Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 11
inferiore per modo, che cacciato all'insù da un sito all'altro aveva
anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo
stesso Macdonald, superata la resistenza, che Davidowich con un po' di
retroguardo di Wukassowich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa
capitale del Tirolo Italiano. Era adunque tolto ogni scampo a Laudon per
la strada maestra, nè altra speranza gli restava, che quella di condursi
per le strette ripide e malagevoli di Caldonazzo, a Levico. Il passo era
impossibile ad eseguirsi per sentieri tanto difficili, massime pei
cavalli, per le bagaglie, e per l'artiglierìe, se vivamente i Francesi
l'avessero perseguitato. Mandò dicendo a Moncey, essere conclusa una
tregua, cosa non vera, tra Brune e Bellegarde; il richiedeva
dell'osservazione: prestò fede il Francese, e si astenne dal combattere.
Laudon intanto, usando l'occasione e frettolosamente marciando, arrivava
a salvamento a Levico, donde calandosi con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della
repubblica, dolenti ambidue, che per inganno fosse loro stata tolta
l'occasione di un segnalato fatto a propria gloria, e ad utilità della
patria. Rammaricossene più spezialmente Macdonald, per avere incontrato
indarno tanti pericoli e fatiche. Restava che compisse un'altra parte
del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di
montar l'Adige fino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle
della Drava per riuscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la
strada al suo ricetto d'Austria. Infatti già era arrivato col suo
antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale
Auffenberg, che vi stava a difesa con quattromila soldati: non la
guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso
pensiero.
Eransi Wukassowich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna; ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dalla Brenta,
riducendosi sulle sponde della Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria si concluse il dì
sedici gennajo a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato,
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di
Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di
Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Francesi;
Mantova restasse bloccata dai repubblicani a ottocento braccia dallo
spalto con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci
giorni; i magistrati Austriaci si rispettassero, la tregua durasse
trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni
politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di
Treviso, perchè non giudicava a suo proposito, che l'Austria possedesse
Mantova. Mandò adunque minacciando, trovandosi in condizione vittoriosa,
all'Austria, che se non gli desse Mantova, sarebbe di nuovo interrotta
la concordia, e non avrebbe per rate nè la convenzione di Steyer, nè
quella di Treviso, e rincomincierebbe la guerra. Fu forza all'imperatore
il consentire, e per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella
principalissima fortezza data in mano dei Francesi.
La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè
per lei potevano i Francesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo stato
Romano, era entrato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato
il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi, e coi
fuorusciti Aretini, s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a
romore le parti superiori del gran ducato. Al quale moto sollevati gli
Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, s'incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il
generale Francese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano
sul principiar dell'anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più
debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Francesi, Cisalpini, e
Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò
prudentemente al partito di combattergli separati, usando celerità.
Marciavano primieramente contro i Napolitani condotti dal conte. Guidava
il generale Pino l'antiguardo di fanti Cisalpini, e di cavalli
Piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di
cinque o sei mila fanti Napolitani, e valorosamente urtando con le
bajonette, gli voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma
Pino guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della
vittoria, dava dentro incontanente, e fracassate coi cannoni le porte,
vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di
rannodarsi sui poggi vicini, ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini
ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorj
Toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il
marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis pel valore
de' suoi, e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde. Quest'erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la
sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le
cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat,
siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove
reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la
Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al
medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni
cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era
impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere
presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, che quantunque
fosse di natura pur troppo risentita, e si lasciasse tropp'oltre
trasportare dallo sdegno, aveva mente forte, e non dava molta fede alle
matte credenze, ed alle parole gonfie degli stravolti nemici di Francia,
si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze Russe, e non
isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo
per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il
consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col
consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè
s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte
del procedere di Paolo, perchè in primo luogo vedevano le nazioni,
principalmente gl'Italiani, che uno dei più potenti principi del mondo,
non solo riconosceva il suo governo, ma ancora aveva amicizia con lui;
in secondo luogo vedeva egli medesimo il regno di Napoli sottratto dalla
divozione Inglese, e ridotto nuovamente nella propria. Fecersi a
Lewashew venuto in Italia onorevoli accoglienze in ogni parte, parendo
che rilucesse nella persona sua tutta la grandezza di Paolo: i popoli si
maravigliavano, che la Russia tanto nemica a Francia, le fosse ora
divenuta amica, e paragonando i tempi di Suwarow con quei di Lewashew,
ammiravano la potenza e la felicità del consolo. Venne per parte del re
il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a
negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di
convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu
adunque il dì diciotto febbrajo, accordata tra Francia e Napoli, con
corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, i principali
capitoli della quale furono, che i soldati regj sgombrassero dallo stato
Romano, che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non
oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero
contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra
Porto-ferrajo e Porto-longone nell'isola d'Elba, fintantochè gl'Inglesi
non avessero sgombrato da Porto-ferrajo; che Dolomieu si liberasse dalle
carceri di Messina, che si restituissero gli ufficiali ed i generali
Francesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le
raccomandazioni di Francia per coloro, che fossero o banditi, o
carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto:
vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa: prevenendo le
instanze del consolo, aboliva i tribunali straordinarj, e condonava ogni
pena pel crimenlese. Murat tra per vanagloria ad entrar qual liberatore
in Roma, e per adescare ai futuri disegni venutovi dentro, e concorrendo
a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice.
