Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 12
civili, e nelle piazze prese d'assalto, non iscusa per questo, anzi
accusa la barbarie degli uomini. Seimila Andriotti furono in poco d'ora
mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i vecchi, le
donne, i fanciulli soli, e neanco tutti, furono risparmiati. Le ceneri e
le ruine d'Andria attesteranno ai posteri, che gl'Italiani non son vili
nelle battaglie, e che la umanità era del tutto sbandita dalle guerre
civili di Napoli. Forestieri antichi, forestieri moderni, e talvolta i
paesani stessi straziarono l'Italia, e se ella è ancor bella, certamente
non è colpa degli uomini.
Trani tuttavìa si teneva pei regj, nè lo sterminio d'Andria
l'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con ottomila difensori
usi alle armi, ed accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva
piuttosto atta a pigliarsi per assedio, che per assalto. Ma il tempo
stringeva, ed i repubblicani, sì Francesi che Napolitani, erano pronti a
qualunque più pericolosa fazione. Andavano all'assalto di Trani nel
seguente modo ordinati da Broussier. I Napolitani da una parte, una
banda di Francesi dall'altra facevano le viste di dare la batterìa sui
fianchi, mentre Broussier conduceva i suoi a dare il vero assalto
all'altra parte della terra. Ma i regj, essendosi accorti del disegno,
si assembrarono grossi ad aspettarlo al luogo destinato. Ardeva la
battaglia, e succedevano molte morti, senza frutto alcuno per l'esito
del fatto, da ambe le parti. In questo mezzo tempo i difensori,
tutt'intenti a tener lontani dalle mura gli assalitori, indebolirono le
difese di un fortino situato a riva il mare: della quale occasione
prevalendosi tosto i repubblicani, se n'impadronirono, e voltarono i
suoi cannoni contro la città. Questo grave accidente sconcertò le
difese: già i repubblicani, non senza però molto scempio loro, perchè si
sforzavano contro una tempesta assai fitta di palle, saliti sulle mura
facevano inchinar la fortuna a loro favore. Tuttavia i regj continuavano
a difendersi ostinatamente, essendo, come in Andria, ogni casa ed ogni
contrada fortezze. Sarebbe stata ancor lunga e sanguinosa la battaglia,
se Broussier non avesse avvisato di far salire, rotte le porte delle
prime case, i suoi sopra i terrazzi, che coronano per l'ordinario le
case in quei paesi. Per tale modo di terrazzo in terrazzo andando,
dall'alto all'imo combattendo, i repubblicani sforzavano i regj a
sgombrare successivamente le case, e già da quei luoghi sublimi si
avvicinavano al grosso forte di Trani. Come poi accosto a lui furono
giunti, si attaccò fra di loro ed i difensori che dai luoghi superiori
del forte combattevano, una battaglia strana e quasi aerea. Sparso molto
sangue in una pertinacissima difesa, i regj, assaliti donde non
aspettavano, abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi,
che nel porto erano allestite, per fuggire. Ma nemmeno in questo
trovarono scampo; poichè Broussier, avendo preveduto il caso, aveva
armato alcune navi, che vietarono loro il passo. Alcune delle regie
furono prese per assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi
fuggiva sul lido era senza misericordia, e remissione alcuna ucciso dai
trionfanti repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data
al sacco ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli, che o portavano, o
potevano portar armi, mandati a fil di spada; carnificina orribile di
guerra civile, nè fia l'ultima che noi avremo a raccontare. Quietava, ma
non del tutto, la Puglia per queste vittorie; nuove adunazioni di genti
regie si facevano a Bitetto ed a Rutigliano, non molto minacciose pel
presente, molto per l'avvenire.
Schipani mandato a combattere i sollevati, ed a sopire le cose di
Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e
conflisse infelicemente, ed irritò con parole ed atti repubblicani molto
estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo
provocasse. Prese sul primo impeto Rocca di Aspide e Sicignano; ma
assaltata la terra di Castelluccio, forte pel sito, e per la pertinacia
di chi la difendeva, ne fu risospinto con grave perdita di soldati e di
riputazione. Per questo infelice caso non gli giovarono gli sforzi di
Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, e Capaccio, terre che
parteggiavano fortemente per la repubblica, e fu costretto a ritirarsi.
I sollevati di questa provincia ebbero facoltà di unirsi con le bande
del cardinal Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le Calabrie e la
terra di Bari sollevate a romore impugnavano coll'armi in mano la
recente repubblica. Nè i Francesi potevano porvi rimedio, perchè non si
fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della città stessa
di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo, pensavano piuttosto
a mantenersi nella capitale, che a conquistare le provincie. Schipani,
tentate invano le Calabrie, se ne giva a far guerra contro i sollevati
di Sarno, che più vicini a Napoli tumultuavano. Vi fece opere
repubblicane secondo i tempi; esortava, confortava, esaltava il governo
della repubblica, e per passatempo ardeva i ritratti del re e della
regina dove gli capitavano alle mani. Ma fu lasciato dire, e i popoli
gridando viva il re, lo combatterono per guisa che fu costretto ad
andarsene. Vi si condussero i Francesi; saccheggiarono Lauro, poi se ne
tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed i
Lavriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di
Salerno, e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del
regno. Accresceva il pericolo l'avere gl'Inglesi occupato, non senza un
valoroso fatto di Francesco Caracciolo, che gli combattè per molte ore,
le isole d'Ischia e di Procida, che, per esser situate alle bocche del
golfo di Napoli, ne danno la signorìa a chi le tiene. Così ardeva la
sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno, e
s'incominciava a temere, che l'impresa di Championnet fosse stata più
imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da ambe
le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regj poscia i
repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le case, e
gli edifizj tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era questa,
siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima degli
abitatori e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e
religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli
contro i padri, fratelli contro i fratelli, e perfino mariti contro le
mogli, e mogli contro i mariti. Nè i preti si ristavano; perchè preti
repubblicani, combattevano contro preti regj, preti regj contro preti
repubblicani, e la croce, ed il vessillo di Cristo l'uno contro l'altro
cozzavano nelle sanguinose battaglie. Pretendevano questi e quelli
parole di vangelo alla impresa loro, gli uni chiamandolo pieno di
precetti democratici, gli altri affermando, che quel dettato divino
aveva statuito, niun'altra cosa essere al mondo, che chiesa e Cesare, e
quello che della chiesa non è, essere, non del comune, ma di Cesare. Per
atterrire chi atterriva, Macdonald mandava fuori addì quattro marzo un
aspro e furioso decreto, nuovo esempio del quanto le rivoluzioni
stravolgano gli uomini.
