Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 06
Sottin, segretamente e palesemente gli fomentavano. Tuttavia, non
volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era
deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo
estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio,
poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi,
aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano
potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della
repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il
territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che
quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come
neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i
nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar
loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o
dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio
stesso, ch'ella dava a' suoi nemici.
Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo
prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di
allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti.
Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad
ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più
condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure
per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che
per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e
svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero
Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono
quelli dei ministri di altre potenze.
Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il
mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano
d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche
perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator
di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i
sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar
quiete a' suoi stati.
Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al
ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo,
fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse
possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure;
la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi
accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non
solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i
ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare,
e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il
suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi
territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di
passare.
Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non
si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice,
almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la
ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio
ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un
principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un
territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col
passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere
dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non
aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una
e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la
violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato
il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio,
e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza,
munirono di guardie tutte le alture circostanti.
A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si
risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che
stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò
ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo
di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual
nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole,
anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo
che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della
repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose
gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori.
Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto
più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire
alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era
piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo
il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che
fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele.
Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené
voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima
instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo
degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva
proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di
pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in
mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le
ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non
dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a
Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese,
non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia,
o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che
le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj
Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non
cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori
Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un
violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i
Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti
signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono
condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo
nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte
allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di
Sardegna, montarono al colmo.
Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a
quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille
spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo
di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una
feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che
già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte
si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative
predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco
covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era
l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica
Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di
Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato
d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali
quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le
macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il
parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in
ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si
ordisse contro Francia.
A così gravi accusazioni rispondeva il ministro, non per persuadere
l'ambasciador di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole, ma per
purgare il suo signore delle note che gli si apponevano, che bene si
maravigliava, che s'imputassero al re i preparamenti, o veri o
immaginari, di Napoli o dell'Austria, poichè sua maestà non aveva alcuna
intima congiunzione con Napoli, nissuna con Toscana; che assai
freddamente se ne viveva coll'Austria; che di ciò poteva far
testimonianza Bernadotte, ambasciatore di Francia a Vienna; che
l'Austria aveva in Torino solamente un incaricato d'affari temporaneo,
quasi senza carattere pubblico; che quanto alle congiunzioni recondite,
e quanto ai corrieri, ed altri mandatari segreti, poteva con una sola
parola rispondere, cioè che tutto era falso, e che sfidava l'ambasciador
di Francia alle pruove; che ne seguitava, non essere in alcun modo il
Piemonte partecipe di quanto accadesse negli stati monarcali d'Italia,
ed essere del tutto assurdo, ch'ei partecipasse nelle cose del Nord; che
non era mai stato obbligo di niuna potenza di derogare alle amicizie con
altre potenze, nè di cacciare i loro agenti, solo perchè con una potenza
amica di quella avevano guerra; che risultava dal trattato d'alleanza,
avere il re facoltà di conservare appresso a se i ministri delle potenze
nemiche della Francia; che la presenza loro in Torino era un mero
cerimoniale senza importanza alcuna; che Stakelberg, ministro di Russia,
che Jacson ministro d'Inghilterra non avevano forse due volte in un anno
fatto ufficj al governo, e questi ancora per cose di nonnulla: che
potevano pel Piemonte fare la Russia, e l'Inghilterra così lontane? «Che
volesse pur il cielo, sclamava Priocca, che denaro ci potessero dare!
che ci verrebbe ad un bel bisogno; il che Ginguené ottimamente sapeva;
ma che bene l'Austria e la Russia avevano altri usi a fare del denaro
loro, che quello di darlo a chi nulla poteva per loro». Che finalmente
per favellare dei fuorusciti, dei preti, dei magistrati, degl'impiegati,
o erano falsi i rapporti, od opere d'uomini privati, che siccome dal
governo non procedevano, così non potevano ragionevolmente dar
fondamento di giudicare sinistramente di lui, nè impedire, ch'ei potesse
sostenere in cospetto d'Europa di aver sempre conservato fede inviolata
ai trattati; che pertanto il governo regio si trovava innocente di tutti
i carichi che gli si davano, non con altro fine, che con quello di
perderlo. Concludeva il ministro, che sarebbe stato meglio, e più
onorevole per la Francia lo spegnerlo, che il martirizzarlo.
Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro degli affari
esteri di Francia a Ginguené, che manifestavano uno sdegno grandissimo
pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati: essere, scriveva il
ministro, la crudeltà del governo Piemontese nel suo colmo; i mezzi di
dolcezza e di persuasione non potersi più usare; voler riferire al
direttorio lo stato del Piemonte; non dubitare, ch'egli fosse per
abbracciare i consigli di Ginguené; voler proporre per condizione prima,
che si allontanasse il conte Balbo, il quale col rendere sicuro il suo
governo, il portava a commettere tutti i delitti, di cui era Ginguené
testimonio, ed a credere che sarebbero impuniti. Pure il conte non fu
mandato via; perchè o il ministro non propose, il che io credo, o il
direttorio non accettò la risoluzione dell'allontanarlo, sicchè continuò
a starsene in Parigi insino alla ruina totale del regno.
