Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 17
tutti i Francesi, nè restar loro altra salute, se non quella di
allontanarsi tostamente da quei disumani e sanguinosi lidi. La crudele
bugia allignava; la nave bombardiera con le barche Mauritane, voltate le
vele, se ne tornava là dond'era venuta. Che cuore fosse di Tissot e dei
compagni nel vedere le andantisi vele, non so in quale lingua, nè con
quali parole dire adeguatamente si potrebbe. Fatto in quel mortale caso
il capitano Francese maggiore di se medesimo, gridava: «Saran dunque, o
compagni i nostri giuramenti indarno? Insulteremo noi, quai pusillanimi
soldati, alle ombre dei nostri compagni eroicamente morti nelle presenti
battaglie? No, noi morrem piuttosto, se vincere non possiamo, e la tomba
accorrà coloro, che nel momento estremo hanno onorato la patria loro:
lasciamo segni terribili del nostro valore, ed i nemici nostri all'udire
le battaglie di Nicopoli e di Preveza, ed al rammentare il nome di
Francia stupiscano di maraviglia, e tremino di terrore».
Ciò detto, si avventava con furiosissima pinta in mezzo ai barbari;
seguitavanlo i compagni; Preveza vedeva una battaglia senza pari. Pochi
uomini assaltavano una moltitudine innumerabile, nè solo l'assaltavano,
ma la ributtavano, e la cacciavano piena di maraviglia e di spavento. Le
contrade, le piazze, i portici di Preveza abbondavano di cadaveri,
fumavano di sangue. Datosi dagli animi, che sono instancabili, quanto da
loro si poteva dare, incominciavano a mancare i corpi, le cui forze
lungamente non possono durare in isforzo estremo. La fame, la sete, la
fatica, l'impeto stesso delle volontà avevano dato luogo alla
estenuazione, e se non erano rotti gli animi, erano consumate le forze,
nè più si combatteva pei repubblicani con tanto ardore. Accortisi i
barbari dell'insperato cessamento, tornavano alla battaglia con grida
spaventevoli: l'avidità della preda, la rabbia della vendetta gli
stimolavano. Vinse la moltitudine fresca contro pochi e lassi. Chi non
fu morto, fu preso, e chi non volle andar preso, a tale salse un
coraggio indomabile, si uccise da se stesso con le armi tinte del sangue
dei barbari; alcuni cercarono la morte, nell'avaro mare gittandosi.
Degli ottanta, solo otto col capitano Tissot restarono superstiti, e
questi furono tutti dal truculento vincitore dannati a vita tale, che di
lei migliore è la morte. Veduti minacciosamente da Alì, erano mandati a
strettissima prigione con quattrocento Prevezani, uomini e donne, presi
nell'infelice patria loro. Per addolorargli, e per ispaventargli,
conducevangli a riva il golfo, perchè quivi vedessero sul sanguinoso
campo, dove avevano combattuto, le miserande reliquie dei loro compagni
uccisi: cadaveri laceri, membra tronche, teste difformi, e bruttate di
sangue, e di fango. Riconosceva, ciascuno con pianti e con querele chi
aveva avuto o per parentela, o per amicizia più caro. Godevano i
barbari, insultavano, minacciavano, il dolore stesso prendevano a
scherno: peggiore governo di loro, affermavano, doversi fare di quello,
che dei morti si era fatto; avere ad essere fra pochi momenti le teste
loro vive pari a quelle degli ammazzati. Faceva Alì tormentare ed
uccidere non pochi Prevezani in cospetto dei Francesi cattivi, ed ei se
ne stava mirando, godendo, e compiacendosi delle miserabili grida dei
tormentati e dei morienti. Condotti i vinti sulla piazza di Preveza,
così ordinando il tiranno, un Albanese scotennava con rasojo le morte
teste, poi le salava; poi comandava ai Francesi, che anch'essi così
facessero. Ricusarono dapprima per onore e per orrore; ma battiture
dolorosissime gli domavano; davansi a scotennare le teste degli uccisi
compagni, spettacolo doloroso ed orribile. Gli atti nefandi a questo non
si ristavano. I quattrocento Prevezani, legati, e sanguinosi dalle
battiture furono condotti nell'isola Salagora, e quivi tutti senza
pietade alcuna, nè con più riguardo verso l'un sesso che verso l'altro,
nè verso la canuta che verso la verde età, crudelmente uccisi. Le
compassionevoli preghiere per perdono, e per grazia di coloro, di cui si
laceravano le membra, vieppiù inviperivano la ferocia di quell'aspra, e
selvaggia gente, e chi si taceva, era l'ultimo chiamato a morte. Grondò
Salagora di sangue umano a rivi, poi biancheggiò, e forse biancheggia
ancora di ossa rotte, e di teschi ammaccati. Menavansi a Lorù, grossa
terra poco lontana, i prigioni di Preveza e di Nicopoli; poi si
avviavano verso l'Arta per alla via di Ianina. Viaggiando, quella torma
di disumanati carnefici gli sforzava a portare a volta a volta le teste
ancora stillanti sangue degli uccisi amici, e chi ricusava l'orrendo
carico, era barbaramente tormentato. Gli Albanesi, quasi a modo di
passatempo, straziavano a coda di cavallo Caravella Prevezano: straziato
il lasciavano respirare, perchè raccogliesse nuova lena ad essere
ritormentato, poi di nuovo sforzavano a corsa, flagellando, il cavallo,
e così fra i tormenti ed i respiri il condussero, alzando essi al cielo
festevoli grida, ad acerbissima morte. Arrivarono all'Arta, poi a
Ianina; si offersero agli occhi loro le teste dei compagni conficcate
sui merli dell'atroce reggia di Alì. Da Ianina per la Grecia, e per la
Romanìa s'incamminavano a Constantinopoli. Dov'eran le strade più
sassose e più aspre, toglievano loro i barbari per diletto le scarpe:
dov'erano più assetati, e dove più scorrevano le acque fresche e chiare
gli proibivano dal dissetarsi: chi non poteva o per stracchezza, o per
fame, o per sete, o per ferite seguitare, tirato a forza sulla sponda
dei fossi, vi era inesorabilmente dai crudeli accompagnatori decapitato;
i compagni sforzati a portar le teste sanguinose. Sopportarono i miseri
Francesi, dico i superstiti, perchè i più perirono, con inenarrabile
costanza tormenti tanto insopportabili, Lasalcette, e Hotte i primi.
Quando io penso dall'un de' lati alla natura tanto sensitiva dell'uomo,
e con quanto amore, e con quanta difficoltà si allevino i figliuoli per
fargli adulti, d'altro allo strazio, che gli uomini fanno degli uomini,
spesso per nonnulla, spessissimo per cagioni lievi, qualche volta con
allegrezza, sempre senza dolore, sto in dubbio, se animali feroci, o
uomini io me gli deggia chiamare; che anzi al tutto mi risolvo, ed in
questo pensiero mi fermo, che piuttosto uomini, che animali feroci si
debbano chiamare, perchè non vedo, che le tigri facciano delle tigri
quello strazio, che gli uomini fanno degli uomini; e peggio, che quando
essi non possono con le coltella, si lacerano con le lingue. Bene sto
sempre in dubbio, a che cosa servono la ragione e la compassione, che
solo sono date agli uomini. I lacerati giunti a Costantinopoli, furono,
Lasalcette e Hotte, serrati nelle Sette Torri, gli ufficiali ed i
gregarj posti al remo sull'Ottomane galere.