Incominciato con dire, sapere, che uomini prezzolati dagl'Inglesi, e dai
furti di una corte infame e perfida, correvano le città e le campagne
per traviare il popolo, e stimolarlo alla ribellione, e che preti
fanatici ordinavano trame per ispegnere il governo, ed ammazzare i
repubblicani, veniva ordinando, che ogni comune che si sollevasse,
sarebbe tassato soldatescamente e soldatescamente trattato; che i
cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i parochi, e tutti gli
altri ministri della religione, fossero tenuti personalmente dei tumulti
e delle ribellioni; che ogni ribelle preso coll'armi in mano fosse
incontanente fatto passar per l'armi; che ogni prete, o ministro della
religione che fosse arrestato in qualche unione di sollevati, fosse
anch'egli fatto morire senza processo; che fosse autorizzato il governo
ad arrestare i sospetti; che chi denunziasse, o facesse arrestare un
fuoruscito Francese, od un agente dello scaduto re di Napoli, avesse una
larga ricompensa, ed il suo nome non si palesasse; che similmente chi un
magazzino segreto di armi sì da fuoco che bianche denunziasse, si
ricompensasse; che quando battesse la raccolta, ognuno tostamente si
ritirasse; che in caso di terrore improvviso le campane non si potessero
suonare, e ne andasse la vita a chi le suonasse, ed essere a ciò tenuti
tutt'insieme i preti, i religiosi, e le religiose; che chi spargesse
false novelle, fosse punito come ribelle, e chi le propagasse, come
sospetto si arrestasse e si esiliasse; che a chi fosse dannato a morte,
si sequestrassero e confiscassero i beni sì mobili che stabili a
benefizio delle repubbliche Francese e Napolitana; che ogni licenza di
cacciare si intendesse abolita, e chi fosse trovato con un fucile da
caccia, come ribelle fosse punito; che di nuovo egli protestava, e
confessava di portar rispetto alla religione ad al culto, e prometteva,
che sotto la protezione vivrebbero sì i suoi ministri, come le proprietà
e le persone; che infine i magistrati eseguissero questi suoi
comandamenti, ed i parochi gli leggessero dal pulpito. Nè contento a
questo pubblicava il generalissimo Macdonald il dì nove del medesimo
mese un manifesto molto eccessivo contro il re per animare i popoli a
difendersi contro le truppe ed i sollevati regj; imperciocchè il re
aveva fatto sapere, che fra breve sarebbe tornato nel regno.
Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani
instituiti in Italia, e contro i Francesi, si accresceva vieppiù dalle
sommosse, che nate ora in un luogo ed ora in un altro travagliavano lo
stato Romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini, ed
impedivano le strade fra Terni e Spoleto, e quantunque il generale
Grabruschi co' suoi Polacchi si affaticasse per sottomettergli, non
poteva venirne a capo, perchè spenti in un luogo pullulavano in un
altro, e già Rieti pericolava. Civitavecchia si era ribellata contro i
nuovi signori; durò un pezzo il generale Merlin a sottometterla,
ancorachè con palle infuocate la combattesse. Stroncone, e Alatri
parimente romoreggiavano; Orvieto anch'esso aveva fatto mutazione, ed
ostinatissimamente si difendeva contro i repubblicani. L'incendio si
dilatava: ogni luogo era o mosso con le armi impugnate, o poco sicuro
anche nella quiete.
Non ostante i pericoli, che correvano, il direttorio di Francia, o non
curandogli, o facendo sembianza di non curargli, si era risoluto a far
mutazioni nel governo di Napoli. Sapeva, che il commissario Faipoult non
era grato all'universale, e che Championnet sul suo primo giungere non
aveva ordinato le cose per modo che nè per l'opinione nè per la forza
potessero partorire quegli effetti ch'egli desiderava. Si aggiungeva,
che le grida, le vociferazioni, le calunnie di coloro che ambivano le
cariche, contro quelli che le avevano, e principalmente contro i membri
del governo, avevano fatto perder loro, od almeno ai più, ogni
riputazione. Tutto questo considerando il direttorio, aveva mandato a
Napoli un uomo pratico e dabbene, acciocchè riordinasse ogni cosa, e con
le virtù sue rattemperasse gli sdegni produtti dalle insolenze dei
precedenti commissari ed agenti, rimedio buono, se fosse stato
accompagnato dalla libertà, non in parole, ma in fatti, e se fossero
stati lontani i pericoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario del
direttorio, il quale prevalendosi dei buoni si sforzava di consolare gli
uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle finanze, e fecene
delle lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava; gli ordini
politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo di Francia, non
avuto alcun riguardo al modello della constituzione proposto dalla
congregazione Napolitana, e di cui abbiamo sopra parlato. Creò fra gli
altri un direttorio, imitazione servile. Ma quel che l'ordine aveva in
se di cattivo correggeva con le persone. Chiamovvi Ercole d'Agnese,
Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe Albanese, e Melchior
Delfico, uomini tutti migliori dei tempi, e di non ordinaria virtù.
Certamente, se i fatti non fossero stati tanto contrari, e se una nuova
piena non fosse venuta a sobbissare l'Italia dal settentrione, avrebbe
questo buon Francese corretto in Napoli quanto il soldatesco furore, e
la civile cupidigia vi avevano guasto e corrotto. Diede egli pruova
notabile, tacendo le altre, dell'animo suo civile, quando Macdonald
mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi casi Sorrento, patria di
Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e Salernitane rivoluzioni si era
levata a romore contro i Francesi; imperciocchè operò col generale che
la casa dei discendenti della sorella del poeta, quando la terra fosse
presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse. Diè molto volentieri
Macdonald, ed a modo di generosa gara con Abrial, ordini accomodati al
comandante della fazione, acciocchè l'effetto seguisse. Fra le
uccisioni, gl'incendj e le ruine dell'infelice Sorrento, pruovarono i
discendenti del cantore di Goffredo, quanto potessero in animi civili la
memoria, ed il rispetto verso quel principal lume dell'Italiana poesia.
Vollero riconoscere la conservata salute, offerendo a Macdonald, perchè
non sapendo di Abrial, a lui la riferivano, il ritratto del Tasso
dipinto dal vivo, come si crede, da Francesco Zuccaro. Il ricusava
Macdonald, facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del
benefizio, ed essa, l'immagine del poeta salvatore ad Abrial offerendo,
pagava con segno di gratitudine unico al mondo un immenso beneficio.
L'accettava di buon animo Abrial, e molto caro se lo serbava, e tuttavia
serba, dolce e pietosa conquista; e volesse pure il cielo, che i
repubblicani di Francia non altre conquiste che di questa sorte avessero
mai fatte in Italia!
Il piacer non dura nello scrivere le storie dei nostri tempi. Restava,
che i due fiori d'Italia, dico Lucca e Toscana, si guastassero. Di Lucca
dirò adesso, di Toscana più sotto. Entrava sul principiar dell'anno in
Lucca accompagnato da quattrocento cavalli Serrurier, che tornava dalla
Toscana: tosto si pubblicava le solite lusinghe dell'esser venuto non
per distruggere il governo, ma per fare, che si portasse rispetto alle
persone, alle proprietà, ed alla religione, come se queste cose non si
rispettassero in Lucca, e bisogno avessero di soldati forestieri, perchè
si rispettassero. Il fine primo, ma non primario, dell'invasione
Lucchese era il pretesto di due milioni di franchi, che dai Lucchesi si
richiedeva, pei servigi dell'esercito: poi si voleva venire alla
mutazione del governo, benchè le parole suonassero in contrario; nè
pareva, nè era cosa possibile, che in mezzo a tante romorose democrazìe
una quieta aristocrazìa si conservasse. Già Lucca era serva, poichè
l'antico governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno, se non
appruovato da Serrurier: quest'era il rispetto che si portava
all'independenza. Miollis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi
s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà di
gennajo tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna,
addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello stato
popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e
forestiere.
Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che
deliberanti, e cedendo al tempo, stanziarono, che fosse abolita la
nobiltà, che il popolo Lucchese riassumesse la sovranità, che dodici
deputati si eleggessero per ordinare una constituzione democratica
secondo il modello di quella, che reggeva Lucca prima della legge
Martiniana. Furono eletti Giacomo Lucchesini, Paolo Garzoni, Cosimo
Bernardini, Alessio Ottolini, Lelio Manzi, Vannucci, Pellegrino
Frediani, Rustici, Pio Poggi, Paoli, Samminiati, Francesco Burlamacchi;
la maggior parte nobili, che non erano alieni dal voler ritrarre lo
stato ad una forma repubblicana più larga, ma conforme piuttosto agli
ordini Lucchesi che ai Francesi. I democrati pazzi non vollero udire
parole Italiche; però fecero accettare le forme Francesi. Nacquero
adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a Milano, a Genova, a Roma,
i due consigli col direttorio. Incominciossi a dar mano a spogliar
l'erario di denaro, le armerìe di armi, i granai di vettovaglie, in poco
d'ora i frutti dell'antica e mirabile provvidenza Lucchese furono
dissipati e guasti: le vettovaglie si mandarono in Corsica ad uso dei
presidj, le artiglierìe, sopra tutt'altre bellissime, a far corpo con
quelle dell'esercito Francese, massime ad assicurare il golfo della
Spezia. Lucca serva principiò a parlare con lingua servile, e non so, se
sappiano più di adulazione, o di sconcio di lingua Italiana gli atti del
governo Lucchese di quei tempi. Quindi vi sorsero le parti, perchè chi
voleva vivere Lucchese, e chi unito alla Cisalpina. Si arrosero le
solite tribolazioni di dover vestire, pascere, alloggiare, pagare i
soldati forestieri, che andavano, e venivano, o stanziavano, ora Liguri,
ora Cisalpini, ora Francesi, con molte altre molestie, accompagnature
insolenti del dominio militare. Brevemente la fiorita ed intemerata
Lucca divenne sentina di mali, e ne fu desolata. Questo le fecero i
repubblicani, prima per darla in preda a se stessi, poi per darla in
preda ai re.
Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione del
re, un governo ch'io non so con qual nome chiamare, poichè nè monarcale
nè aristocratico era, e manco ancora democratico, si conobbe tostamente,
che le recenti mutazioni non erano a grado dei popoli. I soldati
massimamente non vi si potevano accomodare, perchè ed erano avversi per
le passate instigazioni ai soldati Francesi, e questi, in grado di vinti
tenendogli, non gli trattavano di compagni. La qual cosa gli muoveva a
sdegno grandissimo. Si aggiungevano le solite insolenze, che
infiammavano a rabbia un popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era
adunque in Piemonte quiete apparente, e sostanza minacciosa. Parve
principalmente a tutti cosa enorme lo spoglio fatto, come già abbiam
narrato, non da Piemontesi, del palazzo del re coll'averne rotto i
suggelli. Venne il governo, per non aver potuto impedire un fatto sì
grave, in voce di quello che era veramente, cioè di servo d'altri, e fu
tolta fede alle sue parole. Il suo buon concetto diminuiva anche l'avere
mandato in sul primo sorgere, i capi di famiglia della primaria nobiltà,
come ostaggi, a Grenoble. Mandovvi fra gli altri Priocca, mandovvi quel
Castellengo, vicario di polizia in Torino. Priocca se ne viveva molto
modestamente nella capitale del Delfinato; Castellengo, per istinto,
spiava ogni cosa, ed il bene ed il male, e più ancora il male che il
bene, investigatore assiduo di mercati, di taverne, di bische e di
ritrovi sì pubblici che privati; uomo veramente di abilità singolare nel
conoscere gli uomini fu costui, ed i repubblicani ebbero torto a non
vezzeggiarlo; ma essi erano meri partigiani, e dello stato non
s'intendevano.
Grande scapito poi alla riputazione di chi reggeva aveva recato la
faccenda dei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne
il valore, poi il risecava dei due terzi, il che fu grave ferita a
coloro che gli possedevano. Bene, e necessario era il farlo; poichè il
debito dello stato era tanto enorme, che lo spegnerlo, o diminuirlo in
altro modo, si vedeva impossibile: ma quell'aver detto di non voler fare
quello, che pochi giorni dopo fece, il rendè disprezzabile. Questi
biglietti erano una perpetua molestia, perchè scapitando sempre del loro
valore, anche ridotto, la fede dei contratti si contaminava, le casse
dell'erario accettandogli al valor legale, ne venivano a scapitare della
differenza. Per ajutarsi dei beni ecclesiastici a spegner questi
biglietti, il governo gli vendeva, ma il mezzo non bastava per ritornare
questa molesta carta all'intera riputazione, e sempre disavanzava. Non
si omisero, ma indarno, vari altri rimedi: infine si voltarono, come
lettere di cambio, ai ricchi, massime a quelli che si erano dimostrati
più accesi in favore dell'antico stato, ed essi erano per legge
obbligati ad obbedirgli con pagarne la valuta, e si compensassero coi
beni della nazione. Riuscì di qualche efficacia il temperamento, ma
sopravvennero nuove mutazioni, e non ebbe se non debole effetto.
Sobbissava il Piemonte pei debiti, nè poteva bastar alle spese.
S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi, del vestito, del cibo,
delle stanze, dei passi pei soldati forestieri. Rovinava a precipizio lo
stato: in tre mesi, sebbene si estremassero le spese pei servigi
Piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata ed in sostanze, meglio di
trentaquattro milioni. A qual fine si andasse, nissuno il sapeva; il
mancar di fede era inevitabile: si prevedeva, che altro fra breve non
sarebbe rimasto ai Piemontesi, se non le terre, e queste ancora incolte;
se non le case, e queste ancora guaste. La desolazione e la solitudine
erano imminenti.
Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già abbiamo
detto in parte ciò, che rendeva il governo poco accetto. Seguitava, che
i municipali di Torino, imitando in questo quei di Parigi ai tempi della
rivoluzione, l'emolavano, e traevano con se molto seguito. A questo
erano stimolati da alcuni repubblicani Francesi in grado, i quali si
lamentavano di non aver avuto dal governo Piemontese quelle ricompense,
che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese
aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.
I musei intanto, e le librerìe si spogliavano: rapivasi la tavola
Isiaca, rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio, e quanto si credeva
poter ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In
mezzo a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci, ed il conte
Laville deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della
data libertà, il tenessero bene edificato, ed esplorassero qual fosse il
suo pensiero intorno alle sorti future del Piemonte. S'appresentarono
anche per mandato espresso al conte Balbo, perchè si era udito dei
denari mandati dal re al suo ambasciadore, del conto del ricevuto denaro
richiedendolo. Rispose, al re solo potere e volere render conto; nè
volle riconoscere le mutazioni fatte in Piemonte. Fu l'intromessione del
conte Balbo molto utile al re in Parigi, nè bisogna giudicare
dell'operato dall'evento; perchè i tempi troppo furono contrari, e se
corruppe alcuno con denari, il che non è da lodarsi, maggior biasimo
meritano coloro, che si lasciarono corrompere. Non era alieno il conte
dall'amare un reggimento più largo, ma più per ragione che per indole,
perchè per questa amava piuttosto i reggimenti stretti: non credeva una
moderata libertà biasimevole, ma detestava con tutti i buoni il modo,
col quale in Francia si era voluto recare ad effetto. Del resto uomo
d'ingegno non mediocre, letterato di valore, dotto anche in materie
scientifiche, affezionato alle lettere Italiane, amico ai letterati,
amatore del giusto, conoscitore della natura umana, erano in lui tutte
le parti, che in chi s'ingerisce nello stato si richieggono, se non
forse una grande pertinacia non le guastava, quando però non si voglia
credere, ch'ella, come spesso la sperienza dimostra, sia anche una delle
buone. Questa tenacità medesima usava nella comune vita, e perciò le sue
affezioni, come le avversioni, fondate o no, erano indomabili.
Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò
vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione fu
sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che si
era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di
nobiltà, e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.
Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti Piemontesi, si
moltiplicavano, e s'inasprivano. Chi voleva esser Francese, chi
Italiano, chi Piemontese. I primi argomentavano dalla servitù delle
repubbliche Italiane, dalla potenza della Francia, dalla vicinità dei
luoghi; i secondi dalla bellezza del nome Italiano, dalla lingua, e dai
costumi; i terzi dall'antichità, e dalla fama dello stato Piemontese,
dagli ordini suoi tanto diversi da quei di Francia e d'Italia, dal suo
esercito tanto valoroso, che si conveniva conservare col proprio nome.
Si viveva in queste incertezze, quando arrivava da Parigi l'avvocato
Carlo Bossi, uno degli eletti al governo. Risplendeva in Bossi una
natura molto nobile, benevola, amica all'umanità. Per questo gli piaceva
la libertà, perchè gli pareva, che al ben essere dell'umanità
conferisse. Ciò nondimeno per la qualità dell'animo amava egli piuttosto
il tirato. Aveva a vile la loquacità, e le sfrenatezze dei democrati di
quei tempi, perchè s'accorgeva, siccome quegli che nelle faccende di
stato era di giudizio finissimo, e forse unico al mondo, ch'esse non
potevano condurre a niun governo buono, e manco ancora al libero. Del
resto, quantunque alcuni amatori di libertà l'avessero per sospetto,
parendo loro ch'egli amasse piuttosto il comandare che l'obbedire, se si
vuol fare stima di lui, come uomo privato, nissuno amico più tenero de'
suoi amici, nissun uomo più retto, o più generoso di lui si potrebbe
immaginare. Non dirò del suo ingegno piuttosto mirabile che raro, perchè
è noto a tutta Italia, e gli scritti suoi ne faranno ai posteri perpetua
testimonianza. Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da
Taleyrand e da Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio
voleva fare del Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse
l'essere congiunto con chi comandava, che con chi obbediva, si era
deliberato a proporre in cospetto del governo il partito dell'unione
colla Francia. Seguì tosto l'effetto, perchè avendo favellato con
singolare eloquenza, e confermato il suo favellare con raziocinj
speciosissimi, perciocchè nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo,
vinse facilmente il partito, non avendovi nissuno contraddetto, perchè
alcuni non vollero, altri non seppero, stantechè la proposta era
inaspettata. Accettatosi dal governo il partito dell'unione, furono
tentati al medesimo fine i municipali di Torino. Vi aderirono
volentieri. La deliberazione della capitale fu di grandissima
importanza, perchè essendo conforme a quella del governo, facilmente
tirava con se tutto il paese. Si mandarono commissari nelle province a
far gli squittini per l'unione. I popoli non l'intendevano, e certamente
ripugnavano. Ma l'autorità del governo, e la presenza dei Francesi
facevano chiarire i magistrati in favore. I più sospetti di avversione
allo stato presente si scopersero i primi favorevolmente: vescovi,
abbati, canonici, preti, frati sottoscrissero la maggior parte per il
sì: parve partito vinto generalmente. Mandavansi a Parigi per portar i
suffragi Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato
valore, e di gran fama in Piemonte; ma vissuti discordi in Parigi,
produssero discordia nella patria loro.
Questa risoluzione del governo, lo scemò di riputazione, perchè il
popolo non amava l'imperio dei forestieri; gl'Italiani si adoperavano
per farlo vieppiù odioso. Fantoni, poeta celebre, che all'alito delle
rivoluzioni sempre si calava, udito di quel moto Piemontese, si era
tosto condotto nel paese, e quivi faceva un dimenare incredibile contro
il governo, e contro la sua risoluzione, qualificandola di tradimento
contro l'Italia. Insomma tanto disse e tanto fece, che fu forza
cacciarlo in cittadella. Certamente Fantoni amava molto l'Italia, ma
egli era un cervello così fatto, che se fosse stato lasciato fare, il
manco che le sarebbe accaduto, fora stato l'andar tutta sottosopra.
La risoluzione di volersi unire a Francia fu, non cagione, ma occasione
di un moto più feroce e ridicolo, che nobile e pericoloso nella
provincia d'Acqui. Vi si spargevano voci, non già per ispirito Italico,
ma per avversione allo stato nuovo, che unirsi a Francia era un perdere
la religione, che grandi eserciti marciavano a liberare l'Italia dai
Francesi, che in ogni lido seguivano sbarchi di gente nemica a Francia.
Rivalta, terra piena d'uomini armigeri, si levava a romore, cacciava il
commissario; per poco stette, che non l'uccidesse. Strevi seguitava con
accusa la barbarie degli uomini. Seimila Andriotti furono in poco d'ora
mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i vecchi, le
donne, i fanciulli soli, e neanco tutti, furono risparmiati. Le ceneri e
le ruine d'Andria attesteranno ai posteri, che gl'Italiani non son vili
nelle battaglie, e che la umanità era del tutto sbandita dalle guerre
civili di Napoli. Forestieri antichi, forestieri moderni, e talvolta i
paesani stessi straziarono l'Italia, e se ella è ancor bella, certamente
non è colpa degli uomini.
Trani tuttavìa si teneva pei regj, nè lo sterminio d'Andria
l'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con ottomila difensori
usi alle armi, ed accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva
piuttosto atta a pigliarsi per assedio, che per assalto. Ma il tempo
stringeva, ed i repubblicani, sì Francesi che Napolitani, erano pronti a
qualunque più pericolosa fazione. Andavano all'assalto di Trani nel
seguente modo ordinati da Broussier. I Napolitani da una parte, una
banda di Francesi dall'altra facevano le viste di dare la batterìa sui
fianchi, mentre Broussier conduceva i suoi a dare il vero assalto
all'altra parte della terra. Ma i regj, essendosi accorti del disegno,
si assembrarono grossi ad aspettarlo al luogo destinato. Ardeva la
battaglia, e succedevano molte morti, senza frutto alcuno per l'esito
del fatto, da ambe le parti. In questo mezzo tempo i difensori,
tutt'intenti a tener lontani dalle mura gli assalitori, indebolirono le
difese di un fortino situato a riva il mare: della quale occasione
prevalendosi tosto i repubblicani, se n'impadronirono, e voltarono i
suoi cannoni contro la città. Questo grave accidente sconcertò le
difese: già i repubblicani, non senza però molto scempio loro, perchè si
sforzavano contro una tempesta assai fitta di palle, saliti sulle mura
facevano inchinar la fortuna a loro favore. Tuttavia i regj continuavano
a difendersi ostinatamente, essendo, come in Andria, ogni casa ed ogni
contrada fortezze. Sarebbe stata ancor lunga e sanguinosa la battaglia,
se Broussier non avesse avvisato di far salire, rotte le porte delle
prime case, i suoi sopra i terrazzi, che coronano per l'ordinario le
case in quei paesi. Per tale modo di terrazzo in terrazzo andando,
dall'alto all'imo combattendo, i repubblicani sforzavano i regj a
sgombrare successivamente le case, e già da quei luoghi sublimi si
avvicinavano al grosso forte di Trani. Come poi accosto a lui furono
giunti, si attaccò fra di loro ed i difensori che dai luoghi superiori
del forte combattevano, una battaglia strana e quasi aerea. Sparso molto
sangue in una pertinacissima difesa, i regj, assaliti donde non
aspettavano, abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi,
che nel porto erano allestite, per fuggire. Ma nemmeno in questo
trovarono scampo; poichè Broussier, avendo preveduto il caso, aveva
armato alcune navi, che vietarono loro il passo. Alcune delle regie
furono prese per assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi
fuggiva sul lido era senza misericordia, e remissione alcuna ucciso dai
trionfanti repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data
al sacco ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli, che o portavano, o
potevano portar armi, mandati a fil di spada; carnificina orribile di
guerra civile, nè fia l'ultima che noi avremo a raccontare. Quietava, ma
non del tutto, la Puglia per queste vittorie; nuove adunazioni di genti
regie si facevano a Bitetto ed a Rutigliano, non molto minacciose pel
presente, molto per l'avvenire.
Schipani mandato a combattere i sollevati, ed a sopire le cose di
Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e
conflisse infelicemente, ed irritò con parole ed atti repubblicani molto
estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo
provocasse. Prese sul primo impeto Rocca di Aspide e Sicignano; ma
assaltata la terra di Castelluccio, forte pel sito, e per la pertinacia
di chi la difendeva, ne fu risospinto con grave perdita di soldati e di
riputazione. Per questo infelice caso non gli giovarono gli sforzi di
Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, e Capaccio, terre che
parteggiavano fortemente per la repubblica, e fu costretto a ritirarsi.
I sollevati di questa provincia ebbero facoltà di unirsi con le bande
del cardinal Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le Calabrie e la
terra di Bari sollevate a romore impugnavano coll'armi in mano la
recente repubblica. Nè i Francesi potevano porvi rimedio, perchè non si
fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della città stessa
di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo, pensavano piuttosto
a mantenersi nella capitale, che a conquistare le provincie. Schipani,
tentate invano le Calabrie, se ne giva a far guerra contro i sollevati
di Sarno, che più vicini a Napoli tumultuavano. Vi fece opere
repubblicane secondo i tempi; esortava, confortava, esaltava il governo
della repubblica, e per passatempo ardeva i ritratti del re e della
regina dove gli capitavano alle mani. Ma fu lasciato dire, e i popoli
gridando viva il re, lo combatterono per guisa che fu costretto ad
andarsene. Vi si condussero i Francesi; saccheggiarono Lauro, poi se ne
tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed i
Lavriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di
Salerno, e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del
regno. Accresceva il pericolo l'avere gl'Inglesi occupato, non senza un
valoroso fatto di Francesco Caracciolo, che gli combattè per molte ore,
le isole d'Ischia e di Procida, che, per esser situate alle bocche del
golfo di Napoli, ne danno la signorìa a chi le tiene. Così ardeva la
sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno, e
s'incominciava a temere, che l'impresa di Championnet fosse stata più
imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da ambe
le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regj poscia i
repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le case, e
gli edifizj tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era questa,
siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima degli
abitatori e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e
religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli
contro i padri, fratelli contro i fratelli, e perfino mariti contro le
mogli, e mogli contro i mariti. Nè i preti si ristavano; perchè preti
repubblicani, combattevano contro preti regj, preti regj contro preti
repubblicani, e la croce, ed il vessillo di Cristo l'uno contro l'altro
cozzavano nelle sanguinose battaglie. Pretendevano questi e quelli
parole di vangelo alla impresa loro, gli uni chiamandolo pieno di
precetti democratici, gli altri affermando, che quel dettato divino
aveva statuito, niun'altra cosa essere al mondo, che chiesa e Cesare, e
quello che della chiesa non è, essere, non del comune, ma di Cesare. Per
atterrire chi atterriva, Macdonald mandava fuori addì quattro marzo un
aspro e furioso decreto, nuovo esempio del quanto le rivoluzioni
stravolgano gli uomini.
