Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 07

Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta vittoria aspettavano di
tutto il Piemonte. Era stato l'indulto pubblicato in Torino il lunedì
secondo giorno di luglio, ed il giorno seguente erano i Francesi entrati
nella cittadella.
La mattina del cinque molto per tempo uscivano i sollevati in numero
circa di mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Francesi, che
presidiavano la piazza, facessero alcun motivo per impedirgli,
marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta
alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto
pericolosa, se Solaro governatore di Alessandria, non avesse avuto
avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il
quale per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era
consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa
Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla
Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti, e cento
cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati da
Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto avverso
ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo effetto;
imperciocchè uscendo i regj alla impensata dall'agguato, e con repentino
remore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani, che a
tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, gli ruppero facilmente
togliendo loro due cannoni, e bestie da soma cariche di non poche
munizioni. I soldati regj, salvo nel primo impeto della battaglia, si
portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e gli arrendentisi: ma
si erano a loro mescolati gli abitatori della Fraschea, gente fiera di
natura, ed avversa al nome Francese, ed a coloro che l'amavano. Costoro
crudelmente procedendo, ammazzavano e spogliavano chiunque veniva loro
alle mani. La crudeltà loro era venuta in abbominio agli ufficiali, ed
ai soldati regj, che si sforzavano, sebbene con poco frutto, di moderare
il loro furore. Nè la barbarie si ristette alla battaglia: nella sparsa
e precipitosa fuga essendosi i vinti repubblicani nascosti, chi qua chi
là per le selve, pei vigneti, e per le campagne feconde di biade, erano
spietatamente ed alla spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni
momento si udivano per quei luoghi folti, spari annunziatori della morte
dei repubblicani. Durò ben due giorni questa piuttosto caccia, che
battaglia, e piuttosto carnificina, che uccisione. Perirono seicento:
morì fra loro uno Scala, giovane di natali onesti e di molta virtù, e
che non ebbe altro difetto, se non di opinioni false, ed esagerate in
materia di libertà.
Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto per far
rivoltare gli stati del re. Allegossi, avere lui a bella posta indugiato
sino ai sei del mese a pubblicare i suoi ordini per la risoluzione delle
masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin dal giorno dell'accordo
fatto con San Marsano si era obbligato. Fu accusato Menard dell'avere
incitato con promesse di aiuto delle sue genti i sollevati, poi
dell'avergli traditi col rivelare al governo regio tutto ciò che
macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco di quei tempi,
se si considera la natura di Menard. Certo è bene, che gli ufficiali,
che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard, spendevano presso ai
sollevati il nome loro per far credere, che questi due generali
secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto a Brune, egli è
certo, che con parole forti e sdegnose risolutamente negava ogni
partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo regio
dell'avere, dopo di aver per forza consentito all'indulto, in tale modo
ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare a suo
piacere il sangue a copia, ed affermossi, che il governator
d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della
qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da
questo, che l'indulto pubblicato ai due in Torino, non fu pubblicato se
non ai sei in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni; colpa,
dicevano, del governatore, che aveva sete di sangue. Scrissene molto
risentitamente Ginguené a Priocca. Rispondeva risolutamente il ministro,
che anche alle orecchie sue erano pervenute certe cose pur troppo
dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere, perchè il picciol corpo
dei sollevati si fosse con tanta confidenza condotto tanto avanti, e che
se in questa faccenda vi era perfidia, certamente con era dalla parte
degli agenti del re; parole terribili, e pregne di cose molto sinistre.
Poscia aggiungeva, che troppo infame esorbitanza era quella di
calunniare un uomo tanto savio, qual era il governator d'Alessandria,
uomo del quale tanto si erano per le sue virtù lodati tutti i commissari
Francesi; che pur troppo assurdo era l'imputargli l'indugio della
pubblicazione dell'indulto in Alessandria, stantechè negli ordini del
Piemonte ai governatori non s'appartiene il fare tali pubblicazioni; che
l'unica e vera cagione dell'indugio era nello avere spedito da Torino il
manifesto per lo spaccio ordinario, che partiva il mercoldì quattro del
mese, giorno appunto precedente a quello, in cui i sollevati si erano
mossi al tentativo; che del rimanente, e per certo non ignoravano essi
l'indulto, del che si offeriva a dare pruove autentiche ed
irrefragabili; che infine non poteva restar capace, come si potesse aver
per male, che una popolazione fedele e minacciata d'aggressione avesse
prese le armi per la difesa comune.
L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti
repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati e le promesse,
essere cagione di concordia fra le due parti, e di sicurtà pel Piemonte,
partorì al contrario maggiori sdegni, e per poco stette, ch'ella non
facesse sorgere una sanguinosa battaglia tra i Francesi ed i Piemontesi
nel grembo stesso della real Torino. Solevano i Francesi sul battere
della diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la
città, ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenevano neanco
da quelle, che tutto il mondo conosceva essere state composte in
ischerno, e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione.
Mescolavansi in mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi
non conoscesse i tempi, nella cittadella medesima voci, e motti
ingiuriosi al re. Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale
Collin, il quale, siccome quegli che faceva professione di repubblicano
vivo, e teneva pratiche coi novatori, che ad ogni ora lo infiammavano,
si mostrava molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste
intemperanti dimostrazioni. Ne nasceva, che ogni sera accorrevano da
tutte le parti ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per
scioperìo, i novatori per disegno, e si faceva calca presso alle mura
della cittadella. Il governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla
salute del regno, mandava soldati per prevenire ogni scandalo; ma essi,
udendo il vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima
rabbia si concitavano, ed a mala pena potevano frenar se stessi, che non
venissero ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano le ire
soldatesche, ed un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul
Piemonte. Il marchese Thaon di Sant'Andrea, governatore, aveva con
iterate istanze pregato Collin, acciocchè si astenesse da usi tanto
pericolosi. Rispondeva il repubblicano, ora negando parte dei fatti, ora
allegando, che pure i repubblicani dovevano suonare le loro arie
repubblicane, come i regj le regie. Le tresche continuavano, il pericolo
cresceva. In questo estremo caso scriveva Priocca a Ginguené il dì
quindici settembre, che la sera dei quattordici, oltre la solita musica,
si eran fatte sentire parecchie volte dalla cittadella grida indecenti,
ed ingiuriose alla persona del re; che il governo guarentiva la quiete
di Torino, se non si provocasse il popolo; ma che, se con nuovi stimoli
se gli stesse continuamente ai fianchi, se ogni sera se gli desse
occasione di far calca, non poteva più promettere alcuna cosa, e
l'ambasciadore sarebbe tenuto dei funesti accidenti che ne
seguiterebbero.
Rispose l'ambasciadore, che non rifiutava il carico, ma che bene si
maravigliava dello stile dello scritto; che del rimanente l'aveva
comunicato a Collin. Dal che si vede, che i repubblicani di quei tempi,
che con solenni scritture chiamavano quasi ogni giorno il governo
Piemontese crudele, traditore e perfido, non potevano poi, per la
superbia loro, sopportare, che il governo medesimo, le cose col proprio
nome chiamando, gli avvertisse, e gli imputasse dei pericoli, ch'essi
stessi evidentemente eccitavano.
L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti:
appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il sedici
settembre, o che fosse sola imprudenza giovanile, o disegno espresso,
come si credè con maggior probabilità, dei novatori, massimamente di
quei più arditi, che dipendevano dal fomite Cisalpino, si venne ad un
fatto mostruoso, che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò, che
di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meriggiane una
vergognosa, e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una tratta
di tre carrozze, nelle quali si trovavano femmine vivandiere travestite
alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali ammascherati ancor essi
alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri, con grandi
parrucche, con borse nere ai cappelli, con lunghe spade con l'else
d'acciaio, pure nere, e con piccoli capelli sotto braccio, tutto alla
foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati parimente
all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più evidente,
precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con bacchette di
corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro ussari Francesi,
comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali mascherati il
vicegerente, ed il segretario di Collin. Andavano attorno per tutti i
canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i corrieri con
mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar davanti le
brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San Salvario sulla
passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava divotamente
intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli ussari,
crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza gran romore, i
circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di sdegno.