In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguené venuti alle strette
per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per
pacificare il Piemonte voleva, che si concedesse ai sediziosi. Avrebbe
l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca, che
aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo Francese
esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne con
Ginguené nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse
solamente i delitti politici anteriori, e non gli estranei alla
sedizione; non guardasse nel futuro, ed in modo alcuno non impedisse il
governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in
terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo
due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto
alcuno ripigliassero le armi contro il re.
Brune, al quale Ginguené aveva annunziato le condizioni dell'indulto, e
che evidentemente mirava più oltre, che alla servitù del re verso
Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando,
voleva, che si domandasse la consegnazione, quale deposito, in mano dei
Francesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre, che il re
licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di
Carrosio, e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla
cittadella, domandassela Ginguené, e se la domanda gli ripugnasse,
domanderebbela egli. Per tal modo a quel soldato repubblicano pareva,
che lo spogliare il sovrano del Piemonte dell'ultima fortezza, che gli
fosse rimasta, che il voltar le bocche dei cannoni della repubblica
contro la sua stessa reale sede, che il torgli per forza i servitori più
fedeli, che lo sforzarlo a dare un compenso alla repubblica Ligure per
avere, lei fomentato i suoi nemici, e corso armatamente contro di lui,
fossero cose di poco momento, e da domandarsi con un girar di discorso.
Non abborrì l'animo di Ginguené da sì insolente proposta, dalla quale
nondimeno avrebbe potuto facilmente esimersi, stantechè il generale, si
offriva a far da se. A questa moderazione avrebbe dovuto tanto più
volentieri attenersi quanto più gli era pervenuto comandamento espresso
da Parigi di non aggravar le condizioni, e di stipularle tali quali il
governo gliele aveva mandate. Ma siccome aveva molta fede in Brune, ed
era continuamente aggirato dai democrati, consentì a quello, da che ed
il carattere suo d'ambasciadore, e la sua qualità d'uomo civile lo
avrebbero dovuto stornare. Insistè adunque con apposita scrittura
appresso al ministro Priocca notificando, che Brune si era risoluto a
non accettar le condizioni. Aggiunse di proprio capo, che i Liguri
gridavano vendetta per le ingiurie sì recenti che antiche; che i
Cisalpini erano pronti ancor essi a correre ai risentimenti; che dai
Liguri e dai Cisalpini avevano i sediziosi soccorsi di consiglio, d'armi
e di denaro; che già cresciuti di numero e di forze minacciavano il
cuore del Piemonte; che le campagne erano in armi, che il fanatismo
spingeva i contadini ad ammazzare i Francesi; che i fuorusciti di
Francia, ed i nobili del Piemonte ammassavano genti per correre contro i
Francesi, che ogni cosa vestiva sembianza da nemico, ogni cosa mostrava
odio irreconciliabile, ogni cosa prenunziava la guerra; che in tale
condizione di tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire
una sicurtà era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che
questo gran preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per
ogni lato, dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte
appianerebbe la strada a buona concordia; che i democrati armati
deporrebbero le armi, vedendo l'indulto guarentito da tale atto;
poserebbero la Cisalpina e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete
dello stato stabilmente confermata. Quale difficoltà, quale timore
potrebbe opporsi a sì sana risoluzione? Forse il timore, che i Francesi
di questa nuova condizione fossero per abusare, per non adempire i patti
dell'alleanza fin'allora tanto scrupolosamente da loro osservati? Avere
testè salvo ed incolume il Piemonte, un grosso esercito repubblicano
attraversato questo paese: temere, che i Francesi vogliano abusare della
possessione della cittadella contro il governo Piemontese sarebbe far
ingiuria alla repubblica Francese; che se i Francesi nodrissero tali
pensieri, non avrebbero, per mandargli ad esecuzione, bisogno della
cittadella; sperare pertanto, concludeva, sperare l'ambasciatore,
sperare il generale, che per l'amore e per la stabilità della pace
consentirebbe il re alla consegnazione della cittadella; dal quale atto
ne seguiterebbe incontanente, ch'egli con ogni più efficace mezzo, e con
intatta fede procurerebbe la pace, e la quiete del Piemonte.
Persistettero Ginguené e Brune nel volere la cittadella, sebbene il
ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore, che le
condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la
sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo Francese, stante le
disposizioni d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò
richiedevano dalla Francia; che per questa cagione, e per avere Sottin
trasgredito questi ordini, l'aveva il direttorio richiamato da Genova, e
soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. Infatti
era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso nello
spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla quale
deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le sue
instanze e diligenze il conte Balbo a Parigi.