Ogni cosa si componeva a concordia: più poteva a Vienna il terrore, che
le Inglesi esortazioni. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte
Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro
avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione,
pigliarono forma, che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto
il giorno nove di febbrajo. I capitoli principali, quanto all'Italia,
furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei
confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo insino alla sua
foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli stati d'Austria; la destra
parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla
Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la
Brisgovia al duca di Modena in ricompensa del perduto ducato;
rinunziasse il gran duca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana
e l'isola si dessero all'infante duca di Parma; il gran duca si
ricompensasse con stati competenti in Germania; conoscesse, e
riconoscesse l'imperatore le repubbliche Cisalpina e Ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territorj della
Cisalpina; consentisse alla unione dei feudi imperiali colla repubblica
Ligure. Del Piemonte nulla si stipulava, perchè Buonaparte voleva
serbarsi o una occasione per pigliarlo per se, od un appicco per piacere
a Paolo.
Il re di Napoli ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di
Paolo, ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze il dì vent'otto di marzo
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da
Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio, che il re
rinunziasse primieramente, e per sempre a Porto-longone, ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba, secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria, e da farne ogni voler suo, gli stati dei presidj ed il
principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso
fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti,
potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro
restituita ogni proprietà; da ambe le parti si dimenticassero le offese.
Le cose si fermarono anche con nuova composizione colla Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid il dì ventuno marzo da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti, che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia, che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca con titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana, spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re d'Etruria collo stato di Piombino; che
la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se
il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di
Spagna.
Così in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedendo ai Buonapartiani
fati, vinse il consolo Austria ed Italia. Poscia, essendo in tutti,
parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione
alla pace, composte tutte le controversie, contrasse amicizia
coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rinnalzò
Francia da bassa ad eminente fortuna.
LIBRO VIGESIMOPRIMO
SOMMARIO
Il consolo s'accorda con Roma, e rinstaura la religione
cattolica in Francia. Concordato. Discussioni nei consigli del
papa su di questo atto. Articoli organici aggiunti dal
consolo, e querele del pontefice in questo proposito. Ordini
Francesi introdotti in Piemonte, che accennano la sua unione
definitiva colla Francia. Menou mandato ad amministrar questo
paese in vece di Jourdan. Murat in Toscana. Suo manifesto
contro i fuorusciti Napolitani. La Toscana data al giovane
principe di Parma con titolo di regno d'Etruria. Il consolo
insorge per arrivare a più ampia autorità, ed a titolo più
illustre. Fa per questo sue sperienze Italiane, e chiama
gl'Italiani a Lione. Quivi il dichiarano presidente della
repubblica Italiana per dieci anni con capacità di esser
rieletto. Constituzione della repubblica Italiana. Genova
cambiata, e sua nuova constituzione. Monumento in Sarzana ad
onore della famiglia Buonaparte, natìa di questa città. Il
Piemonte formalmente unito alla Francia. Carlo Lodovico,
infante di Spagna, re d'Etruria per la morte del principe di
Parma. Descrizione della febbre gialla di Livorno. Le bilustri
trame di Buonaparte arrivano al loro compimento; si fa chiamar
imperatore. Pio settimo condottosi espressamente in Parigi, lo
incorona.
Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea constituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era
stata accordata tra Leone decimo, e Francesco primo, e tolto i beni alla
chiesa con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo,
massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini
statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso,
perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono,
cosa nefanda, a rinegare il proprio stato, e le proprie opinioni. Il
direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandogli
nell'esiglio, ora serrandogli nelle prigioni, e sempre impediendo loro,
massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i
riti divini. Fra tante amarezze dell'anime pie, qualche consolazione
recavano i preti giurati colle esortazioni, e coi conforti loro: ad essi
la Francia debbe restar obbligata della conservazione della fede; della
conservazione medesima la sedia apostolica debbe sentir loro obbligo,
sebbene abbia cagione di dolersene per la diminuzione da loro
introdotta, e pertinacemente sostenuta con le parole, con le opere, e
con gli scritti, nella giurisdizione della cattedra di San Pietro.
Conservarono eglino la fede, che è la radice, senza la quale ogni
religione, non che ogni disciplina ecclesiastica, sarebbe impossibile.
Ma la religione senza un culto ordinato, e senza riti accordati con la
pubblica autorità, e da lei riconosciuti e protetti, non potrebbe
sussistere lungo tempo, la cattolica meno di ogni altra, solita a
cattivar gli animi con le pompe e solennità esteriori. Ciò si vedevano
gli uomini prudenti, nei quali era entrata la persuasione, che le
credenze religiose sono un ajuto efficace alle leggi civili:
quest'istesso vedevano gli uomini religiosi, che si dolevano, che quello
che nelle menti e nei cuori loro pensavano ed amavano, non potessero in
ordinato e pubblico modo manifestare. Era adunque nato un desiderio in
Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti
Francesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più
difficile sembrava la rintegrazione. Certo pareva, che ove una prima
insegna di Cristo si fosse rizzata, là sarebbero concorsi cupidamente, e
con amore avrebbero abbracciato coloro, che rizzata l'avessero.
Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non
usarle per edificare la sua potenza, e per arrivare a' suoi fini
smisurati. Per questo aveva dato parole di pace, di religione, di
rispetto, e d'amicizia verso il papa, quando ritornò, dall'Egitto
arrivando, in Francia; per questo tenne i medesimi discorsi quando andò
alla seconda conquista d'Italia; per questo le medesime protestazioni
accrebbe quando vittorioso nei campi di Marengo se n'era tornato nella
sua consolar sede di Parigi. Adunque divenuto libero dai pensieri, che
più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente
l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un
aggiustamento in materia religiosa. Offeriva di dare stato, culto, e
comodi pecuniari alla religione cattolica, ed ai suoi ministri.
Aggiungeva le solite lusinghe, favellando con accomodate parole della
mansuetudine, e della santità del Chiaramonti, vescovo d'Imola. Nè
tralasciava le consuete dimostrazioni del suo amore verso la religione,
e verso i Francesi. Alcuni accidenti ajutavano queste pratiche, altri le
disajutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi
giurati che dipendentemente da un altro tenuto nel novantasette, con suo
consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro.
Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma
gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati, e contrarj a
quella pienezza di potestà, che i papi pretendono spettarsi alla sedia
apostolica. Della quale facoltà largamente usando, mandavano circolari
esortatorie ai vescovi, e preti loro compagni della chiesa gallicana,
acciocchè imitando, come dicevano, quella carità, di cui Gesù Cristo
aveva lasciato il precetto e l'esempio, venissero al destinato giorno ad
unirsi nel concilio di Parigi. Compissesi, confortavano, l'opera
incominciata nel concilio del novantasette, dessesi occasione ed
incitamento al rinnovare queste nazionali e sante assemblee presso tutte
le altre nazioni della cristianità, assemblee tanto raccomandate, e
tanto commendate dalla veneranda cristiana antichità; nodrissesi
speranza, che fossero esse il principio di un concilio ecumenico, la di
cui convocazione già da più secoli interrotta, sebbene il concilio di
Costanza avesse prescritto che ogni dieci anni si convocasse, era santa
e necessaria cosa rintegrare. Mandavano al tempo stesso pregando il
papa, col quale già il consolo negoziava per venirne allo statuire con
lui precetti contrarj, inviasse suoi deputati per certificarsi, quale e
quanta fosse la purità della fede loro: con lui si lamentavano di essere
stati prima condannati che uditi da Pio sesto; affermavano, per opera
loro non essere stato interrotto il corso della potestà episcopale:
forse, sclamavano, poter essere loro imputato a peccato l'avere
somministrato i sussidj, ed i conforti della religione a sì copioso
numero di diocesi, e di parrocchie abbandonate dai pastori loro?
Allegavano, che la facoltà di teologia, e di diritto canonico di
Friburgo in Brisgovia aveva profferito una sentenza tutta a loro
favorevole, sebbene non provocata; imploravano il parere di tutte le
altre università cattoliche, offerendosi pronti a dire ed a scrivere
quanto loro fosse addomandato a dilucidazione della controversia.
Protestavano finalmente, essere figliuoli obbedienti della Chiesa una,
santa, cattolica, apostolica, e romana; e con parole efficacissime
testimoniavano, nel grembo suo voler vivere, nel grembo suo morire.
Trattavasi in queste controversie principalmente della elezione dei
vescovi, cioè quanto al temporale, se la elezione fatta dal popolo fosse
valida, come quella fatta dai re e da altri capi di nazioni, e quanto
allo spirituale, se, perchè il filo della successione episcopale non
fosse interrotto, fosse necessaria l'instituzione del pontefice Romano,
o se bastasse quella fatta da un altro vescovo. Trattavasi poi anche di
quest'altro punto, se gli ecclesiastici dovessero vivere per le sole
obblazioni dei fedeli, o se dovessero possedere beni in proprio, e se
dottrina eretica fosse il mantenere che la potestà temporale, pei
bisogni generali dello stato potesse por mano senza il consenso del
Romano pontefice nei beni della chiesa. Non era punto nè incerta, nè
ignota la opinione dei vescovi giurati adunati in Parigi intorno alle
annunziate questioni, poichè ognuno sapeva, che sentivano contro le
dottrine della Romana sede. Nè solo queste opinioni in Francia erano
sorte, ma a loro non pochi uomini dottissimi, e di ogni religiosa virtù
ornati in Italia si erano accostati; conciossiachè, tacendo del Ricci,
vescovo di Pistoja, che più vivamente di tutti procedeva, nella medesima
sentenza erano venuti i professori Degola, Zola, Tamburini, Palmieri, e
con loro Gautier, prete Filippino di Torino, Vailua canonico d'Asti, con
molti altri sì Toscani, che Napolitani, che dal Ricci, o dai fratelli
Cestari avevano le medesime dottrine imparato. Non dubitava Gautier di
affermare, quale principio incontrastabile, che le elezioni dei vescovi
sono di diritto divino, od almeno di apostolica constituzione, che sì
fatto modo di elezione venne statuito dagli apostoli stessi, e servì di
esemplare alla disciplina praticatasi universalmente nella chiesa nei
secoli posteriori intorno ad un articolo di tanta importanza: allegava
il Filippino a confermazione della sua dottrina, che l'elezione di San
Mattia era stata fatta, non da San Pietro solamente, ma da tutti i
discepoli adunati nel cenacolo, che sommavano a centoventi: finalmente
usciva con dire, che se in fatto il pontefice Romano usava da più secoli