Posta in tale guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto indecente
della corte, e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere
imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era la
solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a guisa
di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi
trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie donne,
affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze della
mascherata: al tempo medesimo gli ussari menavano piattonate forti a
tutti, che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso dalla
cittadella suonava, e risuonava. Allora non vi fu più modo al furore,
che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero in
Torino, o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del tutto a
discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno alla sua
regia sede; il che come disegno sinistro gli fu poscia imputato dai
repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi
moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva; i
soldati Piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare,
accorrevano a furore; alcuni soldati Francesi restarono uccisi. Lo
spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I
Francesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi,
e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano
armati, e pronti a far battaglia contro i regj. Una estrema ruina
sovrastava, presente il re, alla reale Torino.
In questo punto (tanto fu il cielo propizio in mezzo a quel furioso
tumulto, ai fati del Piemonte) il generale Menard, che non per ufficio,
ma per accidente si trovava a Torino, veduto, che se più oltre si
procedesse, vi andava in quel fatto la salute dei Francesi, la salute
dei Piemontesi, correva in mezzo a' suoi, comandava a Collin, che non si
muovesse, e con le sue esortazioni, con le sue minacce, con l'autorità
del suo grado tanto operava, che fece fermare, e tornare in cittadella i
repubblicani, impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e
frenò un impeto, il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe
stato funestissimo. Il governatore non tralasciò ufficio, perchè il
furore improvviso dei soldati Piemontesi si raffrenasse, e diede ordini,
perchè se ne tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale
del Piemonte dalla generosità di Menard, e dalla moderazione di Thaon di
Sant'Andrea.
L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava
villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso
dell'accidente, prima da alcuni uomini fidati, poscia dal governatore,
il quale già innanzi che da Menard a ciò fare fosse invitato, gli aveva
mandato per sua sicurezza una banda di soldati. Il ministro Priocca il
mandava pregando, che ritornasse tosto, della sicurtà di lui, e di tutta
la sua famiglia promettendo. Tornato l'ambasciatore la sera del medesimo
giorno, da quell'uomo diritto, e dabbene che egli era, quando non era
sviato dai soliti fantasmi, si dimostrò molto sdegnato contro Collin,
condannando con forti parole la sua condotta, e la schifosa mascherata.
Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella, e
surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo Piemontese,
che vedeva ad un uomo rotto e dipendente dai novatori, surrogato un
generale, che non amava le rivoluzioni, e non si dimostrava alieno dal
favorire la sicurezza del paese. Queste cose faceva Ginguené sano; ma
aggirato di nuovo dai novatori, tornò sul suo male, ed ingannandosi
novellamente incolpava il governo regio di congiura per ammazzare tutti
i Francesi il giorno stesso, che si era fatta la mascherata, come se
ella, e le insolenze, e gl'insulti fatti dagli ussari e dai corrieri,
che l'accompagnavano, fossero stati opera non di Francesi, ma di gente
che gli volesse ammazzare. Ma a queste considerazioni non ristandosi, e
trasportando le congiure da coloro che le facevano, in coloro contro i
quali si facevano, e troppo facilmente condiscendendo ai desiderj di
Brune, di nuovo tormentava Priocca. Addomandava con insolente instanza,
che il re licenziasse tutti i suoi ministri, e nuovi ne creasse in luogo
loro: voleva specialmente, che togliesse la carica a Thaon di
Sant'Andrea, al conte Revello suo figliuolo, governatore d'Asti, l'uno e
l'altro qualificando, come Nizzardi, di fuorusciti di Francia. Ancora
voleva, che il re dismettesse il conte Castellengo, vicario di Torino,
ed un David, impiegato di lui, uomini, secondo che allegava, autori di
quella orribil trama di assassinamenti di Francesi. Tacque di Priocca,
perchè parlava a lui. Lo sforzare un re non solo independente ma
eziandio alleato, ad allontanare da se i suoi servitori più fedeli, con
qualificargli anche di capi d'assassini, è un atto di cui solo si
trovano esempi nei tempi sregolati, che sono il soggetto delle presenti