A così strana domanda, si commosse il governo Piemontese, e già certo
del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere
felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò
primieramente il marchese Colli a Milano, affinchè facesse opera con
Brune, che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva
all'ambasciador di Francia queste parole, che, siccome pare a noi,
potrebbero servir d'esempio ai governi ridotti agli estremi casi da chi
fa suo dritto la forza. Il terzo capitolo dell'indulto, enunziava, solo
fare difficoltà; consentire il re a rinunziarvi, quantunque ei
conoscesse essere necessario alla quiete del regno, ed alla sicurtà
personale sua, ma rinunziandovi, richiedere il governo Francese, ed i
suoi rappresentanti di giustizia; importare massimamente al re il
soggetto presente; però richiedere la Francia di giustizia: volere la
Francia procurar salute a coloro, ch'ella chiamava suoi amici;
consentire il re alla salute loro, consentire anzi, che fossero liberi
da ogni molestia: ma volere forse la Francia, che per le trame e
macchinazioni di costoro fosse continuamente il Piemonte in pericolo di
nuove turbazioni? Fosse la sicurezza del re, suo alleato, insidiata? Non
potere volerlo senza ingiuria della giustizia, senza ingiuria della
lealtà, senza ingiuria dell'interesse suo: non potere volerlo senza
taccia di connivenza nelle opere criminose loro, cosa contraria a' suoi
principj, alle sue promesse, ai patti giurati: non volere il re fare
alcun male a coloro, che avevano voluto, e tuttavia volevano fargliene,
ma dover assicurare la tranquillità del regno, la conservazione del suo
governo; avere di ciò non solo dritto, ma dovere; quanto alla repubblica
Francese, il vantaggio, ch'ella procurava a' suoi nemici, essere per lei
un obbligo di più ad interdir loro in modo positivo ed efficace ogni
tentativo ulteriore; volere e domandare, che il manifesto da pubblicarsi
per ordine del direttorio da Brune fosse accompagnato da provvedimenti
di tal sorte, che ne fossero il Piemonte ed il suo governo fatti sicuri
delle loro macchinazioni. Circa il preliminare della cittadella, che
l'ambasciador domandava per ordine di Brune, certamente dovere
l'ambasciatore medesimo di per se pensare, quanto il re ne fosse stato
maravigliato e commosso; sapere essergli questa domanda fatta senza
ordine, e contro l'intenzione del direttorio; per questo l'ambasciadore
medesimo avere appruovato, che il re mandasse un suo ufficiale appresso
al generale della repubblica per farlo capace della falsità dei
rapporti, per dimostrare la lealtà del governo Piemontese, per isvelare
la perfidia de' suoi nemici; credere il ministro debito suo essere di
osservare in poche parole all'ambasciadore di Francia, che l'armarsi
delle campagne era falso, che qualche omicidio cagionato in parte dai
disordini commessi dai soldati Francesi non pruovava un fanatismo
micidiale contro i medesimi; che non conosceva il governo, sebbene
attentamente vegliasse, ed ogni cosa sopravvedesse, un armarsi di
fuorusciti, e manco ancora di nobili, cosa del rimanente del tutto
assurda negli ordini attuali del Piemonte; che primo e principal suo
desiderio era di conoscere, per raffrenarle, queste opere ancor più
contrarie ai diritti del regno, ed alla quiete del paese, che alla
sicurezza dei Francesi; che del resto crederebbe il re far torto a se
medesimo, se giustificasse in cospetto del mondo per una condiscendenza
tanto decisiva, e tanto eminente le calunnie tanto assurde, quanto
atroci, con cui i malvagi il perseguitavano.
Brune, che fomentava le sollevazioni contro il re con pensiero di
ridurlo agli estremi spaventi, perchè rimettesse in sua mano la
cittadella di Torino, non voleva a modo niuno udire, che ella non gli si
consegnasse: ed ora spaventando con minacce di nuove ribellioni, ed ora
allettando con isperanza di quiete, se si acconsentisse alla sua
domanda, perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano
rappresentavano instantemente in contrario i ministri, che in un caso
tanto grave, ed in cui il generale non aveva avuto da Parigi
comandamento alcuno, si rimetterebbero volentieri in arbitrio del
direttorio. Si risolvettero finalmente a consentire, in ciò mostrando
una debolezza inescusabile, a quella condizione, che toglieva al re le
ultime reliquie della sua dignità, e della sua independenza. E perchè i
posteri conoscano qual fosse la natura di quel governo repubblicano di
Francia, dirò, che, non che biasimasse e castigasse Ginguené e Brune
dello aver trasgredito in un caso di tanta importanza i suoi ordini,
lodò, e si tenne cara la cittadella rapita con inganno evidente, e con
disubbidienza formale a quanto aveva loro prescritto.
Stipulavasi il dì ventotto giugno a Milano fra Brune da una parte, ed il
marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli del
quale erano i seguenti: che i Francesi occupassero il dì tre di luglio
la cittadella di Torino; che il presidio Francese di lei non potesse mai
passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e
liberamente, e quietamente potesse esercitare il suo officio, nè fosse
lecito ad alcuno insultare, o cambiare quanto si appartenesse alla
religione; che il governo Francese si obbligasse a cooperare alla quiete
interna del Piemonte, e nè direttamente, nè indirettamente desse
soccorso, o protezione a coloro, che volessero turbare il governo del
re; che Brune con atto pubblico ordinasse, e procurasse con ogni mezzo,
che in suo poter fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del
Piemonte; che infine usasse il generale tutta l'autorità, e tutti i
mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure
cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse, e la buona
vicinanza, e l'antico assetto di cose si rinstaurassero. Per tutto
questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati, a
consentire, che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò non
si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro
talento; che farebbe finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le
strade del Piemonte fosse a tutti libero, e sicuro.
Per condurre ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti
d'indulto a favore dei sollevati. Brune da Milano il dì sei di luglio
pubblicava queste cose: che l'Europa conosceva gli accidenti sanguinosi
d'Italia; che questa provincia libera dalla guerra esterna, era
straziata dalla guerra civile; che le esortazioni del direttorio della
repubblica Francese non avevano potuto frenar popolazioni pronte a
correre alla discordia, ed al sangue le une contro le altre; che
l'esercito Francese cinto da ogni parte da congiure e da guerre civili,
aveva dovuto mettersi in guardia; che in tutto questo si vedeva
chiaramente l'opera dei perfidi Inglesi, che con ogni delitto, e pur
troppo spesso ancora con usare le generose passioni stesse intendevano
continuamente a turbare la quiete del mondo; che vedeva la repubblica i
suoi nemici, che vedeva ancora in compagnìa loro amici traviati; che
voleva torre ai primi la facoltà di nuocere, tornare i secondi ad un
quieto e felice vivere; che aveva il re di Sardegna, alleato della
repubblica, ad instanza formale del direttorio, perdonato intieramente
agli autori delle ultime turbazioni, e per la sicura fede delle sue
promesse posto in mano di un presidio Francese la cittadella di Torino;
che per tale modo dovevansi spegnere tutte le faci della civil guerra, e
che la repubblica, sempre intenta alla pace d'Italia, non sarebbe per
tollerare, che di nuovo a sacco ed a sangue questo bel paese si
riducesse. Esortava pertanto, ed ammoniva tutti gli amici dei Francesi,
che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle minacce e dalle persecuzioni
della parte contraria, avevano prese la armi per difendere la vita e
l'onore, deponessero queste armi, e tornassero alle sedi loro, dove
troverebbero sicura e quieta vita. Circa quelli poi, minacciava, che,
tenute in niun conto queste solenni ed amichevoli esortazioni, si
adunassero a far corpi armati, non dipendenti dagli ordini dell'esercito
Francese, o dalle truppe dei governi d'Italia, gli chiarirebbe nemici
della Francia, partigiani dell'Inghilterra, autori di sedizioni, e come
gente di tal fatta gli perseguiterebbe.
Addì tre di luglio entravano i Francesi condotti da Kister nella
cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento di
Monferrato, che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei
novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose
donne, ed i galanti giovani concorrevano volontieri, essendo il tempo
bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così
contro la fede data, e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva
il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.
Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo, e
l'incaricato d'affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani loro
per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo
Emanuele, non più re di Sardegna, ma servo di Francia, e l'ambasciator
Francese, vero e reale sovrano del Piemonte.
Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato
d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per
nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava al tempo stesso, per mezzo
di Ginguené al re, sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si
uniformava Carlo Emanuele all'intento, non senza però lamentarsi, e
protestare con forti e generose parole contro quella insolente
imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini, solo i
regj fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano, ed altri
paesi perduti nella contesa precedente; le quali raccontare sarebbe
troppo minuta, e fastidiosa narrazione.
Mi accosto ora a raccontare un fatto orribile in se, orribile per le
cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi,
nemici del nome reale, tornati a stanziare, ed a far massa in Carrosio,
dopochè il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le sue
genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso da
quelli stessi, che più intimamente assistevano ai consigli segreti di
Brune, dell'accordo, che si trattava tra Francia e Sardegna, per la
rimessa della cittadella, e per la quiete del Piemonte. Nè parendo loro,
che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo, ogni
speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere obbligati
a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il divieto con
fare un moto, il quale confidavano, avesse ad allagare, se non tutto,
almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento di questa
macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero improvvisamente
verso Alessandria; gli ufficiali del generale Menard, che comandava a
tutte le truppe Francesi in Piemonte, avevano loro dato speranza, che le
truppe repubblicane di Francia, che stanziavano in quella città, si
accosterebbero loro ad impresa comune contro il re. Non dubitavano, che
un moto di tanta importanza, accresciuto dalla fama della congiunzione
delle armi di Francia, non voltasse sossopra tutte le province che
bevono le acque del Tanaro; il che giunto all'occupazione della
cittadella di Torino, persuadeva ai novatori, che anche le province del
volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era
deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo
estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio,
poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi,
aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano
potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della
repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il
territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che
quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come
neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i
nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar
loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o
dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio
stesso, ch'ella dava a' suoi nemici.
Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo
prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di
allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti.
Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad
ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più
condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure
per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che
per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e
svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero
Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono
quelli dei ministri di altre potenze.
Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il
mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano
d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche
perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator
di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i
sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar
quiete a' suoi stati.
Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al
ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo,
fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse
possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure;
la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi
accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non
solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i
ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare,
e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il
suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi
territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di
passare.
Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non
si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice,
almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la
ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio
ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un
principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un
territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col
passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere
dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non
aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una
e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la
violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato
il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio,
e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza,
munirono di guardie tutte le alture circostanti.
A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si
risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che
stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò
ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo
di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual
nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole,
anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo
che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della
repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose
gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori.
Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto
più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire
alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era
piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo
il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che
fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele.
Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené
voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima
instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo
degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva
proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di
pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in
mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le
ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non
dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a
Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese,
non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia,
o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che
le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj
Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non
cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori
Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un
violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i
Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti
signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono
condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo
nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte
allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di
Sardegna, montarono al colmo.
Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a
quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille
spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo
di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una
feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che
già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte
si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative
predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco
covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era
l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica
Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di
Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato
d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali
quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le
macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il
parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in
ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si
ordisse contro Francia.
A così gravi accusazioni rispondeva il ministro, non per persuadere
l'ambasciador di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole, ma per
purgare il suo signore delle note che gli si apponevano, che bene si
maravigliava, che s'imputassero al re i preparamenti, o veri o
immaginari, di Napoli o dell'Austria, poichè sua maestà non aveva alcuna
intima congiunzione con Napoli, nissuna con Toscana; che assai
freddamente se ne viveva coll'Austria; che di ciò poteva far
testimonianza Bernadotte, ambasciatore di Francia a Vienna; che
l'Austria aveva in Torino solamente un incaricato d'affari temporaneo,
quasi senza carattere pubblico; che quanto alle congiunzioni recondite,
e quanto ai corrieri, ed altri mandatari segreti, poteva con una sola
parola rispondere, cioè che tutto era falso, e che sfidava l'ambasciador
di Francia alle pruove; che ne seguitava, non essere in alcun modo il
Piemonte partecipe di quanto accadesse negli stati monarcali d'Italia,
ed essere del tutto assurdo, ch'ei partecipasse nelle cose del Nord; che
non era mai stato obbligo di niuna potenza di derogare alle amicizie con
altre potenze, nè di cacciare i loro agenti, solo perchè con una potenza
amica di quella avevano guerra; che risultava dal trattato d'alleanza,
avere il re facoltà di conservare appresso a se i ministri delle potenze
nemiche della Francia; che la presenza loro in Torino era un mero
cerimoniale senza importanza alcuna; che Stakelberg, ministro di Russia,
che Jacson ministro d'Inghilterra non avevano forse due volte in un anno
fatto ufficj al governo, e questi ancora per cose di nonnulla: che
potevano pel Piemonte fare la Russia, e l'Inghilterra così lontane? «Che
volesse pur il cielo, sclamava Priocca, che denaro ci potessero dare!
che ci verrebbe ad un bel bisogno; il che Ginguené ottimamente sapeva;
ma che bene l'Austria e la Russia avevano altri usi a fare del denaro
loro, che quello di darlo a chi nulla poteva per loro». Che finalmente
per favellare dei fuorusciti, dei preti, dei magistrati, degl'impiegati,
o erano falsi i rapporti, od opere d'uomini privati, che siccome dal
governo non procedevano, così non potevano ragionevolmente dar
fondamento di giudicare sinistramente di lui, nè impedire, ch'ei potesse
sostenere in cospetto d'Europa di aver sempre conservato fede inviolata
ai trattati; che pertanto il governo regio si trovava innocente di tutti
i carichi che gli si davano, non con altro fine, che con quello di
perderlo. Concludeva il ministro, che sarebbe stato meglio, e più
onorevole per la Francia lo spegnerlo, che il martirizzarlo.
Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro degli affari
esteri di Francia a Ginguené, che manifestavano uno sdegno grandissimo
pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati: essere, scriveva il
ministro, la crudeltà del governo Piemontese nel suo colmo; i mezzi di
dolcezza e di persuasione non potersi più usare; voler riferire al
direttorio lo stato del Piemonte; non dubitare, ch'egli fosse per
abbracciare i consigli di Ginguené; voler proporre per condizione prima,
che si allontanasse il conte Balbo, il quale col rendere sicuro il suo
governo, il portava a commettere tutti i delitti, di cui era Ginguené
testimonio, ed a credere che sarebbero impuniti. Pure il conte non fu
mandato via; perchè o il ministro non propose, il che io credo, o il
direttorio non accettò la risoluzione dell'allontanarlo, sicchè continuò
a starsene in Parigi insino alla ruina totale del regno.
In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguené venuti alle strette
per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per
pacificare il Piemonte voleva, che si concedesse ai sediziosi. Avrebbe
l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca, che
aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo Francese
esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne con
Ginguené nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse
solamente i delitti politici anteriori, e non gli estranei alla
sedizione; non guardasse nel futuro, ed in modo alcuno non impedisse il
governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in
terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo
due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto
alcuno ripigliassero le armi contro il re.
Brune, al quale Ginguené aveva annunziato le condizioni dell'indulto, e
che evidentemente mirava più oltre, che alla servitù del re verso
Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando,
voleva, che si domandasse la consegnazione, quale deposito, in mano dei
Francesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre, che il re
licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di
Carrosio, e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla
cittadella, domandassela Ginguené, e se la domanda gli ripugnasse,
domanderebbela egli. Per tal modo a quel soldato repubblicano pareva,
che lo spogliare il sovrano del Piemonte dell'ultima fortezza, che gli
fosse rimasta, che il voltar le bocche dei cannoni della repubblica
contro la sua stessa reale sede, che il torgli per forza i servitori più
fedeli, che lo sforzarlo a dare un compenso alla repubblica Ligure per
avere, lei fomentato i suoi nemici, e corso armatamente contro di lui,
fossero cose di poco momento, e da domandarsi con un girar di discorso.
Non abborrì l'animo di Ginguené da sì insolente proposta, dalla quale
nondimeno avrebbe potuto facilmente esimersi, stantechè il generale, si
offriva a far da se. A questa moderazione avrebbe dovuto tanto più
volentieri attenersi quanto più gli era pervenuto comandamento espresso
da Parigi di non aggravar le condizioni, e di stipularle tali quali il
governo gliele aveva mandate. Ma siccome aveva molta fede in Brune, ed
era continuamente aggirato dai democrati, consentì a quello, da che ed
il carattere suo d'ambasciadore, e la sua qualità d'uomo civile lo
avrebbero dovuto stornare. Insistè adunque con apposita scrittura
appresso al ministro Priocca notificando, che Brune si era risoluto a
non accettar le condizioni. Aggiunse di proprio capo, che i Liguri
gridavano vendetta per le ingiurie sì recenti che antiche; che i
Cisalpini erano pronti ancor essi a correre ai risentimenti; che dai
Liguri e dai Cisalpini avevano i sediziosi soccorsi di consiglio, d'armi
e di denaro; che già cresciuti di numero e di forze minacciavano il
cuore del Piemonte; che le campagne erano in armi, che il fanatismo
spingeva i contadini ad ammazzare i Francesi; che i fuorusciti di
Francia, ed i nobili del Piemonte ammassavano genti per correre contro i
Francesi, che ogni cosa vestiva sembianza da nemico, ogni cosa mostrava
odio irreconciliabile, ogni cosa prenunziava la guerra; che in tale
condizione di tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire
una sicurtà era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che
questo gran preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per
ogni lato, dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte
appianerebbe la strada a buona concordia; che i democrati armati
deporrebbero le armi, vedendo l'indulto guarentito da tale atto;
poserebbero la Cisalpina e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete
dello stato stabilmente confermata. Quale difficoltà, quale timore
potrebbe opporsi a sì sana risoluzione? Forse il timore, che i Francesi
di questa nuova condizione fossero per abusare, per non adempire i patti
dell'alleanza fin'allora tanto scrupolosamente da loro osservati? Avere
testè salvo ed incolume il Piemonte, un grosso esercito repubblicano
attraversato questo paese: temere, che i Francesi vogliano abusare della
possessione della cittadella contro il governo Piemontese sarebbe far
ingiuria alla repubblica Francese; che se i Francesi nodrissero tali
pensieri, non avrebbero, per mandargli ad esecuzione, bisogno della
cittadella; sperare pertanto, concludeva, sperare l'ambasciatore,
sperare il generale, che per l'amore e per la stabilità della pace
consentirebbe il re alla consegnazione della cittadella; dal quale atto
ne seguiterebbe incontanente, ch'egli con ogni più efficace mezzo, e con
intatta fede procurerebbe la pace, e la quiete del Piemonte.
Persistettero Ginguené e Brune nel volere la cittadella, sebbene il
ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore, che le
condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la
sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo Francese, stante le
disposizioni d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò
richiedevano dalla Francia; che per questa cagione, e per avere Sottin
trasgredito questi ordini, l'aveva il direttorio richiamato da Genova, e
soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. Infatti
era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso nello
spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla quale
deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le sue
instanze e diligenze il conte Balbo a Parigi.
A così strana domanda, si commosse il governo Piemontese, e già certo
del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere
felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò
primieramente il marchese Colli a Milano, affinchè facesse opera con
Brune, che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva
all'ambasciador di Francia queste parole, che, siccome pare a noi,
potrebbero servir d'esempio ai governi ridotti agli estremi casi da chi
fa suo dritto la forza. Il terzo capitolo dell'indulto, enunziava, solo
fare difficoltà; consentire il re a rinunziarvi, quantunque ei
conoscesse essere necessario alla quiete del regno, ed alla sicurtà
personale sua, ma rinunziandovi, richiedere il governo Francese, ed i
suoi rappresentanti di giustizia; importare massimamente al re il
soggetto presente; però richiedere la Francia di giustizia: volere la
Francia procurar salute a coloro, ch'ella chiamava suoi amici;
consentire il re alla salute loro, consentire anzi, che fossero liberi
da ogni molestia: ma volere forse la Francia, che per le trame e
macchinazioni di costoro fosse continuamente il Piemonte in pericolo di
nuove turbazioni? Fosse la sicurezza del re, suo alleato, insidiata? Non
potere volerlo senza ingiuria della giustizia, senza ingiuria della
lealtà, senza ingiuria dell'interesse suo: non potere volerlo senza
taccia di connivenza nelle opere criminose loro, cosa contraria a' suoi
principj, alle sue promesse, ai patti giurati: non volere il re fare
alcun male a coloro, che avevano voluto, e tuttavia volevano fargliene,
ma dover assicurare la tranquillità del regno, la conservazione del suo
governo; avere di ciò non solo dritto, ma dovere; quanto alla repubblica
Francese, il vantaggio, ch'ella procurava a' suoi nemici, essere per lei
un obbligo di più ad interdir loro in modo positivo ed efficace ogni
tentativo ulteriore; volere e domandare, che il manifesto da pubblicarsi
per ordine del direttorio da Brune fosse accompagnato da provvedimenti
di tal sorte, che ne fossero il Piemonte ed il suo governo fatti sicuri
delle loro macchinazioni. Circa il preliminare della cittadella, che
l'ambasciador domandava per ordine di Brune, certamente dovere
l'ambasciatore medesimo di per se pensare, quanto il re ne fosse stato
maravigliato e commosso; sapere essergli questa domanda fatta senza
ordine, e contro l'intenzione del direttorio; per questo l'ambasciadore
medesimo avere appruovato, che il re mandasse un suo ufficiale appresso
al generale della repubblica per farlo capace della falsità dei
rapporti, per dimostrare la lealtà del governo Piemontese, per isvelare
la perfidia de' suoi nemici; credere il ministro debito suo essere di
osservare in poche parole all'ambasciadore di Francia, che l'armarsi
delle campagne era falso, che qualche omicidio cagionato in parte dai
disordini commessi dai soldati Francesi non pruovava un fanatismo
micidiale contro i medesimi; che non conosceva il governo, sebbene
attentamente vegliasse, ed ogni cosa sopravvedesse, un armarsi di
fuorusciti, e manco ancora di nobili, cosa del rimanente del tutto
assurda negli ordini attuali del Piemonte; che primo e principal suo
desiderio era di conoscere, per raffrenarle, queste opere ancor più
contrarie ai diritti del regno, ed alla quiete del paese, che alla
sicurezza dei Francesi; che del resto crederebbe il re far torto a se
medesimo, se giustificasse in cospetto del mondo per una condiscendenza
tanto decisiva, e tanto eminente le calunnie tanto assurde, quanto
atroci, con cui i malvagi il perseguitavano.
Brune, che fomentava le sollevazioni contro il re con pensiero di
ridurlo agli estremi spaventi, perchè rimettesse in sua mano la
cittadella di Torino, non voleva a modo niuno udire, che ella non gli si
consegnasse: ed ora spaventando con minacce di nuove ribellioni, ed ora
allettando con isperanza di quiete, se si acconsentisse alla sua
domanda, perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano
rappresentavano instantemente in contrario i ministri, che in un caso
tanto grave, ed in cui il generale non aveva avuto da Parigi
comandamento alcuno, si rimetterebbero volentieri in arbitrio del
direttorio. Si risolvettero finalmente a consentire, in ciò mostrando
una debolezza inescusabile, a quella condizione, che toglieva al re le
ultime reliquie della sua dignità, e della sua independenza. E perchè i
posteri conoscano qual fosse la natura di quel governo repubblicano di
Francia, dirò, che, non che biasimasse e castigasse Ginguené e Brune
dello aver trasgredito in un caso di tanta importanza i suoi ordini,
lodò, e si tenne cara la cittadella rapita con inganno evidente, e con
disubbidienza formale a quanto aveva loro prescritto.
Stipulavasi il dì ventotto giugno a Milano fra Brune da una parte, ed il
marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli del
quale erano i seguenti: che i Francesi occupassero il dì tre di luglio
la cittadella di Torino; che il presidio Francese di lei non potesse mai
passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e
liberamente, e quietamente potesse esercitare il suo officio, nè fosse
lecito ad alcuno insultare, o cambiare quanto si appartenesse alla
religione; che il governo Francese si obbligasse a cooperare alla quiete
interna del Piemonte, e nè direttamente, nè indirettamente desse
soccorso, o protezione a coloro, che volessero turbare il governo del
re; che Brune con atto pubblico ordinasse, e procurasse con ogni mezzo,
che in suo poter fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del
Piemonte; che infine usasse il generale tutta l'autorità, e tutti i
mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure
cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse, e la buona
vicinanza, e l'antico assetto di cose si rinstaurassero. Per tutto
questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati, a
consentire, che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò non
si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro
talento; che farebbe finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le
strade del Piemonte fosse a tutti libero, e sicuro.
Per condurre ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti
d'indulto a favore dei sollevati. Brune da Milano il dì sei di luglio
pubblicava queste cose: che l'Europa conosceva gli accidenti sanguinosi
d'Italia; che questa provincia libera dalla guerra esterna, era
straziata dalla guerra civile; che le esortazioni del direttorio della
repubblica Francese non avevano potuto frenar popolazioni pronte a
correre alla discordia, ed al sangue le une contro le altre; che
l'esercito Francese cinto da ogni parte da congiure e da guerre civili,
aveva dovuto mettersi in guardia; che in tutto questo si vedeva
chiaramente l'opera dei perfidi Inglesi, che con ogni delitto, e pur
troppo spesso ancora con usare le generose passioni stesse intendevano
continuamente a turbare la quiete del mondo; che vedeva la repubblica i
suoi nemici, che vedeva ancora in compagnìa loro amici traviati; che
voleva torre ai primi la facoltà di nuocere, tornare i secondi ad un
quieto e felice vivere; che aveva il re di Sardegna, alleato della
repubblica, ad instanza formale del direttorio, perdonato intieramente
agli autori delle ultime turbazioni, e per la sicura fede delle sue
promesse posto in mano di un presidio Francese la cittadella di Torino;
che per tale modo dovevansi spegnere tutte le faci della civil guerra, e
che la repubblica, sempre intenta alla pace d'Italia, non sarebbe per
tollerare, che di nuovo a sacco ed a sangue questo bel paese si
riducesse. Esortava pertanto, ed ammoniva tutti gli amici dei Francesi,
che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle minacce e dalle persecuzioni
della parte contraria, avevano prese la armi per difendere la vita e
l'onore, deponessero queste armi, e tornassero alle sedi loro, dove
troverebbero sicura e quieta vita. Circa quelli poi, minacciava, che,
tenute in niun conto queste solenni ed amichevoli esortazioni, si
adunassero a far corpi armati, non dipendenti dagli ordini dell'esercito
Francese, o dalle truppe dei governi d'Italia, gli chiarirebbe nemici
della Francia, partigiani dell'Inghilterra, autori di sedizioni, e come
gente di tal fatta gli perseguiterebbe.
Addì tre di luglio entravano i Francesi condotti da Kister nella
cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento di
Monferrato, che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei
novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose
donne, ed i galanti giovani concorrevano volontieri, essendo il tempo
bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così
contro la fede data, e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva
il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.
Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo, e
l'incaricato d'affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani loro
per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo
Emanuele, non più re di Sardegna, ma servo di Francia, e l'ambasciator
Francese, vero e reale sovrano del Piemonte.
Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato
d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per
nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava al tempo stesso, per mezzo
di Ginguené al re, sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si
uniformava Carlo Emanuele all'intento, non senza però lamentarsi, e
protestare con forti e generose parole contro quella insolente
imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini, solo i
regj fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano, ed altri
paesi perduti nella contesa precedente; le quali raccontare sarebbe
troppo minuta, e fastidiosa narrazione.
Mi accosto ora a raccontare un fatto orribile in se, orribile per le
cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi,
nemici del nome reale, tornati a stanziare, ed a far massa in Carrosio,
dopochè il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le sue
genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso da
quelli stessi, che più intimamente assistevano ai consigli segreti di
Brune, dell'accordo, che si trattava tra Francia e Sardegna, per la
rimessa della cittadella, e per la quiete del Piemonte. Nè parendo loro,
che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo, ogni
speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere obbligati
a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il divieto con
fare un moto, il quale confidavano, avesse ad allagare, se non tutto,
almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento di questa
macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero improvvisamente
verso Alessandria; gli ufficiali del generale Menard, che comandava a
tutte le truppe Francesi in Piemonte, avevano loro dato speranza, che le
truppe repubblicane di Francia, che stanziavano in quella città, si
accosterebbero loro ad impresa comune contro il re. Non dubitavano, che
un moto di tanta importanza, accresciuto dalla fama della congiunzione
delle armi di Francia, non voltasse sossopra tutte le province che
bevono le acque del Tanaro; il che giunto all'occupazione della
cittadella di Torino, persuadeva ai novatori, che anche le province del
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