la facoltà di instituire i vescovi, per mera usurpazione ne usava. Da
tutto questo concludeva, che il papa doveva riconoscere, e confessare
per veri e legittimi vescovi coloro, ch'erano stati creati in conformità
degli ordini stabiliti dall'assemblea constituente di Francia. Voleva
adunque Gautier, ed esortava i vescovi, andassero, non ammessa scusa
alcuna, o pretesto in contrario, al concilio di Parigi per ingerirsi in
quella gran causa, perchè pareva a lui, che chiunque diritto e senza
prevenzione mirasse, avesse a venire in questa sentenza, che
l'innocenza, la ragione, la giustizia, secondo i sani principj dei
canoni stessero intieramente in favore dei pastori ordinati a norma
della constituzione del clero di Francia; che essi veri e legittimi
pastori fossero, siccome quelli che erano stati eletti dal popolo
cristiano, ed appruovati e constituiti nelle loro chiese dai rispettivi
metropolitani secondo i canoni primitivi dalla venerazione di tutto
l'universo confermati, e contro i quali nissuna consuetudine potrebbe
prevalere. A queste opinioni con l'autorità sua, e con gli scritti dava
favore Benedetto Solaro, vescovo di Noli, mostrando gran desiderio di
recarsi al concilio Parigino.
Pure da un'altra parte la Romana curia ardentemente impugnava le
medesime dottrine: Pio sesto pe' suoi brevi dei dieci marzo e tredici
aprile del novantuno, le aveva solennemente condannate, affermando, e
costantemente asseverando, che la potestà di compartire la giurisdizione
ecclesiastica secondo la disciplina da più secoli venuta in costume, e
dai concilj, ed ancora dai concordati confermata, non apparteneva
neppure ai metropolitani; che anzi questa potestà era alla fonte,
dond'era derivata, ritornata, siccome quella che unicamente
nell'apostolica sede ha la sua stanza, che presentemente al Romano
pontefice spettava il provvedere di vescovi ciascuna chiesa, come spiega
il concilio di Trento; dal che ne conseguitava che niuna legittima
instituzione di vescovi può esservi, eccetto quella che dalla sedia
apostolica si riceve; così avere statuito la Chiesa universale
debitamente adunata in concilio; così avere constituito il concordato
concluso tra Leone decimo pontefice, e Francesco primo re di Francia;
dal che si vedeva, che sebbene solamente dal secolo decimoquinto i
pontefici successori di San Pietro instituissero nelle sedi loro i
vescovi, incontrastabile nondimanco era in questa materia il diritto
loro, perciocchè vicarj di Cristo essendo, in se tutta avevano raccolta
la potestà data da Dio in terra pel governo della chiesa; e se i vescovi
erano posti a reggere le chiese particolari, ciò solamente potevano
fare, quando dal supremo ed universal pastore ne avevano ricevuto il
mandato.
A queste dottrine della curia Romana, come le chiamavano, non potevano
star forti, nè udirle pazientemente gli avversarj, e con parole e con
iscritti e con allegazioni di testi, e con sequele di ragionamenti
continuamente le combattevano. Nè ciò facendo, del tutto modestamente
procedevano: perciocchè, quantunque usassero discorsi artifiziosamente
umili verso il pontefice, mescolavano nondimeno motti acerbi, e sentenze
ancor più acerbe, quando favellano della potestà pontificia, e le
disputazioni, come di teologi, s'innasprivano. Insomma, siccome per la
constituzione civile del clero ordinata dall'assemblea constituente
pareva loro avere vinto una gran causa, così con tutti i nervi, e con
tutte le forze loro tentavano di riconfermare la conseguita vittoria.
Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano
una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei
non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa sede,
avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò
questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti
favorevoli al consolo; ma per natura, e per uso, e per massima amava
egli molto più il governo stretto e monarcale del papa, che il governo
largo e popolare degli avversarj, e gli pareva che gli ordini papali,
rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e
maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede, e
di ristretti pensieri; nè gli pareva che la constituzione del clero,
siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse
utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai
desiderj dei popoli, gli pareva che abbisognasse.
Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati e non istava
senza qualche timore, che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, cui avevano e con
fatti perseguitato, e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì su quei primi principj la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei
beni della chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere del
papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva
che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa
dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento
indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran
nome, e di qualche autorità, e il consolo gli voleva vezzeggiare: ma
l'impetrare dal papa, che non solamente gli assolvesse, e nel grembo suo
gli riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della
gallicana chiesa gli sollevasse, appariva intricato, e malagevole
argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della
parte contraria, che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi
dell'esiglio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte
per insistenza nell'antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia
reale di Francia.
Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo
della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè essendo i medesimi
anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo
stesso Macdonald, superata la resistenza, che Davidowich con un po' di
retroguardo di Wukassowich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa
capitale del Tirolo Italiano. Era adunque tolto ogni scampo a Laudon per
la strada maestra, nè altra speranza gli restava, che quella di condursi
per le strette ripide e malagevoli di Caldonazzo, a Levico. Il passo era
impossibile ad eseguirsi per sentieri tanto difficili, massime pei
cavalli, per le bagaglie, e per l'artiglierìe, se vivamente i Francesi
l'avessero perseguitato. Mandò dicendo a Moncey, essere conclusa una
tregua, cosa non vera, tra Brune e Bellegarde; il richiedeva
dell'osservazione: prestò fede il Francese, e si astenne dal combattere.
Laudon intanto, usando l'occasione e frettolosamente marciando, arrivava
a salvamento a Levico, donde calandosi con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della
repubblica, dolenti ambidue, che per inganno fosse loro stata tolta
l'occasione di un segnalato fatto a propria gloria, e ad utilità della
patria. Rammaricossene più spezialmente Macdonald, per avere incontrato
indarno tanti pericoli e fatiche. Restava che compisse un'altra parte
del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di
montar l'Adige fino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle
della Drava per riuscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la
strada al suo ricetto d'Austria. Infatti già era arrivato col suo
antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale
Auffenberg, che vi stava a difesa con quattromila soldati: non la
guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso
pensiero.
Eransi Wukassowich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna; ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dalla Brenta,
riducendosi sulle sponde della Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria si concluse il dì
sedici gennajo a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato,
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di
Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di
Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Francesi;
Mantova restasse bloccata dai repubblicani a ottocento braccia dallo
spalto con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci
giorni; i magistrati Austriaci si rispettassero, la tregua durasse
trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni
politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di
Treviso, perchè non giudicava a suo proposito, che l'Austria possedesse
Mantova. Mandò adunque minacciando, trovandosi in condizione vittoriosa,
all'Austria, che se non gli desse Mantova, sarebbe di nuovo interrotta
la concordia, e non avrebbe per rate nè la convenzione di Steyer, nè
quella di Treviso, e rincomincierebbe la guerra. Fu forza all'imperatore
il consentire, e per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella
principalissima fortezza data in mano dei Francesi.
La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè
per lei potevano i Francesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo stato
Romano, era entrato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato
il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi, e coi
fuorusciti Aretini, s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a
romore le parti superiori del gran ducato. Al quale moto sollevati gli
Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, s'incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il
generale Francese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano
sul principiar dell'anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più
debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Francesi, Cisalpini, e
Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò
prudentemente al partito di combattergli separati, usando celerità.
Marciavano primieramente contro i Napolitani condotti dal conte. Guidava
il generale Pino l'antiguardo di fanti Cisalpini, e di cavalli
Piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di
cinque o sei mila fanti Napolitani, e valorosamente urtando con le
bajonette, gli voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma
Pino guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della
vittoria, dava dentro incontanente, e fracassate coi cannoni le porte,
vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di
rannodarsi sui poggi vicini, ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini
ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorj
Toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il
marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis pel valore
de' suoi, e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde. Quest'erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la
sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le
cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat,
siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove
reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la
Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al
medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni
cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era
impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere
presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, che quantunque
fosse di natura pur troppo risentita, e si lasciasse tropp'oltre
trasportare dallo sdegno, aveva mente forte, e non dava molta fede alle
matte credenze, ed alle parole gonfie degli stravolti nemici di Francia,
si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze Russe, e non
isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo
per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il
consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col
consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè
s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte
del procedere di Paolo, perchè in primo luogo vedevano le nazioni,
principalmente gl'Italiani, che uno dei più potenti principi del mondo,
non solo riconosceva il suo governo, ma ancora aveva amicizia con lui;
in secondo luogo vedeva egli medesimo il regno di Napoli sottratto dalla
divozione Inglese, e ridotto nuovamente nella propria. Fecersi a
Lewashew venuto in Italia onorevoli accoglienze in ogni parte, parendo
che rilucesse nella persona sua tutta la grandezza di Paolo: i popoli si
maravigliavano, che la Russia tanto nemica a Francia, le fosse ora
divenuta amica, e paragonando i tempi di Suwarow con quei di Lewashew,
ammiravano la potenza e la felicità del consolo. Venne per parte del re
il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a
negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di
convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu
adunque il dì diciotto febbrajo, accordata tra Francia e Napoli, con
corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, i principali
capitoli della quale furono, che i soldati regj sgombrassero dallo stato
Romano, che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non
oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero
contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra
Porto-ferrajo e Porto-longone nell'isola d'Elba, fintantochè gl'Inglesi
non avessero sgombrato da Porto-ferrajo; che Dolomieu si liberasse dalle
carceri di Messina, che si restituissero gli ufficiali ed i generali
Francesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le
raccomandazioni di Francia per coloro, che fossero o banditi, o
carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto:
vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa: prevenendo le
instanze del consolo, aboliva i tribunali straordinarj, e condonava ogni
pena pel crimenlese. Murat tra per vanagloria ad entrar qual liberatore
in Roma, e per adescare ai futuri disegni venutovi dentro, e concorrendo
a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice.
Ogni cosa si componeva a concordia: più poteva a Vienna il terrore, che
le Inglesi esortazioni. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte
Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro
avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione,
pigliarono forma, che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto
il giorno nove di febbrajo. I capitoli principali, quanto all'Italia,
furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei
confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo insino alla sua
foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli stati d'Austria; la destra
parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla
Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la
Brisgovia al duca di Modena in ricompensa del perduto ducato;
rinunziasse il gran duca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana
e l'isola si dessero all'infante duca di Parma; il gran duca si
ricompensasse con stati competenti in Germania; conoscesse, e
riconoscesse l'imperatore le repubbliche Cisalpina e Ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territorj della
Cisalpina; consentisse alla unione dei feudi imperiali colla repubblica
Ligure. Del Piemonte nulla si stipulava, perchè Buonaparte voleva
serbarsi o una occasione per pigliarlo per se, od un appicco per piacere
a Paolo.
Il re di Napoli ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di
Paolo, ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze il dì vent'otto di marzo
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da
Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio, che il re
rinunziasse primieramente, e per sempre a Porto-longone, ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba, secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria, e da farne ogni voler suo, gli stati dei presidj ed il
principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso
fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti,
potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro
restituita ogni proprietà; da ambe le parti si dimenticassero le offese.
Le cose si fermarono anche con nuova composizione colla Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid il dì ventuno marzo da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti, che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia, che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca con titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana, spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re d'Etruria collo stato di Piombino; che
la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se
il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di
Spagna.
Così in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedendo ai Buonapartiani
fati, vinse il consolo Austria ed Italia. Poscia, essendo in tutti,
parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione
alla pace, composte tutte le controversie, contrasse amicizia
coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rinnalzò
Francia da bassa ad eminente fortuna.
LIBRO VIGESIMOPRIMO
SOMMARIO
Il consolo s'accorda con Roma, e rinstaura la religione
cattolica in Francia. Concordato. Discussioni nei consigli del
papa su di questo atto. Articoli organici aggiunti dal
consolo, e querele del pontefice in questo proposito. Ordini
Francesi introdotti in Piemonte, che accennano la sua unione
definitiva colla Francia. Menou mandato ad amministrar questo
paese in vece di Jourdan. Murat in Toscana. Suo manifesto
contro i fuorusciti Napolitani. La Toscana data al giovane
principe di Parma con titolo di regno d'Etruria. Il consolo
insorge per arrivare a più ampia autorità, ed a titolo più
illustre. Fa per questo sue sperienze Italiane, e chiama
gl'Italiani a Lione. Quivi il dichiarano presidente della
repubblica Italiana per dieci anni con capacità di esser
rieletto. Constituzione della repubblica Italiana. Genova
cambiata, e sua nuova constituzione. Monumento in Sarzana ad
onore della famiglia Buonaparte, natìa di questa città. Il
Piemonte formalmente unito alla Francia. Carlo Lodovico,
infante di Spagna, re d'Etruria per la morte del principe di
Parma. Descrizione della febbre gialla di Livorno. Le bilustri
trame di Buonaparte arrivano al loro compimento; si fa chiamar
imperatore. Pio settimo condottosi espressamente in Parigi, lo
incorona.
Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea constituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era
stata accordata tra Leone decimo, e Francesco primo, e tolto i beni alla
chiesa con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo,
massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini
statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso,
perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono,
cosa nefanda, a rinegare il proprio stato, e le proprie opinioni. Il
direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandogli
nell'esiglio, ora serrandogli nelle prigioni, e sempre impediendo loro,
massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i
riti divini. Fra tante amarezze dell'anime pie, qualche consolazione
recavano i preti giurati colle esortazioni, e coi conforti loro: ad essi
la Francia debbe restar obbligata della conservazione della fede; della
conservazione medesima la sedia apostolica debbe sentir loro obbligo,
sebbene abbia cagione di dolersene per la diminuzione da loro
introdotta, e pertinacemente sostenuta con le parole, con le opere, e
con gli scritti, nella giurisdizione della cattedra di San Pietro.
Conservarono eglino la fede, che è la radice, senza la quale ogni
religione, non che ogni disciplina ecclesiastica, sarebbe impossibile.
Ma la religione senza un culto ordinato, e senza riti accordati con la
pubblica autorità, e da lei riconosciuti e protetti, non potrebbe
sussistere lungo tempo, la cattolica meno di ogni altra, solita a
cattivar gli animi con le pompe e solennità esteriori. Ciò si vedevano
gli uomini prudenti, nei quali era entrata la persuasione, che le
credenze religiose sono un ajuto efficace alle leggi civili:
quest'istesso vedevano gli uomini religiosi, che si dolevano, che quello
che nelle menti e nei cuori loro pensavano ed amavano, non potessero in
ordinato e pubblico modo manifestare. Era adunque nato un desiderio in
Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti
Francesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più
difficile sembrava la rintegrazione. Certo pareva, che ove una prima
insegna di Cristo si fosse rizzata, là sarebbero concorsi cupidamente, e
con amore avrebbero abbracciato coloro, che rizzata l'avessero.
Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non
usarle per edificare la sua potenza, e per arrivare a' suoi fini
smisurati. Per questo aveva dato parole di pace, di religione, di
rispetto, e d'amicizia verso il papa, quando ritornò, dall'Egitto
arrivando, in Francia; per questo tenne i medesimi discorsi quando andò
alla seconda conquista d'Italia; per questo le medesime protestazioni
accrebbe quando vittorioso nei campi di Marengo se n'era tornato nella
sua consolar sede di Parigi. Adunque divenuto libero dai pensieri, che
più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente
l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un
aggiustamento in materia religiosa. Offeriva di dare stato, culto, e
comodi pecuniari alla religione cattolica, ed ai suoi ministri.
Aggiungeva le solite lusinghe, favellando con accomodate parole della
mansuetudine, e della santità del Chiaramonti, vescovo d'Imola. Nè
tralasciava le consuete dimostrazioni del suo amore verso la religione,
e verso i Francesi. Alcuni accidenti ajutavano queste pratiche, altri le
disajutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi
giurati che dipendentemente da un altro tenuto nel novantasette, con suo
consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro.
Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma
gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati, e contrarj a
quella pienezza di potestà, che i papi pretendono spettarsi alla sedia
apostolica. Della quale facoltà largamente usando, mandavano circolari
esortatorie ai vescovi, e preti loro compagni della chiesa gallicana,
acciocchè imitando, come dicevano, quella carità, di cui Gesù Cristo
aveva lasciato il precetto e l'esempio, venissero al destinato giorno ad
unirsi nel concilio di Parigi. Compissesi, confortavano, l'opera
incominciata nel concilio del novantasette, dessesi occasione ed
incitamento al rinnovare queste nazionali e sante assemblee presso tutte
le altre nazioni della cristianità, assemblee tanto raccomandate, e
tanto commendate dalla veneranda cristiana antichità; nodrissesi
speranza, che fossero esse il principio di un concilio ecumenico, la di
cui convocazione già da più secoli interrotta, sebbene il concilio di
Costanza avesse prescritto che ogni dieci anni si convocasse, era santa
e necessaria cosa rintegrare. Mandavano al tempo stesso pregando il
papa, col quale già il consolo negoziava per venirne allo statuire con
lui precetti contrarj, inviasse suoi deputati per certificarsi, quale e
quanta fosse la purità della fede loro: con lui si lamentavano di essere
stati prima condannati che uditi da Pio sesto; affermavano, per opera
loro non essere stato interrotto il corso della potestà episcopale:
forse, sclamavano, poter essere loro imputato a peccato l'avere
somministrato i sussidj, ed i conforti della religione a sì copioso
numero di diocesi, e di parrocchie abbandonate dai pastori loro?
Allegavano, che la facoltà di teologia, e di diritto canonico di
Friburgo in Brisgovia aveva profferito una sentenza tutta a loro
favorevole, sebbene non provocata; imploravano il parere di tutte le
altre università cattoliche, offerendosi pronti a dire ed a scrivere
quanto loro fosse addomandato a dilucidazione della controversia.
Protestavano finalmente, essere figliuoli obbedienti della Chiesa una,
santa, cattolica, apostolica, e romana; e con parole efficacissime
testimoniavano, nel grembo suo voler vivere, nel grembo suo morire.
Trattavasi in queste controversie principalmente della elezione dei
vescovi, cioè quanto al temporale, se la elezione fatta dal popolo fosse
valida, come quella fatta dai re e da altri capi di nazioni, e quanto
allo spirituale, se, perchè il filo della successione episcopale non
fosse interrotto, fosse necessaria l'instituzione del pontefice Romano,
o se bastasse quella fatta da un altro vescovo. Trattavasi poi anche di
quest'altro punto, se gli ecclesiastici dovessero vivere per le sole
obblazioni dei fedeli, o se dovessero possedere beni in proprio, e se
dottrina eretica fosse il mantenere che la potestà temporale, pei
bisogni generali dello stato potesse por mano senza il consenso del
Romano pontefice nei beni della chiesa. Non era punto nè incerta, nè
ignota la opinione dei vescovi giurati adunati in Parigi intorno alle
annunziate questioni, poichè ognuno sapeva, che sentivano contro le
dottrine della Romana sede. Nè solo queste opinioni in Francia erano
sorte, ma a loro non pochi uomini dottissimi, e di ogni religiosa virtù
ornati in Italia si erano accostati; conciossiachè, tacendo del Ricci,
vescovo di Pistoja, che più vivamente di tutti procedeva, nella medesima
sentenza erano venuti i professori Degola, Zola, Tamburini, Palmieri, e
con loro Gautier, prete Filippino di Torino, Vailua canonico d'Asti, con
molti altri sì Toscani, che Napolitani, che dal Ricci, o dai fratelli
Cestari avevano le medesime dottrine imparato. Non dubitava Gautier di
affermare, quale principio incontrastabile, che le elezioni dei vescovi
sono di diritto divino, od almeno di apostolica constituzione, che sì
fatto modo di elezione venne statuito dagli apostoli stessi, e servì di
esemplare alla disciplina praticatasi universalmente nella chiesa nei
secoli posteriori intorno ad un articolo di tanta importanza: allegava
il Filippino a confermazione della sua dottrina, che l'elezione di San
Mattia era stata fatta, non da San Pietro solamente, ma da tutti i
discepoli adunati nel cenacolo, che sommavano a centoventi: finalmente
usciva con dire, che se in fatto il pontefice Romano usava da più secoli
la facoltà di instituire i vescovi, per mera usurpazione ne usava. Da