storie. Essendo caso d'importanza, il ministro Priocca richiese
l'ambasciatore di abboccamento; accordaronsi, si farebbe in casa di
Francia. Il ministro vi si condusse: si confortava col pensiero di non
mancare nè di fede, nè di costanza al suo signore. Incominciò a dire,
che, quanto a lui, molto volentieri darebbe luogo, e la sua licenza
chiederebbe, se credesse ciò aver a ridondare a soddisfazione dei
Francesi, ed a quiete del regno, che a parte delle faccende pubbliche
era venuto non richiedente, le abbandonerebbe non mormorante, che
nissuno meglio di lui sapeva, quanto dolorosa cosa fosse il servire in
quei tempi; che non ostante, non l'amarezza dell'ufficio, ma l'utile
della sua patria, e la salute del regno, se ciò richiedessero, il
farebbero ritrarre; che costanza aveva sufficiente per sopportar ogni
peggior male pel sovrano, ambizione non sufficiente per volere star in
carica contro gl'interessi del suo paese; che quanto alle domande
d'esclusione, perchè potesse farne proposta, era necessario, che non
generali parole, ma fatti precisi si adducessero. Ginguené rispondendo,
tornava sulle coltella, sugli stiletti, sugli assassinj: insisteva
massimamente sulla necessità di allontanare dai consigli, e dal Piemonte
Thaon di Sant'Andrea, e tutti i suoi figliuoli, come fuorusciti di
Francia. In questo punto successe un accidente, e fu, che Marivault
segretario della legazione, improvvisamente uscendo da una porta
segreta, e nella stanza, dove i due ministri Francese e Piemontese
negoziavano, entrando con un gran viluppo in mano di coltelli e di
stiletti, sulla tavola con irato piglio gittandolo, ed a Priocca
rivolgendosi, _guardate_, disse, _se non vi sono coltelli, e se non sono
stati distribuiti; poi dite, che le accusazioni sono fondate in aria_. A
questo atto del quale, il minor male, che si possa dire, è, che fu una
commedia molto ridicola, rise di disprezzo, e di sdegno Priocca:
Ginguené prima vergognoso si tacque: poi a Marivault voltosi, gli disse,
_andatevene, e portatevene le coltella; che qui non si tratta di
coltella_. Portate via le coltella da Marivault, le quali come
pruovassero, che il governo Piemontese facesse con ordini espressi
ammazzare i Francesi con le coltella sulle strade, Dio solo il sa,
ritornarono l'ambasciadore, ed il ministro sul negoziare. La somma fu,
che non potè il primo allegare fatti precisi, o pruove del suo dire.
Promise non ostante il secondo di farne rapporto; con temperate, ma
efficaci parole dolendosi, che di continuo il governo regio, come
instigatore, e pagatore di assassini, e la nazione Piemontese, come una
banda di assassini si rappresentassero.
Parlato col re, rispondeva da parte sua Priocca, che il ministro
Taleyrand, favellando col conte Balbo, ambasciatore a Parigi, aveva
detto che il governo Francese non desiderava scambio nei capi del
Piemontese; che del resto nè Sant'Andrea, nè i suoi figliuoli erano
fuorusciti di Francia, e che gli altri magistrati, di cui si addomandava
la rimozione, non solamente non erano colpevoli di quanto loro
s'imputava, ma che ancora erano stati operatori, che fosse stata in
Piemonte salvata la vita a molti Francesi: che perciò il re non voleva
far cambiamenti, poichè non gli poteva fare con giustizia.
Dalle precedenti narrazioni si raccoglie, che le cose tra l'ambasciatore
di Francia, ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè
alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava
Ginguené presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da
un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente
instava, acciocchè chiamasse Ginguené. Questi chiamava Balbo spargitor
d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo, e pericoloso di
tutta la lega Europea contro Francia. Balbo chiamava Ginguené uomo
buono, e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno di
fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle folìe, ed alla
calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di penna
intemperante, e di natura tale che non lasciasse pur respirare un
momento quel governo, che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo
mentre le novelle della mascherata, e della domanda fatta da Ginguené
della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente, e con molta
instanza Balbo dei due accidenti, come già si era prevalso della domanda
della cittadella. Per la qual cosa giuntovi eziandio, che Taleyrand
sapeva, che la nuova confederazione contro Francia si preparava, ma non
era ancor matura, e però voleva allontanar le cagioni di nuovi scandali,
prevalse l'ambasciador Piemontese. Fu Ginguené, per decreto del
direttorio dei ventiquattro settembre, richiamato dalla sua carica
d'ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza
lettere, che letterato, amatore dei letterati, e di natura dolcissima,
ma non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria
in tempi tanto tempestosi.