Incominciato con dire, sapere, che uomini prezzolati dagl'Inglesi, e dai
furti di una corte infame e perfida, correvano le città e le campagne
per traviare il popolo, e stimolarlo alla ribellione, e che preti
fanatici ordinavano trame per ispegnere il governo, ed ammazzare i
repubblicani, veniva ordinando, che ogni comune che si sollevasse,
sarebbe tassato soldatescamente e soldatescamente trattato; che i
cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i parochi, e tutti gli
altri ministri della religione, fossero tenuti personalmente dei tumulti
e delle ribellioni; che ogni ribelle preso coll'armi in mano fosse
incontanente fatto passar per l'armi; che ogni prete, o ministro della
religione che fosse arrestato in qualche unione di sollevati, fosse
anch'egli fatto morire senza processo; che fosse autorizzato il governo
ad arrestare i sospetti; che chi denunziasse, o facesse arrestare un
fuoruscito Francese, od un agente dello scaduto re di Napoli, avesse una
larga ricompensa, ed il suo nome non si palesasse; che similmente chi un
magazzino segreto di armi sì da fuoco che bianche denunziasse, si
ricompensasse; che quando battesse la raccolta, ognuno tostamente si
ritirasse; che in caso di terrore improvviso le campane non si potessero
suonare, e ne andasse la vita a chi le suonasse, ed essere a ciò tenuti
tutt'insieme i preti, i religiosi, e le religiose; che chi spargesse
false novelle, fosse punito come ribelle, e chi le propagasse, come
sospetto si arrestasse e si esiliasse; che a chi fosse dannato a morte,
si sequestrassero e confiscassero i beni sì mobili che stabili a
benefizio delle repubbliche Francese e Napolitana; che ogni licenza di
cacciare si intendesse abolita, e chi fosse trovato con un fucile da
caccia, come ribelle fosse punito; che di nuovo egli protestava, e
confessava di portar rispetto alla religione ad al culto, e prometteva,
che sotto la protezione vivrebbero sì i suoi ministri, come le proprietà
e le persone; che infine i magistrati eseguissero questi suoi
comandamenti, ed i parochi gli leggessero dal pulpito. Nè contento a
questo pubblicava il generalissimo Macdonald il dì nove del medesimo
mese un manifesto molto eccessivo contro il re per animare i popoli a
difendersi contro le truppe ed i sollevati regj; imperciocchè il re
aveva fatto sapere, che fra breve sarebbe tornato nel regno.
Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani
instituiti in Italia, e contro i Francesi, si accresceva vieppiù dalle
sommosse, che nate ora in un luogo ed ora in un altro travagliavano lo
stato Romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini, ed
impedivano le strade fra Terni e Spoleto, e quantunque il generale
Grabruschi co' suoi Polacchi si affaticasse per sottomettergli, non
poteva venirne a capo, perchè spenti in un luogo pullulavano in un
altro, e già Rieti pericolava. Civitavecchia si era ribellata contro i
nuovi signori; durò un pezzo il generale Merlin a sottometterla,
ancorachè con palle infuocate la combattesse. Stroncone, e Alatri
parimente romoreggiavano; Orvieto anch'esso aveva fatto mutazione, ed
ostinatissimamente si difendeva contro i repubblicani. L'incendio si
dilatava: ogni luogo era o mosso con le armi impugnate, o poco sicuro
anche nella quiete.
Non ostante i pericoli, che correvano, il direttorio di Francia, o non
curandogli, o facendo sembianza di non curargli, si era risoluto a far
mutazioni nel governo di Napoli. Sapeva, che il commissario Faipoult non
era grato all'universale, e che Championnet sul suo primo giungere non
aveva ordinato le cose per modo che nè per l'opinione nè per la forza
potessero partorire quegli effetti ch'egli desiderava. Si aggiungeva,
che le grida, le vociferazioni, le calunnie di coloro che ambivano le
cariche, contro quelli che le avevano, e principalmente contro i membri
del governo, avevano fatto perder loro, od almeno ai più, ogni
riputazione. Tutto questo considerando il direttorio, aveva mandato a
Napoli un uomo pratico e dabbene, acciocchè riordinasse ogni cosa, e con
le virtù sue rattemperasse gli sdegni produtti dalle insolenze dei
precedenti commissari ed agenti, rimedio buono, se fosse stato
accompagnato dalla libertà, non in parole, ma in fatti, e se fossero
stati lontani i pericoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario del
direttorio, il quale prevalendosi dei buoni si sforzava di consolare gli
uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle finanze, e fecene
delle lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava; gli ordini
politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo di Francia, non
avuto alcun riguardo al modello della constituzione proposto dalla
congregazione Napolitana, e di cui abbiamo sopra parlato. Creò fra gli
altri un direttorio, imitazione servile. Ma quel che l'ordine aveva in
se di cattivo correggeva con le persone. Chiamovvi Ercole d'Agnese,
Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe Albanese, e Melchior
Delfico, uomini tutti migliori dei tempi, e di non ordinaria virtù.
Certamente, se i fatti non fossero stati tanto contrari, e se una nuova
piena non fosse venuta a sobbissare l'Italia dal settentrione, avrebbe
questo buon Francese corretto in Napoli quanto il soldatesco furore, e
la civile cupidigia vi avevano guasto e corrotto. Diede egli pruova
notabile, tacendo le altre, dell'animo suo civile, quando Macdonald
mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi casi Sorrento, patria di
Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e Salernitane rivoluzioni si era
levata a romore contro i Francesi; imperciocchè operò col generale che
la casa dei discendenti della sorella del poeta, quando la terra fosse
presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse. Diè molto volentieri
Macdonald, ed a modo di generosa gara con Abrial, ordini accomodati al
comandante della fazione, acciocchè l'effetto seguisse. Fra le
uccisioni, gl'incendj e le ruine dell'infelice Sorrento, pruovarono i
discendenti del cantore di Goffredo, quanto potessero in animi civili la
memoria, ed il rispetto verso quel principal lume dell'Italiana poesia.
Vollero riconoscere la conservata salute, offerendo a Macdonald, perchè
non sapendo di Abrial, a lui la riferivano, il ritratto del Tasso
dipinto dal vivo, come si crede, da Francesco Zuccaro. Il ricusava
Macdonald, facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del
benefizio, ed essa, l'immagine del poeta salvatore ad Abrial offerendo,
pagava con segno di gratitudine unico al mondo un immenso beneficio.
L'accettava di buon animo Abrial, e molto caro se lo serbava, e tuttavia
serba, dolce e pietosa conquista; e volesse pure il cielo, che i
repubblicani di Francia non altre conquiste che di questa sorte avessero
mai fatte in Italia!