Intanto l'oppugnazione dell'isola di Corfù si continuava gagliardamente
dai Russi e dagli Ottomani. Ogni dì più cresceva il numero degli
assalitori: mandava Alì i suoi Albanesi, e genti Turche continuamente
arrivavano. Per avere gli alleati occupato le eminenze del monte Oliveto
e di San Pantaleone, erano gli assediati ristretti nei forti, e niuna
via restava loro per allargarsi nell'isola. Il Mandruccio venuto in
poter dei Russi, le Castrate spesso infestate dai Turchi e dagli
Albanesi, che calavano dal vicino Pantaleone, San Salvatore venuto
spesso in contesa, quantunque sempre valorosamente difeso dai
repubblicani. L'assalto di Corfù tirava in lungo, l'oppugnazione
diveniva assedio, perchè i Francesi difendevano la piazza virilmente, ed
ella è molto forte, ed i Turchi, quantunque assai coraggiosi, non sanno
condurre con arte le oppugnazioni delle fortezze. In questo l'ammiraglio
di Russia Ocsacow, che governava con suprema autorità la guerra, pensava
ad una fazione di non difficile esecuzione, e che di certo gli avrebbe
dato la piazza in mano, se avesse avuto, come non dubitava, felice fine.
Siede sul fianco della città, e della principale fortezza di Corfù verso
tramontana una isoletta, o piuttosto scoglio, che gli uomini del paese
chiamano di Vido, e che i Francesi chiamavano col nome d'isola della
Pace. Era questo scoglio, siccome pieno di alberi verdissimi, quieto
recesso a chi volesse ricoverarvisi a respirare dalle cure cittadine, e
dolce prospetto a chi dalla città il rimirasse. Quest'amena sede di
riposo e d'ombre aveva tosto ad essere turbata, e straziata dalla rabbia
degli uomini. Avevano conosciuto i Francesi, che chi fosse padrone di
questo scoglio, avrebbe potuto battere da vicino coll'artiglierìe la
cortina della fortezza, e farvi presta breccia. Per la qual cosa,
tagliati ed atterrati gli alberi, vi avevano fatto spianate a guisa di
ridotti, munite d'artiglierìe sui cinque siti più importanti dello
scoglio; perchè sporgendosi oltre il circuito dell'isola, facevano le
veci di bastioni. Meglio di quattrocento buoni soldati sotto il governo
del generale Piveron erano posti a guardia di questo principale
propugnacolo di Corfù. Nondimeno, malgrado dei fatti apparecchi non era
luogo, che si potesse tenere lungamente; perchè nè vi era ridotto
trincerato, dove la guernigione potesse ritirarsi a contendere il
possesso dell'isola, ove il nemico vi fosse sbarcato, nè le batterie
erano chiuse di terrati, o di steccati; il perchè, quasi del tutto senza
parapetti essendo, lasciavano i difensori esposti al bersaglio dei
nemico, che da diverse parti si avvicinasse per andar all'assalto.
Avevano anche i cannoni carretti da marina, e però più bassi, e più
difficili a governarsi. Lo scoglio di Vido era luogo buono a tenersi da
chi, come i Veneziani, essendo forte sull'armi di mare, poteva proibire,
che il nemico sicuramente vi si avvicinasse: per questa ragione non
l'avevano i Veneziani munito di fortificazioni: ma per colui, che come
allora erano i Francesi, fosse privo di naviglio sufficiente, era Vido
sito di molta debolezza.
Il giorno primo di marzo, datosi il segno dalla nave dell'almirante
Russo con due cannonate, tutta l'armata dei confederati si muoveva
all'assalto dello scoglio di Vido. Al tempo stesso, per impedire che
Chabot mandasse nuove genti a rinforzarne la guernigione, fulminavano
contro la piazza con grandissimo fracasso le artiglierìe di San
Pantaleone, e del monte Oliveto. Ciò nondimeno venne fatto al generale
di Francia di mandare allo scoglio un soccorso di duecento soldati.
S'attelavano, sprolungandosi col fianco d'orza da ponente a greco,
venticinque navi tra vascelli di fila, caravelle Turche, e fregate
contro l'isola, e tutte traevano furiosamente. Era un novero di
ottocento bocche da fuoco, il rimbombo delle quali consentendo con
quelle dell'isola, della piazza, di San Pantaleone, e del monte Oliveto,
partorivano uno strepito tale, che e Corfù tutta ne era intronata, e le
vicine coste dell'Epiro orribilmente echeggiavano. Erano i difensori di
Vido lacerati dalle palle nemiche, e dalle schegge degli alberi rotti e
fracassati. I cannonieri di Francia per essere nudamente esposti al
fitto bersaglio del nemico, perchè i parapetti non erano sufficienti,
pativano grandemente: i cannoni stessi, rotti i carretti, si trovavano
scavalcati. Durò questa fierissima battaglia ben tre ore con danno
gravissimo dei repubblicani, con grave degl'imperiali; perchè i primi
traevano contro di loro a mira ferma. Finalmente, quando fu giudicato
dai confederati, che il guasto fatto dalle artiglierìe nei soldati e
nelle armi Francesi, avesse facilmente ad aprir loro l'adito ad un
assalto di mano, posti prestamente tutti i palischermi in acqua, e
riempitigli di gente, gli mandavano allo sbarco. Approdarono i Russi in
numero di quindici centinaja sul destro fianco dello scoglio, che si
volge verso la città; i Turchi con Albanesi misti, assai più numerosi
dei Russi, sbarcarono sul sinistro, che risguardava verso la bocca
settentrionale del porto. Nè così tosto furono sbarcati, che uccisi
barbaramente i difensori di due vicine batterìe, se ne impadronirono. I
Francesi, visto il nemico dentro, si ripararono ad alcune eminenze, non
più per contrastar la vittoria, che già era in mano degli alleati, ma
bensì per dar tempo, che quel primo furore degli Albanesi alquanto si
calmasse. Gli Albanesi e medesimamente i Turchi, quanti Francesi
venivano loro alle mani, a tanti tagliavano la testa, o che si fossero
difesi, o che si fossero arresi. Le teste gettavano nei sacchi per
portarle a Cadir Bey, vicealmirante delle navi Turche. I Russi per lo
contrario si portarono molto umanamente; imperciocchè non solamente non
uccisero nissuno fra quelli, che cedendo si erano arresi, ma ancora
preservarono molti, che già venuti in mano dei Turchi pochi momenti
avevano a restare in vita. Eransi i Russi raccolti, dopo la vittoria, in
un grosso battaglione quadrato nel mezzo dell'isola, e quivi quanti
Francesi accorsero, tanti salvarono. Furono visti ufficiali Russi, a
riscatto di Francesi venuti in mano degli Ottomani, e vicini ad aver il
capo tronco, dar denari del proprio ai barbari feroci ed avari. Un
vicecolonnello di Russia, di cui la storia con sommo nostro rammarico
tace il nome, dato tutto il suo denaro per salvar due Francesi, che i
barbari già stavano pronti per decapitare, nè contentandosene essi,
cavatosi di tasca l'orologio, il diede loro, e per tal modo scampò da
morte inevitabile i due derelitti nemici. Nè in questa pietosa
intercessione soli gli ufficiali di Russia si adoperarono, perchè e
semplici soldati, e marinari con la generosità medesima ajutarono i
Francesi. Videsi in questo fatto una estrema barbarie congiunta con una
estrema civiltà, e giacchè guerra era, pensiero consolativo è, che la
umanità vi avesse in qualche parte luogo. Piveron preso dai Russi, fu
condotto in cospetto di Ocsacow, che molto cortesemente il trattò. Quasi
tutto il presidio restò o morto, o preso.
La vittoria di Vido portava con se quella di Corfù. Era impossibile, che
la piazza fulminata da due parti potesse resistere più lungamente.
Perciò Chabot, il quale, piccolo di corpo, ma grande di animo, aveva in
tutto il corso della guerra Corcirese fatto pruova di non ordinario
valore, sforzato alla dedizione, stipulava con Ocsacow e con Cadir, che
Corfù si desse ai confederati con tutte le armi e munizioni; uscissene
il presidio con gli onori di guerra; fosse a spese, e per opera dei
confederati trasportato a Tolone; desse fede di non far guerra per
diciotto mesi contro i confederati; la nave il Leandro, e la fregata la
Bruna ai medesimi si consegnassero; Chabot, ed i suoi ufficiali ad
elezione sua potessero essere trasportati o a Tolone, o ad Ancona,
purchè fra un mese facessero la elezione. Entrarono i Russi per la porta
di San Niccolò, ed in bell'ordine procedendo per la contrada principale,
andarono a schierarsi sulla spianata, che sta in mezzo tra la città e la
fortezza. Gridavano in questo mentre i Corfiotti _viva Paolo primo_, e
sventolavano all'aura drappelli Moscoviti. Presidiarono i Russi le
fortezze, i Turchi la città. Fuvvi qualche sacco di case di giacobini,
ma subitamente represso dai confederati. Era a quei tempi un uomo nuovo,
e di umore strano a Corfù, che ve ne sono molti di tal fatta in quei
paesi, il quale in odore di santità, e quale eremita sucidamente vivendo
in una celletta vicina alla chiesa di San Spiridione, protettore
veneratissimo dell'isola, aveva più volte, quando le cose di Francia
erano più in fiore, pronosticato, che i Francesi non farebbero lunga
vita in quelle terre. Riuscito l'evento parve miracolo: il veneravano
come profeta.
Il consiglio generale di Corfù convocato dai confederati secondo gli
ordini antichi, decretava, che si ringraziasse San Spiridione, e con
annua processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti Russo e
Turco, e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero
Paolo primo, Giorgio terzo, Selim terzo. Fu data la somma del governo
non solo di Corfù, ma ancora di tutte le isole, e territorj Ionici, ad
una delegazione di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù, finchè
dai confederati vi fu ordinato un governo stabile di repubblica sotto
tutela della Porta Ottomana. A questo modo per opera, prima dei
Francesi, poi dei confederati, fu alienato per sempre dall'imperio
d'Italia all'imperio degli oltramontani, o degli oltramarini, il dominio
del mare Ionio, che Venezia aveva saputo conservare per tanti secoli
contro tutte le forze dell'impero dei Turchi; il che dimostra quanto
siano stati sconsiderati quegli Italiani, che tanto si rallegrarono
della ruina dell'antica Venezia. Venuto Corfù in poter dei confederati,
divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza
dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia; vennervi i
cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi
Gabrielli e Massimi, il cavaliere Ricci, e molti altri personaggi, a cui
più piacevano l'ozio e la sicurezza di Grecia, che il partecipare delle
fatiche e dei pericoli del cardinal Ruffo in Italia. Le flotte Russa e
Turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, le
quali siamo per raccontar nel progresso di queste storie.
Il suono dell'armi, e le grida dei tormentati richiamano l'animo nostro
agli accidenti d'Italia. Come prima ebbe Moreau il governo supremo
dell'esercito Italico, aveva applicato i suoi pensieri al far venire sul
campo delle nuove battaglie le genti, che sotto l'imperio di Macdonald
custodivano il regno di Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente
mandato a Macdonald, che partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo
lasciasse presidio nei castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui
venisse prestamente a congiungersi. Nè del luogo, in cui avessero i due
eserciti a raccozzarsi, stette lungo tempo in dubbio; perciocchè,
sebbene per le rotte avute non fosse in grado di sostener la guerra in
Piemonte, sperava, che conservandosi in potestà della repubblica le
fortezze principali, avrebbe di nuovo acquistato facoltà, quando gli
fossero giunti gli ajuti che aspettava di Francia, di mostrarsi nelle
pianure Piemontesi; gli pareva, che i luoghi vicini alle fortezze di
Alessandria e di Tortona, che tuttavia si tenevano per la Francia,
fossero i più opportuni per tornare al cimento delle armi; poichè, oltre
l'appoggio di quelle due piazze forti, erano molto propizj a ricevere
chi venisse calando dalla Bocchetta, nè lontani a chi scendesse dalle
valli della Trebbia e del Taro. Per tutte queste ragioni, già fin quando
era passato per Torino per condursi alle stanze, prima di Alessandria,
poi di Cuneo, si era totalmente fermato in questo pensiero, che la
congiunzione dei due eserciti dovesse effettuarsi nei contorni di
Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto che fosse possibile
alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che Macdonald, per essere
le strade del littorale della riviera di Levante troppo difficili, e da
non dar passo alle artiglierìe, era necessitato a camminare fra
l'Apennino, e la sponda destra del Po, e temendo che fosse troppo debole
a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati, che prevalevano di
cavallerìa, nelle pianure di Bologna e di Modena, aveva mandato Victor
con la sua schiera ad incontrarlo sui confini della Toscana, e del
Genovesato. Partiva Macdonald, Abrial lo accompagnava, da Napoli,
lasciati presidj Francesi, sebbene deboli, nei castelli di Napoli, e
nelle fortezze di Gaeta, di Capua, e di Pescara. Grave e difficile
carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il portasse a felice
fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui gli era necessità
di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose nuove, stavano in
armi, e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava il regno sulle
sponde del Garigliano, tumultuava lo stato Romano, e da Roma in fuori
non vi era luogo che fosse sicuro ai Francesi. Tumultuava la Toscana
molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che davano il
passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente Pontremoli,
sito di non poca importanza, erano in possessione dei collegati. Nè egli
aveva cavallerìa bastante a spazzare i paesi, a procacciarsi le notizie,
a far vettovaglie, a difendersi dagli assalti improvvisi. Nè è dubbio,
che l'impresa di Macdonald non fosse delle più malagevoli ed ardue, che
capitano di guerra sia stato mai obbligato di fornire. Da un altro lato
gli si parava avanti la gloria dell'essere chiamato liberatore d'Italia,
e vincitore delle genti Russe fin a quel tempo stimate invincibili. Nè
animo gli mancava, nè mente per questo, nè desiderio vivacissimo di far
il nome suo immortale. Le vittorie di Roma e di Napoli continuamente gli
suonavano nella memoria, e sperava, che la fortuna nol guarderebbe con
viso meno favorevole sulle rive del Po, che su quelle del Tevere e del
Volturno.
Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava la
destra guidata da Olivier accosto agli Apennini, coll'intento di
riuscire per la strada di San Germano, Isola, Ferentino, Valmontone, e
Frascati, verso Roma. La sinistra condotta da Macdonald seguitava verso
la capitale medesima dello stato Romano la strada più facile della
marina. Erano con questa le più grosse artiglierìe, e le principali
bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza molto sangue,
parecchie volte per condursi al suo destino. San Germano si oppose con
le armi, fu preso per forza e saccheggiato. Isola si persuase di poter
arrestare con genti tumultuarie soldati regolari, agguerriti e bene
armati: assaltarono i Francesi, dopo di aver ricerco gl'Isolani del
passo, la terra: si difesero i terrazzani con tale ostinazione, che un
accanito combattimento durava già più di sei ore, e non se ne prevedeva
il fine. All'ultimo cacciati di casa in casa a viva forza, si
ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori, i quali
sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al messo
mandato avanti per trattare l'accordo del passo, ed alla tanto ostinata
resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti, mandarono la
terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani, tanti
ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori, facevano
sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per forma che
il furore della presente ebbrezza congiunto col furore della precedente
battaglia gli fece trascorrere in opere abominevoli. Nè più davano retta
ai loro ufficiali, o generali, che gli volevano frenare, che alla
ragione od alla umanità. Sorse la notte: era una grande oscurità,
pioveva a dirotta. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle,
incesero la città, che in poco d'ora fu da se stessa tanto disforme, che
non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine.
Così Isola perì per furore, prima proprio, poi d'altrui. Passarono i
Francesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino ed a
Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì sedici maggio nelle
sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato animo con promesse, e con
discorsi di rammemorazione delle cose fatte dai repubblicani di Francia,
lasciate, per marciare più spedito, le artiglierìe, e gl'impedimenti più
gravi e guernite di presidj le piazze di Civitavecchia, di Ancona e di
Perugia, s'incamminava alla volta di Toscana. Era in questa provincia
succeduta una mutazione grandissima; eccettuati i luoghi, in cui i
Francesi insistevano coi presidj, tutti gli altri si erano voltati in
favor degli alleati, con gridare il nome di Ferdinando. Ma questa
mutazione si era fatta con tanto tumulto, con tanto furore, e con tanta
ferocia, che tutt'altre cose si sarebbero aspettate dai Toscani che
queste.
La sede principale della sollevazione erano Arezzo, e Cortona, le quali,
siccome vicine allo stato Romano, avevano preso animo a far tentativi
dai moti, che in lui poco innanzi erano sorti. Il sito le rendeva
sicure, essendo poste sopra monti alti, ed erti. Arezzo si era con ogni
miglior modo, che alle guerre tumultuarie si appartenga, fortificata;
anzi ogni edifizio era fortezza: vedevansi feritoje aperte in ogni muro,
i tetti la maggior parte levati, le sommità delle case appianate,
acciocchè i difensori potessero insistervi a ferire il nemico; i capi
delle contrade muniti di cannoni, ed assicurati con isbarre e con
isteccati. Numerose squadre di gente venuta dal contado, e variamente
armata custodivano le porte, e curiosamente, e diligentemente
esaminavano chi entrava, e chi usciva. Uffizj divini si celebravano ogni
giorno nella cattedrale dal vescovo, e dal clero in ringraziamento delle
vittorie acquistate dagli alleati, e dai Toscani contro i Francesi.
Stava appeso a guisa di trofeo alla volta della chiesa un cappello con
gallone in oro, che era stato di un ajutante generale Polacco ucciso
nelle vicinanze di Cortona con una coltellata per inganno da un prete,
mentre era venuto a parlamento con lui. Muovevansi sospetti ad ogni
tratto in mezzo a quei contadini infuriati per voci date, a ragione o a
torto, di giacobino, e mal per chi non aveva i capelli in coda, e chi
non gli aveva, gli metteva. Ad ogni tratto, e quando più l'ardor gli
trasportava, si avventavano alle persone che conoscevano, gridando:
«Giur'a Dio, se sapessi, che lei è giacobino, gli passerei il cuore con
questo coltello». E sì brandivano il coltello, e facevano l'atto di
ferire. Era lo stare cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia
quest'uomini tanto sfrenati contro i Francesi, e contro coloro che
avevano o che parevano aver odore di essi, si mostravano obbedientissimi
al nome di Ferdinando. Erasi in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo
un magistrato supremo sotto titolo di suprema regia deputazione, in cui
entravano preti, nobili, e notabili. Un cavaliere Angelo Guilichini
presidente; uomini nè sfrenati, nè feroci, ma non potevano impedire il
furore del popolo: solo s'ingegnavano di dargli regola e legge. Dì e
notte sedevano per esser sempre pronti ai casi improvvisi. Facevano
disegni di nuove sommosse in favor del gran duca continuamente; traevano
a suo nome tutti i magistrati, mandavano ordini alle città tornate a
divozione, mescolavano ai contadini sollevati le guardie urbane, ed alle
guardie urbane i soldati regolari, che già avevano vestito l'abito, e le
insegne del governo ducale; e poichè pensavano a far vera guerra,
avevano calato certo numero di campane con intendimento di fonderle ad
uso di cannoni. Delle nappe, e dei colori non parlo, perchè fra quelle
turbe tumultuarie chi portava l'insegna di un santo, chi di un altro,
chi della Madonna, chi del papa, chi dei Russi, chi degli Austriaci, chi
del Gran Duca, chi tutte queste insieme; e chi era stato tinto nelle
faccende precedenti, più ne portava, col fine di allontanar da se quel
nembo tanto pericoloso. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale come
quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo si
mettevano, perchè le cose dei Francesi erano ancora in essere, e
potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana. Pure
Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono
cagione, che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i
confederati vi arrivassero; proponimento lodevole, ma bruttato da fatti
scelerati. Fu Cortona messa a dura pruova. Polacchi venuti da Perugia
accorrevano per tornarla a divozione di Francia. Seguì una fiera zuffa a
Terontola, dove i Cortonesi erano andati ad incontrargli, poi a
Campaccio a piè del monte, perchè i Polacchi prevalendo per arte di
guerra, si erano fatti avanti. Infine venne il conflitto sulle mura
stesse della città. Tentavano i soldati forestieri di sforzare le porte
di San Domenico, e di Sant'Agostino, e di dare la scalata; ma quei di
dentro si difesero sì valorosamente, che gli assalitori se ne rimasero,
avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna Francese molto forte, che
era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese con patto, che fossero
salve le sostanze e le persone; il che fu loro osservato.
Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a
Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva la intimazione. Mandò contro
gli Aretini un bando terribile, che passerebbe a fil di spada, che
darebbe la città al sacco ed alle fiamme, che rizzerebbe sulla piazza
d'Arezzo una piramide con queste parole: _Arezzo punita della sua
ribellione_. Ma tutto fu indarno: gli Aretini non si sbigottirono; il
allontanarsi tostamente da quei disumani e sanguinosi lidi. La crudele
bugia allignava; la nave bombardiera con le barche Mauritane, voltate le
vele, se ne tornava là dond'era venuta. Che cuore fosse di Tissot e dei
compagni nel vedere le andantisi vele, non so in quale lingua, nè con
quali parole dire adeguatamente si potrebbe. Fatto in quel mortale caso
il capitano Francese maggiore di se medesimo, gridava: «Saran dunque, o
compagni i nostri giuramenti indarno? Insulteremo noi, quai pusillanimi
soldati, alle ombre dei nostri compagni eroicamente morti nelle presenti
battaglie? No, noi morrem piuttosto, se vincere non possiamo, e la tomba
accorrà coloro, che nel momento estremo hanno onorato la patria loro:
lasciamo segni terribili del nostro valore, ed i nemici nostri all'udire
le battaglie di Nicopoli e di Preveza, ed al rammentare il nome di
Francia stupiscano di maraviglia, e tremino di terrore».
Ciò detto, si avventava con furiosissima pinta in mezzo ai barbari;
seguitavanlo i compagni; Preveza vedeva una battaglia senza pari. Pochi
uomini assaltavano una moltitudine innumerabile, nè solo l'assaltavano,
ma la ributtavano, e la cacciavano piena di maraviglia e di spavento. Le
contrade, le piazze, i portici di Preveza abbondavano di cadaveri,
fumavano di sangue. Datosi dagli animi, che sono instancabili, quanto da
loro si poteva dare, incominciavano a mancare i corpi, le cui forze
lungamente non possono durare in isforzo estremo. La fame, la sete, la
fatica, l'impeto stesso delle volontà avevano dato luogo alla
estenuazione, e se non erano rotti gli animi, erano consumate le forze,
nè più si combatteva pei repubblicani con tanto ardore. Accortisi i
barbari dell'insperato cessamento, tornavano alla battaglia con grida
spaventevoli: l'avidità della preda, la rabbia della vendetta gli
stimolavano. Vinse la moltitudine fresca contro pochi e lassi. Chi non
fu morto, fu preso, e chi non volle andar preso, a tale salse un
coraggio indomabile, si uccise da se stesso con le armi tinte del sangue
dei barbari; alcuni cercarono la morte, nell'avaro mare gittandosi.
Degli ottanta, solo otto col capitano Tissot restarono superstiti, e
questi furono tutti dal truculento vincitore dannati a vita tale, che di
lei migliore è la morte. Veduti minacciosamente da Alì, erano mandati a
strettissima prigione con quattrocento Prevezani, uomini e donne, presi
nell'infelice patria loro. Per addolorargli, e per ispaventargli,
conducevangli a riva il golfo, perchè quivi vedessero sul sanguinoso
campo, dove avevano combattuto, le miserande reliquie dei loro compagni
uccisi: cadaveri laceri, membra tronche, teste difformi, e bruttate di
sangue, e di fango. Riconosceva, ciascuno con pianti e con querele chi
aveva avuto o per parentela, o per amicizia più caro. Godevano i
barbari, insultavano, minacciavano, il dolore stesso prendevano a
scherno: peggiore governo di loro, affermavano, doversi fare di quello,
che dei morti si era fatto; avere ad essere fra pochi momenti le teste
loro vive pari a quelle degli ammazzati. Faceva Alì tormentare ed
uccidere non pochi Prevezani in cospetto dei Francesi cattivi, ed ei se
ne stava mirando, godendo, e compiacendosi delle miserabili grida dei
tormentati e dei morienti. Condotti i vinti sulla piazza di Preveza,
così ordinando il tiranno, un Albanese scotennava con rasojo le morte
teste, poi le salava; poi comandava ai Francesi, che anch'essi così
facessero. Ricusarono dapprima per onore e per orrore; ma battiture
dolorosissime gli domavano; davansi a scotennare le teste degli uccisi
compagni, spettacolo doloroso ed orribile. Gli atti nefandi a questo non
si ristavano. I quattrocento Prevezani, legati, e sanguinosi dalle
battiture furono condotti nell'isola Salagora, e quivi tutti senza
pietade alcuna, nè con più riguardo verso l'un sesso che verso l'altro,
nè verso la canuta che verso la verde età, crudelmente uccisi. Le
compassionevoli preghiere per perdono, e per grazia di coloro, di cui si
laceravano le membra, vieppiù inviperivano la ferocia di quell'aspra, e
selvaggia gente, e chi si taceva, era l'ultimo chiamato a morte. Grondò
Salagora di sangue umano a rivi, poi biancheggiò, e forse biancheggia
ancora di ossa rotte, e di teschi ammaccati. Menavansi a Lorù, grossa
terra poco lontana, i prigioni di Preveza e di Nicopoli; poi si
avviavano verso l'Arta per alla via di Ianina. Viaggiando, quella torma
di disumanati carnefici gli sforzava a portare a volta a volta le teste
ancora stillanti sangue degli uccisi amici, e chi ricusava l'orrendo
carico, era barbaramente tormentato. Gli Albanesi, quasi a modo di
passatempo, straziavano a coda di cavallo Caravella Prevezano: straziato
il lasciavano respirare, perchè raccogliesse nuova lena ad essere
ritormentato, poi di nuovo sforzavano a corsa, flagellando, il cavallo,
e così fra i tormenti ed i respiri il condussero, alzando essi al cielo
festevoli grida, ad acerbissima morte. Arrivarono all'Arta, poi a
Ianina; si offersero agli occhi loro le teste dei compagni conficcate
sui merli dell'atroce reggia di Alì. Da Ianina per la Grecia, e per la
Romanìa s'incamminavano a Constantinopoli. Dov'eran le strade più
sassose e più aspre, toglievano loro i barbari per diletto le scarpe:
dov'erano più assetati, e dove più scorrevano le acque fresche e chiare
gli proibivano dal dissetarsi: chi non poteva o per stracchezza, o per
fame, o per sete, o per ferite seguitare, tirato a forza sulla sponda
dei fossi, vi era inesorabilmente dai crudeli accompagnatori decapitato;
i compagni sforzati a portar le teste sanguinose. Sopportarono i miseri
Francesi, dico i superstiti, perchè i più perirono, con inenarrabile
costanza tormenti tanto insopportabili, Lasalcette, e Hotte i primi.
Quando io penso dall'un de' lati alla natura tanto sensitiva dell'uomo,
e con quanto amore, e con quanta difficoltà si allevino i figliuoli per
fargli adulti, d'altro allo strazio, che gli uomini fanno degli uomini,
spesso per nonnulla, spessissimo per cagioni lievi, qualche volta con
allegrezza, sempre senza dolore, sto in dubbio, se animali feroci, o
uomini io me gli deggia chiamare; che anzi al tutto mi risolvo, ed in
questo pensiero mi fermo, che piuttosto uomini, che animali feroci si
debbano chiamare, perchè non vedo, che le tigri facciano delle tigri
quello strazio, che gli uomini fanno degli uomini; e peggio, che quando
essi non possono con le coltella, si lacerano con le lingue. Bene sto
sempre in dubbio, a che cosa servono la ragione e la compassione, che
solo sono date agli uomini. I lacerati giunti a Costantinopoli, furono,
Lasalcette e Hotte, serrati nelle Sette Torri, gli ufficiali ed i
gregarj posti al remo sull'Ottomane galere.
Intanto l'oppugnazione dell'isola di Corfù si continuava gagliardamente
dai Russi e dagli Ottomani. Ogni dì più cresceva il numero degli
assalitori: mandava Alì i suoi Albanesi, e genti Turche continuamente
arrivavano. Per avere gli alleati occupato le eminenze del monte Oliveto
e di San Pantaleone, erano gli assediati ristretti nei forti, e niuna
via restava loro per allargarsi nell'isola. Il Mandruccio venuto in
poter dei Russi, le Castrate spesso infestate dai Turchi e dagli
Albanesi, che calavano dal vicino Pantaleone, San Salvatore venuto
spesso in contesa, quantunque sempre valorosamente difeso dai
repubblicani. L'assalto di Corfù tirava in lungo, l'oppugnazione
diveniva assedio, perchè i Francesi difendevano la piazza virilmente, ed
ella è molto forte, ed i Turchi, quantunque assai coraggiosi, non sanno
condurre con arte le oppugnazioni delle fortezze. In questo l'ammiraglio
di Russia Ocsacow, che governava con suprema autorità la guerra, pensava
ad una fazione di non difficile esecuzione, e che di certo gli avrebbe
dato la piazza in mano, se avesse avuto, come non dubitava, felice fine.
Siede sul fianco della città, e della principale fortezza di Corfù verso
tramontana una isoletta, o piuttosto scoglio, che gli uomini del paese
chiamano di Vido, e che i Francesi chiamavano col nome d'isola della
Pace. Era questo scoglio, siccome pieno di alberi verdissimi, quieto
recesso a chi volesse ricoverarvisi a respirare dalle cure cittadine, e
dolce prospetto a chi dalla città il rimirasse. Quest'amena sede di
riposo e d'ombre aveva tosto ad essere turbata, e straziata dalla rabbia
degli uomini. Avevano conosciuto i Francesi, che chi fosse padrone di
questo scoglio, avrebbe potuto battere da vicino coll'artiglierìe la
cortina della fortezza, e farvi presta breccia. Per la qual cosa,
tagliati ed atterrati gli alberi, vi avevano fatto spianate a guisa di
ridotti, munite d'artiglierìe sui cinque siti più importanti dello
scoglio; perchè sporgendosi oltre il circuito dell'isola, facevano le
veci di bastioni. Meglio di quattrocento buoni soldati sotto il governo
del generale Piveron erano posti a guardia di questo principale
propugnacolo di Corfù. Nondimeno, malgrado dei fatti apparecchi non era
luogo, che si potesse tenere lungamente; perchè nè vi era ridotto
trincerato, dove la guernigione potesse ritirarsi a contendere il
possesso dell'isola, ove il nemico vi fosse sbarcato, nè le batterie
erano chiuse di terrati, o di steccati; il perchè, quasi del tutto senza
parapetti essendo, lasciavano i difensori esposti al bersaglio dei
nemico, che da diverse parti si avvicinasse per andar all'assalto.
Avevano anche i cannoni carretti da marina, e però più bassi, e più
difficili a governarsi. Lo scoglio di Vido era luogo buono a tenersi da
chi, come i Veneziani, essendo forte sull'armi di mare, poteva proibire,
che il nemico sicuramente vi si avvicinasse: per questa ragione non
l'avevano i Veneziani munito di fortificazioni: ma per colui, che come
allora erano i Francesi, fosse privo di naviglio sufficiente, era Vido
sito di molta debolezza.
Il giorno primo di marzo, datosi il segno dalla nave dell'almirante
Russo con due cannonate, tutta l'armata dei confederati si muoveva
all'assalto dello scoglio di Vido. Al tempo stesso, per impedire che
Chabot mandasse nuove genti a rinforzarne la guernigione, fulminavano
contro la piazza con grandissimo fracasso le artiglierìe di San
Pantaleone, e del monte Oliveto. Ciò nondimeno venne fatto al generale
di Francia di mandare allo scoglio un soccorso di duecento soldati.
S'attelavano, sprolungandosi col fianco d'orza da ponente a greco,
venticinque navi tra vascelli di fila, caravelle Turche, e fregate
contro l'isola, e tutte traevano furiosamente. Era un novero di
ottocento bocche da fuoco, il rimbombo delle quali consentendo con
quelle dell'isola, della piazza, di San Pantaleone, e del monte Oliveto,
partorivano uno strepito tale, che e Corfù tutta ne era intronata, e le
vicine coste dell'Epiro orribilmente echeggiavano. Erano i difensori di
Vido lacerati dalle palle nemiche, e dalle schegge degli alberi rotti e
fracassati. I cannonieri di Francia per essere nudamente esposti al
fitto bersaglio del nemico, perchè i parapetti non erano sufficienti,
pativano grandemente: i cannoni stessi, rotti i carretti, si trovavano
scavalcati. Durò questa fierissima battaglia ben tre ore con danno
gravissimo dei repubblicani, con grave degl'imperiali; perchè i primi
traevano contro di loro a mira ferma. Finalmente, quando fu giudicato
dai confederati, che il guasto fatto dalle artiglierìe nei soldati e
nelle armi Francesi, avesse facilmente ad aprir loro l'adito ad un
assalto di mano, posti prestamente tutti i palischermi in acqua, e
riempitigli di gente, gli mandavano allo sbarco. Approdarono i Russi in
numero di quindici centinaja sul destro fianco dello scoglio, che si
volge verso la città; i Turchi con Albanesi misti, assai più numerosi
dei Russi, sbarcarono sul sinistro, che risguardava verso la bocca
settentrionale del porto. Nè così tosto furono sbarcati, che uccisi
barbaramente i difensori di due vicine batterìe, se ne impadronirono. I
Francesi, visto il nemico dentro, si ripararono ad alcune eminenze, non
più per contrastar la vittoria, che già era in mano degli alleati, ma
bensì per dar tempo, che quel primo furore degli Albanesi alquanto si
calmasse. Gli Albanesi e medesimamente i Turchi, quanti Francesi
venivano loro alle mani, a tanti tagliavano la testa, o che si fossero
difesi, o che si fossero arresi. Le teste gettavano nei sacchi per
portarle a Cadir Bey, vicealmirante delle navi Turche. I Russi per lo
contrario si portarono molto umanamente; imperciocchè non solamente non
uccisero nissuno fra quelli, che cedendo si erano arresi, ma ancora
preservarono molti, che già venuti in mano dei Turchi pochi momenti
avevano a restare in vita. Eransi i Russi raccolti, dopo la vittoria, in
un grosso battaglione quadrato nel mezzo dell'isola, e quivi quanti
Francesi accorsero, tanti salvarono. Furono visti ufficiali Russi, a
riscatto di Francesi venuti in mano degli Ottomani, e vicini ad aver il
capo tronco, dar denari del proprio ai barbari feroci ed avari. Un
vicecolonnello di Russia, di cui la storia con sommo nostro rammarico
tace il nome, dato tutto il suo denaro per salvar due Francesi, che i
barbari già stavano pronti per decapitare, nè contentandosene essi,
cavatosi di tasca l'orologio, il diede loro, e per tal modo scampò da
morte inevitabile i due derelitti nemici. Nè in questa pietosa
intercessione soli gli ufficiali di Russia si adoperarono, perchè e
semplici soldati, e marinari con la generosità medesima ajutarono i
Francesi. Videsi in questo fatto una estrema barbarie congiunta con una
estrema civiltà, e giacchè guerra era, pensiero consolativo è, che la
umanità vi avesse in qualche parte luogo. Piveron preso dai Russi, fu
condotto in cospetto di Ocsacow, che molto cortesemente il trattò. Quasi
tutto il presidio restò o morto, o preso.
La vittoria di Vido portava con se quella di Corfù. Era impossibile, che
la piazza fulminata da due parti potesse resistere più lungamente.
Perciò Chabot, il quale, piccolo di corpo, ma grande di animo, aveva in
tutto il corso della guerra Corcirese fatto pruova di non ordinario
valore, sforzato alla dedizione, stipulava con Ocsacow e con Cadir, che
Corfù si desse ai confederati con tutte le armi e munizioni; uscissene
il presidio con gli onori di guerra; fosse a spese, e per opera dei
confederati trasportato a Tolone; desse fede di non far guerra per
diciotto mesi contro i confederati; la nave il Leandro, e la fregata la
Bruna ai medesimi si consegnassero; Chabot, ed i suoi ufficiali ad
elezione sua potessero essere trasportati o a Tolone, o ad Ancona,
purchè fra un mese facessero la elezione. Entrarono i Russi per la porta
di San Niccolò, ed in bell'ordine procedendo per la contrada principale,
andarono a schierarsi sulla spianata, che sta in mezzo tra la città e la
fortezza. Gridavano in questo mentre i Corfiotti _viva Paolo primo_, e
sventolavano all'aura drappelli Moscoviti. Presidiarono i Russi le
fortezze, i Turchi la città. Fuvvi qualche sacco di case di giacobini,
ma subitamente represso dai confederati. Era a quei tempi un uomo nuovo,
e di umore strano a Corfù, che ve ne sono molti di tal fatta in quei
paesi, il quale in odore di santità, e quale eremita sucidamente vivendo
in una celletta vicina alla chiesa di San Spiridione, protettore
veneratissimo dell'isola, aveva più volte, quando le cose di Francia
erano più in fiore, pronosticato, che i Francesi non farebbero lunga
vita in quelle terre. Riuscito l'evento parve miracolo: il veneravano
come profeta.
Il consiglio generale di Corfù convocato dai confederati secondo gli
ordini antichi, decretava, che si ringraziasse San Spiridione, e con
annua processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti Russo e
Turco, e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero
Paolo primo, Giorgio terzo, Selim terzo. Fu data la somma del governo
non solo di Corfù, ma ancora di tutte le isole, e territorj Ionici, ad
una delegazione di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù, finchè
dai confederati vi fu ordinato un governo stabile di repubblica sotto
tutela della Porta Ottomana. A questo modo per opera, prima dei
Francesi, poi dei confederati, fu alienato per sempre dall'imperio
d'Italia all'imperio degli oltramontani, o degli oltramarini, il dominio
del mare Ionio, che Venezia aveva saputo conservare per tanti secoli
contro tutte le forze dell'impero dei Turchi; il che dimostra quanto
siano stati sconsiderati quegli Italiani, che tanto si rallegrarono
della ruina dell'antica Venezia. Venuto Corfù in poter dei confederati,
divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza
dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia; vennervi i
cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi
Gabrielli e Massimi, il cavaliere Ricci, e molti altri personaggi, a cui
più piacevano l'ozio e la sicurezza di Grecia, che il partecipare delle
fatiche e dei pericoli del cardinal Ruffo in Italia. Le flotte Russa e
Turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, le
quali siamo per raccontar nel progresso di queste storie.
Il suono dell'armi, e le grida dei tormentati richiamano l'animo nostro
agli accidenti d'Italia. Come prima ebbe Moreau il governo supremo
dell'esercito Italico, aveva applicato i suoi pensieri al far venire sul
campo delle nuove battaglie le genti, che sotto l'imperio di Macdonald
custodivano il regno di Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente
mandato a Macdonald, che partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo
lasciasse presidio nei castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui
venisse prestamente a congiungersi. Nè del luogo, in cui avessero i due
eserciti a raccozzarsi, stette lungo tempo in dubbio; perciocchè,
sebbene per le rotte avute non fosse in grado di sostener la guerra in
Piemonte, sperava, che conservandosi in potestà della repubblica le
fortezze principali, avrebbe di nuovo acquistato facoltà, quando gli
fossero giunti gli ajuti che aspettava di Francia, di mostrarsi nelle
pianure Piemontesi; gli pareva, che i luoghi vicini alle fortezze di
Alessandria e di Tortona, che tuttavia si tenevano per la Francia,
fossero i più opportuni per tornare al cimento delle armi; poichè, oltre
l'appoggio di quelle due piazze forti, erano molto propizj a ricevere
chi venisse calando dalla Bocchetta, nè lontani a chi scendesse dalle
valli della Trebbia e del Taro. Per tutte queste ragioni, già fin quando
era passato per Torino per condursi alle stanze, prima di Alessandria,
poi di Cuneo, si era totalmente fermato in questo pensiero, che la
congiunzione dei due eserciti dovesse effettuarsi nei contorni di
Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto che fosse possibile
alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che Macdonald, per essere
le strade del littorale della riviera di Levante troppo difficili, e da
non dar passo alle artiglierìe, era necessitato a camminare fra
l'Apennino, e la sponda destra del Po, e temendo che fosse troppo debole
a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati, che prevalevano di
cavallerìa, nelle pianure di Bologna e di Modena, aveva mandato Victor
con la sua schiera ad incontrarlo sui confini della Toscana, e del
Genovesato. Partiva Macdonald, Abrial lo accompagnava, da Napoli,
lasciati presidj Francesi, sebbene deboli, nei castelli di Napoli, e
nelle fortezze di Gaeta, di Capua, e di Pescara. Grave e difficile
carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il portasse a felice
fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui gli era necessità
di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose nuove, stavano in
armi, e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava il regno sulle
sponde del Garigliano, tumultuava lo stato Romano, e da Roma in fuori
non vi era luogo che fosse sicuro ai Francesi. Tumultuava la Toscana
molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che davano il
passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente Pontremoli,
sito di non poca importanza, erano in possessione dei collegati. Nè egli
aveva cavallerìa bastante a spazzare i paesi, a procacciarsi le notizie,
a far vettovaglie, a difendersi dagli assalti improvvisi. Nè è dubbio,
che l'impresa di Macdonald non fosse delle più malagevoli ed ardue, che
capitano di guerra sia stato mai obbligato di fornire. Da un altro lato
gli si parava avanti la gloria dell'essere chiamato liberatore d'Italia,
e vincitore delle genti Russe fin a quel tempo stimate invincibili. Nè
animo gli mancava, nè mente per questo, nè desiderio vivacissimo di far
il nome suo immortale. Le vittorie di Roma e di Napoli continuamente gli
suonavano nella memoria, e sperava, che la fortuna nol guarderebbe con
viso meno favorevole sulle rive del Po, che su quelle del Tevere e del
Volturno.
Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava la
destra guidata da Olivier accosto agli Apennini, coll'intento di
riuscire per la strada di San Germano, Isola, Ferentino, Valmontone, e
Frascati, verso Roma. La sinistra condotta da Macdonald seguitava verso
la capitale medesima dello stato Romano la strada più facile della
marina. Erano con questa le più grosse artiglierìe, e le principali
bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza molto sangue,
parecchie volte per condursi al suo destino. San Germano si oppose con
le armi, fu preso per forza e saccheggiato. Isola si persuase di poter
arrestare con genti tumultuarie soldati regolari, agguerriti e bene
armati: assaltarono i Francesi, dopo di aver ricerco gl'Isolani del
passo, la terra: si difesero i terrazzani con tale ostinazione, che un
accanito combattimento durava già più di sei ore, e non se ne prevedeva
il fine. All'ultimo cacciati di casa in casa a viva forza, si
ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori, i quali
sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al messo
mandato avanti per trattare l'accordo del passo, ed alla tanto ostinata
resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti, mandarono la
terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani, tanti
ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori, facevano
sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per forma che
il furore della presente ebbrezza congiunto col furore della precedente
battaglia gli fece trascorrere in opere abominevoli. Nè più davano retta
ai loro ufficiali, o generali, che gli volevano frenare, che alla
ragione od alla umanità. Sorse la notte: era una grande oscurità,
pioveva a dirotta. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle,
incesero la città, che in poco d'ora fu da se stessa tanto disforme, che
non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine.
Così Isola perì per furore, prima proprio, poi d'altrui. Passarono i
Francesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino ed a
Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì sedici maggio nelle
sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato animo con promesse, e con
discorsi di rammemorazione delle cose fatte dai repubblicani di Francia,
lasciate, per marciare più spedito, le artiglierìe, e gl'impedimenti più
gravi e guernite di presidj le piazze di Civitavecchia, di Ancona e di
Perugia, s'incamminava alla volta di Toscana. Era in questa provincia
succeduta una mutazione grandissima; eccettuati i luoghi, in cui i
Francesi insistevano coi presidj, tutti gli altri si erano voltati in
favor degli alleati, con gridare il nome di Ferdinando. Ma questa
mutazione si era fatta con tanto tumulto, con tanto furore, e con tanta
ferocia, che tutt'altre cose si sarebbero aspettate dai Toscani che
queste.
La sede principale della sollevazione erano Arezzo, e Cortona, le quali,
siccome vicine allo stato Romano, avevano preso animo a far tentativi
dai moti, che in lui poco innanzi erano sorti. Il sito le rendeva
sicure, essendo poste sopra monti alti, ed erti. Arezzo si era con ogni
miglior modo, che alle guerre tumultuarie si appartenga, fortificata;
anzi ogni edifizio era fortezza: vedevansi feritoje aperte in ogni muro,
i tetti la maggior parte levati, le sommità delle case appianate,
acciocchè i difensori potessero insistervi a ferire il nemico; i capi
delle contrade muniti di cannoni, ed assicurati con isbarre e con
isteccati. Numerose squadre di gente venuta dal contado, e variamente
armata custodivano le porte, e curiosamente, e diligentemente
esaminavano chi entrava, e chi usciva. Uffizj divini si celebravano ogni
giorno nella cattedrale dal vescovo, e dal clero in ringraziamento delle
vittorie acquistate dagli alleati, e dai Toscani contro i Francesi.
Stava appeso a guisa di trofeo alla volta della chiesa un cappello con
gallone in oro, che era stato di un ajutante generale Polacco ucciso
nelle vicinanze di Cortona con una coltellata per inganno da un prete,
mentre era venuto a parlamento con lui. Muovevansi sospetti ad ogni
tratto in mezzo a quei contadini infuriati per voci date, a ragione o a
torto, di giacobino, e mal per chi non aveva i capelli in coda, e chi
non gli aveva, gli metteva. Ad ogni tratto, e quando più l'ardor gli
trasportava, si avventavano alle persone che conoscevano, gridando:
«Giur'a Dio, se sapessi, che lei è giacobino, gli passerei il cuore con
questo coltello». E sì brandivano il coltello, e facevano l'atto di
ferire. Era lo stare cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia
quest'uomini tanto sfrenati contro i Francesi, e contro coloro che
avevano o che parevano aver odore di essi, si mostravano obbedientissimi
al nome di Ferdinando. Erasi in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo
un magistrato supremo sotto titolo di suprema regia deputazione, in cui
entravano preti, nobili, e notabili. Un cavaliere Angelo Guilichini
presidente; uomini nè sfrenati, nè feroci, ma non potevano impedire il
furore del popolo: solo s'ingegnavano di dargli regola e legge. Dì e
notte sedevano per esser sempre pronti ai casi improvvisi. Facevano
disegni di nuove sommosse in favor del gran duca continuamente; traevano
a suo nome tutti i magistrati, mandavano ordini alle città tornate a
divozione, mescolavano ai contadini sollevati le guardie urbane, ed alle
guardie urbane i soldati regolari, che già avevano vestito l'abito, e le
insegne del governo ducale; e poichè pensavano a far vera guerra,
avevano calato certo numero di campane con intendimento di fonderle ad
uso di cannoni. Delle nappe, e dei colori non parlo, perchè fra quelle
turbe tumultuarie chi portava l'insegna di un santo, chi di un altro,
chi della Madonna, chi del papa, chi dei Russi, chi degli Austriaci, chi
del Gran Duca, chi tutte queste insieme; e chi era stato tinto nelle
faccende precedenti, più ne portava, col fine di allontanar da se quel
nembo tanto pericoloso. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale come
quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo si
mettevano, perchè le cose dei Francesi erano ancora in essere, e
potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana. Pure
Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono
cagione, che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i
confederati vi arrivassero; proponimento lodevole, ma bruttato da fatti
scelerati. Fu Cortona messa a dura pruova. Polacchi venuti da Perugia
accorrevano per tornarla a divozione di Francia. Seguì una fiera zuffa a
Terontola, dove i Cortonesi erano andati ad incontrargli, poi a
Campaccio a piè del monte, perchè i Polacchi prevalendo per arte di
guerra, si erano fatti avanti. Infine venne il conflitto sulle mura
stesse della città. Tentavano i soldati forestieri di sforzare le porte
di San Domenico, e di Sant'Agostino, e di dare la scalata; ma quei di
dentro si difesero sì valorosamente, che gli assalitori se ne rimasero,
avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna Francese molto forte, che
era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese con patto, che fossero
salve le sostanze e le persone; il che fu loro osservato.
Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a
Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva la intimazione. Mandò contro
gli Aretini un bando terribile, che passerebbe a fil di spada, che
darebbe la città al sacco ed alle fiamme, che rizzerebbe sulla piazza
d'Arezzo una piramide con queste parole: _Arezzo punita della sua
ribellione_. Ma tutto fu indarno: gli Aretini non si sbigottirono; il
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 05
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 06
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 07
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 08
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 09
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 10
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 11
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 12
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 13
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 14
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 15
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 16
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 17
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 18
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 19
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 20
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 21
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 22