tutto questo concludeva, che il papa doveva riconoscere, e confessare
per veri e legittimi vescovi coloro, ch'erano stati creati in conformità
degli ordini stabiliti dall'assemblea constituente di Francia. Voleva
adunque Gautier, ed esortava i vescovi, andassero, non ammessa scusa
alcuna, o pretesto in contrario, al concilio di Parigi per ingerirsi in
quella gran causa, perchè pareva a lui, che chiunque diritto e senza
prevenzione mirasse, avesse a venire in questa sentenza, che
l'innocenza, la ragione, la giustizia, secondo i sani principj dei
canoni stessero intieramente in favore dei pastori ordinati a norma
della constituzione del clero di Francia; che essi veri e legittimi
pastori fossero, siccome quelli che erano stati eletti dal popolo
cristiano, ed appruovati e constituiti nelle loro chiese dai rispettivi
metropolitani secondo i canoni primitivi dalla venerazione di tutto
l'universo confermati, e contro i quali nissuna consuetudine potrebbe
prevalere. A queste opinioni con l'autorità sua, e con gli scritti dava
favore Benedetto Solaro, vescovo di Noli, mostrando gran desiderio di
recarsi al concilio Parigino.
Pure da un'altra parte la Romana curia ardentemente impugnava le
medesime dottrine: Pio sesto pe' suoi brevi dei dieci marzo e tredici
aprile del novantuno, le aveva solennemente condannate, affermando, e
costantemente asseverando, che la potestà di compartire la giurisdizione
ecclesiastica secondo la disciplina da più secoli venuta in costume, e
dai concilj, ed ancora dai concordati confermata, non apparteneva
neppure ai metropolitani; che anzi questa potestà era alla fonte,
dond'era derivata, ritornata, siccome quella che unicamente
nell'apostolica sede ha la sua stanza, che presentemente al Romano
pontefice spettava il provvedere di vescovi ciascuna chiesa, come spiega
il concilio di Trento; dal che ne conseguitava che niuna legittima
instituzione di vescovi può esservi, eccetto quella che dalla sedia
apostolica si riceve; così avere statuito la Chiesa universale
debitamente adunata in concilio; così avere constituito il concordato
concluso tra Leone decimo pontefice, e Francesco primo re di Francia;
dal che si vedeva, che sebbene solamente dal secolo decimoquinto i
pontefici successori di San Pietro instituissero nelle sedi loro i
vescovi, incontrastabile nondimanco era in questa materia il diritto
loro, perciocchè vicarj di Cristo essendo, in se tutta avevano raccolta
la potestà data da Dio in terra pel governo della chiesa; e se i vescovi
erano posti a reggere le chiese particolari, ciò solamente potevano
fare, quando dal supremo ed universal pastore ne avevano ricevuto il
mandato.
A queste dottrine della curia Romana, come le chiamavano, non potevano
star forti, nè udirle pazientemente gli avversarj, e con parole e con
iscritti e con allegazioni di testi, e con sequele di ragionamenti
continuamente le combattevano. Nè ciò facendo, del tutto modestamente
procedevano: perciocchè, quantunque usassero discorsi artifiziosamente
umili verso il pontefice, mescolavano nondimeno motti acerbi, e sentenze
ancor più acerbe, quando favellano della potestà pontificia, e le
disputazioni, come di teologi, s'innasprivano. Insomma, siccome per la
constituzione civile del clero ordinata dall'assemblea constituente
pareva loro avere vinto una gran causa, così con tutti i nervi, e con
tutte le forze loro tentavano di riconfermare la conseguita vittoria.
Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano
una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei
non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa sede,
avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò
questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti
favorevoli al consolo; ma per natura, e per uso, e per massima amava
egli molto più il governo stretto e monarcale del papa, che il governo
largo e popolare degli avversarj, e gli pareva che gli ordini papali,
rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e
maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede, e
di ristretti pensieri; nè gli pareva che la constituzione del clero,
siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse
utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai
desiderj dei popoli, gli pareva che abbisognasse.
Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati e non istava
senza qualche timore, che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, cui avevano e con
fatti perseguitato, e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì su quei primi principj la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei
beni della chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere del
papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva
che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa
dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento
indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran
nome, e di qualche autorità, e il consolo gli voleva vezzeggiare: ma
l'impetrare dal papa, che non solamente gli assolvesse, e nel grembo suo
gli riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della
gallicana chiesa gli sollevasse, appariva intricato, e malagevole
argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della
parte contraria, che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi
dell'esiglio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte
per insistenza nell'antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia
reale di Francia.
Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo
della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè essendo i medesimi
- Parts
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