Il piacer non dura nello scrivere le storie dei nostri tempi. Restava,
che i due fiori d'Italia, dico Lucca e Toscana, si guastassero. Di Lucca
dirò adesso, di Toscana più sotto. Entrava sul principiar dell'anno in
Lucca accompagnato da quattrocento cavalli Serrurier, che tornava dalla
Toscana: tosto si pubblicava le solite lusinghe dell'esser venuto non
per distruggere il governo, ma per fare, che si portasse rispetto alle
persone, alle proprietà, ed alla religione, come se queste cose non si
rispettassero in Lucca, e bisogno avessero di soldati forestieri, perchè
si rispettassero. Il fine primo, ma non primario, dell'invasione
Lucchese era il pretesto di due milioni di franchi, che dai Lucchesi si
richiedeva, pei servigi dell'esercito: poi si voleva venire alla
mutazione del governo, benchè le parole suonassero in contrario; nè
pareva, nè era cosa possibile, che in mezzo a tante romorose democrazìe
una quieta aristocrazìa si conservasse. Già Lucca era serva, poichè
l'antico governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno, se non
appruovato da Serrurier: quest'era il rispetto che si portava
all'independenza. Miollis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi
s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà di
gennajo tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna,
addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello stato
popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e
forestiere.
Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che
deliberanti, e cedendo al tempo, stanziarono, che fosse abolita la
nobiltà, che il popolo Lucchese riassumesse la sovranità, che dodici
deputati si eleggessero per ordinare una constituzione democratica
secondo il modello di quella, che reggeva Lucca prima della legge
Martiniana. Furono eletti Giacomo Lucchesini, Paolo Garzoni, Cosimo
Bernardini, Alessio Ottolini, Lelio Manzi, Vannucci, Pellegrino
Frediani, Rustici, Pio Poggi, Paoli, Samminiati, Francesco Burlamacchi;
la maggior parte nobili, che non erano alieni dal voler ritrarre lo
stato ad una forma repubblicana più larga, ma conforme piuttosto agli
ordini Lucchesi che ai Francesi. I democrati pazzi non vollero udire
parole Italiche; però fecero accettare le forme Francesi. Nacquero
adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a Milano, a Genova, a Roma,
i due consigli col direttorio. Incominciossi a dar mano a spogliar
l'erario di denaro, le armerìe di armi, i granai di vettovaglie, in poco
d'ora i frutti dell'antica e mirabile provvidenza Lucchese furono
dissipati e guasti: le vettovaglie si mandarono in Corsica ad uso dei
presidj, le artiglierìe, sopra tutt'altre bellissime, a far corpo con
quelle dell'esercito Francese, massime ad assicurare il golfo della
Spezia. Lucca serva principiò a parlare con lingua servile, e non so, se
sappiano più di adulazione, o di sconcio di lingua Italiana gli atti del
governo Lucchese di quei tempi. Quindi vi sorsero le parti, perchè chi
voleva vivere Lucchese, e chi unito alla Cisalpina. Si arrosero le
solite tribolazioni di dover vestire, pascere, alloggiare, pagare i
soldati forestieri, che andavano, e venivano, o stanziavano, ora Liguri,
ora Cisalpini, ora Francesi, con molte altre molestie, accompagnature
insolenti del dominio militare. Brevemente la fiorita ed intemerata
Lucca divenne sentina di mali, e ne fu desolata. Questo le fecero i
repubblicani, prima per darla in preda a se stessi, poi per darla in
preda ai re.
Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione del
re, un governo ch'io non so con qual nome chiamare, poichè nè monarcale
nè aristocratico era, e manco ancora democratico, si conobbe tostamente,
che le recenti mutazioni non erano a grado dei popoli. I soldati
massimamente non vi si potevano accomodare, perchè ed erano avversi per
le passate instigazioni ai soldati Francesi, e questi, in grado di vinti
tenendogli, non gli trattavano di compagni. La qual cosa gli muoveva a
sdegno grandissimo. Si aggiungevano le solite insolenze, che
infiammavano a rabbia un popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era
adunque in Piemonte quiete apparente, e sostanza minacciosa. Parve
principalmente a tutti cosa enorme lo spoglio fatto, come già abbiam
narrato, non da Piemontesi, del palazzo del re coll'averne rotto i
suggelli. Venne il governo, per non aver potuto impedire un fatto sì
grave, in voce di quello che era veramente, cioè di servo d'altri, e fu
tolta fede alle sue parole. Il suo buon concetto diminuiva anche l'avere
mandato in sul primo sorgere, i capi di famiglia della primaria nobiltà,
come ostaggi, a Grenoble. Mandovvi fra gli altri Priocca, mandovvi quel
Castellengo, vicario di polizia in Torino. Priocca se ne viveva molto
modestamente nella capitale del Delfinato; Castellengo, per istinto,
spiava ogni cosa, ed il bene ed il male, e più ancora il male che il
bene, investigatore assiduo di mercati, di taverne, di bische e di
ritrovi sì pubblici che privati; uomo veramente di abilità singolare nel
conoscere gli uomini fu costui, ed i repubblicani ebbero torto a non
vezzeggiarlo; ma essi erano meri partigiani, e dello stato non
s'intendevano.
Grande scapito poi alla riputazione di chi reggeva aveva recato la
faccenda dei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne
il valore, poi il risecava dei due terzi, il che fu grave ferita a
coloro che gli possedevano. Bene, e necessario era il farlo; poichè il
debito dello stato era tanto enorme, che lo spegnerlo, o diminuirlo in
altro modo, si vedeva impossibile: ma quell'aver detto di non voler fare
quello, che pochi giorni dopo fece, il rendè disprezzabile. Questi
biglietti erano una perpetua molestia, perchè scapitando sempre del loro
valore, anche ridotto, la fede dei contratti si contaminava, le casse
dell'erario accettandogli al valor legale, ne venivano a scapitare della
differenza. Per ajutarsi dei beni ecclesiastici a spegner questi
biglietti, il governo gli vendeva, ma il mezzo non bastava per ritornare
questa molesta carta all'intera riputazione, e sempre disavanzava. Non
si omisero, ma indarno, vari altri rimedi: infine si voltarono, come
lettere di cambio, ai ricchi, massime a quelli che si erano dimostrati
più accesi in favore dell'antico stato, ed essi erano per legge
obbligati ad obbedirgli con pagarne la valuta, e si compensassero coi
beni della nazione. Riuscì di qualche efficacia il temperamento, ma
sopravvennero nuove mutazioni, e non ebbe se non debole effetto.
Sobbissava il Piemonte pei debiti, nè poteva bastar alle spese.
S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi, del vestito, del cibo,
delle stanze, dei passi pei soldati forestieri. Rovinava a precipizio lo
stato: in tre mesi, sebbene si estremassero le spese pei servigi
Piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata ed in sostanze, meglio di
trentaquattro milioni. A qual fine si andasse, nissuno il sapeva; il
mancar di fede era inevitabile: si prevedeva, che altro fra breve non
sarebbe rimasto ai Piemontesi, se non le terre, e queste ancora incolte;
se non le case, e queste ancora guaste. La desolazione e la solitudine
erano imminenti.
Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già abbiamo
detto in parte ciò, che rendeva il governo poco accetto. Seguitava, che
i municipali di Torino, imitando in questo quei di Parigi ai tempi della
rivoluzione, l'emolavano, e traevano con se molto seguito. A questo
erano stimolati da alcuni repubblicani Francesi in grado, i quali si
lamentavano di non aver avuto dal governo Piemontese quelle ricompense,
che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese
aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.
I musei intanto, e le librerìe si spogliavano: rapivasi la tavola
Isiaca, rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio, e quanto si credeva
poter ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In
mezzo a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci, ed il conte
Laville deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della
data libertà, il tenessero bene edificato, ed esplorassero qual fosse il
suo pensiero intorno alle sorti future del Piemonte. S'appresentarono
anche per mandato espresso al conte Balbo, perchè si era udito dei
denari mandati dal re al suo ambasciadore, del conto del ricevuto denaro
richiedendolo. Rispose, al re solo potere e volere render conto; nè
volle riconoscere le mutazioni fatte in Piemonte. Fu l'intromessione del
conte Balbo molto utile al re in Parigi, nè bisogna giudicare
dell'operato dall'evento; perchè i tempi troppo furono contrari, e se
corruppe alcuno con denari, il che non è da lodarsi, maggior biasimo
meritano coloro, che si lasciarono corrompere. Non era alieno il conte
dall'amare un reggimento più largo, ma più per ragione che per indole,
perchè per questa amava piuttosto i reggimenti stretti: non credeva una
moderata libertà biasimevole, ma detestava con tutti i buoni il modo,
col quale in Francia si era voluto recare ad effetto. Del resto uomo
d'ingegno non mediocre, letterato di valore, dotto anche in materie
scientifiche, affezionato alle lettere Italiane, amico ai letterati,
amatore del giusto, conoscitore della natura umana, erano in lui tutte
le parti, che in chi s'ingerisce nello stato si richieggono, se non
forse una grande pertinacia non le guastava, quando però non si voglia
credere, ch'ella, come spesso la sperienza dimostra, sia anche una delle
buone. Questa tenacità medesima usava nella comune vita, e perciò le sue
affezioni, come le avversioni, fondate o no, erano indomabili.
Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò
vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione fu
sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che si
era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di
nobiltà, e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.
Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti Piemontesi, si
moltiplicavano, e s'inasprivano. Chi voleva esser Francese, chi
Italiano, chi Piemontese. I primi argomentavano dalla servitù delle
repubbliche Italiane, dalla potenza della Francia, dalla vicinità dei
luoghi; i secondi dalla bellezza del nome Italiano, dalla lingua, e dai
costumi; i terzi dall'antichità, e dalla fama dello stato Piemontese,
dagli ordini suoi tanto diversi da quei di Francia e d'Italia, dal suo
esercito tanto valoroso, che si conveniva conservare col proprio nome.
Si viveva in queste incertezze, quando arrivava da Parigi l'avvocato
Carlo Bossi, uno degli eletti al governo. Risplendeva in Bossi una
natura molto nobile, benevola, amica all'umanità. Per questo gli piaceva
la libertà, perchè gli pareva, che al ben essere dell'umanità
conferisse. Ciò nondimeno per la qualità dell'animo amava egli piuttosto
il tirato. Aveva a vile la loquacità, e le sfrenatezze dei democrati di
quei tempi, perchè s'accorgeva, siccome quegli che nelle faccende di
stato era di giudizio finissimo, e forse unico al mondo, ch'esse non
potevano condurre a niun governo buono, e manco ancora al libero. Del
resto, quantunque alcuni amatori di libertà l'avessero per sospetto,
parendo loro ch'egli amasse piuttosto il comandare che l'obbedire, se si
vuol fare stima di lui, come uomo privato, nissuno amico più tenero de'
suoi amici, nissun uomo più retto, o più generoso di lui si potrebbe
immaginare. Non dirò del suo ingegno piuttosto mirabile che raro, perchè
è noto a tutta Italia, e gli scritti suoi ne faranno ai posteri perpetua
testimonianza. Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da
Taleyrand e da Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio
voleva fare del Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse
l'essere congiunto con chi comandava, che con chi obbediva, si era
deliberato a proporre in cospetto del governo il partito dell'unione
colla Francia. Seguì tosto l'effetto, perchè avendo favellato con
singolare eloquenza, e confermato il suo favellare con raziocinj
speciosissimi, perciocchè nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo,
vinse facilmente il partito, non avendovi nissuno contraddetto, perchè
alcuni non vollero, altri non seppero, stantechè la proposta era
inaspettata. Accettatosi dal governo il partito dell'unione, furono
tentati al medesimo fine i municipali di Torino. Vi aderirono
volentieri. La deliberazione della capitale fu di grandissima
importanza, perchè essendo conforme a quella del governo, facilmente
tirava con se tutto il paese. Si mandarono commissari nelle province a
far gli squittini per l'unione. I popoli non l'intendevano, e certamente
ripugnavano. Ma l'autorità del governo, e la presenza dei Francesi
facevano chiarire i magistrati in favore. I più sospetti di avversione
allo stato presente si scopersero i primi favorevolmente: vescovi,
abbati, canonici, preti, frati sottoscrissero la maggior parte per il
sì: parve partito vinto generalmente. Mandavansi a Parigi per portar i
suffragi Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato
valore, e di gran fama in Piemonte; ma vissuti discordi in Parigi,
produssero discordia nella patria loro.
Questa risoluzione del governo, lo scemò di riputazione, perchè il
popolo non amava l'imperio dei forestieri; gl'Italiani si adoperavano
per farlo vieppiù odioso. Fantoni, poeta celebre, che all'alito delle
rivoluzioni sempre si calava, udito di quel moto Piemontese, si era
tosto condotto nel paese, e quivi faceva un dimenare incredibile contro
il governo, e contro la sua risoluzione, qualificandola di tradimento
contro l'Italia. Insomma tanto disse e tanto fece, che fu forza
cacciarlo in cittadella. Certamente Fantoni amava molto l'Italia, ma
egli era un cervello così fatto, che se fosse stato lasciato fare, il
manco che le sarebbe accaduto, fora stato l'andar tutta sottosopra.
La risoluzione di volersi unire a Francia fu, non cagione, ma occasione
di un moto più feroce e ridicolo, che nobile e pericoloso nella
provincia d'Acqui. Vi si spargevano voci, non già per ispirito Italico,
ma per avversione allo stato nuovo, che unirsi a Francia era un perdere
la religione, che grandi eserciti marciavano a liberare l'Italia dai
Francesi, che in ogni lido seguivano sbarchi di gente nemica a Francia.
Rivalta, terra piena d'uomini armigeri, si levava a romore, cacciava il
commissario; per poco stette, che non l'uccidesse. Strevi seguitava con
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 05
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