Desiderava Ginguené, prima di tornare in Francia, visitare l'Italia,
perchè già insin d'allora pensava all'opera, che con sì bell'arte, e
tanto plauso dei buoni scrisse poi della storia letteraria d'Italia.
Brune, che in mezzo agli sdegni ed alle abitudini soldatesche, amava ed
accarezzava i letterati, gli offeriva denaro per far il viaggio; ma poco
tempo dopo, essendo stato scambiato con Joubert, non potè Ginguené
mandar ad effetto il suo intendimento, e tornossene direttamente in
Francia. Fu Ginguené uomo, non solo di probità apparente, la quale non è
altro che ipocrisìa, ma di probità vera, austera e reale: aveva l'animo
benevolo, e volto alla vera filosofia, amatrice degli uomini. La mente
sua ornavano le lettere, non poche e superficiali, nè quali si trovano
sulle lingue facili dei frequentatori delle compagnevoli brigate; ma
vaste e profonde; nè in lui alcuna cosa lodevole, ed egregia si sarebbe
desiderata, se in età meno pazza, ed in tempi meno strani fosse vissuto.
Ma i tempi l'ingannarono, siccome tanti altri puri e sinceri uomini
ingannarono, rimastisi al velame delle cose, non penetranti nella
sostanza; imperciocchè amava Ginguené la vera e buona libertà, ma errò
col credere che là fosse, dov'era il suo contrario; e siccome fra le
altre sue qualità aveva la fantasìa ardente, e l'opinione tenacissima,
non solo nell'error suo persisteva, ma in lui vieppiù sempre
s'internava, credendo costanza quello, che era ostinazione. Certo, ei fu
sincero nel suo inganno, e di esso si dee piuttosto compassionare, che
rimproverare. Bene quest'inganno medesimo il fece trascorrere in termini
molto biasimevoli contro il governo del re di Sardegna; ed io, che fui
suo amico, e che dell'amicizia sua mi onoro e pregio, non ho nè potuto,
nè voluto astenermi dal raccontar le azioni sue, come ambasciadore, non
secondo l'affezione, ma secondo la verità. Bene altresì dico e protesto,
che, se si eccettua la sua ambasciata di Piemonte, Ginguené fu uno degli
uomini, dei quali più debbe l'età nostra ed onorata e fortunata tenersi.
Già altri fatti si apprestavano all'Italia. Non ignorava il direttorio,
che di nuovo contro di lui si collegavano i principi, e si riforbivano
le armi d'Europa. Tuttavia, avendo il suo miglior esercito, ed il
miglior capitano in lidi lontani, le finanze in condizione povera e
sregolata, l'esercito Italico pieno di mala contentezza, se ne andava
temporeggiando, e migliori condizioni aspettando; che se di nuovo gli
era necessità di correre all'armi, voleva almeno non far la parte di
aggressore: aspettava, che lo assaltassero. Dal canto suo l'Austria
attendeva, che arrivassero sui campi, in cui si doveva combattere, i
soldati di Paolo imperatore. In questo stato dubbio venne ad accelerar
le sorti la subita presa d'armi del re di Napoli. Da questo fatto non fu
malagevole al direttorio l'accorgersi, che il terrore delle sue armi era
molto intiepidito nella mente degli uomini, e che la gran macchina, che
si andava apprestando contro di lui, era, più che non aveva creduto,
vicina a scoppiare. Non gli pareva dubbio, che il re Ferdinando non si
sarebbe deliberato ad affrontare tutta la mole della repubblica di
Francia da se solo, se non avesse avuto speranza di pronti e grossi
soccorsi. Adunque bene considerate tutte queste cose, e poichè non
poteva non far guerra a Napoli, stantechè Napoli la faceva a lui, e
dubitando di un subito assalto dell'Austria sulle rive dell'Adige e
dell'Adda, perciocchè gli Austriaci occupavano il paese de' Grigioni,
deliberossi di assicurarsi almeno alle spalle con impossessarsi del
tutto del Piemonte, che fu sempre stimato dai Francesi scaglione
opportunissimo a salire alla signoria d'Italia. Inoltre ei si era
persuaso, che l'amicizia di Sardegna fosse mal sicura, e dubitava, che
ove le genti repubblicane, o venissero alle mani con l'Austria sui
territorj Veneti, o s'affrontassero coi Napolitani sullo stato Romano,
il re, facendo una mutazione improvvisa desse, coll'accostarsi ai
confederati, il crollo alla bilancia. Sapeva il direttorio le ingiurie
fatte a Carlo Emanuele, sapeva l'oppressione, sotto la quale era stato
tenuto, e il dolore del perseverare in tante molestie; perciò non
dubitava, ch'ei non pensasse a risorgere ed a vendicarsi. Alla quale
opinione tanto più volentieri si accostava, quanto più il re aveva
perduto la speranza, per la forma definitiva data alle repubbliche
Cisalpina e Ligure, e per la protezione di Spagna verso Parma, di essere
ricompensato della Savoja e di Nizza. Che nel più intimo del cuore il re
non amasse il governo di Francia, era cosa piuttosto certa che
verisimile, ma che di fatto macchinasse contro di lui, che tutta la sua
salute non avesse posta nell'amicizia di Francia, che non fosse fedele
ai patti giurati con lei, che alla prima mossa d'arme non fosse per
congiungere con debita fede le sue genti a quelle della repubblica,
nissuno, che di sana mente sia, sarà mai per affermare. Dalle quali cose
conseguita, che quand'anche cauta si potesse stimare la risoluzione, che
fece il direttorio di dichiarar la guerra, e di torre lo stato al re di
Sardegna, certamente non si potrà affermare, che non sia stata iniqua,
perchè questo principe nè ruppe fede a Francia, nè era per romperla, nè
nissuna congiunzione segreta aveva con Napoli; e manco ancora con
l'Austria.
Mentre con maggiori dimostrazioni di fede e di amicizia era
l'ambasciadore Balbo accarezzato da tutti i ministri, e massimamente da
Taleyrand in Parigi, mandava il direttorio il generale Joubert in Italia
con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoja, e di far
rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo, che i
tempi stringevano, non frappose indugio al mandar ad effetto ciò, che
gli era stato commesso. Ma prima di venirne ad una deliberazione del
tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Musnier con ordine di
richiedere il re, che desse incontanente i diecimila soldati, ai quali
era obbligato per trattato d'alleanza, e gli mandasse a congiungersi coi
Francesi, ed oltre a ciò che rimettesse in mano di lui l'arsenale di
Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella
città stessa, e vicino alla cittadella.
Rispose, che darebbe incontanente i diecimila soldati: mandò il giorno
stesso della richiesta gli ordini, perchè si adunassero; spedì un
ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al modo
del marciare dell'esercito Piemontese verso il Francese, e del vivere, e
del servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse,
non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato
d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo a posta, affinchè questo
emergente si accordasse col direttorio.
Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe
contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello che
gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva che la
possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei
repubblicani. Perlocchè il generalissimo vi mandava a governarla il dì
venzette novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, che era
stimato od abborrente per natura da sì gravi ingiurie, o non alieno dal
favorire gl'interessi del re. Aveva Grouchy da Joubert il mandato di
fortificar vieppiù la cittadella, di fornirla di munizioni, di
moltiplicar le artiglierie sulla fronte che guarda la città: sperava,
che col terrore potrebbe indurre il governo Piemontese a venire a
qualche accordo. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per se
stesso, senza che si venisse all'esperimento delle armi. Ora che dirà la
posterità di quello sdegno di Ginguenè, solo al pensare, quando
addomandava la cittadella di Torino che il re potesse sospettare, che i
Francesi fossero per abusare della possessione di lei contro di lui, e
di quel gridare, e di quel lamentarsi che faceva, che un tale sospetto