Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 04
anche dalla parte del mare, desiderava di assicurarsi dagl'insulti loro.
A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica
opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la
quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta
fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza
usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci
della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori,
effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi.
Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una
flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa
nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo
fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi
circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi
e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un
navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed
infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori
delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato
de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di
genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il
presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna
tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano,
voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza.
Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa
più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi
le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera
principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro,
sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz.
Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato
d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli,
nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal
sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù,
massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si
chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta
efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva
nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con
parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in
Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un
esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle
strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè
libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva
fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e
distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori.
Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e
le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano
sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto
dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi
pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva
serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad
insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici,
continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a
serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo
gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre
e minacciose contro il dominio dei Francesi. Entrarono eglino in
sospetto di quello che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando
autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento
della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi,
tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole,
incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi,
governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la
provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era
subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente
lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa
contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta
famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro
continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi
maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva
l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con
Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di
lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato.
Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i
generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel
nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto
le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz,
avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e
mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo,
gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche
l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per
essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri,
quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito
molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine
ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine
parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non
piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai
Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz
debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato,
che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere
da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò
sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore
dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni
d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte
ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva.
A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich
conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto
confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le
indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del
muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti
dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando
per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano
con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal
modo tutto il paese all'intorno d'Ancona.
Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori
alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno
per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati
perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le
popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere
genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di
Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini
e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli,
Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca,
belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora
dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza
militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe
quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando
sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e
venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro,
Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza
d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei
suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo
in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo,
tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale
bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la
cittadella.
Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre
navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe
e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla
bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se
n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte
Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era
alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei
loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e
rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si
alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro
il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione,
nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel
posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella
presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona.
Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte
ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di
monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano
verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi
la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma
un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di
Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i
combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva
dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era
uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar
l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora
suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro,
sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed
ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e
ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani
addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero
le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona.
Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero
stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo.
Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il
Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una
impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima
ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le
ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini
potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse
divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della
patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di
lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando,
continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io
liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre
sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io
vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè
pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e
l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro
accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la servitù.
Amommi Laharpe, perchè generoso mi conobbe, ed a pensieri generosi
intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui
gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto
molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau
illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a
schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io
combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la
tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto,
che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi
occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite
acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo
tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè
noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto
disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte
degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad
effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già
l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro.
Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente
dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed
universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si
può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi
divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per
opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico
valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente
per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati
all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su
che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così
men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel»
(perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina,
suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto
se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io
amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo».
(MANGOURIT, _Défense d'Ancône_, t. II.) Ciò detto, passava da questa
all'altra vita.
Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al
monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì
due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche
contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la
porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e
cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto
potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio
proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli
assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza.
Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi
le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie;
Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto.
Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal,
portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia,
specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana.
Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non
a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di
guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli
scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia
d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque
nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o
fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse
essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per
fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi
volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il
potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e
perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra
tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di
Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai
Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione
di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di
se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio
Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in
Francia per la strada della Bocchetta.
Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra
prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei.
Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva
castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i
mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e
l'Austria.
LIBRO DECIMONONO
SOMMARIO
Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza,
e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio
universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e,
distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose
col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla
conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia,
ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi
vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi
dentro da Massena; resa della piazza.
S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore
dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla
potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e
superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro
lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era
il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte
parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione
Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente
per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento
proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia.
Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno
che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli
accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con
le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del
vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era
per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel
bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo
alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i
veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni
non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le
provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le
opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello,
che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una
mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può
resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello
scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri
sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun
governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche
bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro
comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere,
prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di
gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della
licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano
al ridurle ai disegni loro.
In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome
di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri.
Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le
cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata
repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice
Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome
Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta
avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso
solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere
alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la
vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli
animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo
solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e
poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè
non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico?
Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di
ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in
un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo
essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti:
pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità
tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica,
senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed
Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un
desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli
amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla;
i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè
confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre;
i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era
uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè
speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non
dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè
pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti
ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i
filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle
cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori
segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso,
siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli
fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire
l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli
nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si
prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle,
aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra
i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un
savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era
ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da
quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i
desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte
dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad
effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella
battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro,
perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più
durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la
congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali
superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era
punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano
Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era
il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con
quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico
rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte
d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di
Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia,
conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario.
Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi
della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà
Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano
quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso
l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto,
ed opportuno.
Buonaparte, che conosceva ottimamente per la sua mente pronta e vasta,
per la perizia somma nelle faccende di stato, e per la cognizione
profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna
che si parava davanti, e quanto fosse propizia la occasione di condurre
ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio, che un mezzo
opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue
cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e
straordinarie sorti. Salpava dagli Egiziani lidi, conducendo con se i
suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e
delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva
servire, come di ajuto molto potente, dell'autorità, delle lingue, e
degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora,
disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo
arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che
bramosamente l'aspettava. Io non mi starò a raccontare le allegrezze che
si fecero in tutta Francia, quando si sparse la voce del suo ritorno:
basta, che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a
A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica
opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la
quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta
fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza
usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci
della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori,
effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi.
Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una
flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa
nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo
fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi
circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi
e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un
navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed
infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori
delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato
de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di
genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il
presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna
tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano,
voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza.
Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa
più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi
le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera
principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro,
sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz.
Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato
d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli,
nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal
sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù,
massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si
chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta
efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva
nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con
parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in
Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un
esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle
strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè
libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva
fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e
distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori.
Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e
le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano
sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto
dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi
pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva
serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad
insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici,
continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a
serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo
gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre
e minacciose contro il dominio dei Francesi. Entrarono eglino in
sospetto di quello che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando
autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento
della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi,
tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole,
incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi,
governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la
provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era
subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente
lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa
contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta
famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro
continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi
maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva
l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con
Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di
lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato.
Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i
generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel
nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto
le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz,
avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e
mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo,
gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche
l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per
essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri,
quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito
molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine
ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine
parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non
piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai
Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz
debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato,
che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere
da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò
sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore
dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni
d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte
ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva.
A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich
conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto
confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le
indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del
muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti
dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando
per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano
con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal
modo tutto il paese all'intorno d'Ancona.
Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori
alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno
per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati
perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le
popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere
genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di
Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini
e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli,
Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca,
belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora
dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza
militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe
quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando
sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e
venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro,
Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza
d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei
suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo
in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo,
tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale
bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la
cittadella.
Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre
navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe
e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla
bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se
n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte
Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era
alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei
loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e
rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si
alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro
il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione,
nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel
posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella
presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona.
Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte
ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di
monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano
verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi
la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma
un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di
Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i
combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva
dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era
uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar
l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora
suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro,
sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed
ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e
ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani
addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero
le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona.
Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero
stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo.
Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il
Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una
impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima
ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le
ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini
potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse
divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della
patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di
lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando,
continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io
liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre
sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io
vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè
pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e
l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro
accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la servitù.
Amommi Laharpe, perchè generoso mi conobbe, ed a pensieri generosi
intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui
gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto
molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau
illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a
schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io
combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la
tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto,
che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi
occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite
acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo
tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè
noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto
disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte
degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad
effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già
l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro.
Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente
dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed
universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si
può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi
divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per
opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico
valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente
per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati
all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su
che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così
men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel»
(perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina,
suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto
se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io
amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo».
(MANGOURIT, _Défense d'Ancône_, t. II.) Ciò detto, passava da questa
all'altra vita.
Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al
monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì
due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche
contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la
porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e
cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto
potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio
proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli
assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza.
Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi
le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie;
Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto.
Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal,
portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia,
specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana.
Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non
a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di
guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli
scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia
d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque
nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o
fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse
essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per
fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi
volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il
potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e
perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra
tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di
Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai
Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione
di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di
se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio
Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in
Francia per la strada della Bocchetta.
Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra
prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei.
Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva
castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i
mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e
l'Austria.
LIBRO DECIMONONO
SOMMARIO
Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza,
e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio
universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e,
distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose
col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla
conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia,
ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi
vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi
dentro da Massena; resa della piazza.
S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore
dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla
potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e
superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro
lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era
il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte
parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione
Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente
per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento
proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia.
Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno
che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli
accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con
le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del
vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era
per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel
bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo
alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i
veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni
non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le
provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le
opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello,
che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una
mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può
resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello
scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri
sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun
governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche
bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro
comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere,
prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di
gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della
licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano
al ridurle ai disegni loro.
In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome
di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri.
Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le
cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata
repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice
Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome
Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta
avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso
solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere
alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la
vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli
animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo
solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e
poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè
non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico?
Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di
ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in
un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo
essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti:
pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità
tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica,
senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed
Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un
desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli
amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla;
i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè
confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre;
i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era
uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè
speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non
dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè
pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti
ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i
filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle
cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori
segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso,
siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli
fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire
l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli
nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si
prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle,
aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra
i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un
savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era
ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da
quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i
desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte
dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad
effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella
battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro,
perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più
durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la
congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali
superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era
punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano
Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era
il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con
quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico
rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte
d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di
Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia,
conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario.
Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi
della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà
Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano
quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso
l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto,
ed opportuno.
Buonaparte, che conosceva ottimamente per la sua mente pronta e vasta,
per la perizia somma nelle faccende di stato, e per la cognizione
profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna
che si parava davanti, e quanto fosse propizia la occasione di condurre
ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio, che un mezzo
opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue
cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e
straordinarie sorti. Salpava dagli Egiziani lidi, conducendo con se i
suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e
delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva
servire, come di ajuto molto potente, dell'autorità, delle lingue, e
degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora,
disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo
arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che
bramosamente l'aspettava. Io non mi starò a raccontare le allegrezze che
si fecero in tutta Francia, quando si sparse la voce del suo ritorno:
basta, che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 05
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 06
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 07
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 08
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 09
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - 10
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