Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI - 06

considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo
augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi,
gliene cedè loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza
a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser
parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi
l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed ancora
era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i
sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni
dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria
sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a
seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli
proposto a conciliazione della sicurtà de' suoi soldati, della quiete e
della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo
impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato
proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa
fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la città di Roma
prima sede della cristianità, e tanto piena d'illustri memorie, fosse
città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali;
che i segni della Romana grandezza, e che ancora in piè sussistevano, a
spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il
debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si
amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni
carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non
fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione
o visita, ed oltre a questo godessero d'immunità speciali; che
finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse
possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo
secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo
giorno dell'ottocentodieci. Nè mettendo tempo in mezzo, chiamava il
giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche
governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo,
e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.
A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi,
dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio
temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua
pontificale voce a tutto il mondo gridava: «Adunque sono adempite le
tenebrose trame dei nemici della sedia apostolica? Adunque dopo la
violenta ed ingiusta invasione della più bella e più considerabil parte
dei nostri dominj, spogliati siamo, sotto indegni pretesti, e con
ingiustizia somma, della nostra sovranità temporale, con cui la
independenza spirituale nostra è strettamente congiunta! Fra questa
persecuzione barbara consolaci e confortaci il pensiero dello essere in
sì grave calamità caduti, non per offesa alcuna da noi fatta
all'imperatore dei Francesi, od alla Francia, alla Francia stata sempre
nostro amore e nostra cura prediletta, nè per alcun intrigo di mondana
politica, ma per non aver voluto tradire nè i nostri doveri, nè la
nostra coscienza. Se non lece a chiunque la religione cattolica professa
di dispiacere a Dio per piacere agli uomini, molto meno conviensi a chi
di questa medesima religione è capo, ed insegnatore supremo. Obbligati
inoltre verso Dio, obbligati verso la chiesa a trasmettere ai successori
nostri intatti ed intieri i nostri diritti, noi protestiamo contro di
questa nuova e violenta spogliazione, e nulla dichiariamo, e di niun
valore la occupazione testè fatta dei nostri dominj. Ricusiamo, e con
ferma ed assoluta risoluzione rifiutiamo ogni rendita o pensione, che
l'imperatore dei Francesi pretende fare a noi, ed ai membri del nostro
collegio. Taccia d'infame obbrobrio in cospetto della chiesa
incontreressimo, se il vitto ed il viver nostro accettassimo dalle mani
dell'usurpatore dei nostri beni. Rimettiamocene nella provvidenza,
rimettiamocene nella pietà dei fedeli, contenti al terminare per tale
guisa nella mediocrità questa vita oggimai piena di tanti dolori, e di
tanti affanni. Prosterniamci noi, e con umiltà perfetta i decreti
impenetrabili di Dio adoriamo: prosterniamci, ed a favore dei nostri
sudditi la sua divina misericordia invochiamo, dei nostri sudditi,
nostro amore e nostra gloria, i quali, fattosi da noi quanto nella
presente occorrenza dal debito nostro era richiesto, esortiamo ad amar
la religione, a conservarsi in fede, a pregare, ed instantemente con
pianti e con gemiti scongiurare, tra il vestibolo e l'altare prostrati,
il supremo padre della luce, acciocchè si degni cambiare in meglio i
consiglj perversi di coloro, da cui sono i nostri persecutori mossi».
Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste
lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator
Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato
all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della città di
Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati sì
secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva
statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo
governo.
Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo
a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare
di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del
Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino
alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio.
Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e
della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ciò che avessero a farsi.
Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni,
quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando
trovò duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri,
masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati
Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i
masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era più
basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi
parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i
cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza
dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte
dileguavano, parte vieppiù addensavano l'oscurità della notte,
accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso
fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si
mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di
quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato
fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed
ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte,
alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta
degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della
violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e
della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale
di gendarmerìa Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non
aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura
contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non
solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto più
condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli
ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i
due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto
in Francia. Ricusò, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior
forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor
degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse
di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò
non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il
rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore
essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la
Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere
parato: di lui facessero ciò che volessero: dessergli pure supplizio e
morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo
passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò
solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori
del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito
dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli
offeriva Radet, desse il nome dei più fidi, cui desiderasse aver
compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per
forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto
tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche,
nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta
celerità incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet.
Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale
palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i
rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del
contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale
accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole,
perciocchè ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il
generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la
notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di
mandargli nella superiore Italia.
Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse
la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice
molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto
temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi
l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente
Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante,
l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomandò il
pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di
annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava
nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non
galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le
soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di
volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per
partire con maggior celerità, che non era venuto. Lasso dall'età, dagli
affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva
vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa
notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio:
gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocità venerare il
pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i
luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano
per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Semi di distruzione
di Napoleone erano questi; già le profezie di Pio si avveravano, già la
pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse
un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta
stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il
papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio.
Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di
Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto più incivile, quanto
non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il
condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma
celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti
vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati
poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I
Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui
l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti
con servimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.
Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede
di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e
l'ordine, già l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e
Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e
grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa,
un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso
Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il
principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte
Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma.
Moscati orando, ringraziò delle date leggi, Zondadari della data Elisa.
Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei
sette colli, favellò dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre
Tevere. «Sussiste ancora, soggiunse Braschi, nipote che era di Pio sesto
perseguitato, sussiste quel Campidoglio, sul quale ascesero tanti
illustri conquistatori: sussiste, e addita a voi, sire, gloriose
vestigia, e seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi
si rinverde quel serto d'alloro, che Nerva depose nel tempio di Giove.
Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto
nemico, come l'aquila di Trajano dalle offese del Germano, del Parto,
dell'Armeno, e del Dace il preservava.»
Braschi a Napoleone signore parlò di Cesare, di Nerva, e di Trajano:
avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a
Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e
perchè parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocchè
Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare
erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli
scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: così non re dei Romani, ma di
Roma chiamò poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A
tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le
repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni
repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal
canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il
fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in
concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed
eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e più spesso ancora ne
piansi.
Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro
antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro:
gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati
dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli
non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il
medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro
bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo
usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere, che alcun
cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo
primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai
Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità
temporale: la Romana sede essere la prima della cristianità, essere il
vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore,
volere dar a Dio ciò che è di Dio, a Cesare ciò che è di Cesare.
Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima
prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo stato, sapendo
quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene
spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava
la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo
carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti,
Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano
fede. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti,
anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e
data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome;
perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere,
massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava
in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti
gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati,
che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne
lessero delle colpevoli contro la nuova signorìa; ne lessero anche delle
ridicole, perchè i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado
delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di
beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle.
Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle
notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si
crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni
chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco
Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per
impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che
infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a
partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono
l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due
prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali:
furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma
faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini
fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai
dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine
del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da
Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza
grande umiltà loro. La consulta l'abolì; sostituivvi le forme Francesi.
Il consiglio municipale di Roma chiamò senato: elessevi personaggi di
gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna,
Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a
quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di
Roma. Così andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla
Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta.
Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella
città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di
Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si
promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai
dritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della
corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non
ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente.
Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato
consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e
prudente ch'egli era.
Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura.
Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di
franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un
milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di
circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la
miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non
poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva
quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila
franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a
tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte
le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione,
aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia
quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno
tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al
ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi
aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la
consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone,
e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro
alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna,
che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della
religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie.
La parte più malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il
papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno Italico,
proibito i giuramenti: confermò questa proibizione per lo stato Romano
nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del
giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una
disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare
la fedeltà, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di
fedeltà, perchè credevano, che importasse il riconoscere l'imperator
Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter
consentire, non avendo il papa rinunziato. Nè si poteva pretendere, che
uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte
senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le
antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di
Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se
fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo
sapevano, che il papa era sovrano di Roma da più di dieci secoli, come
tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora
sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel
miglior modo possibile protestato contro la spoliazione.
Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta,
uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. Andò discorrendo, la legge
divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi
dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella
che è sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cioè, che non si
debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente
illecite: non potere l'autorità ecclesiastica derogare nè in tutto nè in
parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che
debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di
fedeltà senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di
Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede
egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione
stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non
obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del
sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero,
perciocchè le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non
obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione
altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di
Roma con mire del tutto umane, cioè per turbare il possesso al nuovo
governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il
papa operato come capo della Chiesa, nè come vicario di colui, che
disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegnò co' suoi
precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati
stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potestà
temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea
che oggidì importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la
quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori
dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto
l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali più di
quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar
giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola
particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata
nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi
sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni
dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e così ancora altre
insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di
constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono
la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi
civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge
civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare
secondo i loro principj religiosi: già parecchi vescovi dello stato
Romano, già un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi,
tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e
d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si
propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ciò porre grandissima
cura, che gli ecclesiastici, i quali già si erano uniformati, o
sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti
segni di soddisfazione e di confidenza.
Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto
all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla
al nuovo stato, e di più di giurare di non partecipar mai in nissuna
congiura o trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono
avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di
fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la
riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come
abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè
volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di
allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo,
troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocchè
gl'intimati potevano intendere la parola fedeltà non oltre il senso
dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si
potesse giurare fedeltà a quel governo, che era stato creato dagli
occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranità
temporale, cioè, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar
coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione,
prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio,
la materia aveva in se molta difficoltà. La Romana consulta procedeva
cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Alcuni
giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni:
ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia,
Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli
giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa
del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il
Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma
carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro
d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a
Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche
portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un
Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura
facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocchè più lo
sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e più rideva e si burlava di
loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei
tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a
Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente
quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli
spiatori di Napoleone, e diè che fare a tutti dal duca di Rovigo fino
all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero
nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda
dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che
giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti
giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni