mali: esaudisselo, piacessegli spirare al
duro cuore di Napoleone più salutevoli consiglj; ma se per segreto
giudizio di chi tutto sa e tutto puote, altrimenti accadesse,
piangerebbe egli le presenti calamità, certo e sicuro che nissuno a lui
imputare le potrebbe.
In questo mezzo tempo Napoleone per intimorire il papa, e farlo
consentire a quanto egli desiderava, con dargli sospetto che se non
consentisse, ei farebbe da se, aveva convocato un consiglio
ecclesiastico a Parigi chiamandovi i cardinali Fesch e Maury,
l'arcivescovo di Tours, i vescovi di Nantes, di Treveri, d'Evreux, di
Vercelli, ed un Emery, prete superiore del seminario di San Sulpizio a
Parigi. L'imperatore, per mezzo del ministro dei culti Bigot di
Préameneu, personaggio di buona e posata natura, ma che ciò non ostante
procedeva con molto calore in questa faccenda contro il papa, propose
loro certi quesiti, acciocchè gli dichiarassero. Erano questi prelati, o
tutti o la maggior parte, nemici dei seguaci di Porto Reale; ma la
fortuna, e la Napoleonica ambizione gli avevano condotti a questo duro
passo, o di opinare, circa la potestà della sedia apostolica, conforme
alle dottrine di quella famosa scuola, o di dispiacer a Napoleone. Una
sola risposta dovevano e potevano dare, ed era quest'essa: che si
rimettesse il pontefice nella condizione in cui era quando concluse il
concordato, ed allora se ricusasse le bolle, opinerebbero; ma non la
diedero, perchè quelli non erano tempi da Ambrogi. Certamente se il papa
debbe essere assicurato contro i principi in materia religiosa e
spirituale, i principi debbono essere assicurati contro il papa in
materia politica e temporale. A quest'ultimo fine mirava la necessità
nel papa nel dar le bolle in un dato tempo, salvo i casi d'impedimenti
canonici nei nominati; ma la prigionìa del pontefice rendeva impossibile
ogni negoziato, e Napoleone voleva non solamente la independenza per se,
ma ancora la servitù negli altri. Il governo della chiesa, portavano i
quesiti, è egli arbitrario? Può il papa per cagioni temporali ricusare
il suo intervento negli affari spirituali? Conviensi, che solamente
prelati e teologi trascelti nei piccoli luoghi del territorio Romano
giudichino degl'interessi della chiesa universale? Conviensi, che il
concistoro, consiglio particolare del papa, sia composto di prelati di
tutte le nazioni? Quando no, l'imperatore non ha in se raccolti tutti i
diritti, che ai re di Francia, ai duchi del Brabante, e ad altri sovrani
dei Paesi Bassi, ai re di Sardegna, ai duchi di Toscana, e simili
s'appartenevano? Ancora, ha Napoleone imperatore, o i suoi ministri
violato il concordato? Essi migliorata, o peggiorata la condizione del
clero di Francia dopo il concordato? Se il sovrano di Francia non ha
violato il concordato, può il papa di suo proprio arbitrio, ricusare
l'instituzione agli arcivescovi e vescovi nominati, e perdere la
religione in Francia, come l'ha perduta nell'Alemagna senza vescovi da
dieci anni? Non avendo il governo di Francia violato il concordato, se
dal canto suo il papa ricusa di eseguirlo, intenzione di sua maestà è,
ch'esso si abbia e si tenga per abrogato: ma in tale caso, che conviensi
fare pel bene della religione?
A questi quesiti, che risguardavano specialmente la Francia e l'Italia,
se ne aggiunse un altro per l'Alemagna, desiderando l'imperator
Napoleone sapere, quale cosa gl'incombesse di fare per la salute della
religione in questa parte d'Europa, a lui, che era il cristiano il più
potente di tutti, signore dell'Alemagna, erede di Carlomagno, vero
imperatore d'Occidente, figliuolo primogenito della chiesa. Ancora ha
bisogno la Toscana di nuove circoscrizioni di diocesi, e se il papa non
vuol cooperare, che farà sua maestà?
Ancora, e finalmente éssi questa bolla di scomunica stampata e sparsa
per tutta Europa: che farà Napoleone imperatore per impedire, che in
tempi di turbazioni e di calamità, non diano i papi in questi eccessi di
potenza tanto contrari alla carità cristiana, quanto all'independenza,
ed all'onore del trono?
Intanto Napoleone costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle
sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò
consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende
ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio, che poteva dargli,
secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo, e conclusione definitiva
delle differenze nate colla santa sede. Aveva egli udito, che dopo la
morte del vescovo la giurisdizione episcopale si trasferiva nel capitolo
della chiesa cattedrale, e che a questo s'apparteneva il nominare vicarj
generali, che governassero la diocesi durante la sede vacante. Oltre a
ciò fu fatto sapere a Napoleone, che i capitoli investiti alla morte del
vescovo della potestà episcopale, conferivano, secondo gli antichi usi
di Francia, la potestà medesima all'ecclesiastico nominato dal sovrano
alla sede vacante. Quest'ultimo pensiero gli fu suggerito dal consiglio
ecclesiastico. Ma al tempo medesimo il consiglio aveva mitigato il
concetto con dire, che lo spediente proposto non poteva essere che
transitorio, che solo per l'ultima necessità, e per non lasciar perire
l'episcopato in Francia dovevano i capitoli delegare la giurisdizione ai
nominati, che, cessata la necessità, si rendeva necessario tornare ai
metodi consueti; che sebbene i vescovi nominati e delegati avessero
potestà di reggere le diocesi, non potevano esercire tutta la pienezza
dell'autorità episcopale, perciocchè, se avevano la giurisdizione, non
avevano l'ordine; i vescovi instituiti possono fare certe funzioni, che
i vescovi delegati non possono; che pure era richiesto per la salute dei
fedeli, e pel perfetto delle diocesi, che l'autorità episcopale tutta
intiera in loro si raccogliesse; che del resto non pareva conveniente,
che lungo tempo i vescovi esercessero le facoltà loro, e governassero le
diocesi come semplici delegati dei capitoli; altro maggior decoro, altra
maggiore independenza essere richiesta ad un vescovo perchè si possano
aspettare dal suo ministerio i debiti frutti.
Certamente non piaceva neppur a Napoleone, che era d'indole assoluta,
questa condizione, che i vescovi, come delegati esercessero, perchè
voleva, che i capi fossero padroni, non servi. Ciò nondimeno il
guadagnar tempo gli pareva cosa d'importanza. Deliberossi pertanto,
insino a che da Savona migliori novelle gli pervenissero, a servirsi del
temperamento proposto dal consiglio ecclesiastico. Erano in Francia e
nell'Italia Francese diocesi vacanti da lungo tempo, in cui governavano
i vicarj capitolari. A volere che i capitoli delegassero l'autorità
vescovile ai nominati dall'imperatore, era d'uopo che i vicarj
rinunziassero: conciossiachè non vi potessero essere due delegati. A
questo fine indirizzava i pensieri il governo Napoleonico; dal che
nacquero accidenti di non poca importanza. Aveva Napoleone nominato
vescovo d'Asti in Piemonte il prelato Dejean, fratello d'un suo
ministro. Richiesti del rinunziare, i vicarj del capitolo ricusarono.
Avute le novelle, Napoleone sdegnosamente decretava: fosse il capitolo
d'Asti ridotto a sedici, i beni spettanti ai canonicati soppressi
cadessero in potestà dei fisco, i renitenti fossero arrestati e
processati, come di crimenlese. Aggiungeva Bigot di Préameneu, che sua
maestà si era risoluta ad unire al fisco i beni dei vescovati, dove
sorgessero erbe di ribellione. Aveva Napoleone nominato Osmond vescovo
di Nancy, uomo di nobile tratto e di pulitissima favella,
all'arcivescovato di Firenze. Scrisse risolutamente il pontefice al
vicario capitolare, comandando che non rinunziasse, che era Osmond
illegittimo secondo i canoni. Seguitarono effetti conformi: non ebbe mai
Osmond quieto vivere in Firenze.
Ma a quest'amarezza serbava il cielo Napoleone imperatore, che il
prigioniero di Savona gli turbasse i suoi pensieri nella capitale stessa
del suo impero. Aveva egli nominato arcivescovo di Parigi il cardinale
Maury, surrogandolo al Fesch, che nominato ancor esso alla medesima sede
non aveva voluto accettare. Maury, parendogli un bel seggio il Parigino,
l'accettò. Seppelo il santo padre per avviso mandato dal cardinal
Dipietro, che confinato a Semur faceva una mirabile polizia a suo modo.
Scrisse un breve ai vicarj capitolari di Parigi della colpevole audacia
del cardinale, e del debito loro gravemente ammonendogli. Essere,
rammentava, il cardinale Maury un intruso, essere irremissibile la sua
temerità; calcare lui i sacri canoni, calcare le decretali dei papi,
calcare tutte le leggi dell'ecclesiastica disciplina: avessero i vicari
per nulli tutti gli atti che il cardinale facesse: niuna qualità, niuna
giurisdizione l'intruso avere, tutte a lui essere negate, tutte tolte:
essere legato Maury alla chiesa di Montefiascone; niuno poternelo
sciorre, che la santa sede: le sue risoluzioni gli comunicassero, e
dell'esecuzione l'ammonissero. Intanto Maury, che non era uomo da
sgomentarsi così alla prima, nè solito a cambiarsi in viso pei rabbuffi,
scriveva al papa informandolo della sua nomina, ed accettazione
dell'arcivescovil sede di Parigi. Rispose il pontefice, maravigliarsi
dell'audacia sua, ma maggior dolore ancora sentirne, che maraviglia:
inaspettato e deplorabile accidente, sclamava, ch'egli tanto da se
stesso disforme fosse divenuto, che ora quella causa della chiesa
abbandonasse, che sì degnamente aveva patrocinata nei calamitosi tempi
della rivoluzione. Adunque, continuava, la podestà civile questo punto
vincerà, che ella al governo delle chiese chi più le pare e piace,
instituisca? Adunque sarà cassa la libertà ecclesiastica, le elezioni
invalide, il scisma presente? Tali essere gli effetti, tali i
risultamenti dell'esempio detestabile che egli dava. Pertanto comandava
al cardinale, pregavalo, scongiuravalo, incontanente cessasse dal
governo della Parigina chiesa, si ritirasse dagl'imperiali doni: quando
no, procederebbe rigorosamente contro di lui.
Non erano le opinioni conformi nel capitolo di Parigi; chi amava meglio
l'imperio che la chiesa, e chi la chiesa meglio che l'imperio. Più erano
i primi che i secondi; quelli avevano accettato Maury, questi gli
contrastavano. Degli ultimi Paolo Dastros, canonico e vicario generale,
preso occasione del mandare al vescovo di Savona certe dispense, aveva
supplicato al papa, affinchè il consigliasse di quello che si avesse a
fare nelle congiunture presenti. Il santo padre rispondendo, tornava in
sul chiamare Maury intruso, disubbidiente, uomo di audacia
intollerabile: ordinava, ed in virtù della santa obbedienza comandava a
Dastros, incontanente mostrasse al cardinale la sua lettera, e
gl'imponesse da parte sua, che dalla temeraria impresa si ritirasse.
Seppesi Rovigo, che sapeva tutto, queste cose; le disse all'imperatore.
Sdegnossene Napoleone: prima cosa, fatto arrestare a furia Dastros, il
cacciò nelle segrete al solito: poi fece rimproveri e minacce tali a
Portalis, consigliere di stato, perchè le lettere del papa a Dastros
erano venute sotto sua coperta, che il povero giovane se ne tornò tutto
smarrito e lacrimoso a casa. Ma le Savonesi cose pressavano. Scrutaronsi
diligentemente dalla polizia Napoleonica i fogli ai servitori del papa;
a Paolo Campa, a Giovanni Soglia, a Carlo Porta, al prelato Doria, al
prelato Maggiolo, ad Andrea Morelli, a Moiraghi, a Targhini, cuochi, e
valletti. Trovarono lettere del papa per le Astigiane, Fiorentine, e
Parigine controversie; trovarono lettere di Dipietro al papa, trovarono
suppliche per dispense, modi di condursi ai Romani, descrizioni ed
attestazioni di miracoli. Le ferrate porte di Fenestrelle sorbirono
Morelli, Soglia, Moiraghi, ed un Ceccarini chirurgo, ed un Bertoni
valetto: anche un Petroncini domestico del Doria, fu cacciato nelle
segrete. Porta se la passò con una buona ammonizione, e che, se vi
tornasse, mal per lui: speravano che scoprirebbe qualche cosa degli
affari del papa. Doria fu mandato a starsene co' suoi a Napoli, e
badasse a non guardar indietro. Nè Dipietro potè fuggire lo sdegno
imperiale: preso a Semur, cambiò l'esilio in carcere.
Dispersi i minori, Rovigo e Napoleone pensavano a quello che fosse a
farsi del pontefice; perchè, se gli altri avevano fatto fallo a
Napoleone, il papa, pensavano, l'aveva fatto maggiore, e maggiore anche
da lui veniva il pericolo. Non sapevano darsi pace, come tra quelle
folte tenebre che avevano con tanta cura addensate intorno al pontefice,
avesse trovato uno spiraglio a vedere, ed a far veder lume: il prefetto
di Montenotte sentì qualche sprazzo della collera suprema. Incominciava
a fulminare con grandissimo sdegno contro il papa Bigot di Préameneu:
sapere l'imperatore, che il papa aveva scritto al capitolo di Firenze,
acciocchè non conferisse la potestà all'arcivescovo nominato; recarsi
l'imperatore quest'atto a grave offesa. Adunque vuole il papa tutto
sovvertire e mandar sossopra? Adunque non vuol nemmeno che le diocesi
siano transitoriamente amministrate dai prelati, che l'imperatore
giudica degni della sua confidenza, ed ai quali secondo l'uso i capitoli
conferiscono le potestà al tempo delle sedi vacanti? Adunque danna il
papa uno stato transitorio, che è in facoltà sua di far cessare, dando
le bolle, incontanente? Crede egli, che Sua Maestà sia subordinata ad un
capitolo, per forma che il vicario ch'esso capitolo ha eletto, non abbia
bisogno di essere riconosciuto dall'imperatore, e che, se riconosciuto
non è, o cessasse d'essere, ei conservi il diritto di far funzioni, che
sono ad un tempo stesso e temporali e spirituali? Un vescovo
canonicamente instituito non può nominare un vicario generale senza
l'intervento di un decreto imperiale: come può il capitolo avere maggior
diritto che il vescovo? I sudditi dell'imperatore, che il capitolo
compongono, non renderebbersi forse colpevoli, se un vicario altro che
quello che il loro sovrano loro indicasse, o nominassero o mantenere
volessero? Questo vicario capitolare non dovrebbe egli forse per la pace
della chiesa cessare di per se medesimo l'ufficio, o se questo motivo,
più sacro certamente dell'autorità arbitraria del pontefice, a ciò fare
nol risolvesse, la volontà del sovrano non gli torrebbe forse ogni
potenza dell'atto, o se ribelle si costituisse, non dovrebbe egli portar
la pena della sua ribellione? Avere veduto il papa i sovvertimenti
prodotti dalle instruzioni ch'ei non aveva diritto di dare sulla formola
del giuramento d'un suddito al suo sovrano; nè poter non preveder
quelli, che potrebbero nascere dalla sua lettera al capitolo di Firenze.
Nissuna violenza, nissun oltraggio del papa l'imperatore lascerebbe
impunito: essere tuttavia parato l'imperatore a venirne a giusti termini
d'accordo, solo che il papa, scrivendogli, il facesse certo della sua
volontà. Ma se al contrario da una parte perseverasse nel voler lasciar
le chiese senza capi instituiti, dall'altra nell'impedir i capitoli, e
nel mettergli in caso di ribellione contro il sovrano loro, non vedrebbe
più Sua Maestà in questi atti le funzioni del governo pontificale, che
tutte sono di pace e di carità, non vedrebbe più sotto un titolo
rispettabilissimo, che un nemico protervo; obbligo suo sarebbe di torgli
ogni mezzo di nuocere coll'interdirgli ogni comunicazione col clero del
suo impero, e con isolarlo, qual ente pericoloso: non potere il prelato
Doria aspettarsi altro destino, che quello di Pacca cardinale. Le quali
ultime parole dette, non so per qual rispetto, non di Pio, ma di Doria,
chiaramente significavano, che di Doria si dicevano, perchè Pio come
dette di se le riputasse.
Crebbero a dismisura gli sdegni, quando si scoverse l'affare di Dastros.
Sclamava il Parigino ministro, la pontificia lettera esser fonte di
ribellione; girare il papa le incendiarie faci all'intorno; parlare di
concordia, suscitare la discordia. Poi per bocca imperiale comandava al
prefetto di Montenotte, badasse bene a non lasciare trapelar lettere, nè
per dentro, nè per fuori della papale stanza, e non mancasse; parlasse
più risolutamente al papa; gl'intuonasse alle orecchie, che dopo la
fulminata scomunica, ed il procedere suo a Roma, che tuttavia continuava
a Savona, l'imperatore il tratterebbe come meritava; che tanto era
oramai il secolo oltre nei lumi, che sapeva distinguere le dottrina di
Gesù Cristo da quelle di Gregorio settimo.
I fatti seguitavano le minacce. Per dispetto, e per speranza di ottener
concessioni col terrore, ordinava l'imperatore, che ogni apparato
esteriore si sbandisse dall'abitazione pontificia: trovarono i rigidi
comandamenti diligenti esecutori. Camillo Borghese principe toglieva le
carrozze al papa, toglievagli Sarmatoris e gli altri servitori,
sopprimeva ogni segno di rispetto, gl'interdiceva penna ed inchiostro,