Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI - 04

confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro
qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal
padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il
giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi
gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che
ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano
della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si
sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero
intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da
lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le
modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti;
primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in
cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non
sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel
concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di
leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè
pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità
volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel
senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il
governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il
pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni
vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita
con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti
alle pene.
Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed
all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati,
aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che
accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle
leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per
dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà
inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto,
voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le
leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e
che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono:
affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi
delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla
fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però
senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare
lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione
de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle
censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore
del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da
lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel
foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano
opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi
inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia
per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato
spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e
piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di
definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di
restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe
attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire
pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e
mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete
dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non
competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente
usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed
opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra
la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a
chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle
opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione
delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici.
Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece,
con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel
restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione
di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre
era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità
innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio
indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i
suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda
dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.
Pubblicava Pio una solenne protesta:
«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone,
che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province
della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti,
durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto,
non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da
tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui,
che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto,
abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia
apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè
sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o
la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo,
ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a
violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente
ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo
legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano
la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il
mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e
pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma
che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti
segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi
sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver
creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che
gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo
conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno
turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima
ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande
impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa
si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra
dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo
al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli
di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il
decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi
nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante
volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente
e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia
sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da
quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi
contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale
ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il
taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega
perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi
cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre.
Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di
rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli
assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta
l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati
Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore
stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i
porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio
più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto,
quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e
quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per
onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la
giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi
concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al
servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci,
come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di
risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la
donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca
d'Ancona.
«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e
manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana
Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una
ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta,
acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto
commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e
dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua
vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto,
di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e
solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle
terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame
d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto
dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle:
dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore
quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto
decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da
qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che
anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è
fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio
o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime
terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra
santa Sedia apostolica».
Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui
protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di
Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna,
usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto
lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a
visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San
Vincenzo per accarezzarlo.


LIBRO VIGESIMOQUARTO
SOMMARIO
Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo
degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo
dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani.
L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa
generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di
Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra.
L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta,
poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace
tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria
Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di
Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa
carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma
Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda.
Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice
spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato
a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.

Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria
depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le
disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i
patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma
ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti
d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse
dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le
profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella
distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di
temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito
ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza
tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e
per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di
riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed
all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto
procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la
sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità
commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso
gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti
eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi
pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi
travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare,
con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi,
ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava
tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si
doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere
coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere
a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non
so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e
prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco,
l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere;
gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria
non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato
per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione
dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della
Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un
Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana
congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione
all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser
capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le
mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della
quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello
era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito
grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania.
Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava
nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a
questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e
di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il
principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un
corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia,
tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi
aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre
affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei
Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa
della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di
Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo
vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste
assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di
natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni
accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare
per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva
sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del
paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva
molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per
frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la
Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre
l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni
confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria,
delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora
ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i
popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni
luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai
più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai
ella aveva fatto sì formidabile preparazione.
A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore.
Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della
quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi
punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala
disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla
guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva
risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno
Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava
meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli
medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del
Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome,
fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto
all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante,
al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava
l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la
fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed
Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto
e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere
alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano
sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si
poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati
Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel
Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal
Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito
principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.
L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe
avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo
il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che
colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui
superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di
Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio
vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra:
poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici
del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare
che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente,
del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare
che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del
sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque
ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed
indulgente affetto.
Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne
stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta
Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli
movimenti:
«Udite, diceva, Italiani, udite, e nei cuor vostri riponete, quanto la
verità, quanto la ragione da voi richieggono. Voi siete schiavi di
Francia, voi per lei le sostanze, voi la vita profondete. È l'Italico
regno un sogno senza realtà, un nome senza effetto. Gli scritti soldati,
le imposte gravezze, le usate oppressioni a voi bastantemente fan segno,
che niuna condizione di stato politico, che niun vestigio d'independenza
vi è rimasto. In tanta depressione voi non potete nè rispettati essere,
nè tranquilli, nè Italiani. Volete voi di nuovo Italiani essere?
Accorrete colle mani, accorrete coi cuori, ai generosi soldati di
Francesco imperatore congiungetevi. Manda egli un poderoso esercito in
Italia: non per sete di conquista il manda, ma per difendere se stesso,
ma per restituire l'independenza a tante europee nazioni, di cui la
servitù tanto è per tanti segni certa, quanto per tanti dolori dura.
Solo che Iddio secondi le virtuose opere di Francesco imperatore, e de'
suoi potenti alleati, fia novellamente Italia in se stessa felice, fia
da altri rispettata: avrà novellamente il capo della religione i suoi
stati, avrà la sua libertà. Una constituzione alla natura stessa, al
vero stato politico vostro consentanea, sarà per prosperare le italiche
contrade, e per allontanar da loro ogn'insulto di forza forestiera.
Promettevi Francesco sì fortunate sorti: sa l'Europa, essere la sua fede
tanto immutabile, quanto pura; il cielo, il cielo vi parla per bocca di
lui. Accorrete, Italiani, accorrete: chiunque voi siate, o qual nome
v'aggiate, o qual setta amiate, purchè Italiani siate, senza temenza
alcuna a noi venite. Non per ricercarvi di quanto avete fatto, ma per
soccorrervi e per liberarvi siamo in cospetto dell'Italiane terre
comparsi. Consentirete voi a restarvi, come ora siete, disonorati e
vili? Sarete voi da meno che gli Spagnuoli, eroica gente, che altamente
dissero, e che più altamente fecero che non dissero? Meno che gli
Spagnuoli amino, amate voi forse i vostri figliuoli, la vostra
religione, l'onore e il nome della vostra nazione? Abborrite voi forse
meno ch'essi, il vergognoso giogo a cui v'han posti coloro, che con
belle parole v'ingannarono, che con tristi fatti vi lacerarono?
Avvertite, Italiani, e negli animi vostri riponete ciò, che ora con
ragione e con verità vi diciam noi, che questa è la sola, questa
l'ultima occasione che a voi si scopre di vendicarvi in libertà, di
gettar via dai vostri colli il duro giogo che su tutta Italia s'aggrava:
avvertite, e negli animi vostri riponete, che se voi ora non vi
risentite, e se neghittosi ancora vi state ad osservare, voi vi mettete
a pericolo, quali dei due eserciti abbia ad aver vittoria, di non essere
altro più che un popolo conquistato, che un popolo così senza nome, come
senza diritti. Che se pel contrario con animi forti vi risolvete a
congiungere con gli sforzi dei vostri liberatori anco i vostri, e se con
loro andate a vittoria, avrà l'Italia novella vita, avrà suo grado fra
le grandi nazioni del mondo, e risalirà fors'anche al primo, come già il
primo si ebbe. Italiani, più avventurose sorti or sono nelle mani vostre
poste, in quelle mani che in alto alzando le faci indicatrici di
dottrina, di civiltà, di arti tolsero il mondo alla barbarie, e dolce, e
mansueto, e costumato il renderono. Milanesi, Toscani, Veneziani,
Piemontesi, e voi tutti popoli d'Italia, sovvengavi dei tempi andati,
sovvengavi dell'antica gloria: e tempi e gloria potranno rinstaurarsi, e
rinverdirsi più prosperi e più splendidi che mai, se fia che voi un
generoso cooperare ad un pigro aspettare anteponiate. Volere, fia
vittoria; volere, fia tornarvi più lieti e più gloriosi, che gli
antenati vostri ai tempi del maggiore splendor loro non furono».
A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acciò non avessero a
disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che
d'ignominiosa e perpetua servitù. Ma le sue esortazioni non partorirono
effetti d'importanza, perchè coloro che avevano le armi in mano,
parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bensì la
signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, nè che la
vittoria di lei fosse per essere la libertà d'Italia pareva lor chiaro:
tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. Nè
appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro,
la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo.
Addì dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca,
varcata la sommità dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non però
senza qualche difficoltà per la resistenza dei Francesi, quello della
Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante
corredo di artiglierìe e di cavallerìa passava l'Isonzo, e minacciava
con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce
incontro al ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto
valorosamente. Ma ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli
Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò per ordine
del vicerè sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il
principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza,
attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì
quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal
Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze
di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli
che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si
deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso
della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del
quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il
principe; poichè sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti
adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non
che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero
rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di
maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva
minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire.
Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e
Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo,
Broussier a sinistra: le fanterìe e le cavallerìe del regno Italico
formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i
Tedeschi, correva il dì sedici aprile: destossi una gravissima contesa
nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie
volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono
egregiamente. Pure restò Palsi in potestà dell'arciduca: e già i
Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavallerìe,
insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si
trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero
anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse
mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di
soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliardìa, che
pigliando del campo scacciò il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora
da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca,
veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel
soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette,
che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto
opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che già
manifestamente declinavano: Barbou eziandìo si difendeva con molto
spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la
battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave
e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi
d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar
Porcia; ma contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne
a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la
virtù del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno
squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale