Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 20

battere la cittadella. Ma i corpi che avevano preso il campo e contro
San Giorgio, e contro la cittadella, non avevano l'ufficio di farsi via
per forza, o per rotture di mura nelle due fortezze: solo disegnavano
d'impedire la campagna al nemico, e battendo con le artiglierìe dargli
diversi riguardi, perchè meno fosse forte a difendersi in quella parte,
che principalmente Kray aveva fatto pensiero di assaltare, e dove
intendeva di far la breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il
nemico ostinato oltre il dovere resistesse. Nè stette lungo tempo in
dubbio circa la elezione, perchè la parte di porta Pradella gli si
appresentò tostamente come la più debole, sì per esser dominata
dall'eminenza di Belfiore, sì per non avere altra difesa esteriore, che
un'opera a corno, nè altra difesa di fianco, che il bastione di
Sant'Alessio molto lontano, una mezza luna a sinistra, ed il bastione di
Luterana a destra, sì per essere tutte queste difese molto anguste, e
perciò incapaci di molte artiglierìe, e di spandere i tiri alla larga,
anzi capaci all'incontro di essere molestate con fitto bersaglio dal
nemico, e sì finalmente per essere in questa parte il terreno manco
paludoso, e però più atto a ricevere gli approcci. Ma a volere che gli
approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per gli
oppugnatori l'impadronirsi del torrione, e del molino di Ceresa. A
questo fine tirando furiosamente contro i detti luoghi, sforzarono i
difensori a ritirarsene; poi fattovi impeto con una mano di soldati
animosi, vi entrarono, e vi si alloggiarono. Quindi senza starsene ad
indugiare, alzarono le serrature del Paiolo; il che fu cagione, che le
acque del canale di questo nome, trovando uno scolo più facile, si
abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto abilità a Kray di
spingersi avanti con le trincee contro la piazza. Spesseggiavano i Russi
coi tiri contro la cittadella, gli Austriaci contro San Giorgio. Ma la
principale tempesta veniva da Osteria alta, dai siti vicini alla strada
per a Montanara, da Belfiore, da casa Rossa, da Paiolo, da Valle, e da
Spanavera; quivi il generalissimo d'Austria aveva piantato le sue più
grosse e più numerose artiglierìe, per battere o per diritto o per
fianco l'opera a corno di porta Pradella, i bastioni della porta
medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le fortificazioni dell'isola
del T, e del Migliaretto.
Mentre con tanto fracasso, e con sì viva tempesta fulminava Kray la
parte più debole della piazza, tempesta, alla quale gagliardamente anche
rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con le trincee
dell'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di guastatori, di
zappatori, e di palauoli ordinati a venire dalle campagne insistevano a
scavare, e ad ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli
assediati facessero ogni sforzo per isturbargli con le artiglierìe,
giacchè con le sortite a cagione della forza prepotente degli
assediatori non potevano, la prima circondazione o come ora dicono,
parallella, che si distendeva dalla strada per a Bozzolo insino a fronte
del bastione di Sant'Alessio; poi con gli approcci o con le traverse
avvicinandosi, piantarono sei batterìe, delle quali la prima batteva il
bastione di Luterana a canto la porta Pradella, le tre seguenti
bersagliavano l'opera a corno, e la mezza luna della medesima porta, la
quinta la cortina tra la porta medesima ed il bastione di Sant'Alessio,
la sesta finalmente questo bastione. Già i confederati erano arrivati a
compire la seconda parallella, e da questa con maggior furore
scagliavano nella piazza il giorno palle, la notte bombe: era infinito
il terrore della città. Per tale furioso nembo furono scavalcate quasi
tutte le artiglierìe dei difensori: l'opera a corno, e le fortificazioni
di porta Pradella lacere e quasi intieramente distrutte offerivano agli
oppugnatori mezzo poco pericoloso di attaccare la piazza, e di entrarvi.
Al tempo stesso un altro corpo di Austriaci assaltava il vico di Paiolo
sito a rincontro di porta Ceresa, e dopo un ostinato combattimento se ne
insignoriva. Il generale Austriaco Esnitz, che reggeva la schiera
oppugnatrice di San Giorgio tempestò con sì gran romore in sembianza di
volerne venire ad un assalto che i repubblicani pressati da tante altre
parti, si deliberarono di abbandonare, lasciandola in potere degli
Austriaci, questa parte delle fortificazioni di Mantova, che è divisa
dal corpo della piazza per le acque del lago di mezzo, e dell'inferiore.
Tutti questi assalti e questi vantaggi diedero abilità al corpo
principale dell'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo
stesso dello spalto degli Austriaci scavarono, ed alzarono la loro terza
circondazione. Col nemico tanto vicino, con tutte le difese demolite o
fracassate, non potevano più sperare i Francesi di conservare in
possessione loro l'opera a corno, solo antemurale della porta Pradella,
ancorchè il presidio dell'abbandonato San Giorgio fosse venuto a
rinforzare i battaglioni che la difendevano. Pensarono adunque al
ritirarsi, il che effettuarono non senza aver prima chiodato i cannoni,
che non poterono trasportare. Accortisi gl'imperiali dell'accidente,
entrarono, vi si alloggiarono, e voltando dal bastione acquistato come
da luogo più vicino, l'artiglierìe contro la porta Pradella, se alcuna
cosa ancora vi era rimasta intiera, questa disfecero e rovinarono: già
battevano in breccia. La tempesta continuava da ogni lato: più di
diecimila o palle, o bombe si lanciavano ogni giorno contro la straziata
Mantova; non si era mai per lo innanzi veduta una oppugnazione tanto
vigorosa, e tanto violenta.
Già porta Pradella era distrutta, le case vicine, o diroccavano, o
ardevano: sorgevano incendi pericolosi in varie parti; le fiamme
consumavano i magazzini a San Giovanni; straziato era il bastione di
Sant'Alessio, le sue batterie smontate; medesimamente le batterie del T
coi carretti rotti giacevano inutili al suolo, il Migliaretto sconcio e
fracassato non faceva più difesa; ogni governo di artiglierìe era
divenuto impossibile nella fronte della piazza opposta agli Austriaci, o
perchè erano scavalcate, o perchè ne erano morti o fugati i cannonieri:
niun parapetto intiero, niun muro non rovinato; i lavoratori di dentro
ricusavano in quell'estremo pericolo, ed in mezzo a sì spaventevole
fracasso l'opera loro; la piazza sfasciata, ed aperta da questo lato non
aveva più nè difesa d'armi d'artiglierìa, nè difesa di ripari, nè modo
di risarcirgli. Era la guernigione inabile al resistere con le armi, con
cui si combatte da vicino, perchè assottigliata dalle stragi, indebolita
dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro
mila abili alla battaglia, non era più a gran pezza pari a tanta
bisogna. Tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti, e perseverava
nella difesa, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro il
colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e
certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta
delle genti Francesi sulla Trebbia, e l'essersi Moreau del tutto
ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò
Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo,
discrepando solamente un uffiziale Bouthon, comandante dell'artiglierìe,
che fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo
addì ventotto di luglio, i capitoli di maggior momento furono i
seguenti: onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione,
avessero i gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli
scambi, il comandante e gli uffiziali, soggiornato tre mesi negli stati
ereditarj, avessero facoltà di tornare nei paesi loro, i Cisalpini,
Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Francesi a stimarsi, e
come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e
dei feriti, dessersi tre carri coperti al generale, due agli uffiziali,
perdonerebbesi la vita ai disertori Austriaci. Entrarono i confederati
il dì ventinove nella lacerata Mantova, e per questa espugnazione fu
dimostrato al mondo, che per viva forza ella si può espugnare in pochi
giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi in
abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Fecero i Mantovani
molte feste per l'arrivo dei Tedeschi, come ne avevano fatte per
l'arrivo dei Francesi. Di questi, chi si poteva reggere, sebbene si
trovasse in estrema debolezza o per ferite, o per malattìa, accorreva, o
da se o fattosi portare, ai compagni che se ne andavano, amando meglio
perire in mezzo al nome di Francia, che andar salvo in mezzo ai Russi ed
ai Tedeschi. Pure rimasero nella fortezza dodici centinaja di soldati
malati, e due migliaja circa perirono o al tempo dell'assedio largo per
malattìe, o al tempo dell'assedio stretto per ferite. I morti ed i
feriti dalla parte dei confederati non arrivarono ai cinquecento. Fu
accusato Latour-Foissac di poco animo, e di debole difesa da alcuni, da
altri di esser aristocrata, di non amare la repubblica, di aver tenuta
continuamente informata con lettere la contessa di Artesia di ogni cosa.
Altri finalmente dissero anche parole peggiori, affermando che si fosse
lasciato corrompere per un milione, e ottocentomila franchi dati, o
promessi da Kray. Chi conosce lo stato, a cui era ridotta porta
Pradella, crederà facilmente che il generale dell'Austria non aveva
bisogno di dar denaro per entrare nella piazza, e che il generale di
Francia non aveva bisogno di accettarlo per lasciarlo entrare. Accusollo
il direttorio, accusollo Buonaparte messosi al luogo del direttorio; ma
il mondo sincero e giusto, nè mosso dalla superbia, che si compiace
dell'avvilimento altrui, ha giudicato, che Latour-Foissac abbia compito
nella difesa di Mantova, senza sospetto di macula alcuna, tutti gli
uffizj che si appartenevano a buono e leale capitano, e che l'arrendersi
in quel punto fu per lui necessità, non viltà, nè cupidigia di denaro.
Successe tosto alla dedizione di Mantova quella di Serravalle. È
Serravalle piccola fortezza di dizione Piemontese, posta sulla Scrivia,
dove le falde degli Apennini incominciano a sollevarsi in quegli alti
gioghi, che a grado a grado viemaggiormente innalzandosi, arrivano al
sommo vertice della Bocchetta. Era questa fortezza venuta, prima, come
abbiam narrato, in potere dei repubblicani Piemontesi, che facevano
guerra al re, poi introdotto un presidio Francese, cesse intieramente in
podestà della repubblica. Importava a Suwarow pe' suoi disegni contro
Genova che s'impadronisse di lei, poi di Gavi, che posto in più alto
sito, e sopra scoscesa rupe, è propugnacolo alla capitale della Liguria.
Adunque contro la fortezza di Serravalle mandava Suwarow le sue genti,
dando carico a Schwaicuschi di tenere il nemico a bada, a Dalheim di
passare la Scrivia presso Cassano Spinola, a Mitruschi di accamparsi tra
Novi e Gavi per mozzar le strade agli assediati. Aprironsi le trincee,
piantaronsi le batterie, furono fracassate, e ridotte inutili le
artiglierìe della piazza: il comandante richiesto di resa, negava:
ricominciossi la batteria; fracassato il muro, restava la breccia
aperta. Si arrendeva a discrezione il dì sette agosto. Trovarono i
vincitori nella fortezza dieci cannoni, un mortajo, con qualche
provvisione sì da bocca, che da guerra.
Le rotte d'Italia, e la presa di tante fortezze, massimamente quella di
Mantova, intorno alla quale si era affaticato Buonaparte quattro mesi,
avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè potevano
restar capaci, siccome quelli, che ancora avevano la memoria fresca di
tante vittorie, del come soldati, sì sovente ed in tanti segnalati fatti
superati dai repubblicani, fossero adesso, e tutto ad un tratto divenuti
sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque fazione, che
tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore, chi i
tradimenti per opinione. Fuvvi ancora chi disse solennemente orando in
tribuna, che palle di legno ricoperte artifiziosamente di laminette di
piombo fossero state date ai soldati repubblicani nelle battaglie. Si
accusava Scherer, si accusava Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si
accusava Becaud, comandante che era stato del castello di Milano: nè
trovava animi meglio inclinati verso di lui il valoroso Gardanne. Se non
si dava carico di tradimento a Moreau per corruzione di denaro, che in
questo fu stimato sempre, ed era veramente di natura integerrima, gli si
dava quello di repubblicano tiepido, e dell'amministrare la guerra non
con quella vigorìa, che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi,
pretessendo alle parole loro l'amore di libertà, accagionavano il
direttorio delle calamità presenti, e facevano ogni opera per
espugnarlo, conciossiachè i più fra coloro che gridavano libertà, non
altro modo in Europa sapevano tenere per fondarla, che questo di disfare
i governi per mettersi nei luoghi loro, ambizione pessima, che corrompe
il buono, e fa venir ai governi certe voglie, che forse non avrebbero,
ed a cui pure sono di per se stessi pur troppo inclinati. Insomma tanto
si travagliarono con le parole e con gli scritti, e col subornare e col
subillare, che tre quinqueviri furono cambiati, surrogati nei seggi loro
tre altri, che erano stimati repubblicani di più forte e più sincero
conio. Stettero contenti i zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi
rincominciarono a gridare contro i surrogati più fortemente di prima,
dicendo, che non valevano meglio degli scambiati. Tanto era impossibile
il fondare un governo libero con quei cervelli pazzamente ambiziosi! In
questi schiamazzi e vociferazioni tanto s'infuocarono, che produssero
poco dopo, come si dirà, una nuova mutazione; ma a questa volta posero
in seggio chi gli fece poi tacer tutti. Intanto su quei primi calori dei
tre nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze, parendo, che un pensare
più vivo in materia di repubblica avesse anche a dare armi più forti.
Siccome poi niuna nazione è tanto capace di fornire imprese
straordinarie, quanto la Francese, quando è usata in su questi rigogli,
così i nuovi reggimenti si deliberarono di non mettere tempo in mezzo
per dimostrare al mondo, quanto potesse quella Francia, quando ella si
scuoteva, e quale urto fosse il suo, quando l'animo vivo fosse secondato
da un governo vivo. Applicarono adunque l'animo a riscaldare l'affezione
della repubblica, l'amore del nome Francese, la ricordanza dei gloriosi
fatti. Per tal modo diveniva ogni giorno più la materia ben disposta;
delle quali favorevoli inclinazioni valendosi, mandavano alle frontiere
in Svizzera, in Savoja, nel Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella
Liguria quante genti regolari potevano risparmiare dei presidj interni.
Poi per procurar nuove radici alle genti veterane, ordinavano nuove leve
in ogni parte. I soldati nuovi marciavano volentieri, perchè le
sconfitte recenti e le vittorie passate con la necessità di mantener
illibato il nome Francese con accesi colori si rappresentavano dalle
gazzette, dagli oratori, dai magistrati: poi la barbarie dei Russi, la
nimistà degli Austriaci, le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si
dipingevano.
Questi tentativi su quegli uomini pronti ed animosi efficacemente
operavano, e già Francia si muoveva con animo confidente contro la lega
Europea; moto certamente onorevole dopo tante disgrazie. Pensiero era,
non certo di menti avvilite, di assaltare al tempo stesso e Svizzera e
Piemonte, e Italia. A tanta mole erano richiesti capitani valorosi e di
gran fama. Già nella Svizzera Massena animosissimamente combatteva,
spesso con evento pari, talvolta con prospero, contro l'arciduca Carlo.
Restava, che agli eserciti, che dovevano far impeto contro il Piemonte e
contro l'Italia, venissero preposti generali di nome, accetti ai
soldati, accetti agl'Italiani. Nè in questo stette lungo tempo in dubbio
il direttorio; perchè, trattone Buonaparte tanto lontano, in nissuno
tutte queste condizioni maggiormente si lodavano, che in Championnet e
Joubert. Entrambi conoscevano l'Italia, entrambi nell'Italiane guerre si
erano mescolati, entrambi di vita continente, e nemici dei depredatori,
cosa di grande importanza per voltare a se gli animi degl'Italiani;
entrambi finalmente repubblicani sinceri, ed amici per indole e per
massima dell'independenza altrui. Avevano anche voce l'uno e l'altro di
amare il nome Italiano, perchè nè Joubert aveva voluto dar le mani ai
disegni di Trouvè e di Rivaud contro il governo Cisalpino, nè
Championnet tollerare l'imperio insolente e rapace dei commissarj a
Napoli. La loro principale speranza avevano i repubblicani Italiani
collocata in Joubert, perchè sapevano che suo intento era o volesse il
governo Francese, o no, di ridurre l'Italia in una sola repubblica unita
e independente, purchè fosse strettamente congiunta d'amicizia con la
Francia. Conoscevano l'animo di lui ardito e forte, nè mai tanta
inclinazione d'animi benevoli, ed attenti alle cose avvenire vi fu verso
alcuno reggitore di popoli o d'eserciti, quanta fu questa degl'Italiani
verso Joubert. Nè ignoravano, ch'egli era d'animo civile e temperato, nè
temevano che quando avesse corso vittorioso l'Italia, fosse per
sottometterla al giogo soldatescamente; perciocchè non era loro ignoto,
che esortato da partigiani di diversa sorte in Francia, perchè, disfatto
il governo, s'impadronisse della somma delle cose, aveva sdegnosamente
rifiutato la proposta.
Quelli fra i repubblicani d'Italia, che cacciati dalla patria avevano
cercato riparo in Francia, molto insistevano e con le parole, e con gli
scritti, e con le opere in questo proposito dell'independenza, e
dell'unità Italiana, persuadendosi, che con questo nome in fronte
avessero i Francesi, e chi sentiva con loro, e far correre i popoli in
loro favore.
Joubert secondava questi sforzi con volontà sincera. Gli secondava
altresì, ma solo con qualche dimostrazione esteriore, e non coll'animo
il direttorio desideroso di riacquistare il dominio d'Italia, e
confidando che questo generoso ed alto proposito fosse per essere mezzo
potente all'esecuzione. Due, come abbiamo scritto, erano gli eserciti,
che il direttorio aveva intenzione di mandare contro gli alleati in
Italia; il primo governato da Championnet, aveva carico di minacciar il
Piemonte superiore, e preservare le fortezze di Cuneo e di Fenestrelle:
il secondo più grosso doveva accennare, per le strade massimamente del
Cairo e della Bocchetta, verso il Piemonte inferiore, con intento di
liberar Tortona dall'assedio, e di combattere su quel fianco gli
alleati, donde poteva, se la fortuna si mostrasse favorevole, facilmente
aprirsi il cammino sino a Milano; il quale fatto per la sua grandezza
avrebbe partorito ammirazione degli uomini, e terrore nuovo delle armi
di Francia. Era desiderabile, che questi due eserciti in uno e medesimo
tempo calassero verso i luoghi, a cui erano per volgersi; ma Championnet
non aveva ancor messo insieme tante genti, che fossero abbastanza a così
grave bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati
nuovi essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non
poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come
sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva
l'esercito pronto e capace di combattere: erano in lui i forti veterani
di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della
Vendea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo.
Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini, ed
infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidj necessari,
perchè abbondavano di artiglierìe e di munizioni; solo si sarebbe
desiderato un maggior nervo di cavallerìa. Si temeva che Tortona, che
dopo la perdita di Alessandria era il solo forte, che potesse facilitar
la strada ai repubblicani per Milano, non venisse in poter dei
confederati, che con forti assalti la straziavano. Per la qual cosa,
sebbene Championnet non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert
si era deliberato a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona
per combattere in battaglia campale il nemico, e se ciò non gli venisse
fatto, sperava almeno, che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione
per soccorrere Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau,
che se ne doveva partire per andar al governo della guerra del Reno:
«Generale, gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed
ecco, che il primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di
comandarvi, che restiate con noi, e che governiate le genti, come
supremo duce, voi medesimo: ciò mi fia caro oltre modo. Sarommi il primo
ad obbedirvi, e ad adoprarmi qual vostro primo ajutante». Tant'era la
venerazione, che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la
temperanza del suo animo! Ciò fu cagione che Moreau restasse, ed
ajutasse col suo consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che
si preparavano. Le genti venute da Napoli con Macdonald, e l'antico
esercito di Moreau si calavano la maggior parte per la Bocchetta: le
venute frescamente da Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso
Acqui. Bellegarde fece qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si
ritirò, prima dai più alti luoghi per forza, poi dai più bassi per
ordine di Suwarow, che prevalendo di cavallerìa, voleva aspettare i
repubblicani al piano. Entrarono questi in Acqui; il mandarono a sacco
per vendetta di compagni uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava
ai monti Liguri. Non si era allora curato il capitano di Francia di
vendicare i suoi, essendo obbligato a camminare velocemente: il che
vedutosi dai villani sollevati fatti signori di Acqui, l'avevano
attribuito a miracolo di San Guido protettore della città, comparso,
come dicevano, sulle mura per dar terrore ai Francesi. Ne fece il
vescovo della Torre, volendo ricoprire le sue parzialità precedenti pei
repubblicani, o vere o finte che si fossero, raccorre le testimonianze;
funne anche rogato l'atto solenne. Così restò, che San Guido fosse
comparso; e chi sel credeva, ne parlava; e chi non sel credeva, ne
parlava anche di più.
Quando l'ala sinistra dei Francesi, di cui abbiam favellato, e che era
governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy, Lemoine,
e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e della destra,
ordinava Joubert il suo esercito, ed il disponeva agli ulteriori
disegni. La mezza obbediva a Joubert; la destra era commessa al valore
del generale San Cyr, che aveva con se Vatrin, Laboissière, e
Dambrowski. Quest'ultima scesa dalla Bocchetta arrivava per Voltaggio e
Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva intanto una
fazione contro Serravalle per mezzo del generale Polacco, il quale
occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezza alloggiava sulla
strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada nella valle d'Orba,
spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra aveva le sue stanze
verso Basaluzzo. Così l'oste di Francia, nella quale si noveravano circa
quarantamila soldati, si distendeva dalla Bormida fin'oltre alla
Scrivia, signoreggiando le tre valli della Bormida, dell'Erro e
dell'Orba, del Lemmo e della Scrivia. Desiderava Joubert, premendogli di
soccorrere Tortona, di fare un motivo sopra questa piazza; mandava a
questo fine soldati corridori per Cassano Spinola sulla destra della
Scrivia. Intanto non contento alla fortezza naturale di quei luoghi
erti, e montuosi, con trincee, con fossi, e con batterìe di cannoni
piantate nei siti più acconci alle difese, gli affortificava. Per tal
modo i Francesi sovrastavano minacciosi dai monti alla sottoposta
pianura.
Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua
dritta, composta massimamente di quei Tedeschi, che Kray aveva condotto
dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo
governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara; la mezza, a cui
soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi tutta
consisteva in soldati Russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro di
Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri
Austriaci, e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine di
fare che i repubblicani non gli potessero impedire la recuperazione di
Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne fosse:
erano nel novero di circa sessantamila soldati. Apparivano l'uno
all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia poteva
differirsi. Ardeva Joubert di desiderio di venir tosto alle mani, sì per
ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che voleva, che
non si stesse ad indugiare per far inclinar del tutto le sorti dall'un
de' lati in quell'aspra guerra. Ma essendo cosa di grandissimo momento
per Francia, si deliberò a consultare sopra la materia in una dieta
militare convocata a posta: quivi pullulò una grande varietà di
opinioni. Opinava Joubert, e con lui i più audaci de' suoi capitani, che
si desse dentro subitamente. Allegavano gli ordini risoluti del
direttorio per rinstaurar l'onore delle armi Francesi in Italia con un
campale conflitto; essere quello il momento propizio di affrontar il
nemico stanco dai freschi e lunghi viaggi, attonito al veder comparire
di nuovo sul campo più forti di prima quei repubblicani, ch'ei credeva
sbigottiti ed oppressi; doversi usare l'ardor Francese, quando più
bolle; doversi temere la tiepidezza successiva; valere i Francesi nelle
difese, ma ancor più valere negli assalti; mirassero quei volti,
toccassero quelle destre, vedrebbero, toccherebbero segni di certa
vittoria; per questo, e non per aspettare qual momento piacesse al
nemico di combattere, essere venuti dalle lontane Calabrie, essere
venuti dalla lontana Brettagna; l'aspetto che a fronte loro si scopriva
delle Italiane campagne, rammentare tante vittorie col ferro, non
coll'ozio acquistate; convenirsi il temporeggiare a quei freddi Russi, a
quei pesanti Tedeschi, non ai vivi ed ardimentosi Francesi; sapere,
prevaler di numero i confederati, ma quante volte avere i soldati della
repubblica vinto eserciti più numerosi? Sapere, prevaler ancora di
cavallerìa, e per questo avere qualche vantaggio nei luoghi agili e
piani; ma le legioni della repubblica non avere mai temuto l'incontro
delle cavallerìe; avere tante volte sostenuto, fiaccato, rotto l'impeto
loro; non con le cavallerìe, ma con le fanterìe vincersi le moderne
guerre; più poter le bajonette, che un nitrito vano, e colpi incerti:
menassersi adunque incontanente i repubblicani alla battaglia, e tosto
si vedrebbe, che se la fortuna ajuta gli audaci, in questo fatto
massimamente gli ajuterebbe: subita pugna, concludevano, e l'Italia in
premio.
Dall'opposta parte i più prudenti, che dannavano l'esporsi nella
campagna aperta, argomentavano, farsi le guerre col valore, ma farsi
ancora con l'arte; stolto consiglio essere il lasciare i consigli certi
per abbracciare gl'incerti; essere il vincer certo, se in quei luoghi
tanto forti, e quasi inaccessibili per natura, tanto fortificati per
arte, il nemico si aspettasse; divenire il vincer dubbio, se nel piano
si scendesse, dove un solo errore, dove uno spavento improvviso sarebbe,
in tanta superiorità di forze nemiche, fatale all'esercito; conoscere il
valor Francese, ma non doversi lui porre a sperimenti temerarj; essere
stanche alcune squadre degli alleati, ma le altre fresche, e veterane
tutte; combattere gli alleati con tutte le forze loro, perchè era
arrivato Bellegarde colle genti vincitrici d'Alessandria, era arrivato
Kray colle genti vincitrici di Mantova; non combattere i Francesi con
tutte, perchè Championnet non era ancora giunto al luogo suo, ed ancora
si aspettava. E quale temerità, quale stoltizia essere il combattere
dimezzato, quando temporeggiando si può combattere intiero? Chi s'ardirà
addossarsi un tanto carico? A chi non rifuggirà l'animo al pensare, che
se l'esercito oggi è vinto, avrebbe potuto vincere domani? Volere il
direttorio, che non s'indugiasse la battaglia, ma non avere comandato,
che in questo preciso giorno si combattesse; nè essere da credere che
meglio amasse, che l'esercito fosse vinto che vincitore: sempre vincere
a tempo chi vince; qualche cosa ancora lasciare lui pure alla prudenza
dei capitani, qualche cosa alle occasioni, qualche cosa alla necessità: